comunicazione, pubblicità e persuasione Moderato - Apeiron

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Comunicazione, pubblicità e
decisioni
Vincenzo Russo
1. Informare o persuadere
In un contesto comunicativo articolato e complesso, caratterizzato da un affollamento mediatico diventa sempre più difficile riuscire a persuadere. La grande
quantità di informazioni che giunge ai nostri sensi richiede un’inevitabile selezione. Una delle principali esigenze dei comunicatori e degli esperti di marketing è, infatti, riuscire ad attirare l’attenzione e a suscitare interesse di un pubblico sempre più consapevole.
L’attenzione del pubblico non è una risorsa illimitata. Non basta mettere sul
palcoscenico un prodotto o un messaggio perchè questo sia percepito. Il nostro
modo di elaborare le informazioni, infatti, risponde al principio del massimo
risparmio energetico (secondo il principio dell’economica dell’attenzione citata
da Davenport e Beck, 2001): solo alcune informazioni attirano la nostra attenzione. Generalmente le informazioni più facilmente percepite sono quelle attese, quelle che concordano con i nostri stereotipi, quelle che coincidono con uno
schema già consolidato nella nostra memoria. Questo meccanismo selettivo è
tanto forte quanto più basso è il grado di coinvolgimento nella scelta o nella
valutazione di uno specifico messaggio.
A rendere ancora più complesso il lavoro dei comunicatori è la consapevolezza
che il messaggio percepito non sempre viene correttamente compreso ed interpretato. Diverse ricerche hanno dimostrato che non sempre le intenzioni del
comunicatore sono colte, e comprese, dal proprio target di riferimento. Ciò vale
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soprattutto se il proprio gruppo target ha particolari caratteristiche come per
esempio i bambini. Una ricerca svolta diversi anni fa dimostra che solo il 50%
dei bambini in età prescolare è in grado di capire almeno la metà del materiale
televisivo mostrato, nonostante tale materiale fosse considerato adeguato per
bambini (Freidlander et al. 1974).
Lo stesso problema si rileva anche nel processo di memorizzazione. Il rapporto
tra il prodotto oggetto del messaggio e ciò che dovrebbe essere ricordato non è
lineare e diretto. Il rischio di chi si occupa di creare messaggi persuasivi non
solo è quello di rendere incomprensibile il senso della comunicazione, ma anche quello di facilitare la memorizzazione di alcuni aspetti meno importati del
messaggio stesso. Quante volte vi è capitato di avere memorizzato una bella
pubblicità o una battuta divertente o un aspetto particolarmente efficace di uno
spot senza ricordarvi l’aspetto più importante del messaggio: il prodotto?
A volte l’attrattività della comunicazione e delle sue tecniche rischia di mettere
in ombra il prodotto. La memorizzazione di un messaggio e dei suoi contenuti
deve, pertanto, fare i conti, da una parte, con l’esigenza di dare il giusto senso
al messaggio e, dall’altra con il rischio di facilitare la memorizzazione di aspetti più superficiali del messaggio.
Ecco perché l’efficacia della comunicazione pubblicitaria deve essere valutata
sulla base di diversi parametri: la capacità di attirare l’attenzione, la possibilità
di essere correttamente percepita, la forza che ha di dare informazioni comprensibili, la possibilità che il messaggio sia adeguatamente ricordato ed infine
la sua capacità persuasiva. Si tratta di differenti aspetti che richiedono una specifica competenza e una particolare attenzione da parte dei comunicatori.
1.1. Tipologie di cambiamento e comunicazione pubblicitaria
Prima di entrare nel merito degli aspetti tecnici occorre soffermarsi brevemente
sulle diverse funzioni che ha la comunicazione pubblicitaria. Il più semplice
degli obiettivi della comunicazione pubblicitaria è rendere disponibile
l’informazione e provare a determinare un cambiamento cognitivo. Il cambiamento cognitivo non comporta necessariamente un cambiamento di comportamento. Esso consiste nella semplice trasmissione di informazioni. In questo
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caso lo scopo principale del processo persuasivo è quello di creare consapevolezza e conoscenza, fornendo esclusivamente informazioni adeguate.
Un diverso obiettivo è il cambiamento dell’azione, ovvero quello di indurre
un certo numero di persone a compiere una specifica azione entro un determinato periodo di tempo. Si tratta di un cambiamento più difficile da realizzare
rispetto al precedente. Affinché ci sia un cambiamento dell’azione non è sufficiente la comprensione del messaggio e la ricezione dell’informazione: occorre
fornire adeguate informazioni ed efficaci motivazioni in base alle quali gli individui saranno spinti a compiere una specifica azione.
Ancora più complesso è l’obiettivo dichiarato di cambiamento comportamentale che consiste nell’indurre una modificazione più o meno permanente del
comportamento di un gruppo di persone che presentano o meno un atteggiamento favorevole verso di esso. Si tratta di un processo assai complesso che
richiama la relazione (non lineare) tra atteggiamento e comportamento.
Come dimostrato dall’ampio dibattito teorico, fin di primi studi di Le Pen
(1930) la relazione tra atteggiamento e comportamento non risulta lineare. Ciò
che viene dichiarato (atteggiamento) non sempre si traduce in un comportamento. Una delle principali difficoltà nell’attuazione di processi comunicativi
efficacemente persuasivi è proprio dovuta al fatto che il cambiamento di un atteggiamento verso una determinata pratica non corrisponde necessariamente ad
un cambiamento di comportamento (Gergen e Gergen, 1990). Spesso le persone sono convinte che un determinato comportamento sia nocivo e nonostante la
piena consapevolezza e conoscenza delle informazioni corrette sul comportamento da adottare, continuano ad agire comportamenti a rischio (basti pensare
al comportamento dei fumatori ed alla piena consapevolezza che il fumo danneggia gravemente la salute).
Per lo stesso motivo risulta difficile sia predire un comportamento sulla base
dell’analisi degli atteggiamenti che prevedere un cambiamento comportamentale in relazione ad un cambiamento degli atteggiamenti (Gergen e Gergen,
1990, Ajzen e Fishbein, 1980). Le informazioni su alcuni prodotti o situazioni
non sono sufficienti per determinare un particolare comportamento. Basti pensare a tutte quelle volte in cui non si è liberi rispettare i propri atteggiamenti per
timore della valutazione sociale. In questo caso abbiamo degli atteggiamenti a
cui non corrispondono comportamento e viceversa.
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La teoria dell’azione ragionata di Fishbein e Ajzen (Ajzen e Fishbein 1980,
Fishbein e Ajzen 1975) indica, infatti, che il comportamento di una persona dipende, oltre che dall’atteggiamento (ovvero dalla valutazione degli attributi di
un particolare prodotto e dal grado di probabilità che tali attributi caratterizzino
quel prodotto o quella particolare situazione) ma anche da altre variabili, quali
la pressione sociale, le aspettative individuali dei risultati di un’azione, il valore
attribuito a questi risultati.
Secondo questo modello per parlare di persuasione e di cambiamento degli atteggiamenti occorre valutare il valore sociale che ha per le singole persone
l’intenzione di agire un particolare comportamento. Il modello descrittivo del
rapporto tra atteggiamento e comportamento riportato nella figura 1 ha dato
prova di certo potere predittivo a condizione che il comportamento sia sotto il
controllo volitivo, cioè che rientri nella sfera delle azioni possibili praticamente
e concretamente, azioni nelle quali il soggetto ha margini di manovra.
L’applicabilità del modello sembra valere solo esclusivamente per quei comportamenti che possono ritenersi ragionevolmente intenzionali. Nella vita quotidiana la maggior parte delle nostre intenzioni sono tanto immediate da non
essere paragonabili ad un processo lento e consapevole, né tanto meno fondato
su un’attenta analisi dei costi e benefici come descritto da modelli esplicativi
come quello della teoria dell’azione ragionata.
Figura 1
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Questa teoria, infatti, ci propone un’idea di uomo quasi esclusivamente razionale, caratterizzato da processi decisionali coscienti e razionali, come la tradizionale visione dell’uomo promossa dai teorici dello Human Information Processing. In questo caso la persuasione dipende esclusivamente da un rigoroso
processo di valutazione razionale degli attributi, del loro valore e della pressione della norma sociale. A questa critica lo stesso Ajzen nel 1988 rispose inserendo all’interno di questo modello descrittivo una terza dimensione capace di
influenzare strettamente l’intenzione ad agire un particolare comportamento: la
percezione del controllo. Secondo Ajzen (1988) anche una persona motivata
può non agire un determinato comportamento se percepisce scarso controllo sui
fattori ambientali esterni e sulle sue capacità di azione. Quando lo sforzo connesso all’azione risulta oltre le possibilità e il controllo della persona, nonostante ci sia un cambiamento di atteggiamento, non sarà facile ritrovare un
cambiamento di comportamento.
Infine un ultimo è più difficile scopo della comunicazione persuasiva è promuovere un cambiamento di valori. Si tratta di modificare valori ed opinioni
profondamente radicati che alcuni individui presentano rispetto ad alcuni argomenti e situazioni (ad es. campagne per la limitazione delle nascite e quelle
contro i pregiudizi razziali).
In relazione a questi obiettivi la comunicazione non solo riveste un carattere
d’essenzialità per la condivisione di informazioni e di notizie, ma contribuisce
alla costituzione ed al mantenimento della società.
Tale contributo è stato sempre più significativo a partire dalla ridotta funzione
di guida e di riferimento dei tradizionali organizzatori sociali (famiglia, lavoro,
scuola, religione) dell’età postmoderna (Siri, 2004; Fabris 2003).
1.2. Oltre la funzione informativa della comunicazione pubblicitaria
In assenza di precisi riferimenti istituzionali nella guida dei comportamenti e
degli stili di vita la comunicazione mediatica ha assunto un’importante funzione anche nell’influenzare e contribuire a determinare la costruzione della pro-
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pria immagine (Mitra, 1999, pp. 67-68), nella costruzione e definizione dei
propri valori (Tan, Fujioka, Bautista, Maldonado, Tan, Wright, 2000; Kang,
Perry, Kang (1999), nonché nella formazione del pensare e del percepire. Siamo sempre più circondati da messaggi di comunicazioni, rappresentazioni più o
meno virtuali di esperienze, di narrazioni televisive, cinematografiche e giornalistiche che offrono inevitabilmente dati, informazioni, rappresentazioni della
realtà e delle relazioni. Oggi il senso comune è sempre più guidato da indicazioni mediatiche più che dal valore dell’insegnamento intergenerazionale o
amicale.
Le rappresentazioni sociali offerte dai canali di comunicazione contribuiscono,
oggi più di ieri alla costruzione di senso e di significato.
Lungi dal considerare il pubblico passivo, influenzabile ed omogeneo, “i media
(ed in particolare la televisione, il cui ruolo è divenuto negli ultimi anni di importanza cruciale) si inseriscono a pieno titolo nell’ambito di quel complesso
processo che viene definito di costruzione sociale della realtà: posto che la conoscenza del mondo e la formazione di opinioni e atteggiamenti non possono
considerarsi come un semplice rispecchiamento di una qualche realtà <<oggettiva>> bensì in larga misura come esito di una <<lettura>> della realtà ampiamente condizionata da fattori soggettivi, i media e la pubblicità esercitano di
fatto la loro influenza essenzialmente attraverso un opportuno orientamento di
tali processi di costruzione della conoscenza” (Contarello e Mazzara, 2002,
pag. 211).
L’individuo inteso come soggetto attivo che tratta e informazioni in modo autonomo e le ancora a un contesto di significati preesistente e personale agisce
sulla base di materiale grezzo e di informazioni offerto dai media. E’ ormai
consolidata la convinzione che l’interesse ad acquisire informazione, così come
l’esposizione, la percezione e la memorizzazione di un messaggio avvengono
secondo procedimenti selettivi per i quali, “…i componenti dell’audience tendono a esporsi all’informazione congeniale alle loro attitudini e ad evitare i
messaggi che sono invece difformi” (Klapper, 1963, pp. 245).
Questi processi governano in larga misura la visibilità relativa delle diverse informazioni e manipolano uno degli elementi cruciali nel percorso di riduzione
della complessità, ovvero la salienza delle informazioni in arrivo e gli schemi
interpretavi. Così il modo di presentare un particolare fenomeno attraverso i
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mass media influenza certamente il giudizio (ovvero il loro senso comune) che
le persone hanno del fenomeno stesso, come vedremo nell’ultima parte di questo lavoro sulle rappresentazioni sociali.
Le comunicazioni di massa e la pubblicità hanno, pertanto, un’importanza molto maggiore che non quella di servire semplicemente da veicolo di conoscenza,
sebbene anche questo aspetto non sia banale.
Di fatto il tema della persuasione ha assunto per la prima volta, in relazione alle
dinamiche di consumo, una valenza rilevante con l’avvento della comunicazione pubblicitaria. Questo processo si è esasperato con la crescita esponenziale
della competitività e l’affollamento delle offerte di mercato. In un contesto
produttivo ed economico caratterizzato dalla sempre più preponderante omogeneità dei prodotti e dei servizi presentati dalle diverse aziende la differenza sostanziale delle offerte lascia il campo al valore simbolico e alla capacità persuasiva dei messaggi promozionali.
Si tratta pertanto di un messaggio promozionale che non solo guida le persone
alla lettura del valore funzionale di quanto viene comunicato, ma offre, al contempo, una visione delle cose e del mondo, un modo per valutare se stessi e per
individuare stili di comportamento.
Mentre in un mercato della prima e della seconda industrializzazione esisteva
spazio per non sovrapporre le specifiche utilità e funzioni di prodotti e servizi,
nella fase attuale, soprattutto nei mercati affluenti, il valore oggettivo dei prodotti richiede un maggiore sforzo propositivo nei processi di influenzamento
dei consumatori e quindi nel ruolo della pubblicità.
La comunicazione persuasiva, in un primo tempo caratterizzata dal valore della
razionalità dell’utile e della convenienza, oggi deve fare affidamento a leve
motivazionali simboliche, sociali ed estetiche, modificando non solo le variabili che caratterizzano i processi persuasivi e il loro effetto sui processi decisionali ma anche le modalità di studio e di ricerca.
2. Cambiamento consapevole o persuasione occulta: la pubblicità persusiva
Negli anni precedenti allo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa
l’attenzione al tema della persuasione e dei processi decisionali era nata in real-
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tà dalle ricerche e dai sondaggi politici durante le campagne elettorali statunitensi. Un tema che si è sviluppato all’ombra del timore delle possibili influenze
sulle opinioni degli elettori attraverso la stampa e gli altri strumenti di comunicazione di massa, soprattutto se tali influenze potevano essere determinate da
messaggi che andavano oltre la ragione dell’elettore.
La possibilità di influenzare la decisione ad agire un particolare comportamento
di acquisto o di voto al di là della consapevolezza, della razionalità, della correttezza, della veridicità e dei valori delle argomentazioni è alla base delle
preoccupazioni relative al rapporto tra tecniche persuasive e decisioni.
Una preoccupazione viva ancora oggi come testimoniato dalle “paure” verso
una comunicazione non immediatamente identificabile e controllabile.
Come è possibile vedere dagli studi sul campo l’avvento della radio e della televisione hanno stimolato la ricerca sui meccanismi persuasivi e sull’effetto che
questi processi potevano avere sulle fasce più deboli o “suggestionabili” come
per esempio i bambini. Siamo nel periodo storico in cui la ricerca sulle tecniche
persuasive più o meno visibili ha stimolato la discussione sul tema dei meccanismi di influenzamento occulto e sui processi subliminali.
Possiamo ricordare come momento culmine di questa preoccupazione l’eco che
ebbe il noto testo di Packard (1957) sui Persuasori occulti e sui processi id influenza subliminale. Nel suo testo Vance Packard conia un insieme semantico,
«hidden persuasion», che, come tutte le definizioni che riescono a coagulare le
tensioni e le precomprensioni di un’epoca, godrà di enorme successo e diffusione, divenendo un vero e proprio luogo comune nei decenni successivi. La
sua traduzione italiana, «persuasione occulta», enfatizza sapientemente
nell’aggettivo (ben più del letterale «persuasione nascosta») il vero spirito della
combinazione, evocando più apertamente quella dimensione magica e oscura
che sarà uno dei motivi del successo della teoria critica di Packard alla società
americana degli anni 1950. In quel particolare periodo storico, caratterizzato
dallo sviluppo della comunicazione di massa e degli studi si processi decisionali e sugli atteggiamenti, Packard individua nel pubblicitario l’agente principale
dell’eversione sociale in atto: egli è il «persuasore occulto» che entra
nell’inconscio del pubblico attraverso misteriose tecniche di psicologia applicata, come i messaggi subliminali, per forgiarne le decisioni a suo piacimento.
Sebbene il nome dell’autore dica oggi assai poco, i punti principali della sua
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analisi hanno conosciuto un’enorme diffusione: un’indagine compiuta negli
anni 1980 dimostrava come all’81% degli intervistati fosse nota la teoria della
persuasione occulta; tra costoro, il 68% erano convinti che le tecniche indicate
da Packard fossero utilizzate correntemente in pubblicità, con un conseguente
successo nelle vendite. L’ambiente scolastico (soprattutto medio-superiore) veniva normalmente indicato come il centro di diffusione di queste nozioni (Zanot, Pincus, Lamp, 1983).
Nei fatti, come vedremo, i termini della questione sono del tutto controversi. La
vicenda ha inizio con una conferenza stampa convocata il 12 settembre 1957 a
New York. Un ricercatore di mercato, James M. Vicary, portavoce di una pressoché sconosciuta azienda commerciale, la Subliminal Projection Company,
presenta i risultati di un esperimento che avrebbe avuto luogo a Fort Lee, nel
New Jersey: durante la proiezione di un film sono stati immessi fotogrammi
non percepibili (della durata di 3 millisecondi, ogni 5 secondi) con comandi
scritti che incitano a mangiare popcorn e a bere Coca Cola. Secondo Vicary,
che cercava di promuovere la tecnologia messa a punto dalla sua azienda, i
consumi di questi due articoli presso la popolazione esposta ai fotogrammi impercettibili sarebbero aumentati rispettivamente del 57,7% e del 18,1%. In realtà, salvo i resoconti dei giornalisti intervenuti alla conferenza stampa, i dati e i
termini scientifici dell’esperimento non sono mai stati resi pubblici; in una intervista del 1962, Vicary avrebbe inoltre confessato che l’esperimento non era
che una montatura (Pratkanis, 1992). Nondimeno, la portata della notizia si
espande inaspettatamente.
Analogamente alla questione degli Ufo, che emerge negli stessi anni, questa
vicenda dà corpo alle tensioni apocalittiche che vive l’umanità occidentale in
questa fase acuta della Guerra Fredda, in cui i nemici sono invisibili, ma la minaccia è quella dell’annientamento totale del pianeta. I giornalisti, da sempre
interpreti privilegiati di queste precomprensioni collettive, riprendono e colorano i termini della notizia; a loro si aggiungono scrittori assai noti e influenti
come Aldous Huxley, che in un suo altrettanto noto romanzo, Brave New
World Revisited, pubblicato nel 1958, descrive una dittatura integrale sullo stile
del Grande Fratello orwelliano basata sull’efficacia di una macchina che manipola impercettibilmente le coscienze: nel libro, la tecnologia che doveva servire
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alla pubblicità, diventa strumento di una propaganda politica tecnocratica irresistibile, di fronte alla quale la democrazia occidentale rivela la sua impotenza.
La conferenza stampa dell’oscura azienda americana (che, per inciso, nel 1962
esce dal mercato) ha assunto dunque tutti gli elementi per dare vita a una vera e
propria leggenda metropolitana. D’altro canto, parallelamente, si moltiplicano
gli studi di psicologia sperimentale per accertare le pretese scientifiche della
tecnologia che ha fatto tanto scalpore, basata sui cosiddetti «messaggi subliminali».
Quella della percezione subliminale, cioè di una percezione che avviene sotto
la soglia (sub limen) della sensibilità (concetto già di per sé problematico per
l’arbitrarietà del punto in cui collocare la soglia: cfr. Lupker, 1986), è una storia che inizia nel 1884 con un studio in cui si dimostra che è possibile percepire
piccole differenze di pressione sulla pelle senza avere la consapevolezza della
sensazione (Peirce, Jastrow, 1884).
Gli studi che hanno avuto origine alla fine dell’800 e inizio del secolo successivo e relativi al valore della soglia assoluta di percezione (valore assoluto percepibile) e della soglia differenziale (soglia differenziale minima percepibile,
legge di Weber – Fechner) sono alla base del dibattito sulla comunicazione persuasiva subliminale.
Non a caso gli esperimenti svolti durante il ‘900 (cfr. Dixon, 1971, Greenwald,
1992) si sono concentrati su un campo di ricerca delimitato da particolari condizioni patologiche o comunque straordinarie, in grado di mettere meglio in luce le reazioni di una sensibilità o di una coscienza ipofunzionali: la «vista cieca» (blindsight) (Weiskrantz, 1986), la prosopagnosia (Young, 1994),
l’epilessia (Naccache, et Al., 2005), l’anestesia generale (Merikle, Daneman,
1996).
Sull’onda di una lunga polemica (anche giuridica) sull’effetto di frasi lette alla
rovescia presenti in certi brani di musica rock, si è poi giunti a dimostrare sperimentalmente la possibilità della percezione subliminale dei contenuti semantici di un tale tipo di frasi (Saberi, Perrott, 1999). Fatta dunque salva l’effettiva
consistenza del fenomeno, l’interesse pubblico per la questione della persuasione occulta esce però dall’ambito puramente scientifico per entrare massicciamente in un campo più sociologico o filosofico. Infatti se da una parte la visione di Packard è basata sulla possibilità di influenzare le decisioni dell’ignaro
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pubblico con una dinamica «ipodermica» (tipo stimolo-risposta), diversi filoni
di ricerca psicologica, sociologica e filosofica si sono dimostrati contrari a una
tale semplificazione del fenomeno, mettendo in gioco i complessi meccanismi
di interazione tra ricevente ed emittente del messaggio e, più in generale, tra
consumatore/cittadino e mercato/società (Harms, Kellner, 1998).
D’altro avviso sono invece autori come Wilson Bryan Key che, continuando
sulla linea di Packard, ma in una sorta di crociata personale, dimostrerebbero la
massiccia presenza di messaggi subliminali rivolti soprattutto alla sfera sessuale (con associazioni del tipo acquisto-eccitazione erotica) con esempi tratti da
vari ambiti della comunicazione, dalla pubblicità alla musica rock ai cartoni
animati (Key, 1980). Recentemente, non è mancato chi abbia applicato il concetto di persuasione occulta al mondo di internet (Fogg, 2005). A questo proposito le legislazioni nazionali e internazionali sulla comunicazione pubblicitaria
o propagandistica nei mass media si sono schierate per la proibizione delle tecniche subliminali (Nicolino 1998), riconoscendo de facto una qualche efficacia
al fenomeno; molto più cauta sembra invece la ricerca scientifica.
A questo riguardo, è particolarmente rilevante riferirsi agli studi su un settore
del mercato in cui questa tecnologia ha conosciuto un grande successo, soprattutto nel mondo anglosassone. È il caso della commercializzazione di dispositivi che, utilizzando diversi supporti che vanno dall’audiocassetta allo schermo
del proprio computer (su questa recente modalità, cfr. il sito di una azienda
americana: www.subliminal-power.com), si servono delle tecniche subliminali
per combattere dipendenze di varia natura (dall’alcol, al fumo, alle droghe,
all’abuso di cibo) o per determinare un aumento dell’autostima.
L’ingegnere Hal Becker, nel 1966, brevettò la little black box, dispositivo capace di leggere cassette audio e mescolare segnali da diverse fonti audio, rendendole infine percettibili solo in forma subliminale. Questo dispositivo fu acquistato da numerosi supermercati dove fu utilizzato per inviare in forma subliminale, mixato alla regolare musica di sottofondo, messaggi del tipo “io sono onesto” oppure “io non rubo”. A fronte di un cospicuo giro d’affari (Russel,
Rowe, Smouse, 1991), gli studi di psicologia sperimentale tesi a valutare gli
effetti di tali dispositivi dimostrano la loro scarsissima rilevanza rispetto ai fini
che si prefiggono: i dati sperimentali tendono infatti unanimemente a classifi-
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carli sotto la dicitura di «effetto placebo» (Merikle, Skanes, 1992 e Froufe,
Schwartz, 2001).
Nonostante le numerose incoerenze scientifiche e mancate dimostrazioni
sull’efficacia della persuasione subliminale sulle decisioni, l’idea positivista
dell’uomo ha contributo non poco allo sviluppo dell’ansia verso i processi persuasivi.
3. Oltre la razionalità: l’efficacia della comunicazione persuasiva
Per comprendere le preoccupazioni che il concetto di persuasione comunicativa
ha animato nell’opinione pubblica occorre soffermarci brevemente su
un’analisi di contesto.
Alla fine dell’800 l’influenza del positivismo si impose promuovendo
un’immagine dell’uomo capace di dominare la natura con il proprio ingegno e
con la propria capacità di fare, capace di costruire, di trasformare l’ambiente e
di influenzare le cose della natura grazie alla sua abilità e alla sua razionalità.
Si è trattato di un pensiero caratterizzato da grande ottimismo, dalla possibilità
di controllare la natura e ridurre lo stato di disagio presente in grosse fasce della popolazione. Alla base dell’ottimismo nella scienza, nella tecnologia e nella
forza razionalizzante dell’uomo vi risiedeva il sogno di una democrazia diffusa
e di uno stato di benessere universale, raggiungibile con la scienza e il progresso tecnologico.
L’uomo, non più soggiogato da volontà divine e dalle forze innaturali, con il
positivismo era divenuto artefice della propria vita e del mondo che lo circondava. Era suo compito controllare la natura e il mondo attraverso la sua capacità, tutta razionale, di cogliere le leggi universali ed oggettive che guidavano la
natura stessa e la complessità della realtà.
Ovviamente questa visione proponeva anche un grosso sacrificio. La perdita
della centralità dell’anima e della sua coscienza (Siri, 2004). Era mutato profondamente il modo di intendere l’uomo. La coscienza non essendo più data
ma concepita come un costrutto sociale, come un oggetto di origine biologica e
ambientale.
Si tratta di una visione empiricamente genetica della coscienza e dei processi
ad essa correlati tanto da lasciare ampio spazio al ruolo delle forze esterne nella
Scienza, ricerca, metodo 13
sua determinazione. E’ in questo aspetto relativo alla possibilità di influenza
esterna che si annida la dimensione ansiogena del tema della persuasione e della decisione.
L’esperienza, tra l’altro dei totalitarismi nazisti o comunisti ha a sua volta fornito un chiaro esempio della capacità di influenzare le decisioni, determinare i
comportamenti e manipolare le coscienze.
La persuasione è così divenuta un tema scottante, un tema difficile e in parte
contraddittorio poiché pone da una parte la liberta dell’individuo come forza
creatrice e capace di gestire la natura e il mondo e dall’altra ponendo l’uomo
nella natura lo presenta come soggiogabile dalle altre forze esterne. Da una parte l’uomo e i suoi processi decisionali sono fortemente caratterizzati dal principio di liberta e di creatività, e al contempo e paradossalmente, il tema della persuasione ci offre un mondo caratterizzato da processi di manipolazione e di
alienabilità.
Tale incongruenza è decisamente influenzata dai riferimenti epistemologici del
tempo in cui si è sviluppata la ricerca sul rapporto tra persuasione e decisione.
In una prima fase storica, caratterizzata dalla ricerca sui processi di influenzamento sociale, soprattutto nel contesto americano caratterizzato da particolare
attenzione ai meccanismi decisionali legati alla scelta elettorale, l’analisi della
realtà e la spiegazione dei processi decisionali richiama i principi descrittivi del
positivismo e dell’età moderna. All’interno di questo modello esplicativo (detto
della modernità) un elemento importante è la visione dell’uomo come soggetto
pensante e tanto razionale da spiegare i comportamenti decisionali secondo un
modello razionalistico, caratterizzato da norme generali ed uniche.
Nel primo periodo di affermazione delle ricerche sui consumi e sulla persuasione l’attenzione, infatti, è stata rivolta ai processi cognitivi controllati, che
prevedono la realizzazione di una scelta attraverso una serie di fasi ben precise:
la ricerca attenta delle informazioni, la valutazione delle alternative, la valutazione dei pesi e dei valori riconosciuti ai singoli attributi dei prodotti o dei servizi ed infine l’analisi post acquisto e la valutazione del grado di soddisfazione
dei bisogni.
L’implicita assunzione che sottostava in questo modo di studiare la relazione
tra persuasione e decisione era che il comportamento di acquisto poteva essere
“catturato”, spiegato da un modello onnicomprensivo o da una “grande teoria”.
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3.1. Dal valore persuasivo dell’utilità all’attrazione simbolica
Una di queste teorie sui processi decisionali vedeva il comportamento come
esclusivamente guidato dai principi esplicativi dell’utilità e dalla logicità dei
processi.
Secondo questo principio l’individuo è visto come soggetto capace di prendere
le decisioni sulla base dell’attenta e razionale ricerca delle informazioni, cercando di ottenere il massimo dei benefici (individuali o sociali) con il minimo
di dispendio di energie.
In questa accezione l’individuo era considerato come un essere animato da
principi universali validi in qualsiasi contesto. Quei principi che in piena rivoluzione industriale venivano trasmessi dalle classiche istituzioni come la famiglia, la religione, la comunità di appartenenza. Allora si faceva riferimento a
“un uomo dotato di giroscopio interiore”, capace di trasferire all’interno il sistema di coordinate che lo rendono riconoscibile e che consentono agli altri di
sapere con chi hanno a che fare, di prevedere il suo comportamento e quindi di
sapersi regolare nell’interazione e nello scambio sociale.
Questa stabilità era collegata ad un principio di coerenza che vincolava
l’individuo ad essere coerente con i valori ed i principi che aveva interiorizzato
e che doveva essere in grado di tradurre in comportamenti congruenti, anche in
assenza di un contesto sociale capace di supportare questi modelli valoriali (Siri, 2001).
Il contesto culturale della società post moderna modifica profondamente questo
modo di intendere l’uomo e i suoi processi decisionali.
La postmodernità rinuncia infatti all’idea di un soggetto e di una coscienza stabili, autogovernati, ancorati attraverso la ragione ad una universale razionalità
oggettiva, capace di contenere le influenze manipolatori e dei processi persuasivi. La postmodernità sceglie di “accettare la radicale determinatezza del soggetto, la sua con testualità, l’assenza ad ancoraggi alla razionalità” (Siri, 2004
pag.67).
In questo panorama non esistono più valori universali, le istituzioni che prima
rappresentavano la guida per l’interpretazione della realtà e per le scelte decisionali hanno lasciato il posto alla ricerca di valori cui sembra che si aderisca
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sempre più a livello astratto e di principio, alla ricerca di un modo per potere
esprimere la propria individualità.
La vita sociale perde il suo baricentro ideologico ed istituzionale, promuovendo
un pensiero debole, in cui la flessibilità, l’innovazione, l’individuazione più che
l’identificazione diventano i principi organizzatori della nostra quotidianità.
La visione del mondo e l’idea di verità non viene più ancorata a realtà metafisiche universali, ma viene costruita dall’esperienza sociale (culturale e linguistica), storicamente determinata dal contesto specifico di esperienza di ciascun
individuo o gruppo sociale.
In questo nuovo contesto esplicativo risulta difficile trovare regole universali
per spiegare la stretta relazione tra persuasione e decisione. In una società caratterizzata da un modello di personalità emergente formato da molteplici sé
coesistenti, in cui ogni esperienza di consumo e di relazione è socialmente contestualizzata e temporalmente definita è possibile descrivere i principali segnali di cambiamento registrati soprattutto nel passaggio da una società moderna a
quella post moderna. E’ in questo orizzonte complesso, caratterizzato da molteplicità, instabilità, dalla fluttuazione tra realtà e virtualità (sempre più imponente nella nostra quotidianità, dalla flessibilità che l’analisi dei processi decisionali deve fare riferimento alla soggettivazione individualistica, alla contestuale esperienza e alla costruzione di senso.
Il tema della persuasione e dell’influenza sociale muta radicalmente rispetto al
passato. Accanto ai risultati della ricerca classica sulla persuasione e relativa
alle singole caratteristiche degli elementi della catena della comunicazione
(fonte, messaggio, destinatario) la ricerca contemporanea cerca di soffermarsi
su aspetti più globali e complessivi, sui processi di costruzione del significato.
Durante la prima fase di studio e di ricerca sui processi persuasivi e
sull’influenza sulla decisione e la scelta, la credibilità della fonte, la somiglianza all’audience, l’importanza dell’autorevolezza e del ruolo istituzionale sono
stati gli elementi di grande interesse. Lo stesso dicasi per lo studio delle caratteristiche dell’audience che in fondo non ascolta in modo neutrale, ma risulta
preorientata e tende ad accettare più facilmente quanto è coerente con le proprie aspettative, cosicché per modificare gli atteggiamenti occorre contemporaneamente confermare alcuni aspetti preesistenti. Questa parte della ricerca aveva dimostrato che le decisioni non vengono prese in maniera razionale, a segui-
16 Comunicare un’opera d’arte
to di un’attenta e incondizionata analisi delle informazioni presenti nel messaggio. Chi è sottoposto al messaggio persuasivo lo affronta in maniera pregiudiziale e tendenzioso.
Secondo questo modo di studiare la persuasione, contrariamente alle originarie
paure di manipolazione, è necessario fare i conti con la percezione di congruenza con le idee preesistenti e con il problema della solida resistenza al
cambiamento e dei meccanismi di rafforzamento delle idee preesistenti, piuttosto che temere la facile persuadibilità e influenzabilità delle menti.
Questo modo di analizzare il rapporto tra persuasione e processi decisionali oltre che sottolineare l’importanza di analizzare i singoli elementi della catena
comunicativa e persuasiva (attenzione, percezione, elaborazione, ritenzione e
azione) impone un’analisi di elementi più complessi e articolati, come per
esempio le identità personali e il valore del contesto culturale e sociale di riferimento.
3.2. Dal ruolo di spettatore al ruolo di costruttore di senso
Come noto, il comportamento non ha un suo contrario (non si può non comportarsi) e quindi, a fronte di una situazione problematica, in qualche modo si agisce influenzando in un senso piuttosto che in un altro il divenire degli accadimenti. Ciò avviene più oppure meno consapevolmente, più oppure meno intenzionalmente, ed a volte assume la forma di decisione: scegliere un particolare
corso di azione tra quelli individuati come possibili.
In questo percorso i meccanismi di comunicazione e l’efficacia dei processi di
persuasione sono stati studiati al fine di capire come influenzare il corso delle
azioni altrui.
Il modo classico, anche se per molti versi insoddisfacente, di analizzare il rapporto tra persuasione e decisione, tra processi di comunicazione e processi psicologici di scelta è quello di delineare i più importanti concetti e teorie sul
comportamento, mostrando le applicazioni più utili ad implementare l’efficacia
persuasiva della comunicazione e il suo rapporto con i processi decisionali.
Ciò nell’ambito delle applicazioni della psicologia ai processi di comunicazione e al marketing, che riguardano non solo la pubblicità, ma anche ogni altro
Scienza, ricerca, metodo 17
aspetto della commercializzazione: prodotto, prezzo, packaging, distribuzione,
promozione gestione del personale di vendita, ecc.
E’ da notare che tale approccio, tuttora prevalente, è presente nei pochi testi di
matrice psicologica che trattano il tema in oggetto, sia nella maggior parte dei
testi di matrice economica che, esplicitamente o implicitamente, si riferiscono
ai contributi che la ricerca psicologica ha fornito al marketing. Tale contributo
appare sempre più insoddisfacente per diverse ragioni.
In primo luogo, è discutibile l’assunto secondo cui lo studio psicologico dei
processi persuasivi sulla decisione dei consumatori riguarda essenzialmente il
meccanismo mediante il quale l’operatore di marketing intende influenzare gli
atteggiamenti e i comportamenti del consumatore.
La letteratura presenta modelli prescrittivi di decisione, volti a definire il modo
migliore di prendere una decisione secondo i requisiti di funzionalità e sequenzialità propri di un processo razionale (Edwards,1954), ma si tratta per lo più di
modelli basati su assunti di razionalità e di essere umano piuttosto irrealistici.
Herbert Simon (1957, 1979), che nel 1978 vinse il premio Nobel per il suo lavoro sul decision making, sostituì il modello classico con quello della razionalità limitata o procedurale: anch’esso tende a definire le procedure per identificare la migliore decisione possibile, ma tenendo presente la soggettività, i limiti e
i processi di influenzamento che connotano la decisione finale. La teoria della
razionalità limitata, secondo la quale i processi decisionali sono processi di ricerca e non processi di ragionamento deduttivo, ha costituito un punto di riferimento per successivi studi interessati a sviluppare modelli descrittivi del processo decisionale, ma permane tuttavia il costante riferimento alla sequenza
delle fasi in cui il processo decisionale si articola (ricerca delle informazioni,
elaborazione delle alternative, valutazione e scelta), più prescrittivo che descrittivo, poco realistico rispetto alle effettive dinamiche in atto.
Di fatto i poli coinvolti nella comunicazione pubblicitaria sono almeno due –
mondo della produzione e mondo del consumo, in continua interazione reciproca. Ciò impone una visione del consumatore\spettatore non più pensabile
come soggetto passivo ed inconsapevole o guidato dal principio di realtà o dalla razionalità. In fondo l’implicita assunzione che caratterizza questo modello
interpretativo della comunicazione è che il comportamento di acquisto può essere “catturato”, spiegato da un modello onnicomprensivo come quello della
18 Comunicare un’opera d’arte
razionalità e dell’utilità. Secondo questo principio l’individuo viene visto come
soggetto capace di prendere le decisioni cercando di ottenere il massimo dei
benefici (individuali o sociali) con il minimo di dispendio di energie. Si tratta
di un individuo che per un esigenza di controllo e per avere almeno in questo
campo salve le sue rassicuranti certezze era considerato come un essere animato da principi universali validi in qualsiasi contesto, quei principi che in piena
rivoluzione industriale venivano trasmessi dalle classiche istituzioni come la
famiglia, la religione, la comunità di appartenenza. Nella visione attuale e post
moderna del consumatore \ spettatore di messaggi ha senso parlare di “comportamento” del consumatore, come se esistesse un consumatore standard che si
comporta in modo conosciuto e prevedibile, secondo le leggi studiate da una
psicologia sostanzialmente individualista? D’altra parte secondo il già citato
Simon (1957), se di razionalità bisogna parlare, questa è pur sempre “limitata”
dalle difficoltà e i costi della ricerca delle informazioni nel mondo esterno e dai
limiti puramente interni, quali le difficoltà di elaborazione cognitiva delle informazioni, i limiti di memoria e di attenzione.
Tuttavia prevalgono ancor oggi, nella letteratura, approcci che pongono l’enfasi
sui processi cognitivi e che spesso considerano il decisore - individuo od organizzazione - come se fosse un attore unico (completamente o limitatamente razionale, non importa) trascurando l’interazione di una molteplicità di attori che
normalmente sono in gioco. Solo alcuni dei modelli descrittivi mettono in evidenza l’influenza che l’ambiente può esercitare sul processo decisionale, in
particolar modo l’influenza esercitata sul decisore dalle varie persone coinvolte
in una decisione.
Procedendo in tale direzione, sembra che la molteplicità degli attori e degli interessi compresenti nelle situazioni contingenti renda il processo di decisione
qualcosa di più complesso (Tesio, 2004). Esso dipende dai caratteri degli attori,
dalle loro preferenze e dalle loro conoscenze, dalla loro capacità di tollerare
l’ansia, nonché dalla struttura organizzativa che governa le loro relazioni.
In secondo luogo, in questo ambito di studio non sembra più adeguato parlare
di psicologia “applicata”, come se la psicologia scientifica producesse i risultati
della propria ricerca solo studiando l’uomo in sé, a prescindere dai contingenti
contesti interpersonali e sociali in cui vive ed opera. Come se la conoscenza
così prodotta fosse generalizzabile, pronta all’uso di chi volesse metterla in pra-
Scienza, ricerca, metodo 19
tica a propria discrezione…. Questa concezione è pervasa dall’assunto scientista e positivista che ha creduto di studiare il fenomeno umano come comportamento o come mente, riconducibile a leggi note, certe, analoghe a quelle che
regolano il mondo fisico. Tale assunto ha prodotto lo spezzettamento della psiche in singoli oggetti di studio: la percezione, la memoria, il pensiero, il linguaggio, l’apprendimento ecc. Di qui l’illusione che ogni singolo pezzo di conoscenza potesse essere applicato per rendere più efficaci i mezzi o i modi con
cui qualcuno intende influenzare le decisioni di qualcun altro.
La conoscenza psicologica del fenomeno umano è invece sempre più l’esito
provvisorio dello studio e della ricerca fatta con soggetti che vivono la complessità dei propri contingenti contesti: una conoscenza globale e contestualizzata, più adeguata a descrivere, comprendere, spiegare ed interpretare come e
perché le persone ed i gruppi pensano, sentono ed agiscono nella società dei
consumi in cui oggi vivono. Ed avvalersi della conoscenza così prodotta è altra
cosa rispetto all’applicare i risultati di singole ricerche decontestualizzate.
Questo modo di leggere la relazione persuasione decisione impone
l’integrazione dei modelli di analisi caratterizzati dai sondaggi di opinione o
dagli studi di laboratorio con metodologie qualitative, di certo più dispendiose
ma più efficaci per studiare tale relazione in un particolare contesto e in uno
specifico momento.
4. Le principali teorie di riferimento sulla persuasione
Le considerazioni finora espresse ci indicano quanto possa risultare parziale e
fuorviante l’assunto secondo cui la comunicazione pubblicitaria consiste essenzialmente nella trasmissione di un messaggio da una fonte ad un destinatario.
Questa concezione sostiene l’esistenza di un modello comunicativo lineare che
induce a scomporre la sequenza dei fattori in gioco (trasmittente, mezzo, messaggio, ricevente) riducendo il processo di comunicazione sostanzialmente a
passaggio di informazioni, trascurando così la relazione nella quale i comunicanti sono coinvolti.
20 Comunicare un’opera d’arte
L’etimologia di comunicazione rimanda anche a “cum munus” e “cum moenia”, come se ciò avesse a che fare con “scambio di doni” (munus) “all’interno
di mura comuni” (moenia): si tratta dell’aspetto di scambio e di reciprocità che
insieme all’aspetto protettivo e difensivo concorre ad attribuire senso e significato sia al contenuto della comunicazione, sia al processo di accomunamento in
cui essa consiste.
Trasmettere pensieri ed indurre comportamenti è solo una piccola sfaccettatura
di un fenomeno ben più ricco e complesso, su cui poggia la costruzione della
nostra visione del mondo e – si potrebbe quasi dire – la creazione del mondo in
cui viviamo. Si tratta di una sfaccettatura del modo di intendere il rapporto tra
comunicazione, pubblicità e comportamento che sembra ancora troppo legato a
veccie teorie, ispirate più da una visione positivistica dell’uomo proprio
dell’età moderna.
4.1. La teoria ipodermica
Nello studio dei processi persuasivi e di comunicazione diversi studiosi hanno
cercato di racchiudere in una sorta di modellistica, gli agenti o i fattori chiave
impliciti nella comunicazione persuasiva. Già nel primo dopoguerra
l’attenzione tutta statunitense ai processi di analisi della propaganda e dei meccanismi di influenzamento aveva influenzato lo sviluppo di modelli sugli effetti
della comunicazione di massa come quello descritto dalla teoria ipodermica,
detta anche “bullett theory” o “teoria del proiettile magico”, che muovendosi
all’interno di una visione elementaristica e meccanicista partiva dall’assunto
che essendo uniforme il repertorio delle risposte comportamentali dell’uomo, i
messaggi potevano essere recepiti nello stesso modo da tutte le persone che costituivano l’audience e che le risposte ai messaggi erano immediati e diretti. In
questo caso la comunicazione persuasiva ha la capacità di colpire ed influenzare le decisioni di un gruppo di persone percepite come un aggregato di individui isolati, deboli ed indifesi di fronte alla forza e alla precisione persuasoria
del comunicatore.
Secondo questa teoria ipodermica “ciascun individuo è un atomo isolato che
reagisce da solo agli ordini e alle suggestioni dei mezzi di comunicazione di
massa monopolizzati” (Wright Mills, 1963, 203). In questo caso se i messaggi
Scienza, ricerca, metodo 21
riescono a raggiungere gli individui della massa, la persuasione sarebbe facilmente “inoculata”; cioè se il “bersaglio” fosse raggiunto, si sarebbe ottenuto il
successo che ci si prefiggeva (Wolf, 1985, DeFleur, Ball-Rokeach, 1989). Questa fiducia generale sul potere dei mass media derivava dai risultati della propaganda bellica in atto durante la Grande guerra. Si pensava, allora, che i media
potessero plasmare l’opinione pubblica ed influenzare le masse a favore di qualunque punto di vista (De Fleur, Ball-Rokeach, 1989). La bullett theory ha avuto un largo successo, soprattutto nella sua applicazione a fenomeni comunicativi specifici quali le campagne elettorali o, appunto, la pubblicità e, nonostante
le ricerche sugli effetti ne abbiano poi largamente mostrato la limitatezza, rimane sorprendente la sua sopravvivenza, talvolta ancora attuale, come schema
analitico adeguato (Wolf, 1985), soprattutto in ambito pubblicitario.
In questo ambito di riflessione può essere inserita alcune note e storiche teorie
sulla persuasione come la teoria degli effetti limitati e la teoria dell’agenda setting.
4.2. La teoria degli effetti limitati e la teoria dell’agenda setting
Secondo la teoria degli effetti limitati dei media l’interesse ad acquisire informazione, così come l’esposizione, la percezione e la memorizzazione di un
messaggio avvengono secondo procedimenti selettivi per i quali, “…i componenti dell’audience tendono a esporsi all’informazione congeniale alle loro attitudini e ad evitare i messaggi che sono invece difformi” (Klapper, 1963, pp.
245). In questo caso le campagne di persuasione hanno, infatti, successo soprattutto con gli individui che sono già d’accordo con le opinioni presentate o che
comunque sono già sensibilizzati ai temi proposti. Sono proprio gli individui
più interessati ad un determinato argomento quelli che si espongono al messaggio, mentre gli altri, nel nostro caso gli individui più a rischio, sarebbero refrattari a tale esposizione.
Per questo motivo può succedere che il risultato principale di una campagna di
prevenzione sia quello di rinforzo di determinati atteggiamenti e comportamenti, piuttosto che di un loro cambiamento. Inoltre, la teoria degli effetti limitati
sposta l’accento su un processo mediato di influenza, in cui gli effetti dei media
non sono comprensibili, se non a partire dall’analisi delle interazioni reciproche
22 Comunicare un’opera d’arte
tra i destinatari, nel contesto delle influenze personali tra individui appartenenti
agli stessi gruppi sociali. Il contenuto dei messaggi viene pertanto “rielaborato”
all’interno di dinamiche sociali complesse e conseguentemente interpretato, accettato o rifiutato.
Il modo di studiare i processi di persuasivi deve pertanto prendere in considerazione che le funzioni della mente non possono più essere concepite come operazioni di una macchina cartesiana o computazionale, distaccate dalla finalità
per cui esistono, quella cioè di servire alle pratiche necessarie per l’interazione
interpersonale (Meccaci, 1999). Ciò significa che dobbiamo imparare a vedere
la mente umana e tutti i processi psichici che sottostanno ai nostri comportamenti come punto di incontro di un ampio raggio di influenze strutturanti, la
cui natura può essere raffigurata solo su una tela più ampia di quella fornita
dallo studio degli organismi individuali (Harrè, 1994) proponendo quindi un
modo di analizzare concetti come percezione, attenzione, decisione, motivazione in relazione ai processi di significazione influenzati e determinanti dal contesto culturale e sociale, dalla rete interpersonale in cui si è immersi e dai significati mediati dai canali di comunicazione
Fu necessario un po’ di tempo e diverse ricerche prima che gli studiosi si rendessero conto che la relazione tra messaggio e decisione ed infine risposta
comportamentale non fosse così diretta, ma che al contrario fosse importante
ipotizzare l’intervento di variabili di mediazione, come ad esempio la percezione selettiva, gli stati mentali del soggetto ricevente, il ruolo delle strutture cognitive.
In base a questa teoria, “la gente tende ad includere o ad escludere dalle proprie
conoscenze ciò che i media includono o escludono dal proprio contenuto. Il
pubblico tende inoltre ad assegnare a ciò che esso include, un’importanza che
riflette da vicino l’enfasi attribuita dai mass media agli eventi, ai problemi, alle
persone” (Shaw, 1979, p.96).
Il modo in cui i fruitori della comunicazione definiscono le questioni più importanti, i problemi più urgenti e quindi le decisioni più impellenti da prendere
e le rappresentazioni sociali più utili per prenderle sarebbe il risultato di un
processo che si origina nell’enfasi e nelle priorità che i mezzi di comunicazione
concedono ad una notizia. “è possibile ipotizzare che il posto occupato dalla
singola notizia, lo spazio dedicatole e l’enfasi con cui i suoi contenuti sono
Scienza, ricerca, metodo 23
proposti influenzino il modo in cui l’ascoltatore costruisce una propria personale agenda ed entro questa colloca la notizia appresa. (…). E’ esperienza comune che i temi di discussione che attirano l’attenzione di persone godano di momenti di improvviso successo per poi scivolare in posizioni sempre meno di
testa, nella graduatoria di citazione, di importanza attribuita, di notorietà” (Arcuri, Castelli, 1996, pag. 71).
I media, nella prospettiva dell’agenda setting, indicano quali sono le informazioni e le notizie a cui occorre prestare più attenzione e quale è la loro importanza relativa in un dato momento (McCombs e Shaw, 1993). In questo caso i
media non dicono come i soggetti devono pensare ma a cosa devono pensare.
L’idea generale di una corrispondenza tra agenda dei mezzi di comunicazione e
quella dell’audience è stata per la prima volta indagata sperimentalmente da
McCombs e Shaw, (1972). Le modalità utilizzate per rendere la notizia più
pregnante e incidere sulla rappresentazione che l’ascoltatore si fa una particolare tematica o fenomeno sono tante: la ripetizione frequente della notizia; la
continuità temporale di presentazione; lo spazio accordato alla notizia e
l’ordine rispetto alle altre notizie; l’importanza della testata e degli specifici
comunicatori che ne danno notizia; aspetti retorici come per esempio la capacità di coinvolgere emotivamente l’audience, la presentazione delle notizie con
filmati o altri supporti sapendo che il filmato offre dignità e valore alla notizia,
l’utilizzo di commenti che generalizzino il contenuto di un singolo fatto o episodio (McComb e Gilbert, 1986). Si tratta di aspetti a cui assistiamo giornalmente. Basti pensare al valore comunicativo che in questi anni si sta dando al
tema del terrorismo internazionale e all’importanza della sicurezza nazionale.
Aspetti di grande importanza ma che rischiano di mettere in ombra altri problemi altrettanto importanti.
Questo fenomeno persuasivo, definibile tale poiché influenza e determina il
modo di vedere ed interpretare un fenomeno, è strettamente collegato al meccanismo euristico della disponibilità (Tversky e Kahneman, 1973), secondo il
quale dovendo stimare la numerosità di una categoria, o la probabilità di accadimento di un particolare fenomeno o evento il giudizio delle persone sarà influenzato dalle informazioni più disponibili o facilmente reperibili in memoria.
Nel caso dell’agenda setting alcune informazioni sono più reperibili poiché
presentate con maggiore frequenza o pregnanza, rendendo queste informazioni
24 Comunicare un’opera d’arte
le più immediate e disponibili. Gli indirizzi di ricerca più recenti su tale teoria
stanno iniziando a metter in crisi l’assunto di una corrispondenza diretta tra
l’agenda dei media e quella del pubblico inteso come un’entità indifferenziata.
Viene sempre più riconosciuta anche a livello di analisi individuale il ruolo di
variabili intervenienti capaci di mediare questa semplicistica corrispondenza.
Un ruolo importante è strato riconosciuto agli atteggiamenti (Edelstein, 1993),
oltre che ad alcune caratteristiche demografiche. Il riconoscimento della relazione tra l’agenda setting e l’euristica della disponibilità permette di superare
quella visione lineare e determinista che la prima espressione della teoria portava con sé. La presenza di un meccanismo euristico implica una mediazione
dei processi cognitivi nella relazione tra messaggio, comprensione dei contenuti del messaggio e effetto persuasivo. Uno dei maggiori limiti di una nota teoria
sull’effetto della comunicazione di massa sulla costruzione delle rappresentazioni sociali, la teoria dell’agenda setting, è proprio quello di non considerare
le componenti semantiche proprie del messaggio e le preesistenti strutture conoscitive dell’individuo ascoltatore. Secondo tale teoria, i media non ci direbbero cosa pensare di un determinato argomento, ma ci suggerirebbero tuttavia
quali argomenti introdurre nella nostra agenda. Successivamente, si è anche
compreso come i mass media possano, se non dirci “cosa” pensare di un tema,
se non altro “come” pensarlo. Il potere di agenda è inoltre non uguale per i diversi media e per diversi temi (Wolf, 1985).
4.3. La teoria della coltivazione
A differenza della teoria dell’agenda setting quella che fa riferimento alla coltivazione non solo prevede che i media ci dicano quali sono le cose sui cui decidere e a cui pensare, ma anche e soprattutto in che modo dobbiamo pensare ad
esse. Secondo la teoria della coltivazione i mass media hanno un ruolo di socializzazione in grado di plasmare le percezioni, gli atteggiamenti, i valori, le
decisioni e di comportamenti. Lo studio dell’esposizione selettiva, delle differenze individuali nelle riposte ai media dimostra che le persone soggette
all’influenza dei mass media hanno una visione uniforme, condivisa e unica del
mondo a causa della presentazione uniforme, unica e condivisa della realtà comunicata. I mezzi di comunicazione id massa vengono considerati come domi-
Scienza, ricerca, metodo 25
natori dell’ambiente simbolico della vita moderna (Gerbner et al. 1980, pag.
14), all’interno di questo modello esplicativo dei processi persuasivi il termine
mainstreaming fa riferimento al processo attraverso il quale la visione televisiva conduce ad una omogeneizzazione nelle concezioni del mondo. Tale visione
nasce dal confronto delle rappresentazioni sociali e delle visioni tra persone che
fanno ampio uso del mezzo televisivo e di coloro che al contrario guardano raramente la televisione. Si ritiene che tra questi gruppi, a parità di altre condizioni, ci siano profonde differenze di idee dovute al grado di esposizione di uno
dei due gruppi alle immagine televisive.
n questo caso le modalità per prendere le decisioni sarebbe fortemente influenzate dalle rappresentazioni dei fenomeni e delle cose che sono state presentate
attraverso il canale televisivo. Ad esempio le persone che fanno ampio uso della televisione percepiscono il mondo più violento di quanto effettivamente non
sia o di quanto viene percepito dal gruppo con più basso uso del mezzo televisivo (Arcuri, 1994); bambini con elevato grado di visione TV hanno una radicata differenziazione stereotipica di genere in rispetto a bambini con basso grado di visione (Kimball, 1986).
Una delle principali critiche che viene mossa a questa teoria riguarda la natura
correlazionale dei risultati su cui fa affidamento. Non avendo informazioni precise sulla direzionalità della relazione, dalle visioni alle percezioni, non ci dimostra che il gruppo che vede maggiormente la televisione sia stato influenzato
necessariamente dai contenuti di questa. La relazione potrebbe essere perfettamente inversa. Dal momento che è risaputo che nella confezione dei programmi si cerca di mettere appunto dei prodotti che rispecchiano i gusti e le opinioni
dei potenziali spettatori e che le persone scelgono i programmi in funzione delle loro opinioni ed aspettative, risulta più difficile valutare la natura delle correlazioni trovate. Le persone potrebbero avere una visione comune poiché selezionate fin dall’inizio secondo un grado di condivisione di opinioni e di atteggiamenti che non sono più determinate dall’esposizione, ma che influenzano la
scelta di essere soggetti all’esposizione di alcuni immagini o programmi.
26 Comunicare un’opera d’arte
4.4. La teoria delle 4 C
La teoria della coltivazione postula la possibilità di un intervento di ulteriori
fattori esterni agli effetti di mainstreaming (come la risonanza ovvero
l’accentuazione degli effetti ei media nei casi in cui fattori esterni come esperienze vissute vanno nella stessa direzione di quanto presentato dai media) senza considerare invece la possibilità che fonti differenti di socializzazione (Arcuri, Castelli, 1996), l’influenza di fattori individuali, affettivi e motivazionali,
o dei processi di elaborazione delle informazione possano mitigare gli effetti
della coltivazione.
Eppure già nel 1949 in un testo pubblicato dal titolo “Esperimenti sulla comunicazione di massa” sull’efficacia persuasiva della propaganda filmica statunitense, un gruppo formato da autorevoli ricercatori come Hovland, Anderson,
Finan, Janis, Lumsdaine, Macoby, Sheffield e Smith aveva riportato i risultati
di una serie di ricerche attraverso le quali si è dimostrato che gli effetti persuasivi e di propaganda ottenuti con i film o le trasmissioni radio erano decisamente limitati. Tali risultati lasciavano intendere l’esistenza di una forma di posizione selettiva, secondo la quale vi è una relazione positiva tra le opinioni che
la gente possiede e ciò che legge o sceglie di ascoltare, ovvero su ciò che ritiene coerente con i propri atteggiamenti e le personali attese (Lazarsfeld e Stanton, 1944).
In questo percorso di sviluppo e di proposizione dei modelli di comunicazione
persuasiva possiamo individuare una delle prime mappe descrittive nel modello
delle “quattro C” di Bellenger, che mira a stabilire criteri ai quali un determinato messaggio deve conformarsi per aspirare all’efficacia della comunicazione
persuasiva. Tali criteri sono la credibilità, la coerenza, la consistenza, la congruenza.
Secondo questo modello, è importante che vi sia globalità e unità dei criteri,
solo così è possibile costruire il fattore decisivo di una comunicazione persuasiva. Il primo criterio, la credibilità, che va distinta dalla verità, riassume le caratteristiche della validità e dell’attendibilità del contenuto del messaggio. Il
secondo criterio della coerenza sottolinea l’importanza dell’organizzazione logica degli elementi che vengono portati a sostegno di una determinata argomentazione.
Scienza, ricerca, metodo 27
Il criterio della consistenza indica il valore e l’importanza della continuità temporale della comunicazione persuasiva, la non contraddittorietà e la costanza
della proposta del persuasore. La continuità temporale è un espediente molto
usato in pubblicità e lo si riconosce nei processi di reiterazione del messaggio.
Questa continuità temporale riesce a ottenere interessanti risultati grazie agli
effetti dei processi di apprendimento dovuti alla mera esposizione.
Diverse ricerche hanno dimostrato che l’esposizione anche incidentale è in grado di modificare il modo di percepire gli stimoli e gli oggetti.
La semplice esposizione ad uno stimolo facilita il suo riconoscimento successivamente, rendendo più positivo il valore attribuito ad uno stimolo noto piuttosto che ad uno assolutamente sconosciuto (Bornstein, 1989; Fechner, 1876;
Maslow; 1937, Zajonc, 1968). Parole senza senso, slogan, figure, quadri, immagini, volti e capi di abbigliamento a cui erano stati esposti alcuni individui
venivano percepiti più positivamente da questi dopo un certo periodo di tempo
rispetto a stimoli a cui non erano mai stati esposti (Bornstein, 1989). Lo stesso
effetto è stato riscontrato con stimoli olfattivi, uditivi o legati al gusto. Da questi studi sembra che ci sia una relazione proporzionale tra la frequenza di esposizione agli stimoli e la risposta data dagli individui. In genere tale esposizione
rende positiva la sensazione attribuita al riconoscimento di un prodotto, in questo caso di una marca, a cui si rimasti semplicemente esposti, anche incidentalmente. mera esposizione, che contribuisce a rendere più familiare, e quindi
più accettabile, un messaggio. Infine il quarto e ultimo criterio relativo alla
congruenza fa riferimento a tutto ciò che nel linguaggio comune viene definito
come capacità di trovarsi nel luogo giusto, al momento giusto, con le parole
giuste.
5.5. La teoria dei ruoli e il ruolo attivo dello spettatore
Riferendosi anche alla teoria dei ruoli, per essere persuasivi bisogna produrre
un messaggio che corrisponda il più possibile con quanto gli altri si immaginano di noi, con ciò che si attendono da noi, con quanto è contenuto, a livello di
aspettative, nella situazione sociale in cui si esercita la comunicazione [Bellenger]. Questo modello interpretativo, in linea con i postulati aristotelici di razionalità, ricalca perfettamente la visione dell’ideale dell’uomo come soggetto ra-
28 Comunicare un’opera d’arte
zionale e coerente. Secondo questa visione gli individui possono essere persuasi dal grado di coerenza e di logicità che un discorso razionale impone. Non è
un caso che tale modello abbia dato adito ad ulteriori studi e ricerche, soprattutto all’interno dei laboratori di ricerca della prima metà del Novecento, con
l’obiettivo di individuare tutti gli elementi della catena logica che porta alla
persuasione.
Per fortuna anche se successivamente, l’attenzione si è spostata in modo graduale dal messaggio al destinatario, al peso delle differenze individuali ed al
potente ruolo delle variabili cognitive e sociali nella determinazione del comportamento. Non a caso è rilevabile un interessante passaggio da teorie come
quella sugli effetti limitati ad altre più articolate e complesse come quella degli
“uses and gratifications”, che vedono il passaggio ad un pubblico “attivo”.
La domanda si è così spostata da “cosa fanno i media al pubblico?” a “cosa fa
il pubblico con i media?”
In fondo il senso e il significato che diamo alle cose guidano, a volte inaspettatamente, il nostro modo di percepire la realtà. Una realtà che non sembra più
data una volta per tutte bensì costruita di volta in volta dai processi di simbolizzazione e dai significati che noi stessi gli attribuiamo. In questo processo di significazione il contesto sociale e culturale in cui ci troviamo, le emozioni e le
motivazioni influenzano profondamente il modo di percepire la realtà. Il sistema della attese interne costituisce l’interiorizzazione dei modelli di cultura,
cioè il consolidato tra la propria personalità e le proposte socioculturali diffuse
e condivise (Siri, 1995).
Questo processo sedimentato rappresenta una vera e propria guida capace di
influenzare il modo di percepire la realtà esterna, il modo attraverso cui costruiamo categorie dotate di senso (il nostro senso condiviso con gli altri), anche se questo processo di guida non può essere inteso come sinonimo di processo necessariamente razionale, calcolato e deduttivo.
Lo specifico di questi sistemi interiorizzati è il loro divenire automatici guidando il nostro modo di adattamento all’ambiente e guidando a volte le nostre scelte senza che se ne abbia la “consapevolezza”. Questo modo di intendere la comunicazione persuasiva e le dinamiche con il soggetto target non sostituisce
ma si integra con la mole di dati e di ricerche relative agli elementi di base del-
Scienza, ricerca, metodo 29
la persuasione come quelli studiati da un gruppo di ricerca rimasto storico nella
storia della psicologia sociale: il gruppo di Yale.
Nel prossimo paragrafo ci limiteremo a riportate i principali risultati di
quest’area di ricerca con la considerazione che tali dati valgono in relazione al
contesto ed alle specifiche condizioni in cui si può trovare il soggetto target.
6. Lo studio dei singoli elementi persuasivi
La fase classica della ricerca aveva indagato sulle caratteristiche di credibilità,
di somiglianza, di prestigio, di autorevolezza e di disinteresse della fonte
nell’analizzare il potere persuasivo sui processi decisionali degli individui.
Si tratta di aspetti che sono stati attentamente studiati dalla scuola di Yale, che
ha sviluppato un modello di studio della persuasione analizzando con attenti
impianti sperimentali, l’influenza che le caratteristiche dell’emittente, del messaggio e del ricevente avevano nel mediare gli effetti delle comunicazioni
mass-mediali. In particolare questo gruppo si è preoccupato di analizzare gli
effetti della credibilità della fonte d’informazione sull’elaborazione del messaggio.
Di grande interesse è stata non solo la scoperta dell’efficacia della fonte ma anche il rilievo che la credibilità della fonte stessa, a parità di contenuti del massaggio, non aveva effetti immediati sul processo di comprensione, mentre influenzava il cambiamento dell’atteggiamento, anche se l’effetto era di breve
durata. Kelman e Hovland (1953) chiamarono questo effetto latente, pensando
che i soggetti dopo un certo periodo di tempo tendono a dimenticare le caratteristiche e l’identità della fonte del messaggio. Secondo gli autori con il trascorrere del tempo si tende a dissociare fonte da contenuto. Altre variabili studiate
dal gruppo di Yale riguardavano il soggetto destinatario del messaggio. La sua
personalità e suscettibilità alla persuasione, oppure variabili di struttura del
messaggio come la sequenze delle argomentazioni, ossia i cosiddetti effetti
primacy e recency, la presenza di conclusioni esplicite o implicite, l’efficacia
dei contenuti minacciosi.
Nello specifico i risultati sull’uso della paura risultarono interessanti e inaspettati. Secondo i dati di ricerca gli autori trovarono che i richiami alla paura pote-
30 Comunicare un’opera d’arte
vano aumentare o inibire la risposta ad una pubblicità ed influenzare il processo
decisionale. In alcuni casi il fruitore del messaggio è motivato a seguire il consiglio dato in una pubblicità per evitare una situazione spiacevole. E’ stato riscontrato che l’uso della paura ha un efficace risultato se oltre all’informazione
“paurosa” viene promossa una soluzione che sia percepita realmente e facilmente applicabile per scongiurare gli effetti spiacevoli (Mannetti, 2002). E’ stato inoltre riscontrato un diverso effetto positivo dell’uso persuasivo della paura
in funzione del grado di paura che un messaggio contiene: quando la paura è
elevata (si pensi ad esempio alla campagna pubblicitaria aggressiva sul problema del tumore al seno o sui rischi di contrarre l’AIDS) le persone possono
respingere le informazioni, selezionandole, per difendersi dalla minaccia che
esse contengono (Aspinwall e Brunhart, 1996, Witte, 1998), mentre quando la
paura è moderata le persone possono più facilmente sentirsi coinvolte e dedicare maggiore attenzione alla questione (Mantovani, 2003; Rogers e PrecticeDunn, 1997).
Dalle ricerche effettuate risulta in modo del tutto controintuitivo che prospettare conseguenze catastrofiche produce cambiamenti di atteggiamento verso posizioni che consentono di evitare tali conseguenze più lievi rispetto a quanto
avviene prospettando sviluppi futuri negativi, ma meno drammatici. Questi dati
sono di grande importanza ed utilità nel campo della comunicazione sociale e
nella promozione id scelte comportamentali attente alle situazioni di disagio e
di difficoltà E’ questo un campo di analisi dei processi persuasivi che si sta sviluppando in maniera significativa anche per ovvi motivi storici, culturali ed
economici: il procedere della crisi del welfare state (Barbetta 1996, Boccacin,
1993, Fiorentini, 1992), lo sviluppo di un impegno sempre più articolato
nell’area del disagio da parte delle sempre più numerose strutture del non profit
ma soprattutto la crescita di un maggiore impegno sociale personale nella attività di volontariato, non più strettamente legato a quel senso civico e sociale
delle società collettive, quanto piuttosto correlato all’esigenza più specificatamente individuale di un impegno considerato prima di tutto personale (sentirsi
bene aiutando gli altri) e solo successivamente finalizzato a rispondere ad
un’esigenza sociale e comunitaria (Siri, 2001; Fabris, 2003).
La comunicazione sociale è divenuta un interessante ambito di studio e di analisi dei processi di persuasione. Tuttavia nonostante diversi studi abbiano offer-
Scienza, ricerca, metodo 31
to interessanti indicazioni per rendere più efficaci i messaggi persuasivi in questo ambito, queste spesso vengono disattese. Basti pensare alle politiche di comunicazione nel campo della sicurezza sul lavoro o sulla sicurezza stradale per
ritrovare scoprire che molti messaggi ottengono risultati contrari ai propri propositi.
Oltre alla semplice ripetizione del messaggio, che si ricollega all’importanza
dell’euristica della disponibilità, un messaggio persuasivo non dovrebbe fare
affidamento alla tensione e alla paura, quanto piuttosto enfatizzare risultati positivi associati al cambiamento di un particolare comportamento. Il riferimento
alla paura in questo ambito comunicativo è legato al tema che caratterizza spesso questo tipo di comunicazione ed a volte viene utilizzato senza pensare agli
effetti che potrebbe avere nel generare difese percettive piuttosto che attirare
l’attenzione. Ancora troppo spesso diversi messaggi tendono a enfatizzare le
conseguenze negative di un comportamento piuttosto che presentare modelli
comportamentali adeguati.
Per essere realmente efficace ed influenzare i processi decisionali il messaggio
dovrebbe, inoltre, soffermarsi sull’indicazioni di quali siano le specifiche procedure e le necessarie competenze per risolvere i problemi piuttosto che offrire
informazioni generali sul tema e sui pericoli (Parrot, Monahan, Ainsworth e
Steiner, 1998): nel campo della prevenzione dell’AIDS alcuni autori sostengono che si è data eccessiva enfasi sull’informazione del problema e ancora indicazioni insufficienti sui comportamenti da adottare come dimostrato da una
ricerca su circa 33 paesi (Johnson Flora, e Rimal, 1998). Inoltre un messaggio
di questo tipo risulta ancora più persuasivo se riesce spingere l’audience a comunicare, condividere e discutere del problema con altre persone (Hafstad e
Aaro, 1997).
Il principio secondo il quale la discussione id un messaggio e la sua difesa durante un confronto dialettico con gli altri facilita l’adozione delle scelte e dei
comportamenti riportati nel messaggio (Parrot, Monahan et al. 1998).
E’ questo un tema che è stato studiato e approfondito da Leon Festinger (1957)
e dalla teoria della dissonanza cognitiva.
6.1. Persuasione e dissonanza cognitiva
32 Comunicare un’opera d’arte
Il contributo offerto da Festinger rende sempre più condivisa l’idea secondo la
quale l’efficacia del messaggio sui processi decisionali e sul comportamento
non può essere valutata in assoluto, prendendo in considerazione le sue argomentazioni, la fonte più o meno credibile, l’organizzazione dei contenuti, ma
deve essere rapportata alle sue capacità di ridurre una situazione di disagio,
come la dissonanza.
La dissonanza cognitiva, che nasce dal contrasto tra un atteggiamento e un
comportamento o tra due atteggiamenti, produce una condizione di disagio che
spinge l’individuo ad adottare tutte le possibili soluzioni per creare uno stato di
coerenza, di equilibrio e conseguentemente di “benessere”. Secondo questa teoria, se una persona si trova ad agire alcuni comportamenti o a dichiarare alcune
opinioni contrarie ai propri atteggiamenti o credenze, proverà uno stato di tensione spiacevole dovuta alla dissonanza tra il proprio comportamento o
l’opinione manifestata e il proprio atteggiamento.
Come dimostrato dalle ricerche di Festinger tale forma di dissonanza verrà
percepita se i comportamenti o opinioni incoerenti sono stati dettati da libera
scelta o se le persone sono state indotte a credere che le loro scelte siano state
fate autonomamente. Se non vi è una forza esterna che costringe ad agire autonomamente è più difficile giustificare a se stessi e agli altri un comportamento
incoerente, soprattutto in un contesto sociale e storico che fa della coerenza e
della non contraddizione uno stile di vita accettato e legittimato.
In questo caso per porre fine a tale stato di tensione spiacevole causata da questa forma di incoerenza la persona sarà portata a trovare plausibili soluzioni e
giustificazioni: dalla modifica dei propri atteggiamenti, all’evitamento delle informazioni potenzialmente dissonanti, alla ricerca di sostegni argomentativi per
supportare la decisione presa.
6.2. Le fasi della comunicazione persuasiva
William McGuire (1964) contrariamente a questo gruppo di studiosi, ha cambiato il punto di osservazione focalizzandosi non solo sull’efficacia della persuasione, ma sulle resistenze e studiando il processo persuasivo secondo un
Scienza, ricerca, metodo 33
percorso a tappe. Secondo McGuire si possono individuare sei fasi di sviluppo
del processo persuasivo:
1. fase di esposizione al messaggio;
2. fase di attenzione;
3. fase di comprensione;
4. fase di accettazione o rifiuto;
5. fase di persistenza del cambiamento (quando avvenuto):
6. fase di azione sulla base di nuove ipotesi.
La persuasione risulta dunque includere sia aspetti di percezione, decodifica,
rappresentazione e comprensione di un messaggio, che aspetti di accettazione,
inclusione e cambiamento del sistema degli atteggiamenti dell’interlocutore. La
conclusione di McGuire, per alcuni aspetti un po’ stereotipale, è che solo quei
messaggi che inducono nuovi atteggiamenti e comportamenti possono essere
definiti “persuasivi”1.
L’aspetto più interessante è relativo alle caratteristiche di personalità che potevano facilitare il percorso persuasivo ed influenzare le decisioni. McGuire trovò che riceventi con un alto grado di autostima erano più disposti a prendere in
considerazione il messaggio anche quello più contro-attitudinale e al contempo
erano meno inclini a cedere a favore delle nuove indicazioni, perché certi e
soddisfatti delle loro convinzioni e dei loro atteggiamenti. Secondo
quest’analisi i soggetti maggiormente influenzabili nei loro processi decisionali
erano quelli caratterizzati da moderati livelli di autostima
Diversa la prospettiva di un altro studioso, Kapferer (1982), che, non segue un
ideale percorso che un messaggio deve compiere per diventare persuasivo, riferisce il fenomeno della persuasione a tutto ciò che una persona ricevente fa di
un certo messaggio, piuttosto che a tutto ciò che un messaggio fa a quella stessa persona.2
Il suo modello pone le seguenti tappe necessarie affinché l’effetto persuasivo
possa realizzarsi:
• fase di esposizione al messaggio;
1
W. J. McGuire,The Nature of attitudes and attitude change, in C. Lindzey e E. Aronson (a cura di), The Handbook of Social Psychology, vol VIII, 1969.
2
J. N. Kapferer, Le vie della persuasione. L’influenza dei media e della pubblicità sul
comportamento, ERI, Torino, 1982.
34 Comunicare un’opera d’arte
•
•
•
•
•
fase di decodifica;
fase di accettazione;
fase di persistenza temporale nel sistema cognitivo dell’individuo;
fase della conversione in azione;
fase di persistenza dell’azione nel comportamento ovvero creazione di
un nuovo atteggiamento.
Secondo Kapferer, il cambiamento di atteggiamento e l’influenza sui processi
decisionali conseguente all’accettazione di un messaggio persuasivo sarebbe
dovuto non tanto al contenuto del messaggio in sé, quanto al contenuto dei pensieri elaborati dal ricevente in risposta allo stimolo proveniente dal messaggio.
Seguendo una rassegna storica dei modelli psicologici della persuasione, quello
del gruppo di Yale risulta il più serio e sistematico tentativo di proporre un modello di apprendimento del messaggio persuasivo in ottica cognitivocomportamentale. Secondo il modello elaborato da Hovland, importante esponente del gruppo, la comunicazione esercita una influenza sul sistema di convinzioni del soggetto quando realizza quattro fondamentali passaggi di un processo psicologico complesso. Queste sono le condizioni che devono essere
soddisfatte:
• il messaggio deve attirare l’attenzione del ricevente: i messaggi che
sono ignorati non possono persuadere;
• le argomentazioni contenute nel messaggio devono essere comprese
dal ricevente: qualsiasi sia la natura del messaggio, le argomentazioni
in esso contenute devono rendere esplicite le ragioni di chi lo ha prodotto;
• chi riceve il messaggio deve, non solo comprendere le argomentazioni
in esso contenute, ma anche accettarle come vere e farle proprie: scopo
del persuasore è quello di proporre e far ritenere al ricevente argomentazioni che vengano in mente nel posto e nel momento opportuno;
• la persuasione diventa efficace quando il ricevente ottiene un incentivo
per il fatto che fa propri i contenuti del messaggio.
A distanza di tempo è possibile affermare che i passaggi di tale processo non
sempre si realizzano: diverse evidenze empiriche dimostrano la difficoltà a generalizzare la capacità esplicativa del modello a tutti i processi persuasivi. Solo
Scienza, ricerca, metodo 35
per fare un esempio basta soffermarsi sulle ricerche empiriche secondo le quali
appare sempre più evidente che i processi di influenzamento riguardano il lavoro preattentivo (la presenza di schemi o di aspettative che influenzano
l’attenzione e la percezione del soggetto prima di entrare nel merito
dell’elaborazione), il momento di generazione delle categorie interpretative
della realtà. Questi processi risultano poi più intensi quando coinvolgono l’area
dell’identità personale e della rappresentazione che vogliamo dare di noi stessi.
L’importanza del grado di coinvolgimento, determinato da bisogni o specifici
desideri, ha assunto un ruolo significativo in uno dei modelli interpretativi più
utilizzati in ambito persuasivo. Si tratta di un modello che ha il merito di sottolineare come i processi di persuasione siano condizionati dal livello di involvement “in caso di basso involvement, cambiano prima le credenze e i comportamenti e poi gli atteggiamenti, mentre in caso di alto involvement cambia
prima la prospettiva da cui si guarda l’esperienza (cioè cambiano i criteri di attribuzione di senso) e poi le credenze, l’atteggiamento e il comportamento.
Come si può notare, dunque, il modello rappresenta un modo ancora debole ma
già sintomatico di prendere le distanze dalla linearità atteggiamento – comportamento che per decenni ha caratterizzato il paradigma di ricerca dominante”
(Siri, 2004, pag. 83). Secondo questo modello sul coinvolgimento allora è possibile operare una importante distinzione tra le situazioni di persuasione che si
realizzano quando chi riceve il messaggio pensa con convinzione ai contenuti
del messaggio stesso e situazioni in cui tale partecipazione è meno attiva. La
qualità e la quantità delle risorse di pensiero dedicate alla presa in carico del
messaggio è allora una variabile cruciale nel determinare l’accettazione della
comunicazione e nel produrre un eventuale cambiamento di atteggiamento del
soggetto. In questa prospettiva la teoria della risposta cognitiva proposta da
Greenwald (1969) analizza le condizioni che si realizzano quando è presente la
partecipazione attiva del soggetto al processo di persuasione. La persuasione
dipende dai meccanismi attraverso i quali il messaggio è interpretato e dal modo in cui il rispondente reagisce, e ciò varia enormemente in relazione alle caratteristiche personali dell’individuo, alla situazione di persuasione e al tipo di
appello inviato.
La tattica di persuasione che ha la maggior probabilità di risultare efficace è
quella che dirige e canalizza le decisioni in modo tale che il recettore del mes-
36 Comunicare un’opera d’arte
saggio rifletta sul problema in una maniera favorevole al punto di vista del comunicatore: il contatto con un soggetto da persuadere non deve essere di tipo
generico. Chi si propone di influenzare gli atteggiamenti e le decisioni di altre
persone deve conoscere il modo in cui queste organizzano le loro conoscenze.
Prima di persuadere, dunque, è opportuno conoscere meglio l’audience, ossia
sintonizzarsi rispetto al suo modo di pensare, usare le stesse immagini, metafore, tipi di argomentazione, esprimere i sentimenti e le emozioni con lo stesso
vocabolario.
7. Oltre l’analisi degli elementi: il ruolo dei processi di elaborazione
Il lavoro del gruppo di Yale, come dicevamo, è stato certamente il più serio e
sistematico tentativo di proporre un modello di spiegazione del messaggio persuasivo. Tuttavia a distanza di tempo possiamo dire che i passaggi utilizzati per
descrivere la capacità persuasiva del messaggio e la sua influenza sui processi
decisionali non sempre si realizzano. Non sempre, infatti, gli argomenti devono
necessariemnte essere compresi perché si possa parlare di persuasione e di influenza delle decisioni: per esempio i bambini non comprendono buona parte
delle argomentazioni del messaggio pubblicitario eppure non possiamo dire che
non siano influenzati dal messaggio pubblicitario come dimostrano diverse ricerche (Rossiter e Robertson, 1974; Golberg, Gorn e Gibson,1978; Gorn e
Goldbeg, 1974); un altro esempio ci viene offerto dalle nostre abitudini
d’acquisto che nella maggior parte delle volte non sono pianificate – nelle vendite con sconti il 62% delle persone compra almeno un articolo sulla base di
scelte istintive (Arcuri e Castelli, 1996)
Un messaggio costruito con tutti gli accorgimenti suggeriti dalle ricerche dle
gruppo di Yale e capace di mettersi nella prospettiva più familiare per le persone verso cui è rivolto il messaggio, ha buone probabilità di essere accettato,
a condizione che il fruitore sia in grado di analizzarlo con sistematicità e razionalità. In questo caso il processo di persuasione si realizza in maniera profondamente diverso in funzione del grado di attenzione e di coinvolgimento verso i
contenuti del messaggio. Il modello della probabilità di elaborazione Elm (Elaboration Likelihood Model) di Petty e Cacioppo (1983) considera la persuasione come processo intenzionale che ha l’obiettivo di cambiare gli atteggiamenti
Scienza, ricerca, metodo 37
o i comportamenti di un individuo senza l’uso della forza o dell’inganno, e che
può avvenire lungo due percorsi differenziati, due vie: quella via periferica e la
via centrale3.
MESSAGGIO
Motivazione ad elaborare l’informazione
no
(grado di coinvolgimento)
Presenza di uno stimolo
periferico
si
Capacità di elaborare
L’informazione
no
si
si
Percorso centrale al
cambiamento
Percorso periferico al
cambiamento
Fonte: J.T. Cacioppo e R.E. Petty (1993)
Secondo Petty e Cacioppo Il modello spiega che se il soggetto ricevente è motivato ad elaborare il messaggio, è quindi disposto a collaborare e ne ha le capacità, si ottiene un’elaborazione di tipo centrale, mentre se una delle due condizioni (motivazione e capacità) non si avvera, si ottiene solo un’elaborazione
periferica di piacevole intrattenimento con effetti meno duraturi. La pubblicità
3
J.T. Cacioppo, R.E. Petty, Central and peripherical routes to persuesion, 1983, in L.
Percy, A. Woodside, Advertising and consumer psychology, Lexintong Brooks.
38 Comunicare un’opera d’arte
lavora su questi due tipi di percorso: quella centrale e quella periferica. La prima prevede un’attenta elaborazione cognitiva delle informazioni e della alternative secondo il modello razionale e lineare che abbiamo descritto sopra. questo processo centrale, che richiede energia e attenzione in genere viene attivato
in funzione anche delle peculiarità della situazione e delle specificità della persona. Infatti le persone molto motivate ad elaborare attentamente le informazioni della situazione o il messaggio pubblicitario tenderanno ad attivare il percorso centrale soprattutto se sono e si percepiscono anche competenti in materia. Ovvero se hanno le competenze cognitive adeguate per procedere a questo
tipo di elaborazione. La seconda via, quella periferica, è caratterizzata da un
minore impegno nell’elaborazione delle informazioni e della presa di decisione.
In questo caso la decisione viene presa in maniera quasi automatica, secondo
abitudini o comunque facilmente determinata da pregiudizi, da attese, così come da influenze esterne. Non vi è un’attenta riflessione sulle informazioni e
sulle possibili alternative.
Quando la motivazione e la capacità cognitiva sono ridotte è più probabile che
venga seguita la via periferica. Questa distinzione dovrebbe spingere l’uomo di
marketing a prestare attenzione al grado di coinvolgimento e alle competenze
del proprio gruppo target perché queste informazioni, secondo Petty e Cacioppo (1983) permettono di capire se il messaggio deve essere strutturato per
un’attenta elaborazione delle informazioni o se può solo agire a livello periferico, puntando così sugli aspetti di persuasione più superficiali come la gradevolezza della fonte piuttosto che la trattazione del contenuto e la qualità degli argomenti.
Questa teoria ha spinto molti studiosi a valutare il grado di influenzamento nei
processi decisionali di alcune variabili come la qualità degli argomenti,
l’esperienza, il prestigio e la gradevolezza della fonte e il coinvolgimento delle
persone (valutato in funzione della situazione misurando per esempio aspetti
oggettivi come l’affaticamento e la distrazione) o aspetti soggettivi come
l’interesse e la motivazione. Se una persona è particolarmente coinvolta e motivata a prendere una specifica decisione, di fronte ad un messaggio probabilmente attiverà il suo percorso centrale. Se non è particolarmente interessata e
motivata tenderà ad attivare il percorso periferico risparmiando energie personali nell’analisi del messaggio o del fenomeno oggetto di comunicazione. Inol-
Scienza, ricerca, metodo 39
tre la percezione della propria abilità nella comprensione di un argomento influenzerà la scelta del percorso centrale o periferico.
Diverse ricerche hanno dimostrato il ruolo di fattori motivazionali come per
esempio la rilevanza personale (Petty, Cacioppo e Goldman, 1981) o la conoscenza dell’argomento (Chaiken, 1980) così come è stato dimostrato il ruolo
dell’abilità e fattori personali come per esempio la distrazione (Petty, Wells e
Brock, 1976), la ripetizione del messaggio (Cacioppo e Petty, 1989) l’urgenza
temporale (Kruglanski e Freund, 1983), la complessità del messaggio (Hafer,
Reynolds e Obertynski, 1996).
Anche secondo Chaiken (1980) ogni individuo nell’attribuzione di un significato ad un messaggio o a un prodotto può utilizzare due diversi approcci o due
diversi processi cognitivi e decisionali: un processo centrale che richiede tempo
e sforzo per elaborare attentamente la situazione e le diverse alternative e un
processo di elaborazione euristica che utilizza semplici regole decisionali, apprese durante le esperienze precedenti o determinate dalle influenze sociali che
richiede uno sforzo limitato. L’elaborazione euristica è in altre parole un processo cognitivocce procede dall’alto vero il basso in quanto utilizza strutture
cognitive precedenti, aspettative e credenze, opinioni e pregiudizi per elaborare le nuove informazioni
L’elaborazione euristica è più circoscritta rispetto alla via periferica di cui hanno parlato Petty e Cacioppo (1983) perché l’accezione “periferico” faceva riferimento a tutto ciò che non era elaborazione attenta e dettagliata delle informazioni secondo un processo cognitivo e razionale. Tale modello tuttavia prevede
che i due processi siano mutuamente escludenti. Questo aspetto di mutua esclusione è valido solo per il processo e non per le variabili del processo. Il modello
ELM, infatti, prevede la possibilità che la stessa variabile possa attivare al contempo un percorso centrale o periferico. Uno degli errori più frequenti
nell’interpretazione di questo modello è stato quello di credere che questo limiti alcune variabili ad elicitare una via piuttosto che un’altra (Booth-Butterfield
e Welbourne, 2002).
E’ bene soffermarsi un solo istante su questo aspetto poiché secondo alcuni
ricercatori è possibile fare riferimento a variabili capaci di attivare, per le loro
caratteristiche, quasi esclusivamente la via centrale o identificare una lista di
variabili “centrali” e una lista di variabili del messaggio esclusivamente perife-
40 Comunicare un’opera d’arte
riche (Allen e Reynolds, 1993; McGarty, Haslam, Hutchinson e Turner, 1994;
Stiff, 1986). Il modello presentato da Petty e cacioppo di fatto prevede che la
stessa variabile del messaggio (per esempio l’attrazione personale) possa attivare indifferentemente la via centrale o periferica. Una medesima variabile
può stimolare la via periferica, essere argomento di analisi o funzionare da moderatrice. Può anche determinare degli errori (bias) durante il processo decisionale (Petty e Cacioppo, 1984; Petty, Kasmer, Haugtvedt e Cacioppo, 1987, Petty e Wegener, 1999). Per esempi l’attrazione è stata studiata come variabile capace di attivare la via periferica come dimostrato da Cialdini (1987) e da Chaiken (1987). Questa variabile può, tuttavia fungere da moderatrice nel processo
di elaborazione delle informazioni (Puckett, Petty, Cacioppo e Fiscer, 1983).
Shavitt at al. hanno dimostrato come l’attrattività era strettamente collegata al
valore di un prodotto in un messaggio promozionale attivando sia un percorso
centrale che periferico (Shavitt, Swan; Lowery e Wänke, 1994).
Il ruolo che una variabile può avere nell’attivare un percorso dipende dal contesto e dal grado di attivazione e di coinvolgimento verso il messaggio o verso il
prodotto.
In una situazione di alto coinvolgimento e di elevata motivazione l’attrazione
sociale potrebbe fungere da ulteriore elemento di valutazione per l’analisi specifica delle caratteristiche del prodotto e per l’analisi attenta del messaggio.
Senza considerare che la stessa variabile potrebbe favorire lo sviluppo di una
situazione emotiva (mood) favorevole alla valutazione secondo la via centrale
del messaggio. In questo caso le variabili avrebbero una funzione moderatrice,
cosicché quando l’attivazione è bassa le variabili possono influenzare gli atteggiamenti fungendo da stimolo, nel caso il coinvolgimento sia moderato le variabili possono influenzare il processo incrementando o riducendoli grado di
coinvolgimento, nel caso in cui il coinvolgimento è elevato le variabili del
messaggio possono servire come ulteriori argomenti o stimoli per eventuali errori (bias) nel processo si elaborazione. Non si può avere congiuntamente un
processo periferico e centrale.
Il modello di Chaiken, contrariamente, prevede la possibilità che i due processi
si verifichino contemporaneamente. In altre parole chi riceve il messaggio può
avere la motivazione e la capacità di seguire un’elaborazione sistematica e allo
stesso tempo , se sono disponibili potrebbe lasciarsi guidare da pregiudizi o da
Scienza, ricerca, metodo 41
processi euristici (che descriviamo dettagliatamente più avanti). Il giudizio finale e il conseguente cambiamento dell’atteggiamento potranno essere influenzati in modo interattivo dalle due modalità di elaborazione. La scelta di un processo rispetto all’altro è infatti un falso problema poiché il modo di reagire
dell’individuo non può essere così semplificato ma va visto sempre in maniera
sinergica, dinamica ed interattiva. A volte il processo potrà essere di tipo centrale o prevalentemente di tipo centrale, altre volte prevalentemente periferico,
con un’influenza forte dei processi euristici.
La scelta di un’auto per esempio sembra essere guidata prevalentemente da un
processo sistematico e centrale e di fatto è così. Ma non vi è alcun dubbio che
in questi processi di scelta entrano in gioco elementi decisionali legati alla nostra esperienza passata, ai nostri desideri, ai significati più o meno razionali che
attribuiamo a quella specifica scelta. Ciò è tanto più vero oggi a causa
dell’enorme sovrapposizione delle caratteristiche tecniche e delle prestazioni di
automobili della stessa categoria. Si assomigliano tanto profondamente che
l’influenza del processo comunicativo e la decisione ad acquistarne una vengono guidate soprattutto da aspetti simbolici, relazionali ed affettivi piuttosto che
dalla semplice valutazione costi benefici.
In realtà i processi decisionali automatici e controllati non possono essere intesi come disgiunti e mutuamente escludenti.
I processi controllati hanno una parte di automatismi, così come gli automatismi hanno elementi di consapevolezza. La complessità dei processi decisionali
non solo deve fare i conti con la presenza di processi non razionali o comunque
non coscienti, ma anche con la compresenza di processi automatici e processi
cognitivi controllati. In genere i processi automatici sono quelli che vengono
attivati più immediatamente, sono quei processi che forniscono la prima risposta che viene successivamente controllata e se necessario modificata, attraverso
uno sforzo cognitivo e un maggiore tempo per l’analisi della situazione o del
prodotto.
Tra i fattori capaci di stimolare un processo controllato e di stimolare un maggiore impegno energetico è possibile individuare la presenza di nuove informazioni incongruenti con gli schemi posseduti o con le aspettative, l’interesse della persona per eventuali giudizi esterni o la percezione di dovere rendere conto
della scelta ad altri o a se stessi. Tutti fattori che stimolerebbero un certo biso-
42 Comunicare un’opera d’arte
gno di accuratezza. Tuttavia la dimensione temporale, così come la stanchezza
e la mancanza di energie o l’influenza di interessi specifici (appunto il debole
coinvolgimento personale verso qualcosa o qualcuno) potrebbero ostacolare
l’avvio di un processo di analisi razionale dettagliato. Questi aspetti sono stati
alla base di molte ricerche e di molti dibattiti in questi ultimi anni.
8. La ricerca sulle rappresentazioni sociali e comunicazione pubblicitaria:
alcuni esempi e considerazioni
Il modo di presentare un particolare fenomeno attraverso i mass media, come
abbiamo detto sopra, può influenzare il giudizio che le persone fanno del fenomeno stesso. I canali di comunicazione hanno, pertanto, un’importanza molto maggiore che non quella di servire semplicemente da veicolo di conoscenza,
sebbene anche questo aspetto non sia banale. Inoltre il modo stesso in cui viene
trasmessa questa conoscenza può diventare un elemento rilevante dal punto di
vista della costruzione delle rappresentazioni sociali e dei valori socialmente
condivisi. Ecco perché lo studio empirico delle rappresentazioni sociali e della
costruzione dei valori individuali attraverso i processi di comunicazione trova
fondamento sia nella ricerca psicosociale (Farr e Moscovici, 1984) che nella
riflessione sociologica (Wolf, 1985; Ottaviano, 2002). Negli studi sulla comunicazione, l’analisi del linguaggio dei media può essere utile per capire in quale
modo i messaggi sono organizzati per trasmettere significati, per dare senso e
per influenzare il comportamento degli individui.
A partire da queste considerazioni un interessante lavoro di ricerca svolto in
collaborazione con la Fondazione IULM ha avuto come finalità principale
l’analisi delle rappresentazioni sociali relative ad alcuni temi sociali:
l’abbandono dei minori e l’adozione e la disabilità. Nello svolgimento di questa
analisi ci si è serviti di tecniche di analisi del contenuto di tipo linguistico, psicosemiotico e psicosociale (Arcuri e Castelli 1996; Mantovani e Spagnolli,
2003), con l’intento di misurare e valutare anche l’ammontare di unità di comunicazione prodotte da diverse fonti di informazione (stampa, cinema e pubblicità). Lo scopo principale di questo tipo di analisi è di studiare il contenuto
Scienza, ricerca, metodo 43
manifesto delle comunicazioni in modo da individuare l’intenzione della fonte,
partendo dalla considerazione che i comportamenti, i valori, gli atteggiamenti
sono in parte influenzati dal modo in cui la fonte associa ad un problema o alla
categoria rappresentata concezioni e significati logici ed affettivi.
L’importanza del ruolo giocato dalla comunicazione sociale nella proporzione
di certi stili di vita, di certi valori e di certe rappresentazioni sociali appare già
dalla letteratura centrale nella loro strutturazione e conservazione (Jodelet,
1992). Gli strumenti di informazione collettiva contribuiscono sempre di più a
costruire l'opinione dei cittadini (Gasparini e Ottaviano, 2005) ed influenzarne i
valori. Le campagne di comunicazione sociale non sono esenti da tale responsabilità: attraverso comunicazioni mirate e persuasive propongono specifici
modelli di identificazione, cercando di fare leva su particolari valori e promuovendo specifici comportamenti. La domanda operativa è quindi diventata: quali
mezzi di informazioni contribuiscono maggiormente alla costruzione di una
rappresentazione condivisa del tema dell’abbandono? Quali sono i valori sui
cui si fa affidamento (in maniera più o meno consapevole) nella trattazione di
questo tema? Abbiamo ritenuto che un panel di mezzi differenti potesse fornire
questa informazione.
Accettando l’impossibilità di avere una informazione completa su un qualsivoglia fenomeno (Silvermann, 2000) abbiamo ritenuto di poter procedere con un
processo di triangolazione (per una definizione classica Denzin, 1978 ma soprattutto Miles e Huberman, 2003). Nello specifico la triangolazione dei dati
(Mantovani e Spagnolli, 2003) che richiede l’uso di diversi tipi di dati provenienti da ambienti e momenti diversi per l’analisi di uno stesso fenomeno e la
triangolazione dei ricercatori che richiede la presenza sul campo di diversi ricercatori che discutono di somiglianze e differenze di approccio al fine di individuare punti di convergenza e di divergenza e di verificare anche eventuali
biases personali. Si è così utilizzato differenti fonti di informazione costruite
con obiettivi informativi differenti e analizzate attraverso metodi e tecniche differenti.
Le fonti di informazione utilizzate sono state: per l’analisi dell’abbandono i
quotidiani a diffusione nazionale; i film e gli spot pubblicitari; per l’analisi della rappresentazione della disabilità gli spot sociali nazionali ed internazionali, i
film e la fiction (quest’ultima ancora in corso d’opera). L’utilizzo di metodi e
44 Comunicare un’opera d’arte
tecniche differenti si è reso necessario per poter: ottenere informazioni confrontabili; preservare lo specifico di ogni media; sfruttarne le particolarità. Rinviando la discussione sulla metodologia e sui risultati in maniera dettagliata in
pubblicazioni specifiche (Russo et al. 2007.) ci soffermiamo qui brevemente
sugli elementi di maggiore evidenza ed interesse per la nostra discussione. Per
quanto riguarda il tema dell’abbandono dell’infanzia la rappresentazione che ne
viene data è lontana dalla reale descrizione del fenomeno. In genere il tea
dell’abbandono viene, infatti, rappresentato come connesso ad eventi tanto
drammatici da risultare distante o comunque di non pertinenza dell’audience
italiana.
L’abbandono dall’analisi del contenuto della carta stampata (137 articoli di
quotidiani estrapolati da circa 1000 articoli sull’infanzia dal gennaio del 2005 a
giugno del 2006) è strettamente legato al tema dell’infanticidio, del “neonato
abbandonato nei cassonetti”, di un problema di pertinenza prevalentemente della figura materna (la parola padre non risulta con la medesima frequenza nella
carta stampata così come il padre è mal rappresento negli spot e nei film analizzati). L’assenza di vocaboli affettivamente connotati, tradisce una rappresentazione della famiglia non come luogo di un possibile recupero della dimensione affettiva, persa o violata con l’atto dell’abbandono, ma soltanto come contesto in cui è possibile mettere in atto una reale politica di adozione, offrendo una
concreta alternativa all’isitituzionalizzazione. Infine il riferimento alle istituzioni nei testi analizzati è debole; si può affermare che le istituzioni siano scarsamente rappresentate quando al centro della narrazione c’è il problema (abbandono) e chi vive in prima persona questo problema (famiglia) cercando di
porvi un rimedio (adozione).
Le istituzioni sono dunque identificate o nelle strutture (non governative) come
le associazioni o nella “legge” astratta e impersonale che, con il dovuto sguardo
al contesto da cui sono state estratti questi termini, si rivela come un ostacolo
che le famiglie adottive devono affrontare. La stessa rappresentazione si rileva
nella ricerca svolta sulla rappresentazione sociale della disabilità (analisi di
spot e film) in cui le istituzioni vengono rappresentate in maniera antagonistica,
eccessivamente burocratizzata, lontane e rigide.
L’analisi in questo caso è risultata molto interessante poiché la rappresentazione sociale della disabilità è ancora eccessivamente semplificatrice e distante dai
Scienza, ricerca, metodo 45
vissuti dei disabili (intervistati sul campo). Ancora oggi la disabilità viene sovra-rappresentata come un problema connessa alla trisomia cromosomica
(down) alla cecità, alla mancanza di udito o alla difficoltà di movimento (sedia
a rotelle). Le altre forme di disabilità sono asseentoi come assente è la disabilità
mentale negli spot analizzati ed estrapolati da una banca dati IULM di 26 mila
spot. La disabilità non solo è male rappresentata negli spot dedicati al tema ma
al contempo è bandita dagli altri spot commerciali. Di fatto dalla comunicazione pubblicitaria risulta che le persone con disabilità sono escluse e, in alcuni
casi, deliberatamente ignorate dalle agenzie pubblicitarie. Dall’analisi degli
spot disponibili nel database IULM (26 mila spot nazionali e internazionali,
commerciali e sociali) si registra una vera e propria negazione del ruolo delle
persone disabili come consumatori. Non risultano esserci spot commerciali con
il coinvolgimento di persone disabili, tranne in pochi e noti casi come per la
Nike. Sembra che ci sia una profonda paura di un effetto negativo
dell’immagine della disabilità sulla marca. Anche lo stile comunicativo è indicativo di come viene rappresentato il tema: nella comunicazione prevalgono o
lo stile “pietistico” in cui il disabile viene rappresentato in maniera triste, sofferente, in difficoltà oppure lo stile“eroico” (il genio) il cui il disabile è colui che
supera tutte le barriere (campione sportivo o nella vita). Entrambe le rappresentazioni rischiano di creare una immagine lontana dalla realtà ma ancora più
grave un mancato riconoscimento ed identificazione da parte dei disabili stessi.
Di fatto ciò che manca e che viene richiesto dagli stessi disabili è di presentare
la normalità (e i valori) della vita della persona con disabilità.
Ciò di cui si ha bisogno sono rappresentazioni obiettive, imparziali, senza verniciature, che riflettono la vita quotidiana dei disabili con tutte le sue luci ed
ombre. Inoltre da un punto di vista della programmazione televisiva, in genere,
occorrerebbe meno “ghettizzazione” nei programmi specialistici ed una maggiore rappresentazione e presentazione dei casi di disabilità vestiti del normale
alone di quotidianità. Lo scorso anno è stata firmata la Carta Internazionale dei
Diritti delle Persone con Disabilità in cui si sottolineano questi aspetti.
L’articolo 8 della convenzione espressamente sottolinea l’esigenza di presentare un’immagine corretta, positiva e di non ghettizzare la disabilità esclusivamente dentro programmi dedicati ma di presentarla nel rispetto delle persone,
delle loro capacità, della loro quotidianità. L’articolo richiede anche che le per-
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sone con disabilità possano essere coinvolte per le loro capacità anche per la
comunicazione al fine di rispettare quanto riportato dalla Convenzione ONU.
Dalla nostra analisi è possibile pertanto dare alcune indicazioni al fine di contribuire a costruire in termini comunicativi una corretta rappresentazione del
tema:
• ampliare sensibilmente la innalzare la visibilità e la presenza nei media indipendentemente dagli spazi dedicati;
• rifiutare una rappresentazione a “bassa potenzialità” ovvero mostrare
persone con disabilità in lavori di responsabilità o in posizioni di direzione al fine di ridurne gli stereotipi;
• Non servirsi solo dell’immagine della vittima o dell’eroe nella rappresentazione pubblicitaria (comunicazione sociale) e in altri contenitori
televisivi;
• Coinvolgere le persone disabili nei ‘ruoli di supporto’ e non solo in
quelli di protagonismo;
• Usare più spesso situazioni quotidiane che comprendono più persone
con disabilità, piuttosto che situazioni specificamente associate con
una particolare disabilità;
• Limitare l’uso di persone abili come difensori di persone con disabilità (l’uso dei testimonial è particolarmente frequente in Italia rispetto
ad altri contesti culturali)
• Servirsi anche di stili ironici o umoristici per affrontare le problematiche e sdrammatizzare la rappresentazione del fenomeno (nel rispetto
delle persone con disabilità, ovviamente);
• Nella comunicazione rispettare maggiormente i punti di vista delle
persone con disabilità e consultarsi con loro per fornire ritratti più autentici e credibili
• Valorizzare le abilità delle persone disabili nella comunicazione anche
attraverso il coinvolgimento attivo di professionisti dei media disabili
in tutti gli aspetti della produzione di programmi; a tal fine potrebbe
risultare funzionale promuovere l’accesso alle professioni e ai mestieri della comunicazione da parte delle persone con disabilità, attraverso
specifiche corsie di formazione e di inserimento lavorativo.
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Probabilmente seguendo queste indicazioni e quante già sono state prodotto
(cfr. le regole guida disponibili nel sito del Segretariato Sociale RAI) è possibile offrire una rappresentazione sociale corretta della disabilità.
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