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CAPITOLO QUARTO
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APPROCCI FENOMENOLOGICI
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Sommario: 1. Lo sfondo filosofico. - 2. la sociologia fenomenologica. - 3. Istituzioni,
interazioni, drammaturgia.
1. LO SFONDO FILOSOFICO
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Il termine «fenomenologia» ha assunto vari significati nella storia della
filosofia e delle scienze umane. Quello che ha più direttamente influenzato
la sociologia del ’900 risale alla complessa opera del filosofo e matematico
tedesco Edmund Husserl (1859-1938).
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Husserl studiò astronomia e matematica a Lipsia e a Berlino sotto la guida di K. Weierstrauss e psicologia a Vienna con Franz Brentano. Insegnò poi a lungo all’Università di
Friburgo. Le sue opere principali sono: Ricerche logiche (1900), La filosofia come scienza
rigorosa (1911), Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica (1913),
Meditazioni cartesiane (1928), La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1954).
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In Husserl si osserva un decisivo mutamento della filosofia nel senso di un
ritorno alle «cose stesse». Tale ritorno va inteso in un senso per cui le cose che
si possono comprendere o percepire, e l’unità stessa della natura secondo la
nostra coscienza, si rivelano sempre dentro «apparizioni soggettive», a livello
della coscienza soggettiva. Le cose sono espressione e rivelazione di un manifestarsi originario della realtà nella coscienza. Si tratta dunque di reperire
principi comuni e universali della conoscenza. Secondo Husserl la soggettività (e di conseguenza la coscienza) è sempre complessivamente implicata
nella nostra comprensione del mondo. L’obbiettivo della fenomenologia è
quello di cogliere, a partire dai dati immediati della coscienza, le forme generali della conoscenza, le «essenze» o «idee» (dal greco êidos, originariamente
visione, ma anche forma). Per pensare una tale dimensione in cui i fenomeni
possano manifestarsi in piena evidenza, cioè come «datità originarie», è necessario compiere una particolare operazione mentale, che Husserl chiama
epoché o «riduzione fenomenologica» o «messa in parentesi».
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Che cos’è l’epoché?
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Epoché, nell’originario senso greco, significava «sospensione» del giudizio sul mondo intero e
sulle sue certezze; anche in epoca moderna, in Cartesio, il termine possiede una accezione
simile (il dubbio metodico cartesiano è un dubbio universale che per agire come base del
cogito deve dubitare, appunto, di tutto). L’epoché husserliana ha invece solo un valore di sospensione dei giudizi che si riferiscono ai fenomeni (al mondo, alle cose) colti nel loro presunto «atteggiamento naturale». L’epoché consiste nel disinteressarsi solo di quel riferimento alla
realtà quale noi esperiamo di continuo nella nostra vita empirica: si configura come metodo
per cogliere se stessi e la propria coscienza.
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A partire da questo sfondo filosofico, nelle ultime opere – e particolarmente nella Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale
– Husserl viene elaborando un concetto che avrà notevole rilievo nella sociologia di orientamento fenomenologico: il concetto di «mondo-della-vita»
(Lebenswelt), espressione con cui egli intende l’orizzonte dei sensi comuni
e condivisi, lo spazio dell’attività del soggetto insieme ad altri soggetti, cioè
il mondo dell’intersoggettività, del legame originario tra esseri e coscienze. Husserl utilizza tale concetto come filo conduttore per muovere una dura
critica alla scienza occidentale, responsabile della crescente disumanizzazione del mondo moderno. A partire da Galileo, ma soprattutto dopo di lui,
la scienza si è infatti limitata ad una concezione ingenuamente naturalistica
della realtà: al mondo dei fatti viene progressivamente sostituita una rete di
categorie e di rapporti mentali (assiomi matematici, postulati fisici, formule, relazioni, leggi, rapporti di causa-effetto) ritenuti aderenti («isomorfi»)
alla realtà. Così la filosofia cessa di proporsi come orizzonte di sapere universale e come incremento della libertà umana per trasformarsi in puro naturalismo e oggettivismo, obliando le radici «soggettive» del mondo.
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2. LA SOCIOLOGIA FENOMENOLOGICA
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A) La sociologia della conoscenza di Schütz
Il problema del «mondo della vita» di Husserl è ripreso da Alfred Schütz
(1899-1959). Egli sostiene che nella conoscenza, in termini di senso comune, noi
diamo per certa l’esistenza oggettiva di elementi materiali e fatti singoli, isolati,
indipendenti da ogni elaborazione soggettiva. Ciò è tuttavia inesatto perché:
«tutti i fatti – scrive Schutz – sono fin dall’inizio selezionati da un contesto universale dalle
attività della nostra mente. Noi non cogliamo la realtà nella sua totalità ma cogliamo, di
volta in volta, solo certi aspetti di essa».
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Schütz, in chiara relazione con Husserl, sostiene che la conoscenza scientifica deriva categorialmente dalla conoscenza nella vita quotidiana, anzi
la presuppone. La scienza è in altri termini resa possibile dal fatto che le
pre-esiste un mondo di significati che costituiscono la nostra Lebenswelt. Il
mondo della vita quotidiana, l’orizzonte degli scambi sociali e simbolici,
gli spazi comunicativi e le dimensioni di socializzazione coesistono in una
realtà pre-costruita dai soggetti che la vivono. La conoscenza, indagata
fenomenologicamete, si svela essere una derivazione e un’elaborazione
dei dati originari colti dal «senso comune». L’individuo è determinato socialmente in quanto sin dalla nascita si trova inserito in un universo simbolico che gli pre-esiste, in un mondo intersoggettivo pre-organizzato e
dotato di significati stabiliti grazie a cui viene definita, delimitata e gerarchizzata la realtà. Gli oggetti fisici, le relazioni sociali, le interazioni con
l’altro sono in tanto percepibili in quanto disponiamo, già da sempre, di
elaborazioni concettuali ereditate, di quadri epistemologici di riferimento,
di formazioni categoriali, concettuali e cognitive «tipizzate, modellate dalla
realtà in cui viviamo. Coloro che appartengono ad un medesimo contesto
socio-culturale definiscono un gruppo sociale che condivide esperienze, linguaggi, codici e reti di interpretazioni: la conoscenza, la realtà, l’azione
degli individui sono socialmente costruite.
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B) La struttura dei processi conoscitivi
Per Schütz la conoscenza, innanzitutto, è «conoscenza in termini di senso comune nell’ambito della vita quotidiana». Egli afferma il carattere intersoggettivo di questa conoscenza. L’individuo fin dalla nascita si trova
inserito in un mondo già organizzato e costituito dall’uomo, dotato di significati prestabiliti che lo aiutano nello svolgimento della sua vita quotidiana. In questa prospettiva, non si dà una conoscenza che non sia sociale.
Ciò vale sia per le scienze naturali che per quelle sociali. Vi sono tuttavia
alcune differenze:
— nelle scienze naturali l’oggetto di studio non influenza la scienza stessa: ciò che lo scienziato naturale studia è orientato in base ai suoi interessi scientifici e i risultati della sua ricerca non si riflettono, per così
dire, sugli oggetti di studio stessi;
— nelle scienze sociali avviene il contrario: i risultati di queste scienze
sono «costrutti di secondo grado». Schütz, più articolatamente, parla
di «province finite di significato» non solo ad indicare il relativismo
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culturale e le differenze culturali tra i differenti ambiti di studio ma anche la condizione di continuo gioco di interpretazione nell’analisi della realtà sociale.
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C) La costruzione della realtà sociale: Berger e Luckmann
Su linea tracciata da Schütz si muovono Peter L. Berger e Thomas
Luckmann (1927), in un’opera molto importante pubblicata nel 1966, La
costruzione della realtà sociale, considerata un testo-chiave della sociologia della conoscenza di derivazione fenomenologica. Il punto di partenza di
Berger e Luckmann è di nuovo l’intersoggettività della realtà quotidiana.
Tale realtà è costituita da continue operazioni di oggettivazione e di interpretazione dei vari segni attraverso cui si delineano i processi culturali,
cognitivi e comunicativi di una data società. Gli esiti di questa concezione
sono così riassumibili:
— non si dà una natura umana invariabile: esistono solo costanti antropologiche;
— l’uomo è un costante prodotto delle sue stesse elaborazioni concettuali;
— le istituzioni sociali nascono esclusivamente dalle consuetudini grazie
alle quali siamo in gradi di oggettivare e solidificare le nostre azioni;
— le esperienze vissute della coscienza umana tendono a sedimentarsi nella
memoria, nei gesti, nei miti, nei rituali, nei linguaggi e nei sistemi
simbolici di una data struttura sociale.
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D) La vita quotidiana
Su queste basi, Luckmann e Berger ritengono che la sociologia della
conoscenza debba occuparsi prioritariamente del modo in cui una realtà
viene costruita socialmente e considerata come realtà naturale, data per
scontata.
Da un punto di vista fenomenologico, come sappiamo, la coscienza ha
sempre un carattere intenzionale, si dirige verso oggetti, è sempre coscienza
rispetto a qualcosa. Gli oggetti si presentano alla coscienza come appartenenti a diverse sfere di realtà. Tra queste sfere di realtà ve n’è una che ha un
ruolo dominante: la vita quotidiana, che la coscienza percepisce come una
realtà ordinata preesistente, presente in un qui ed ora intersoggettivo ed
autoevidente. Le altre sfere di realtà sono circoscritte, inserite nella realtà
della vita quotidiana, vissute inevitabilmente meno familiari. L’entrata in
questi mondi costituisce una sorta di oltrepassamento da parte degli indivi-
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Capitolo Quarto
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dui della loro specifica realtà quotidiana. La realtà complessiva è dunque
intersoggettiva, fondata soprattutto su interazioni faccia a faccia (face to
face) nelle quali l’altro è immediatamente presente. Gli incontri diretti sono
guidati da schemi di tipizzazione (incontriamo l’altro sempre e in primo
luogo come persona appartenente ad una categoria umana: ciò spinge a modulare i nostri comportamenti di conseguenza).
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E) Segni, limiti, sistemi di competenza
La realtà quotidiana è dunque costituita da un serie di oggettivazioni
del reale, tra le quali una importanza cruciale va riconosciuta alle significazioni, ossia ai sistemi di segni. Questi sistemi possono differenziarsi in base
al grado di distacco possibile dalla situazione dell’incontro diretto. Il linguaggio è in questo senso il più importante sistema di segni. Nasce dalla
vita quotidiana e si riferisce soprattutto alla realtà stessa del mondo dei significati simbolici esperiti quotidianamente, ma ha anche la capacità di trascendere il «qui ed ora» e di rendere presenti realtà lontane. Esso opera
dunque come collegamento tra sfere di realtà differenti. Il linguaggio
può anche elaborare sistemi di rappresentazioni simboliche che non abbiano diretta rilevanza rispetto alla realtà della vita quotidiana: ciò avviene con
la scienza, la religione, la filosofia, l’arte. La conoscenza della vita quotidiana ha tuttavia dei confini ben precisi, oltre i quali v’è una zona inaccessibile. La conoscenza è infatti socialmente distribuita e infinitamente disseminata: ciò comporta lo sviluppo e l’estensione di sistemi di competenza
molto complessi. L’uomo è biologicamente aperto al mondo, sa rispondere
con grande plasticità alle situazioni ambientali. Tale apertura individuale,
come potenzialità di condividere ed assimilare conoscenza, è tuttavia costantemente trasformata in chiusura al mondo dall’ordine sociale, che organizza, limita e distribuisce l’esperienza in sistemi talora autonomi e inattingibili.
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F) Il concetto di istituzione
Le istituzioni stesse nascono dalle consuetudini con le quali «cristallizzano» le azioni umane, precisamente quando i gruppi tipizzano azioni consuetudinarie. Perché si possa parlare di istituzione occorre inoltre che queste tipizzazioni abbiano uno sviluppo storico e che forniscano modelli di
comportamento condivisi, fungendo da controllo sociale e di gruppo sulle
condotte individuali. L’istituzionalizzazione è dunque in atto in ogni dure-
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vole rapporto sociale. Il mondo istituzionale e l’uomo, il prodotto ed il produttore, interagiscono dialetticamente: la società è un prodotto umano ma
l’uomo stesso è un prodotto sociale. Le istituzioni tendono naturalmente
all’integrazione. Tuttavia essa non è una necessità funzionale, bensì una
derivazione: gli individui tendono ad integrare le differenti azioni istituzionalizzate in un universo significativo attraverso la riflessione. Esiste una
conoscenza che definisce la condotta istituzionale, che controlla i comportamenti e stigmatizza ogni deviazione dall’ordine come malattia, depravazione,
ignoranza, follia. Le esperienze trattenute dalla coscienza si sedimentano nella
memoria, soprattutto attraverso la mediazione del linguaggio.
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G) Il concetto di «io sociale»
Le azioni tipizzate determinano, a livello soggettivo e psichico, una sorta di scissione interiore: l’Io che ha compiuto l’azione non è l’io integrale,
ma una sorta di io sociale. Questo io sociale è interpretabile attraverso il
concetto-chiave di «ruolo»: si tratta di una tipizzazione concettuale con la
quale di indica il modo in cui l’istituzione viene incorporata nell’esperienza
individuale. Ciascun ruolo rappresenta, a vari livelli di intensità, l’ordine
istituzionale. Esso spinge l’individuo ad acquisire un’area specifica di
conoscenza socialmente oggettivata: ciò implica una distribuzione sociale del conoscere come risultante dei processi prima considerati (ad es.,
l’ampiezza del settore di attività-istituzioni è proporzionale alla complessità della società ed alla divisione del lavoro. In una società semplice, tutte le
azioni sociali sono istituzionalizzate, e la vita sociale comporta la partecipazione continua ad una liturgia sociale altamente formalizzata).
La segmentazione dell’ordine istituzionale fa sorgere il problema dell’integrazione delle differenti realtà istituzionali attraverso la creazione di
significati integrativi, con metodi che possono variare storicamente. È possibile in questo senso che si creino dei sub-universi di significato, generati
e sorretti da una collettività ristretta. Le conoscenze di questi sub-universi
hanno la possibilità di influire sulle collettività stesse che le hanno prodotte.
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H) La socializzazione primaria
L’individuo, come abbiamo visto sin qui, nasce strutturalmente orientato alla socialità, ma diventa membro sociale effettivo solo grazie ad un lungo processo di interiorizzazione delle oggettivazioni di un sistema sociale. Il momento fondamentale di questo processo è la socializzazione pri-
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Che cos’è l’interazionismo simbolico?
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maria, che avviene in famiglia. Il bambino, in altri termini, interiorizza
ruoli e comportamenti delle persone a lui vicine. L’Io è in un certo senso
una pura entità riflessa. Non siamo lontani in queste tesi dalle prospettive
dell’interazionismo simbolico di George Herbert Mead.
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Si tratta di una corrente psico-sociologica e filosofica, iniziata e sviluppata dall’americano
George Herber Mead (1863-1931) secondo cui i fenomeni psichici non costituiscono delle
strutture aprioristiche, ma dei processi che si generano e consolidano attraverso il fenomeno
generale dell’interazione sociale: cioè nel grande sistema degli scambi linguistici, comunicativi, simbolici. Secondo Mead, qualsiasi azione significativa di un organismo sorge come reazione all’azione di un altro organismo. Soltanto nell’essere umano, tuttavia, il significato ha
la potenzialità di diventare cosciente: i gesti, ad esempio, non possiedono un significato diretto
ma assumono un autonomo significato simbolico, diventano cioè un simbolo significativo.
Questo processo ha il suo culmine e la sua concretizzazione più evidente nello sviluppo del
linguaggio. La dimensione cognitiva umana stessa si sviluppa esclusivamente in questo processo di interazione: la società, in questo senso, è definibile come totalità dei significati condivisi. Sintetizzando: gli essere umani agiscono nei confronti degli oggetti materiali sulla base
dei significati che tali oggetti (enti fisici, concetti astratti, ideologie, credenze, attività) possiedono per loro; il significato di tali oggetti è determinato dall’interazione sociale che ogni
singolo intrattiene con i membri del gruppo sociale di appartenenza e, più in generale, con la
cultura che lo ospita; questi significati vengono costantemente elaborati e riformulati in un
processo interpretativo infinito e socialmente determinato.
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La progressione della socializzazione primaria comporta l’astrazione
dai comportamenti particolari, per giungere a generalizzazioni sui comportamenti altrui. Quando questa astrazione è compiuta, tra realtà soggettiva e realtà oggettiva v’è un rapporto simmetrico.
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I) La socializzazione secondaria
Il processo di interiorizzazione delle norme, degli stili, dei codici, dei
simboli e delle strutture conoscitive di una data realtà sociale si chiude nella
dimensione della socializzazione secondaria, che ha lo scopo specifico di
spingere ad assorbire i mondi istituzionali: essa presuppone naturalmente
l’interiorizzazione del mondo avvenuta durante la fase di socializzazione
primaria. Mentre tuttavia quest’ultima prevede la necessità di una forte identificazione, la socializzazione secondaria può farne a meno (ad es., non
occorre identificarsi con gli insegnanti o con il proprio capo sul luogo di
lavoro). Le realtà interiorizzate nella socializzazione secondaria sono più
vulnerabili perché più superficialmente radicate nella coscienza. La realtà
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della vita quotidiana è riaffermata costantemente attraverso l’interazione,
in particolar modo con le persone significative. La conversazione, e il linguaggio in genere, è lo strumento che preserva la realtà. Si può conservare
una realtà soggettiva solo all’interno di un universo sociale plausibile, in
un contesto comunicativo che confermi la nostra percezione. Naturalmente, un individuo può mutare radicalmente la sua realtà soggettiva attraverso
processi di ristrutturazione cognitiva della stessa (si pensi al caso delle conversioni religiose). In questi casi, assistiamo a complessi fenomeni di «risocializzazione»: l’individuo si inserisce in una nuova struttura comunicativa, e reinterpreta la precedente alla luce della nuova situazione, concependo la ristrutturazione come una sorta di rottura biografica.
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3. ISTITUZIONI, INTERAZIONI, DRAMMATURGIA
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A) Vita come rappresentazione
In area americana si muove la proposta teoria del canadese Erving Goffman (1922-1982) autore molto discusso, noto per i suoi studi sull’interazione esposti principalmente ne La vita quotidiana come rappresentazione
(1959). Si tratta di un approccio che ha molti punti di contatto sia con l’interazionismo simbolico sia con l’orientamento fenomenologico. Secondo
Goffmann la vita sociale e culturale di un aggregato di soggetti può essere
intesa nei termini della rappresentazione teatrale: l’ipotesi teorica muove
dal presupposto che un individuo in presenza di altri individui abbia molteplici ragioni per cercare di controllare le impressioni che il suo comportamento desta. L’agire intersoggettivo non è, in altri termini, soltanto un’azione
strumentale, diretta al raggiungimento di determinati fini. L’azione è infatti generalmente studiata dalla sociologia in rapporto ai fini o scopi razionali
(si pensi alle posizioni di Max Weber o delle correnti funzionaliste). Rispetto a questa impostazione, Goffman ritiene che l’azione sociale possa essere
efficacemente studiata anche dal punto di vista delle impressioni che chi
agisce vuole suscitare negli altri. L’azione viene generata come una vera e
propria rappresentazione teatrale: chi agisce (l’attore) usa intenzionalmente o involontariamente un equipaggiamento espressivo di tipo standardizzato (la facciata) ritenuto essenziale. Indipendentemente dalla tipologia
di rappresentazione, gli attori teatrali modulano e scelgono le espressioni
adatte escludendo quelle ritenute inefficaci e mirano ad impedire che il pubblico attribuisca significati arbitrari al contenuto delle informazioni in gio-
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co. Analogamente, nella vita quotidiana, secondo Goffman, dinanzi al singolo non vi sono solo altri singoli quanto piuttosto una serie di raggruppamenti anch’essi inquadrabili attraverso la metafora del teatro: l’attore agisce come su un vero e proprio palcoscenico in cui si distingue una «ribalta»
(il luogo in cui l’attore mette in atto la propria rappresentazione) ed un «retroscena» (il luogo in cui l’attore dismette i suoi panni di teatrante e mette in
mostra se stesso).
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B) I simboli delle istituzioni «totali»
Su questo sfondo teorico, Goffman propone un’interessante interpretazione del concetto di istituzione. Essa viene metaforizzata da Goffmann
come luogo circondato da barriere permanenti tali da ostacolare la percezione di ciò che avviene al suo interno da parte di coloro che non vi appartengono. L’istituzione comporta in altri termini un aggregato di persone che
condividono spazi fisici, regole di condotta, codici culturali, simboli di
appartenenza e una definizione condivisa della situazione che si tende a
presentare al pubblico degli estranei. Vi è una netta distinzione tra gli «estranei» alle istituzioni e gli «interni», coloro che ne fanno parte. L’istituzione
può essere considerata in un molteplici sensi:
— dal punto di vista tecnico, in rapporto con la sua efficienza o inefficienza per il raggiungimento dei fini stabiliti;
— dal punto di vista politico, in rapporto con quanto si pretende dagli altri
e con le sanzioni previste nel caso che la pretesa non vengo soddisfatta;
— dal punto di vista strutturale, come insieme di status e di ruoli;
— dal punto di vista culturale, nei termini dei valori etici che influenzano
l’attività dell’istituzione stessa.
La metafora drammaturgica consente inoltre a Goffman di descrivere le
tecniche di controllo delle impressioni utilizzate in una data istituzione. Interessanti sono a questo proposito le sue ricerche sui fenomeni di «istituzione
totale»: con questa espressione si intende un’istituzione o un insieme di istituzioni nella quale i singoli individui vengono integralmente assorbiti, omologati, privati dell’identità personale e della personalità (ad es.: ospedali
psichiatrici, caserme, conventi, carceri). Esse si distinguono dalle altre istituzioni in quanto non una parte dell’attività del singolo viene assorbita dalle
regole, ma la totalità della sua esperienza esistenziale: il soggetto integrato in
una istituzione totale viene deprivato della propria identità e progettualità.