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CAPITOLO PRIMO
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INTRODUZIONE E FONTI
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Sommario: 1. Periodizzazione storica del diritto romano. - 2. Breve sintesi della storia
costituzionale dalla fondazione di Roma (753 a.C.) a Giustiniano I (565 d.C.). - 3. Le fonti di
cognizione.
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1. PERIODIZZAZIONE STORICA DEL DIRITTO ROMANO
©
Es
se
Nei suoi tredici secoli di storia, compresi tra la fondazione di Roma (753 a.C.)
e la morte dell’imperatore Giustiniano I (565 d.C.) il diritto romano ha subito
profonde trasformazioni di cui siamo a conoscenza grazie alle fonti scritte e a
numerosi reperti di carattere storico e archeologico.
In dottrina si è ritenuto opportuno ripartire l’arco della storia romana in periodi
(cd. periodizzazione), per meglio comprendere le singole fasi che hanno caratterizzato l’evoluzione del diritto romano e degli istituti vigenti nelle diverse epoche.
La periodizzazione è un espediente di studio e, come tale, non ha limiti
temporali assoluti e indefettibili. Essa può dipendere anche dalle diverse forme di
analisi storica ed è, pertanto, da considerare del tutto orientativa, anche se fa
comunque riferimento ad eventi istituzionali di grande portata che hanno provocato
importanti cambiamenti nella storia della costituzione romana.
ht
Esiste tuttavia, per la storia del diritto romano, una periodizzazione di massima sulla quale si ritrova
l’accordo della dottrina:
ig
— periodo arcaico: va dall’VIII al IV sec. a.C., cioè dalla fondazione di Roma (754 o 753 a.C.), alle leggi
Liciniae Sextiae del 367 a.C. (con le quali si ammise che anche i plebei potevano essere eletti consoli
ed accedere alle più alte magistrature determinando, così, il pareggiamento politico delle classi).
In tale periodo (della prevalenza del patrizi) si distinguono due diverse fasi:
yr
— quella della monarchia (caratterizzata da istituti giuridici sacrali);
— quella di passaggio dalla monarchia alla repubblica (caratterizzata dalla entrata in vigore del
diritto “scritto”, rappresentato, in primis, dalle leggi delle XII Tavole).
C
op
È il periodo di formazione e di fioritura della civitas Quiritaria in cui in un primo tempo il diritto
aveva una natura essenzialmente orale, consuetudinaria e religiosa; con le leggi delle XII Tavole
si diede inizio alla codificazione, si formarono i primi istituti giuridici e si consolidò il ius civile
(derivante dalla fusione dell’originario ius Quiritium con il ius legitimum vetus, secondo la
terminologia di GUARINO).
Tale periodo si chiuse con una serie di lotte interne, contraddistinte da rivendicazioni della plebe
che condussero, come detto, all’emanazione delle citate leges Liciniae Sextiae, nel 367 a.C.;
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Capitolo Primo
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— periodo pre-classico: è il periodo del raggiunto pareggiamento delle classi e nascita della «Respublica nazionale». Esso va dalla metà del IV sec. a.C. (cioè dall’emanazione delle leggi Liciniae
Sextiae), fino al conferimento ad Augusto dei primi poteri costituzionali di princeps (27 a.C.).
S.
All’interno di questo periodo si distinguono due fasi:
— l’evoluzione delle istituzioni repubblicane fino al raggiungimento del loro massimo splendore;
— la crisi delle istituzioni repubblicane.
A seguito dell’espansione romana nel Mediterraneo (verificatasi a partire dalla seconda guerra
punica, 218-201 a.C.) si affermarono accanto al ius civile:
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— il ius gentium, che regolò i rapporti con gli stranieri; rapporti che, per l’evoluzione dei traffici,
si fecero sempre più frequenti e resero necessaria una disciplina giuridica autonoma più
elastica e pratica;
— il ius honorarium, complesso di norme create dal pretore per adeguare il diritto alla mutata
realtà sociale ed economica, superando il rigido formalismo proprio del ius civile e che dettava
regole anche per i popoli stranieri che entravano in contatto con l’Urbe;
ig
ht
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Es
se
— periodo classico: parallelo all’ascesa del Princeps ai vertici della Respublica (Principato). Va dal
I sec. a.C. (27 a.C) al III sec. d.C. (ascesa di Diocleziano, 285 d.C.).
È il periodo di massimo sviluppo del diritto e della giurisprudenza romana.
Si affiancano allo ius gentium, honorarium e civile, gli atti del Principe: mandata, edicta, rescripta,
decreta ed epistulae. Il diritto romano, grazie all’Editto di Caracalla (212 d.C.) che conferì a tutti
i cittadini dell’Impero la cittadinanza romana, assunse una portata universale, regolando uniformemente i rapporti di tutti i cittadini dell’Impero;
— periodo post-classico: va dal III sec. d.C. (ascesa di Diocleziano, 285 d.C.) al IV sec. d.C. (morte
di Giustiniano imperatore d’Oriente, 565 d.C.) (Dominato). Tale periodo fu caratterizzato da una
grave crisi delle strutture pubbliche e dal totale venir meno del sentimento di «romanità».
L’impero fu diviso in due tronconi, Oriente e Occidente, mentre i suoi confini cedevano di fronte
alle sempre più consistenti invasioni barbariche.
Molti istituti classici furono modificati dalla diffusione della religione cristiana e della sua etica,
molto diversa da quella tradizionale romana. Si assistette, così, alla fine della civiltà romana e del
suo diritto: la storia che segue riguarderà il «Diritto Bizantino» e il «Diritto Italiano».
Per quanto sia stato povero di giurisprudenza creativa, è proprio grazie a quest’ultimo periodo che
siamo venuti a conoscenza di gran parte della produzione della giurisprudenza classica e preclassica, attraverso la rielaborazione e le riedizioni di materiale dei periodi precedenti operate dai
giuristi postclassici.
Si segnala sotto questo aspetto l’attività di raccolta di massime giurisprudenziali e di brani delle
costituzioni imperiali compiuta da Giustiniano e trasfusa essenzialmente nei Digesta, nel Codex
e nelle Institutiones.
yr
2. BREVE SINTESI DELL’EVOLUZIONE COSTITUZIONALE DALLA
FONDAZIONE DI ROMA (753 a.C.) A GIUSTINIANO I (565 d.C.)
op
A) La Monarchia (753 a.C. - 509 a.C.)
C
Questa fase è caratterizzata dalla preminenza della figura del «rex», delle sue
attribuzioni e dei rapporti con gli altri organi: Senato e popolo riunito nei «comitia
curiata».
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Introduzione e fonti
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Particolarmente influenti nell’ordinamento di quel periodo furono i Collegi
Sacerdotali.
Nell’età della monarchia le principali fonti del diritto derivarono dall’attività
pontificales (vedi infra Cap. 3 par. 6), attività della quale restano poche tracce
riportate nelle XII Tavole.
Vigeva, comunque, uno strato originario di regole di diritto, di elaborazione
primitiva, derivante dal primo aggregarsi della collettività che, però, si intersecava
sempre e comunque con il potere religioso: nello stringere matrimonio, fare
testamento, contrarre un debito, ecc. occorreva sempre rifarsi alle regole sacrali
tipiche della comunità. Il mancato rispetto di esse significava porsi al di fuori del
“diritto” (ius) e, dunque, dalla protezione degli dei e del sentire collettivo; “il vissuto
magico-religioso contribuì in misura rilevante a far nascere il primo spazio
pubblico della città” (AMARELLI).
In tale epoca, inoltre, grande rilievo ebbero le leges regiae che derivavano dalla
diretta volontà del rex e che furono contrapposte, come comandi laici e militari,
al potere pontificale e religioso.
È improbabile che tali leges fossero raccolte per iscritto già dai primordi; più
attendibile l’ipotesi secondo la quale tale operazione fu fatta nel primo periodo
repubblicano.
B) La Respublica (509 a.C. - 27 a.C.)
A seguito della cacciata di Tarquinio il Superbo, inizia l’epoca repubblicana,
caratterizzata da profondi mutamenti nelle strutture politiche.
ig
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Tipiche istituzioni politiche repubblicane furono:
— i comitia centuriata (assemblea dei cittadini);
— le magistrature (con funzione di comando sostitutiva del potere monarchico);
— il senatus (assemblea ristretta costituita da persone illustri, con il delicato
compito di «consigliare» i magistrati).
Può parlarsi, nella “Respublica” di una Costituzione romana
basata sul “principio di divisione dei poteri”?
op
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Montesquieu evidenzia come la dialettica e la coesistenza di diversi e autonomi poteri (Senato,
legislature, assemblee popolari) finché durarono conferirono un assetto politico stabile alla
“Respublica” che riuscì sempre a ridimensionare i tentativi di abuso di potere.
Quando tale equilibrio fu rotto e alcuni politici cumularono le cariche pubbliche (consolato e
tribunali, ecc.) senza rispettare la temporaneità (Tiberio Gracco, Silla e Cesare, in primis) si
crearono le condizioni che portarono alla caduta della dialettica tra le istituzioni.
C
Il popolo, in età repubblicana, era composto esclusivamente da cittadini (cives). Nell’ordinamento
giuridico dell’età repubblicana, infatti, non tutti gli individui erano considerati cittadini: lo schiavo, pur
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Capitolo Primo
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essendo un individuo, non era cittadino, ma oggetto di proprietà del suo padrone: oggetto, quindi, di diritto
e non soggetto e come tale non era preso in considerazione come protagonista dell’attività giuridica.
Il cittadino, invece, era l’individuo libero e partecipe alla vita dello Stato.
S.
Nella fase repubblicana si assiste ad una serie di fenomeni storici di grande
rilevanza: i tentativi di riforma dell’assetto politico, le guerre civili, la crescita del
ruolo della plebe, le riforme militari e la riforma degli strumenti della repressione
criminale attraverso l’istituzione delle «Quaestiones Perpetuae» (vedi infra).
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In età repubblicana assistiamo a numerose e significative elaborazioni del diritto.
Con le XII Tavole (451-450), il ius civile e soprattutto il ius honorarium, sorto per disciplinare
i rapporti con gli stranieri (e tra gli stranieri) e che, con il fiorire dei commerci, andava assumendo
crescente importanza grazie all’opera dei pretores (urbanus et peregrinus). Questi si fecero promotori
di regole giuridiche di più agile e immediata applicazione.
Sorsero, inoltre, con il crescere del senso collettivo dello Stato, una serie di tribunali e di azioni
processuali (quaestiones perpetuae) per giudicare e condannare i crimina pubblica: (lex Calpurnia,
149 a.C.; lex Cecilia, 123 a. C.) commessi dagli amministratori pubblici.
Es
se
Successivamente il passaggio dalla Repubblica al Principato si attuò in maniera
traumatica: attraverso le guerre civili e l’ascesa di personalità come Silla, Mario,
Pompeo, Giulio Cesare e Antonio, i quali non rispettarono le regole repubblicane
(soprattutto la “temporaneità” delle cariche pubbliche). Si è assistito, così, al
mutamento dell’ordinamento in senso autoritario e alla fine della dialettica tra gli
organi politici (Magistrature, Senato, Assemblee popolari).
C) Età imperiale: Principato (27 a.C. - 235 d.C.) e Dominato (284 d.C. - 565
d.C.)
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L’età imperiale si articola nei due momenti del Principato e del Dominato.
«Principatus» stava a designare la nuova forma di governo, caratterizzata dalla
compresenza (più formale che sostanziale) delle vecchie istituzioni repubblicane e
delle nuove istituzioni a carattere autoritario.
Rispetto al periodo repubblicano la figura del «Princeps» rappresentava una
novità rivoluzionaria. Si trattava di un organo che gradatamente andava assumendo
tutti i poteri, senza mai abolire definitivamente le funzioni dei precedenti organi
repubblicani.
Per l’esercizio di tali poteri, il Princeps si avvaleva di un insieme di uffici, una
sorta di burocrazia (che prendevano il nome di consilia principis) che non godeva
di alcun potere «autonomo», ma costituiva esclusivamente uno strumento docile ed
efficace per l’esercizio del potere imperiale sia in Italia che nelle province.
Durante il periodo del Dominato, venuta meno ogni dialettica tra gli organi
costituzionali, si assistette al tentativo di Diocleziano (285) di evitare l’anarchia e
garantire la pacifica successione al trono, attraverso il sistema della tetrarchia (che
prevedeva la scelta di due successori, uno per l’Oriente e uno per l’Occidente:
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Introduzione e fonti
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mentre l’imperatore, detto Augustus, di rango più alto era in vita sceglieva un suo
vice, detto Caesar, che sarebbe stato il suo successore. Ciò portò alla divisione
dell’impero con due capitali: ad Oriente (prima Nicomedia, poi Bisanzio) e ad
Occidente (Roma).
Si consideri, infine, l’effetto apportato dalla “svolta” rivoluzionaria del Cristianesimo (che viene prima tollerata e poi dichiarata con Costantino e Teodosio,
religione ufficiale) e, infine, un susseguirsi di eventi bellici negativi che porteranno,
nel 476 d.C., al crollo dell’impero d’Occidente con la deposizione dell’ultimo
imperatore Romolo Augustolo ed alla successiva formazione dei regni romanobarbarici.
D) Età giustinianea (527 d.C. - 565 d.C.)
©
Es
se
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Solo grazie all’imperatore Giustiniano I tornò brevemente in vita il sogno di
una riunificazione dell’impero, sia sul piano politico che su quello giuridico.
In Italia, ad esempio, sottratta ai Goti dopo una lunga guerra (535-553), con la
«Pragmatica Sanctio», emanata nel 554 d.C. su richiesta del papa Vigilio, verrà
introdotto il diritto giustinianeo, caratterizzato da una notevole e corposa opera di
raccolta, selezione e sistemazione delle norme preesistenti.
Mentre l’età imperiale fu caratterizzata dal fiorire del diritto e della giurisprudenza grazie alle numerose fonti legislative direttamente provenienti dall’autorità
del princeps (mandata, edicta, rescripta, decreta), l’età giustinianea fu caratterizzata dalla paziente e attenta raccolta e riordino di tutte le più autorevoli fonti romane
(partendo dalla Respublica fino al Dominato).
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3. LE FONTI DI COGNIZIONE
C
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Le fonti di cognizione del diritto sono gli atti e i documenti in cui sono contenute
le norme giuridiche, ossia i mezzi con cui ciascuno può giungere alla conoscenza
del diritto. L’analisi delle fonti di cognizione per la storia del diritto romano è
complessa a causa della scarsezza dei documenti pervenutici, soprattutto in
relazione all’età arcaica e repubblicana.
Tra le fonti primarie, cioè tra i documenti e le testimonianze di norme,
provvedimenti e atti giuridici che riproducono in maniera immediata ed obiettiva
(documentale o testimoniale) gli aspetti dell’ordinamento giuridico romano, ricordiamo le Istituzioni di Gaio, la Epitome Gai, le Pauli Sententiae, i Fragmenta
Vaticana, i Codici Gregoriano ed Ermogeniano, la Lex Romana Wisigothorum e il
Corpus iuris civilis di Giustiniano.
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CAPITOLO SECONDO
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IL PERIODO ARCAICO
i
Sommario: 1. La leggenda. - 2. I pagi. - 3. La nascita di Roma. - 3-bis segue: Le fasi della
monarchia. - 4. Il processo formativo della città. - 5. Gli organismi pre-civici.
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1. LA LEGGENDA
se
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Secondo il racconto degli annalisti, la fondazione di Roma (da più fonti
contestata perché intrisa di narrazioni legate più alla leggenda che agli eventi) (1),
risalirebbe alla metà dell’VIII sec. a.C. (754 o 753 a.C.) e sarebbe opera di Romolo,
esule da Albalonga, che alla neonata comunità avrebbe dato le fondamentali
istituzioni politiche.
Dal punto di vista politico-sociale, la popolazione sarebbe stata ripartita in due
classi:
Es
— patrizi: il ceto dominante, suddiviso ulteriormente in diverse genti (gentes);
— plebei: il ceto subordinato; essi non erano organizzati in gentes, ma erano
aggregati, in una condizione di sottomissione, ai patrizi, con il titolo di clientes.
yr
ig
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©
Dal punto di vista amministrativo, i patrizi, col rispettivo seguito di clientes
plebei furono distribuiti in tre tribù (Ràmnes, Tities, Lùceres), ciascuna composta
di dieci curie; ogni curia, a sua volta, sarebbe stata suddivisa in dieci decurie.
A capo di ogni tribù era posto un tribuno; a capo di ogni curia era posto un
curione; a capo di ogni decuria era un posto un decurione.
L’intera popolazione era pertanto divisa secondo un sistema piramidale (al cui
vertice era il rex) in trecento decurie, trenta curie e tre tribù.
Alla figura di Romolo viene tradizionalmente collegata la creazione dei comitia
curiata, assemblee popolari chiamate ad eleggere il rex (carica vitalizia) che si
riunivano nel “campo di Marte”, ed i membri del Senatus (organo consultivo e
deliberativo, composto in origine da 100 membri, detti patres).
C
op
(1) Siffatta contestazione è comunque stata smentita dalle recenti ricerche (archeologiche, antropologiche e
storiche) che hanno confermato la correttezza di molti passi di Livio, Dionisio di Alicarnasso e Cicerone sulle origini
dell’Urbe. In particolare le vestigia archeologiche ci confermano la presenza, già intorno al 750 a.C., di una
aggragazione umana compatta e organizzata e non risalente due o tre secoli dopo (575 o addirittura 450 a.C.) come,
invece, sostenuto da una parte della dottrina.
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Il periodo arcaico
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Sia Romolo sia i suoi primi successori (Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco
Marzio) avrebbero governato nel rispetto della volontà delle assemblee popolari e
del Senato; alla morte di Anco Marzio, il potere fu usurpato dal tutore dei suoi figli,
Tarquinio Prisco, un nobile etrusco che impresse alla monarchia una brusca svolta
assolutistica, riorganizzando le istituzioni e governando dispoticamente, in spregio
alla volontà delle assemblee popolari e del Senato.
Dopo di lui, avrebbe regnato Servio Tullio (vedi amplius Cap. 3 par. 10 lett. C),
un cittadino romano imparentato con la dinastia etrusca, al quale vengono attribuite
importanti riforme. Alla sua morte, salì al trono l’etrusco Tarquinio il Superbo, il
cui regno tirannico assunse un carattere dispotico che si pose in contrasto con il
popolo e il senato: ciò spiega perché esso fu spezzato nel 510 a.C. da una congiura
di palazzo (guidata dai nobili Bruto e Collatino e sostenuta dal popolo) che
allontanò definitivamente il re e proclamò la Repubblica.
se
Furono solo sette i re di Roma?
Es
È impensabile che in un periodo così lungo che va dal 753 al 509 a.C. regnarono solo sette persone
in un’epoca in cui, tra l’altro, la vita media era molto bassa. Probabilmente non ci sono stati
tramandati i nomi degli altri rex, forse perché considerati figure di secondo piano e ci si è fermati a
sette, considerato numero magico e sacro che si ripete spesso, per determinare, ad esempio, il
septimontum, cioè il numero dei sette colli.
2. I PAGI
C
op
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Gli studiosi sono concordi nel ritenere che la vita sociale del Lazio nell’epoca
precedente alla fondazione di Roma fu caratterizzata da un’organizzazione in pagi
(villaggi).
I pagi erano piccoli nuclei composti da poche capanne di popolazioni indigene,
uniti da fonti autonome di sussistenza (prevalentemente pastorizia) e interessi
comuni, da consolidate tradizioni culturali e religiose, nonché da vincoli di sangue
tra gli abitanti. Essi non possono essere identificati con le gentes, anche se è
indubbia la stretta parentela che univa i componenti.
Tutti gli appartenenti al villaggio vivevano di attività comuni (pastorizia) ed
erano in condizioni paritarie nel partecipare alle decisioni rilevanti per la vita della
comunità; è, tuttavia, probabile che nei momenti di pericolo, di crisi o guerra,
emergesse una figura guida in possesso di particolari capacità che assumeva la
responsabilità necessaria per affrontare e risolvere importanti questioni politiche o
militari, legate alla sopravvivenza del gruppo.
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Capitolo Secondo
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3. LA NASCITA DI ROMA (2)
A) La componente albano/sabina
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La tradizione riferisce che la città di Roma, pur sorta come colonia Albana, si
sarebbe presto integrata con un altro nucleo di individui proveniente dalla Sabina
cures. Questa compenetrazione avrebbe determinato anche l’alternarsi di sovrani
appartenenti ai due nuclei (dapprima Romolo, albano, a cui per breve tempo si
associò Tito Tatio (leggasi «Tazio»), curense, poi Numa Pompilio curense, poi
ancora Tullo Ostilio originario di una colonia albana) per un lungo periodo a partire
dall’origine della città e per la durata di un secolo e mezzo (753 a.C. - 616 a.C.).
B) La componente etrusca
Es
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In contrasto con la tradizione, che ricerca negli elementi albano e sabino le
uniche componenti primarie della civiltà romana, in dottrina è ricorrente la
tendenza a riconoscere l’originaria compresenza di un elemento etrusco.
I sostenitori di questa teoria (Roma città etrusca) ritengono, al contrario, che
Roma fu effettivamente fondata dagli etruschi, ai quali sarebbe dovuta la graduale
sostituzione delle confederazioni di villaggi (i pagi) con la città-stato e con la sua
tendenza ad accentrare tutte le funzioni politiche e sociali.
C) La tesi accolta da Guarino
op
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La narrazione leggendaria degli eventi che portarono alla fondazione di Roma
mostra parecchie incongruenze:
— Romolo è probabilmente un personaggio mitico, creato solo dalla fantasia
popolare alla ricerca di un fondatore epónimo (cioè che ha dato il suo nome alla
città);
— è dubbia la nascita improvvisa di una «civitas», a seguito del litigio tra Romolo
e Remo e di tutte le sue complesse strutture;
— è impossibile credere, anche in considerazione della vita media del tempo, che
nei primi 150 anni dell’Urbe si fossero avvicendati solo tre rex, regnando
ciascuno circa 50 anni;
— è dubbia la stessa suddivisione artificiale della società in due classi sociali
(patrizi e plebei), che presuppone, invece, una precisa causa storica.
C
(2) L’origine etimologica del nome Roma è molto controversa. Alcuni autori lo fanno derivare dal greco: rúo (città
dove scorre il “fiume”) o da romé (forza), altri da una parola etrusca che significa “mammelle” per la presenza dei sette
colli che caratterizzano il territorio.
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Il periodo arcaico
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3-BIS SEGUE: LE FASI DELLA MONARCHIA
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Un solo dato è certo e condiviso in dottrina: la civitas romana sorse
nell’VIII sec. a.C., ebbe origini latine, e fu successivamente dominata dagli
Etruschi.
Deve, inoltre, respingersi la tesi che vede la famiglia come nucleo originario
delle città, la quale, come visto al par. 2, ai primordi si presentava come comunità
indifferenziata priva dei caratteri tipici dello Stato.
Nell’ambito della storia di Roma, si possono distinguere tre fasi:
li
— fase latino-sabina;
— fase etrusco-latina;
— fase della crisi e della decadenza.
se
A) Fase latino-sabina (VIII e VII sec. a. C.)
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Secondo la leggenda nei primi secoli Roma fu governata da quattro re di stirpe
latina: Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marzio. In questa prima fase,
al primo nucleo di popolazione latina (la cd. tribù dei Ramnes), stanziata sul
Palatino, si unì la popolazione dei Sabelli o Sabini (cd. tribù dei Tities dal
leggendario nome del loro fondatore Tito Tatio), stanziata sul Quirinale: a questa
alleanza tra popolazioni latine e popolazioni sabine farebbe riferimento la nota
leggenda del Ratto delle Sabine.
Successivamente, intorno al VII sec. a.C., l’alleanza si trasformò in federazione, con l’adesione di una terza tribù (Luceres), nella quale gli storici hanno
individuato elementi etnici etruschi, per la probabile derivazione del termine da
Ducumone, capo militare etrusco: traccia di tale confederazione è data dalla
tradizionale e misteriosa festa religiosa del Septimontium (cioè dei sette colli) che
si celebrava l’11 dicembre di ogni anno.
yr
Le arcaiche strutture politiche (tribù, curiae, rex) interferivano ben poco con la vita economicosociale che si svolgeva prevalentemente intorno alle familiae (sotto la direzione del proprio pater) ed alle
gentes, aggregazioni costituite da più famiglie che svolgevano prevalentemente lo stesso mestiere (es.:
gens Fabricia, composta prevalentemente da fabbri).
La vita della familia si svolgeva all’interno della domus (casa): questa di solito comprendeva anche
un piccolo appezzamento di terreno, l’heredium, da cui «si irradiava l’attività pastorale, svolta dai filii
e dai clientes» (GUARINO).
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La fase latino-sabina della storia di Roma costituì il momento in cui si gettarono
le basi della civitas Quiritium romana, e delle sue strutture tipiche.
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Capitolo Secondo
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B) Fase etrusco-latina (VI sec. a.C.)
Si tratta della fase caratterizzata dalla dominazione etrusca.
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La Roma di questo periodo ci viene descritta dalle fonti come una città in rapida espansione.
La sua felice posizione geografica la collocava strategicamente al centro di intensi traffici
commerciali, a cui avevano dato vita soprattutto gli Etruschi. Lungo la valle del Tevere e proveniente
da diverse città dell’Etruria (Tarquinia, Volterra, Veio, Cere, etc.) si snodava una fiorente produzione
di manufatti, soprattutto in ferro, diretta all’esportazione nell’Italia meridionale e nella Magna Grecia.
In quanto snodo cruciale di comunicazione, questo territorio esercitò una forte attrattiva su quanti,
desiderosi di migliorare la propria condizione sociale, erano disposti a lasciare la loro patria. Per il VI
secolo l’immigrazione a Roma di notabili di stirpe etrusca è attestata da numerose epigrafi collocate nella
parte orientale del Foro ed ai lati della Velia, dove sorgevano le ville della locale aristocrazia.
«Sembra comunque da escludere che il periodo etrusco abbia implicato l’assoggettamento dei
Romani ad una vera e propria dominazione straniera. È preferibile pensare, in conformità alla versione
delle fonti, che una dinanstia etrusca si sia già impadronita del governo della città nel sesto secolo, a
fronte di una più incisiva presenza locale di una comunità appartenente a questo popolo» (così
SCHIAVONE, AMARELLI e altri).
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La tradizione ha conservato tracce ben precise del dominio etrusco a Roma; per
opera di Tarquinio Prisco, la regalità avrebbe acquisito tutti i simboli esteriori del
potere (la corona d’oro, la sedia curule, il manto di porpora con fregi d’oro, uno
scettro con alla sommità un’aquila, nonché la schiera dei littori che accompagnavano i magistrati): segni conservati anche nel periodo imperiale.
Anche a prescindere da queste manifestazioni formali, la dominazione etrusca
impresse, come detto, all’istituzione monarchica una brusca svolta assolutistica.
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Agli etruschi si deve l’introduzione di una eccellente organizzazione militare, basata sul sistema
«oplitico», in uso presso i popoli greci: l’esercito (il cui armamento individuale costituiva un onere del
singolo cittadino) venne suddiviso in fanteria pesante e fanteria leggera e dotato di una veloce cavalleria
d’attacco; questa organizzazione costituì il nucleo fondamentale dell’exercitus centuriatus, che con le
sue legioni permise a Roma di sottomettere le gentes latinae.
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La società si presentava, sull’esempio delle polis etrusche, strutturata in due
grandi gruppi: l’aristocrazia gentilizia patrizia da un lato, e i loro clienti e schiavi
dall’altro; questi ultimi, detti plebei (dal greco “pletos” = moltitudine) pur essendo
in condizione di inferiorità rispetto ai primi, fecero, nel corso degli anni, progressivamente valere le proprie rivendicazioni, fino a giungere, dal punto di vista
giuridico, con la leges Liciniae Sextiae (367 a.C.) al pareggiamento politico delle
due classi (vedi infra).
C) Fase di crisi e decadenza (V e IV sec. a.C.)
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L’ultima fase dello stato Quiritario è caratterizzato dalla decadenza dei suoi
ordinamenti tipici.
Secondo il racconto della tradizione, con la rivoluzione guidata da Bruto e
Collatino (avvenuta nel 510 a.C.) sarebbe caduto per sempre, insieme con la
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Il periodo arcaico
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dominazione etrusca, il sistema monarchico, e sarebbe stato introdotto all’improvviso un sistema vicino a quello che oggi definiamo repubblicano.
Come nota Montesquieu nello “Spirito delle leggi” (1748) in Roma il passaggio dalla monarchia alla Repubblica determinò solo un mutamento nella forma di
governo, non anche una trasformazione dello spirito del popolo romano che sarebbe
rimasto intatto (AMARELLI).
Questa fase, comunque, fu caratterizzata da violente lotte di classe: la plebe,
stanca di dover sopportare gli oneri della difesa militare della civitas e non più
disposta ad accettare la grave posizione di sudditanza rispetto al patriziato, attaccò
duramente i privilegi dei patrizi, lottando per la propria emancipazione. Ne
derivarono continui tumulti civili che si conclusero nel 367 a.C., quando, con
l’emanazione delle leges Liciniae Sextiae, anche i plebei furono ammessi alla
magistratura suprema: il consolato.
se
4. IL PROCESSO FORMATIVO DELLA CITTÀ
Es
Per valutare gli elementi da cui trae origine l’ordinamento romano occorre
brevemente valutare le formazioni sociali di tipo politico-giuridico preesistenti
alla nascita della civitas e che contribuirono alla formazione di Roma. Queste
furono:
— la familia;
— la gens;
— i clientes.
ht
©
Va ricordata l’esistenza delle tribù (Ramnes, Tities, Luceres) — organismi
intermedi (gentes), unificatisi per dare origine all’urbs, alla città di Roma — e di
organismi più vasti (le confederazioni).
ig
5. GLI ORGANISMI PRE-CIVICI
A) La gens
C
op
yr
La gens costituiva l’aggregazione naturale di famiglie nata, in origine, nell’ambito del pagus
(villaggio); secondo un diverso orientamento, si trattava di una aggregazione politica fondata su basi
etniche.
Costituiva, in ogni caso, un sistema «chiuso» (per avere accesso al quale dovevano concorrere
diversi elementi, variamente individuati: origini etniche, discendenza dinastica, comunanza di interessi
politici), con un proprio ordinamento interno.
Numerosi gruppi familiari e clientelari, soprattutto quelli più deboli, cominciarono ad aggregarsi,
in cerca di protezione, a gruppi più forti, ponendosi al loro servizio. La forza attrattiva della gens
aumentava in proporzione alla sua vis (forza) difensiva e offensiva al tempo stesso, diventando, altresì,
.
16
A
Capitolo Secondo
i
S.
p.
strumento per l’appropriazione di terre e per lo sfruttamento delle stesse. Ciascuna gens possedeva in
origine un proprio territorio, corrispondente ad una casata o ad un intero villaggio (pagus).
L’appartenenza alla gens era necessaria, ed equivaleva ad una sorta di cittadinanza: non si poteva
appartenere a due gentes contemporaneamente, e chi usciva dalla propria gens diveniva rispetto ad essa
straniero.
Facevano parte della gens quelli che nascevano da parte gentile (cioè appartenente alla gens) e
coloro che vi erano ammessi per voto dei gentili (cooptatio).
L’organizzazione gentilizia fu prerogativa delle sole famiglie patrizie: si diffuse, infatti, anche per
la plebe, solo in una fase successiva, ad imitazione del modello patrizio.
br
B) La familia
In età precivica, la familia costituiva una cellula di base, costituita da persone e beni (animali, cose
materiali) ed era:
li
— fondata su un comune vincolo di sangue;
— dotata di propri culti religiosi (sacra), diversi per ciascuna familia;
— soggetta al potere assoluto (cd. manus o mancipium) del capostipite, il pater familias.
Es
se
Alle origini, alla morte del capostipite la familia rimaneva socialmente e patrimonialmente unita,
senza dare origine a tante nuove famiglie in relazione ai discendenti diretti del pater (cd. consortium
ercto non cito).
Il vincolo familiare e la soggezione alla potestas del pater venivano costituiti mediante adrogatio
(passaggio di un’intera famiglia sotto l’autorità di altro pater familias: si trattava di un caso di
successione inter vivos).
L’estinzione del vincolo familiare rompeva i precedenti legami giuridici con la famiglia.
C) La clientela
ig
ht
©
La parola cliens deriva etimologicamente da clinare (appoggiarsi) o, secondo altra tesi, da cluere
(obbedire) ed indica lo status di sottomissione in cui i clientes vivevano.
Per lo più i clientes erano individui poveri, allontanatisi da altri gruppi, piccoli proprietari a cui non
bastava il reddito della propria terra, stranieri che si aggregavano alla familia chiedendo protezione e
appoggio. Costituivano, dunque, una vera e propria classe subordinata alla gens, che si giovava della loro
presenza per estendere la propria sfera di potere e di influenza.
Il vincolo creato dalla fides era considerato sacro e il patronus che lo violava era colpito dalla
consecratio capitis (pena di morte): ciò comportava, infatti, che egli, oltre a perdere la posizione di
supremazia sul cliens, potesse essere ucciso impunemente da chiunque.
Modi di acquisto della condizione di cliente erano:
yr
— la deditio, cioè la spontanea sottomissione di un gruppo al potere della gens;
— l’applicatio, cioè la sottoposizione di uno straniero al potere protettivo del gruppo;
— la manumissio o affrancazione: si trattava dell’istituto con il quale lo schiavo acquistava la sua
libertà.
C
op
La decadenza della gens portò con sé l’esaurimento anche della funzione sociale della clientela.
In epoca successiva, abbandonata anche l’agricoltura, non furono più richieste le opere clientelari,
né fu più offerta protezione ai clienti; i vari gruppi acquistarono allora una propria autonomia e finirono
per confondersi con la plebe (GUARINO).
A
.
17
Il periodo arcaico
p.
D) La proprietà
C
op
yr
ig
ht
©
Es
se
li
br
i
S.
Tra gli istituti precivici non è annoverabile la proprietà individuale: la proprietà sulle cose della
familia apparteneva collettivamente al gruppo, ed era collettiva e perpetua. In un secondo momento, col
nascere degli organismi familiari, essa si accentrò nella figura del pater familias.
Le terre costituivano fondamentalmente la sede del gruppo oltre che lo strumento necessario per
l’esercizio della pastorizia.
Dotata di indipendenza interna (in quanto nessun limite ad essa poteva essere imposto ab esterno),
la proprietà era circondata da un tratto di terra (come ad es., il pomerium di una città), che non
appartenente ad alcuno. I suoi confini erano sacri e inviolabili.
.
A
p.
CAPITOLO TERZO
S.
L’ETÀ MONARCHICA (753-509 A.C.)
br
i
Sommario: 1. Rex, senato e popolo. - 2. I poteri del Rex: l’imperium. - 3. L’evoluzione storica
dei poteri del Rex. - 4. Il senatus. - 5. I comitia curiata. - 6. I collegi sacerdotali. - 7. I «mores
maiorum» ed il «diritto». - 8. Repressione criminale e pax deorum in età arcaica. - 9. La monarchia
etrusca. - 10. Segue: L’ordinamento centuriato.
li
1. REX, SENATO E POPOLO
se
Nell’età monarchica (che si svolge nell’arco di circa due secoli e mezzo, dal 753
a.C. al 509 a.C.) gli organi fondamentali e di vertice della vita politica sono il rex,
il consiglio degli anziani (senato), e l’assemblea dei membri della comunità
(comitia).
©
Es
Tale pluralità di organi non costituiva il risultato di un concordato equilibrio costituzionale in quanto
l’attività dell’assemblea concretamente si risolveva nell’«accompagnare e rafforzare» il comando del
rex.
Quanto detto per l’assemblea vale anche per il consiglio degli anziani: il senato. Composto da capi
di genti e famiglie era in grado di orientare con il suo consiglio autorevole la vita della comunità e le
decisioni del re.
Il nome senatus, ossia adunanza di uomini scelti in considerazione di età, esperienza e saggezza,
deriva dalla parola senex, cioè anziano.
op
yr
ig
ht
Alla morte del rex, il potere «auspicale» (cioè di interpretare la volontà degli
dei da eventi esteriori, come ad esempio dai tuoni, dal volo degli uccelli, etc. per
assumere le decisioni più importanti) spettava di diritto al senato, che eleggeva, tra
i suoi membri, un «interrex» per la durata di 5 giorni, decorsi i quali, il potere
passava ad un altro «interrex» e così via.
L’interrex (1) di turno proponeva il nome del successore (scelto tra i senatori)
davanti ai comizi curiati. Se la votazione dei comitia era affermativa (creatio), si
procedeva alla «inauguratio», una particolare cerimonia religiosa attraverso la
quale si richiedeva l’assenso degli dei alla nomina del rex.
Qualora gli «auspicia» fossero stati favorevoli, il nuovo re chiedeva ed otteneva
la lex curiata de imperio (approvazione da parte del popolo) che gli conferiva la
«potestas» in segno di obbedienza.
C
(1) La figura dell’interrex era espressa dal senato in considerazione degli accordi intercorsi tra le diverse “gentes”.
Con l’ascesa di Tarquinio Prisco il suo peso politico fu tale che non ci fu più necessità di giungere all’elezione di una
figura di mediazione come era stata l’interrex per il passato.
A
.
19
La monarchia
p.
2. I POTERI DEL REX: L’IMPERIUM
i
S.
Il rex occupava il vertice dell’ordinamento, assumendo, senza alcun limite di
tempo prestabilito (potere vitalizio), la titolarità del comando supremo.
Il potere del rex, oltre all’«agire laico» (rapporti con la comunità), investiva
anche l’«agire religioso» (rapporti con la divinità), in quanto nella sua figura
dovevano convergere sia la qualità del capo militare (forza fisica, attitudine al
comando, etc.) che quelle di sommo sacerdote (capacità cognitive, memoria e
immaginazione trasfiguratrice) (AMARELLI).
br
In particolare, il potere regio comprendeva:
se
li
a) il compito di guidare l’esercito cittadino e di difendere lo Stato: l’imperium
militiae;
b) il compito di amministrare la comunità cittadina attraverso tutte quelle iniziative relative alla vita stessa civitas: l’imperium domi;
c) il compito fondamentale di mediare tra gli uomini e gli dei (attività c.d.
“augurale”, da augere, cioè far aumentare con forza).
op
yr
ig
ht
©
Es
Esaminiamoli:
a) L’imperium militiae copriva un ambito ben più vasto della mera guida
dell’esercito. Per la gestione di tale potere il rex si avvaleva di alcune figure
subalterne, legittimate ad operare in virtù di un suo atto di delega, che erano:
— il Magister Populi: (per popolo si intendeva l’organizzazione militare
dei cittadini) che sostituiva il re anche nel supremo comando militare
nel caso in cui il monarca fosse trattenuto in città per doveri religiosi
e civili;
— il Magister Equitum: si trattava di un ausiliario di minore importanza
rispetto al Magister Populi al quale veniva delegato il comando dei contingenti di cavalleria;
— i Quaestores Parricidii: ad essi era demandata la repressione dei crimini
più gravi (3).
b) Quanto all’imperium domi, costituiva una incombenza necessaria per la pace
sociale, in quanto, in mancanza di un potere giudiziario superiore, l’autodifesa
e la vendetta privata costituivano le uniche regole per dirimere i conflitti tra i
privati.
C
(3) Si noti che in tale epoca il termine “parricida”, che deriva da pari (cioè dello stesso grado) caédere (uccidere
perquotendo), si riferiva non solo all’uccisione del padre, ma a quella di un proprio pari, cioè ad una persona che
apparteneva alla stessa gens e, quindi dello stesso rango. Tale reato costituiva un fatto grave che investiva la comunità,
a differenza degli omicidi di figli e schiavi che non destavano, invece, alcun allarme sociale ed erano risolti tra privati.
.
20
A
Capitolo Terzo
se
li
br
i
S.
p.
Il rex in questa veste dirimeva le controversie tra i privati cittadini con il compito
di far rispettare ai sudditi le poche norme consuetudinarie destinate a regolare
la vita ed i rapporti interpersonali all’interno della città.
c) Per quanto concerne, infine, il potere di mediazione divina (potere di trarre gli
auspicia), alcuni autori (CRIFÒ) ritengono che si tratti, nell’ambito dei tre
poteri enunciati, di quello più importante perché condizionava le principali
decisioni politiche, adottate dal rex a seguito dell’osservazione di fenomeni
naturali (lampi, tuoni, etc.) animali (volo degli uccelli, atteggiamento dei “polli
sacri”, nonché scalciare dei quadrupedi) o da eventi sfavorevoli (ex diris) e
funesti che si verificavano nella comunità.
L’importanza del potere religioso sarebbe testimoniata anche dal fatto che ad
avvenuta instaurazione del regime repubblicano sia comunque sopravvissuta la
figura del «rex sacrorum», figura priva di potere militare e politico ma
parimenti prestigiosa per il suo esclusivo potere religioso.
3. L’EVOLUZIONE STORICA DEI POTERI DEL REX
yr
ig
ht
©
Es
Secondo le antiche testimonianze le leges regiae (curiatae) raccolte nello ius
civile papirianum (una raccolta di leggi effettuata dal pontefice Sesto Papirio) si
riferiscono all’attività svolta dai reges, a partire da Romolo fino a Tarquinio il
Superbo, relative all’assetto politico, religioso e sociale della comunità.
In particolare: Romolo avrebbe — attraverso una propria produzione legislativa — distinto i patrizi dai plebei in considerazione del loro“status economico”,
riservando ai primi sacerdozi, magistrature, funzione giudicante e ai secondi
compiti relativi all’agricoltura, allevamento e commercio. Egli avrebbe, inoltre,
disciplinato il rapporto di patronato e clientela, sanzionandone la violazione con la
sacratio capitis ed avrebbe, altresì, statuito la perpetua onnipotenza del pater nei
confronti dei figli che culminava con la possibilità riservata al padre di uccidere
impunemente il figlio (ius vitae ac necis).
Più corposa dal punto di vista documentale, è l’attività normativa attribuita
a Numa Pompilio: prescrizioni religiose riguardanti cerimonie, sacerdozi, lutto
familiare, ma anche norme sul calendario, la disciplina dell’omicidio ed il problema
del regolamento dei confini tra i fondi.
C
op
La tradizione ascrive al re Numa Pompilio (che deve aver regnato dal 716 al 673 a.C.) una legge che
distingueva tra uccisione dolosa e colposa (vedi infra cap. 3 par. 8)
«Si qui hominem liberum dolo sciens morti duit, paricidas esto. Si quis imprudens occidisset
hominem, pro capite occisi agnatis eius, in contione offerret arietem» (chi dolosamente e consapevolmente abbia portato alla morte un uomo libero, sia considerato parricidas. Se qualcuno abbia
ucciso un uomo per imprudenza, dovrà offrire per la vita dell’ucciso un ariete ai suoi parenti in
assemblea).
A
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21
La monarchia
br
i
S.
p.
A Tullo Ostilio si riferiscono la disciplina della dichiarazione di guerra e la
procedura in caso di perduellio (reato di alto tradimento ed attentato all’ordine
costituito dello Stato).
Le norme sui Feziali (collegio sacerdotale incaricato di dar vita ai riti connessi
ai rapporti internazionali) e sulla rerum repetitio (ossia la richiesta di restituzione
delle cose e degli uomini trattenuti ingiustamente dal popolo straniero) sono invece
ascritte da Livio al regno di Anco Marzio.
Quanto, infine, all’attività normativa attribuita a Servio Tullio, oltre alla
riforma centuriata, vengono a lui attribuite leggi sulla concessione della cittadinanza agli schiavi manomessi, leggi sui delitti e la distinzione tra illeciti pubblici e
privati (vedi infra Cap. 3, par. 10).
li
4. IL SENATUS
se
A) Generalità
Es
L’ordinamento antico prevedeva due diversi organismi assembleari: il senatus
(per il patriziato) e i comizi curiati (per la plebe). Il loro funzionamento e la loro
convocazione erano rimessi alla volontà del rex.
B) Origini storiche e composizione
op
yr
ig
ht
©
La presenza del senato si riallaccia al ruolo che gli anziani già assolvevano nei
pagi.
Contrariamente a quanto sovente si ritiene, il senato non rappresentava solo
un’assemblea dei capi delle gentes sia perché non esisteva un rapporto percentuale
fisso tra il numero dei patres e quello delle gentes, sia perché queste non avevano
ciascuna un proprio capo (TALAMANCA).
Il numero dei senatori crebbe con il decorso del tempo da cento a centocinquanta per poi arrivare a trecento sotto Tarquinio Prisco (4), quando, tra l’altro, Roma
assisterà ad un ulteriore incremento demografico ed economico (vedi ante Cap. II,
par. 3bis, lett. D).
Oltre all’interregnum nell’età monarchica il senato era titolare di una importante prerogativa: la ratifica delle delibere popolari mediante l’auctoritas.
Comunque, unitamente all’interregnum ed all’auctoritas, la principale funzione del senato consisteva nell’attività di consulenza e di ausilio al rex.
C
(4) Tarquinio Prisco accrebbe artatamente il numero dei senatori, scegliendoli tra gli appartenenti ai ceti popolari
e tra i militari a lui più fedeli per accrescere il suo potere personale in seno all’assemblea.
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22
A
Capitolo Terzo
p.
5. I COMITIA CURIATA
A) Origine
i
S.
Il più antico organo di Roma, da cui viene desunta l’esistenza della nozione di
«popolo», è il comizio curiato (comitium curatium), assemblea che raccoglieva
tutto il popolo.
Il comitium si distingueva dal concilium, in quanto quest’ultimo non costituiva
la riunione di tutto il popolo, ma della sola plebs.
br
Il termine «populus» deriva:
— secondo alcuni, da una radice indo-germanica che indica una moltitudine armata;
— secondo altri, da una radice mediterranea importata dagli Etruschi equivalente a crescere.
li
L’etimologia più probabile della parola «curia», invece, è co-viria (riunione di uomini).
©
Es
se
Secondo la tradizione Romolo, dopo la fondazione di Roma, avrebbe diviso la
cittadinanza in tre tribù (Ramnes, Tìties, Lùceres) ed ogni tribù in 10 curie, unità a
carattere militare e religioso.
Le curiae funzionavano come distretti di leva, fornendo all’esercito una
centuria peditum (ossia 100 soldati a piedi) e decuria equitum (10 cavalieri), nonché
come unità di voto.
L’origine di questa ripartizione e quindi dei comizi curiati non risale, secondo
DE MARTINO, alla nascita della civitas, ma è sicuramente precedente alla
dominazione etrusca, perché la comunità era organizzata sulla base delle curie già
prima dell’ascesa dei Tarquinii.
B) Funzioni
ht
La tradizione attribuisce ai comitia curiata la funzione legislativa:
ig
— relativamente alla votazione delle leges regiae presentate dal rex all’assemblea
popolare;
— in relazione all’approvazione della nomina del nuovo rex, proposta dall’interrex, nonché il riconoscimento, attraverso una seconda votazione (lex curiata de
imperio), del supremo comando del monarca.
C
op
yr
Ai comitia curiata era attribuita anche una funzione giurisdizionale, introdotta
da una non ben identificabile lex Valeria de provocatione (300 a.C.), che si
concretizzava nella possibilità di commutare, su istanza del condannato, la pena di
morte nella pena dell’esilio (aqua et igni interdictio).
Le tracce di una partecipazione attiva dei comitia curiata nei rapporti interprivatistici vengono rinvenute nei negozi giuridici dell’adrogatio (attraverso la quale
un pater familias si sottoponeva volontariamente alla potestas di un altro pater) e
A
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23
La monarchia
S.
p.
del testamentum calatis comitiis (con cui un pater familias, privo di discendenti,
dinnanzi ai comizi nominava un erede che gli subentrasse nel proprio patrimonio).
La convocazione dell’assemblea comiziale era fatta dal rex: le curiae si
riunivano nel forum, a ridosso del Campidoglio in uno spazio detto appunto
«comitium».
i
6. I COLLEGI SACERDOTALI
li
br
I collegi sacerdotali, pur essendo estranei all’organizzazione della città quiritaria, ebbero compiti di ausilio nelle funzioni di governo.
Tre furono i collegi sacerdotali di primaria importanza: pontifices, augures e
duoviri sacris faciundis. Due furono i collegi minori: flamines e fetiales.
Tutti gli esponenti di tali collegi appartenevano al ceto dei patrizi.
se
A) I pontefici
Es
I pontefici (letteralmente facitori, indicatori della via da seguire) erano un
organo di tutela degli interessi politico-religiosi dell’istituto del patriziato nei
confronti della monarchia.
Il numero dei pontefici era, in origine, di tre (uno per ciascuna delle tribù:
Ramnes, Tities, Luceres); in un secondo momento, fu portato a cinque. Il collegio
era presieduto dal pontifex maximus.
yr
ig
ht
©
Le competenze di tale collegio non riguardavano soltanto aspetti religiosi, ma
ricomprendevano anche funzioni di varia natura; ai pontefici, erano, infatti,
riservati:
— il compimento dei sacrifici;
— la custodia dei riti supremi dello Stato secondo le formule rituali tradizionali
per l’invocazione della divinità;
— la determinazione del calendario cioè l’indicazione delle fasi lunari e dei dies
fausti (cioè graditi agli Dei) per compiere determinata azioni;
— la fissazione delle forme degli atti e delle azioni giudiziarie per tutto il ius civile);
— la competenza esclusiva nell’esercizio della giurisdizione e nell’interpretazione del diritto pubblico e privato (ius e fas);
— l’esercizio della giurisdizione sui magistrati del culto (sui flamini e sulle
vestali: vedi infra).
C
op
I pontefici conservavano il segreto sul complesso dei riti e delle funzioni delle
tradizioni (prevalentemente giuridico-sacrali) loro affidate: in sostanza, il collegio
pontificale era depositario di un importante patrimonio di conoscenze per
garantire la memoria collettiva di Roma.
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24
A
Capitolo Terzo
S.
p.
Essi, pertanto, costituivano un collegio di grande importanza, e il loro capo, il
pontifex maximus, era considerato l’àrbiter rerum humanorum et divinarum.
I pontefici erano nominati mediante cooptàtio (cooptazione), cioè venivano
scelti dai pontefici che già facevano parte del collegio pontificale; occorreva, per la
loro nomina, una formale cerimonia (inauguratio), compiuta da un augure e
godevano della esenzione dei tributi e dal servizio militare. Essi, in virtù della
sacralità del loro ufficio, duravano in carica tutta la vita.
br
i
B) Gli àuguri
li
Il collegio degli àuguri aveva origini remote: la comunità romana primitiva
spesso si interrogava e dava responsi sulla volontà divina al fine di regolare la vita
sociale e di prendere decisioni politiche importanti.
se
Si poteva a tale proposito ricorrere a due sistemi: gli auguria (studi di ogni tipo di evento al fine di
trarre indizi sulla volontà divina: si pensi, ad es., ad un tuono, ad un fulmine a ciel sereno, ad una eclisse)
e gli auspicia (presagi tratti dall’osservazione del volo, del pasto e dei movimenti degli uccelli) che pur
presentando molte affinità, si differenziavano in base agli individui legittimati a ricercare la volontà
divina: gli àuguri nel primo caso e il rex nell’altro che, mediante gli auspicia, si rivolgeva agli dei per
essere guidato nel suo operare quotidiano e nelle sue scelte.
©
Es
Tutti gli atti importanti dello Stato dovevano essere preceduti dagli àuguria o
dagli auspicia e non potevano essere compiuti senza il loro favore; da ciò derivava
che il collegio degli àuguri godeva di enorme autorità.
Tale collegio in origine era formato da cinque membri; si entrava a far parte di
esso (come per i pontifices) mediante cooptatio (elezione mediante designazione
da parte del predecessore), che doveva essere resa valida dall’inauguratio. Di esso
potevano far parte solo persone di alto rango sociale.
ht
C) I duòviri sàcris faciùndis
ig
Collegio composto da due magistrati, con compito di custodire i sacri libri sibillini e di
interpretarne i dettami su richiesta dei magistrati cum imperio.
D) I flámines
C
op
yr
Anche tale collegio composto da tre sacerdoti di Giove, Marte e Quirino (che era la deificazione di
Romolo) aveva antica origine e il compito di provvedere all’esercizio del culto per le singole divinità;
i flamines si dividevano in maggiori e minori.
Il più importante di essi teneva sempre acceso il Flamen Dialis (fuoco sacro di Giove), il cui rango
veniva subito dopo quello del re: egli aveva diritto alla sella curule (sedia di particolare foggia e
dimensioni) e presenziava la confarreatio, cioè l’antico rito del matrimonio patrizio, consistente nella
divisione del pane di farro tra coloro che si sposavano.
A
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25
La monarchia
p.
E) I fetiáles
Secondo la tradizione, il collegio dei feziali nacque insieme al rex. Curava la cerimonia del culto
di Giove Fereterius, di Giove Lapis e di Giove Terminus, ed era presieduto da un pater patratus.
S.
In particolare, i fetiales erano incaricati di provvedere ai rituali connessi con i rapporti internazionali
di Roma; essi:
br
i
— intervenivano in caso di dichiarazione di guerra: in tal caso il pater patratus passava il confine
nemico, chiedendo la riparazione del torto subito da Roma (ad es. restituzione degli uomini o cose
catturati dal nemico). Se ciò non avveniva, dopo 33 giorni egli, pronunciata una solenne formula in
segno di sfida, scagliava una lancia nel territorio nemico, dando inizio alla guerra;
— presiedevano al rispetto delle formalità per la stipula di trattati con comunità straniere (ed al rispetto
dei trattati stessi).
se
li
Il compito dei fetiales e del pater patratus era, in sostanza, di «tradurre le decisioni politiche del rex
o del senatus (guerre, alleanze, pace), nella forma richiesta dall’ordinamento romano per conferire
sacralità e validità agli atti internazionali».
Il collegio era composto da venti sacerdoti nominati a vita, la cui designazione avveniva per
cooptatio.
F) Le Vestali
Es
Il culto di «Vesta» era di competenza di un particolare collegio di sacerdotesse di elevatissimo rango:
le vestali, che avevano il compito della custodia del fuoco acceso in permanenza e dell’acqua.
G) Conclusioni
C
op
yr
ig
ht
©
Attraverso i “responsa” (risposte) dei pontifices, recitati in uno stile oracolare
tipico della rivelazione di verità assolute e inoppugnabili, i collegi pontificali
rispondevano alle istanze dei patres (senatori).
L’insieme dei responsa costituiva le basi del diritto (ius) che su tali forme di
risposta pose le sue fondamenta.
Essi, pur costituendo le regole prime della vita associata, non avevano carattere
di norme generali, ma valevano solo come “risposta alla domanda proposta”.
Dei responsa veniva conservata memoria presso il collegio pontificale per
evitare di smentire in seguito regole precedentemente affermate.
Linguaggio e formalità esteriori erano ossessivamente curati per conferire
valore eterno ed immutabile a tali fonti di pensiero collettivo, tanto che nel tempo
esse formarono un vero e proprio ius pontificorum.
Si noti che, a partire dall’impatto con la civiltà etrusca, i responsa, pur
conservando il loro vigore formale, vennero progressivamente a scadere d’importanza in parallelo al progressivo venir meno dell’identificazione tra potere legalepotere religioso.
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26
A
Capitolo Terzo
p.
7. I «MORES MAIORUM» ED IL «DIRITTO»
se
li
br
i
S.
La produzione normativa del periodo monarchico si esauriva praticamente nei
«mores maiorum» (costumi, tradizioni, usanze che si perpetuavano nel tempo), e
tale sistema consuetudinario si protrasse sino alla codificazione delle XII Tavole.
I mores danno luogo ad un ordinamento non scritto fatto di regole condivise ed
accettate dalla comunità (e non imposte dall’alto) e sono la fonte del diritto che
corrisponde al concetto attuale di «consuetudine».
Anche nell’Urbe i mores maiorum costituivano l’elemento materiale della
consuetudine, cioè un comportamento reiterato nel tempo (diuturnitas) cui si
affiancava la consapevolezza da parte dei cittadini che seguendo i “mores”
applicavano un precetto normativo (opinio iuris ac necessitatis). Si deve, pertanto,
concludere che attraverso le consuetudini si forma un ordinamento normativo
basato sul consenso generale e, pertanto, con regole frutto di un alto tasso di
democraticità.
8. REPRESSIONE CRIMINALE E PAX DEORUM IN ETÀ ARCAICA
op
yr
ig
ht
©
Es
Difficile si presenta la ricostruzione del diritto criminale in età arcaica. La
stessa espressione «diritto criminale», se riferita al periodo più antico della storia
di Roma, può essere considerata impropria (GARBARINO).
In questa età, infatti, il fenomeno giuridico non raggiunse un’articolazione tale
da poter distinguere nel suo ambito i diversi rami (diritto privato, diritto pubblico,
diritto criminale ecc): addirittura è difficile individuare nella sua specificità lo
stesso fenomeno giuridico in quanto nella fase arcaica della storia di Roma, il ius
(diritto) non si distingueva dal fas, cioè dal fenomeno religioso con la conseguenza
che i concetti di «peccato» e «reato» erano considerati sinonimi.
Nonostante ciò, tuttavia, le fonti ci informano circa l’esistenza di reazioni
pubbliche che la primitiva comunità riconnetteva a violazioni di regole di tipo
religioso.
La necessità di preservare la pax deorum, ossia un costante rispetto nei
confronti della divinità da parte della comunità, condusse all’enucleazione di regole
comuni attraverso le quali il rex interveniva nell’agire sociale. Si tratta di regole che
la tradizione riconduce ad antiche leges regiae (5), ma è preferibile pensare ad una
loro origine consuetudinaria la cui violazione era da tutti considerata lesiva di tale
equilibrio e, pertanto, sanzionata.
C
(5) Sono proprio le «leges regiae» quelle in cui parte della dottrina ravvisa le fonti più antiche del diritto criminale
romano.
A
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27
La monarchia
p.
B) Classificazione degli scelera e pene sacrali
S.
Solo gli studiosi moderni hanno elaborato una classifica dei comportamenti
sanzionabili dalla collettività in quanto lesivi della pax deorum.
br
i
Si distingue pertanto tra:
— scelera expiabilia (i misfatti suscettibili di espiazione: si pensi ad esempio, al
divieto sancito per le concubine di toccare l’ara di Giunone. La violazione di tale
divieto era sanzionato con l’obbligo per la colpevole di sacrificare un’agnella
alla divinità offesa)
— scelera inexpiabilia (misfatti che non potevano essere espiati).
Es
se
li
Nella prima ipotesi il trasgressore era tenuto ad un’offerta espiatoria (piaculum), consistente nel sacrificare alla divinità un animale o un’altra entità
patrimoniale.
Nel secondo caso il piaculum non era sufficiente e il trasgressore rispondeva con
la propria persona nei confronti della divinità offesa.
La pena poteva consistere nella consacrazione del colpevole ed eventualmente
del suo patrimonio alla divinità (consecratio capitis; consecratio capitis et bonorum), oppure nella sua messa a morte con un sacrificio rituale (deo necari)
(GARBARINO).
ht
©
Numerosi furono i casi di consecratio cerimonia attraverso la quale una cosa veniva considerata
“sacra” (res sacra) e usciva dal patrimonio dell’offensore per trasformarsi in bene della comunità.
Ad es., è fatta risalire a Romolo la previsione della consecratio per l’ipotesi di violazione degli
obblighi di reciproca fedeltà tra patrono e cliente.
Numa Pompilio punì con tale pena colui che avesse rimosso o spostato con l’aratro le pietre poste
a confine dei fondi.
Nel V sec, le leges sacratae approvate dai plebei la comminarono a chiunque avesse violato la
persona dei tribuni (GARBARINO).
ig
L’uomo che subiva la consecratio (homo sacer) per aver commesso un crimine
inespiabile, perdeva ogni protezione da parte della comunità e pertanto chiunque
era legittimato ad ucciderlo impunemente (sembra anzi che vigeva un dovere
giuridico di tutti i cives di metterlo a morte).
C
op
yr
La sua uccisione non seguiva però nessun rituale religioso predeterminato. Differente era la
sanzione qualificabile come “deo necari”, che seguiva, invece, un rito che variava da crimine a crimine.
Così, ad esempio, chi avesse ucciso il proprio pater, veniva punito con la poena cullei (pena del sacco),
consistente nel gettare il colpevole in un fiume, o nel mare, chiuso in un sacco di cuoio nero assieme ad
alcuni animali simbolici (una vipera, un cane, un gallo, una scimmia).
Il ladro notturno di messi, invece, veniva fustigato a morte, dopo essere stato impiccato ad un albero
infausto (suspensio all’arbor infelix).
La stessa pena della suspensio all’arbor infelix era comminata per il reato di perduellio, consistente
nell’attentato contro la comunità politica (l’alto tradimento).
.
28
A
Capitolo Terzo
S.
p.
Il reato di perduellio, sin dalle origini, denota caratteri di forte laicità, essendo posto a tutela della
civitas intesa come comunità politica. Le sue origini incerte e discusse sembrano riconnettersi ai tempi
dello scontro tra Orazi e Curiazi. In età repubblicana l’accusato di perduellio era accompagnato dalla
granzia della provocatio ad populum (GARBARINO).
C) La repressione dell’omicidio
Es
se
li
br
i
La tradizione attribuisce a Numa Pompilio una norma che punisce l’omicidio,
distinguendo due ipotesi.
La prima riguarda l’omicidio volontario (commesso con dolo). In riferimento ad
essa le fonti hanno tramandato un testo in cui, ad una parte descrittiva della fattispecie
criminosa («se qualcuno abbia ucciso volontariamente un uomo libero»), segue una
seconda parte («paricidas esto») dal significato oscuro e controverso (vedi ante).
Probabilmente tale locuzione allude alla sanzione da applicare all’omicida, ma
si discute in che cosa essa propriamente consistesse. Sembra preferibile ritenere che
la norma regolasse l’esercizio della vendetta, imponendo al gruppo familiare
dell’ucciso di uccidere, a sua volta, l’omicida, vietando, quindi, implicitamente
ogni composizione patrimoniale dell’offesa subìta (cd. legge del taglione).
La seconda ipotesi prevista da Numa Pompilio attiene all’omicidio colposo
(commesso dall’imprudens): in tale ipotesi l’autore del reato doveva offrire un
ariete, forse in funzione espiatoria e sacrificale, ai congiunti dell’ucciso, al cospetto
del popolo (in contione).
ht
©
«A ben vedere, nella punizione dell’omicidio vi sono aspetti che proiettano la normativa di Numa
Pompilio verso i successivi sviluppi della repressione criminale, in qualche modo, ne preannunciano il
processo di laicizzazione e di completa sussunzione nell’ambito della civitas. In tal senso è significativa
la distinzione tra omicidio volontario e involontario, e più latamente tra dolo e colpa.
Di fronte a uno stesso accadimento, l’uccisione di un uomo libero, la responsabilità dell’uccisore
è valutata in modo diverso a seconda che egli abbia voluto uccidere, oppure l’omicidio sia conseguenza
di un suo comportamento imprudente. Nella norma, dunque, sembra emergere un orientamento punitivo
che tiene conto di quello che oggi si chiama elemento soggettivo del reato, per variare l’entità della pena,
pur rimanendo quest’ultima ancorata a caratteri di sacralità e, insieme, di vendetta» (GARBARINO).
ig
D) La vendetta privata
C
op
yr
In età arcaica la repressione di determinati comportamenti, considerati lesivi di
interessi di gruppi minori (familiae e gentes), veniva affidata alla diretta reazione
di questi ultimi (vendetta privata) e la civitas, intesa come comunità, interveniva
solo a regolare l’esercizio della vendetta, in modo da evitare che eccessi incontrollati o intollerabili omissioni venissero a turbare l’equilibrio e la pace sociale.
Nello sviluppo storico successivo, tuttavia, molti di quei comportamenti sanzionabili
con la vendetta privata diedero luogo ai cd. delitti privati produttivi di una obbligazione
da parte del responsabile nei confronti del danneggiato, il cui perseguimento venne
affidato alla libera iniziativa dell’offeso, attraverso un processo privato.
A
.
29
La monarchia
E) Crimini contro la sicurezza militare della civitas
S.
p.
Si pensi per esempio al reato di membrum ruptum (lesione permanente di un organo), rispetto al
quale le XII Tavole prevedevano ancora la legge del taglione, che poteva essere evitata con il
raggiungimento di un accordo e di risarcimento tra le parti. Per altre fattispecie, quali l’os fractum
(rottura di un osso) o le iniuriae (lesioni personali minori) le XII Tavole stabilivano una pena
patrimoniale fissa, non consentendo la vendetta privata.
li
br
i
Altri crimini venivano puniti perchè ponevano in pericolo la sicurezza militare
della civitas: il tradimento, la codardia, il passaggio al nemico, la diserzione, la
sedizione.
In tali casi la repressione era priva di connotati sacrali. Il re li perseguiva in veste
di supremo comandante militare, ossia esercitando il suo imperium.
Anche le pene per essi previste mostravano connotazioni laiche: di regola il
colpevole veniva fustigato e poi decapitato con la scure (simbolo e strumento del
potere regio).
Es
se
«II carattere laico di questo tipo di crimini trova forse la sua spiegazione nel fatto che le esigenze
della difesa comune e l’efficienza dell’esercito richiedevano una reazione pronta e immediata alla
commissione dell’illecito, anche al fine di preservare la disciplina militare. Sembra dunque che la laicità
così risalente dei crimini militari sia dipesa soprattutto da ragioni di efficienza dell’esercito» (GARBARINO).
9. LA MONARCHIA ETRUSCA
©
A) Generalità
yr
ig
ht
Con l’avvento dei re etruschi (6) si è assistito ad un mutamento dei rapporti di
produzione, a cui corrispose una struttura sociale nuova nella quale il peso della
aristocrazia venne gradatamente attenuandosi.
In questa emergente realtà si aprirono nuovi spazi sottratti al controllo delle
aristocrazie gentilizie e maturano le condizioni per l’affermarsi di una forza sociale
in ascesa tendente a sottrarsi all’egemonia patrizia: la «plebe».
Anche l’ampliamento del numero dei senatori voluto dai reges etruschi con
l’immissione di 100 o 150 nuovi patres contribuisce all’emersione di un nuovo
gruppo sociale: le «minores gentes» (TALAMANCA).
op
(6) Per la dottrina dominante l’immagine dei reges etruschi è la seguente:
da un lato capi autoritari, talora tirannici, accompagnati da un complesso simbolismo, dal quale traspare il loro
rafforzato ruolo militare;
— dall’altro lo status di precorritori nella formazione delle condizioni che porteranno alla affermazione del sistema
repubblicano.
C
—
.
30
A
Capitolo Terzo
p.
Il Senato subì, così, una diminuzione della sua autorità tradizionale e mutarono
anche i rapporti tra rex e senatus ed in particolare venne gradualmente meno la
rilevanza del potere consultivo di quest’ultimo.
S.
Va infine precisato che, contemporaneamente al citato esautoramento di
potere, al senato continuarono ad essere attribuite le tre funzioni tradizionali:
br
i
— l’Interregnum (garanzia per la continuità degli auspicia)
— l’Auctoritas (ratifica delle deliberazioni)
— il Ius belli et pacis (titolarità del diritto di concludere i «foedera» cioè i patti
internazionali).
li
10. Segue: L’ORDINAMENTO CENTURIATO
A) Origine
yr
ig
ht
©
Es
se
Sin dall’epoca latino-sabina la difesa dell’Urbe rappresentava il dovere primario di ogni cittadino, il quale aveva anche il dovere di dotarsi a sue spese
dell’armamento per combattere.
Organizzazione politica e militare erano strettamente connesse: le curiae
fungevano da distretti di leva e fornivano un contingente fisso di uomini.
Nella fase etrusco-latina, lo sviluppo economico creò una crescita delle risorse
economiche, dando la possibilità a molti cittadini di dotarsi di un’armatura da
guerra completa.
Così la formazione di una nuova classe di piccoli e medi produttori, e le mire
espansionistiche di Roma crearono le premesse per la creazione di un nuovo
esercito, più numeroso e meglio organizzato.
Tale organizzazione militare fu strutturata sulla base della falange oplitica,
nella quale la fanteria aveva un ruolo predominante rispetto alla cavalleria, ed
il valore individuale dei soldati era ridimensionato dall’impiego di armature
bronzee.
L’exercitus continuò ad essere articolato in centuriae, ma la distribuzione dei
soldati all’interno di ciascuna di esse era attuata, diversamente che nella fase
precedente, sulla base del censo, ossia in base alla ricchezza di ciascun combattente
e dell’armamento che si poteva permettere.
B) La struttura dell’ordinamento centuriato
C
op
Secondo il racconto di LIVIO, si deve a Servio Tullio la ripartizione della
cittadinanza in base alla ricchezza (censo).
A
.
31
La monarchia
100.000
75.000
50.000
25.000
11.000
per la I classe;
per la II classe;
per la III classe;
per la IV classe;
per la V classe.
S.
—
—
—
—
—
p.
La riforma serviana era incentrata sul censo, in virtù del quale la popolazione venne divisa in 5 classi
a seconda del patrimonio di ciascuno, calcolato in sesterzi o più verosimilmente in assi:
br
i
In questo modo gli oneri militari, sia in pace sia in guerra, non furono più
addossati in misura uguale ad ognuno, ma «pro habitu pecuniarum», (LIVIO 1, 42,
5), cioè ripartiti in base alla condizione economica di ciascun cittadino.
Ogni classe fu divisa a sua volta in un certo numero di centuriae (gruppi che dovevano fornire in
guerra 100 uomini):
Es
se
li
— alla cavalleria, composta da patrizi (equites), facevano capo 18 centurie, 6 delle quali con il nome
di sex suffragia;
— alla fanteria, composta da soli plebei (pedites), appartenevano le rimanenti 170 centurie, che erano
a loro volta ripartite in cinque classi in cui ciascuna aveva centurie di seniores (uomini dai 45 ai 60
anni) e di iuniores (18 a 44 anni).
La prima classe aveva nel complesso 80 centurie, la seconda, la terza e la quarta 20 ciascuna, la
quinta, in totale, ne contava 30.
Tutta la restante popolazione (proletari), che rimaneva fuori dal sistema perché priva di censo
(capite censi, cioè censiti non per i loro beni, ma per teste) era divisa in cinque centurie formate
da tubicìnes (trombettieri); cornìcines (suonatori di flauto); fabri aerari e fabri tignari, ausiliari che
si limitavano prevalentemente a fornire supporti tecnici ai combattenti.
yr
ig
ht
©
In totale, le centurie erano 193.
Come detto ogni centuria non rappresentava solo un distretto di leva per il
reclutamento dei milites; nel comizio, inteso come assemblea con funzioni deliberative, le centurie rappresentavano infatti altrettante unità votanti: il voto anzi
partiva sempre dalle prime 18 centurie di cavalieri.
Il sistema di votazione per centurie assicurava, in realtà, un maggiore peso
politico ai cittadini più abbienti; tale privilegio derivava dall’accorpamento di un
gran numero di centurie nella prima classe e in quella dei cavalieri (rispettivamente 80 e 18), numero che rappresentava già di per sé la maggioranza assoluta dei voti
espressi dall’assemblea (98 su 193), tanto che spesso non era necessario chiamare
alla votazione la seconda classe, composta dalle classi meno abbienti, perché con
i soli voti delle prime si era già raggiunta la maggioranza.
C) Funzioni e significato politico e storico della costituzione centuriata
C
op
Le questioni relative alle competenze dei comizi centuriati si riferiscono ad
epoca successiva: è, infatti, improbabile che il rex, nella fase della monarchia
etrusca, possa in qualche modo aver riconosciuto valore politico alla volontà
.
32
A
Capitolo Terzo
D) Carattere militare dell’ordinamento centuriato
S.
p.
dell’assemblea cittadina, sia in ordine alle decisioni riguardanti la vita del cittadino
nei processi politici (de capite civis), sia relativamente agli affari importanti sulla
difesa militare (leges de bello indicendo).
Secondo la tradizione, la divisione della popolazione in centurie si deve a
SERVIO TULLIO e, quindi, risale al periodo della monarchia etrusca.
i
Diversi elementi confermano l’originario carattere militare dell’ordinamento centuriato:
se
li
br
— il termine imperare, tipico del comando militare, è usato a proposito della convocazione del popolo
nei comizi;
— la stessa assemblea centuriata è designata come «esercito urbano»;
— i comizi centuriati, come vedremo, a causa del loro aspetto militare erano convocati fuori dalle sacre
cinta della città, il pomerium (TALAMANCA);
— la stessa suddivisione fra iuniores e seniores si spiega in base a finalità militari e non politiche;
— l’indeterminatezza del numero di centurie, che comprendeva una quantità non costante di cittadini,
rende inverosimile l’utilizzo di tale ripartizione per scopi politici;
— i comizi potevano essere convocati solo da un magistrato fornito di imperium.
Es
Non risulta con certezza fino a quando l’ordinamento centuriato abbia svolto le
sue originarie funzioni militari, ma è certo che la sua trasformazione in organo
politico è una conseguenza del fatto che l’assemblea centuriata era «l’assemblea
degli armati», chiamati, proprio in quanto tali, a partecipare da protagonisti alla
vita politica della civitas (FREZZA).
©
E) Modalità di convocazione dei comizi
C
op
yr
ig
ht
I comizi centuriati potevano essere convocati solo da un magistrato munito di
imperium. La convocazione aveva il fine prevalente di approvare una legge o di
accertare un reato ed irrogare al responsabile la relativa pena.
La convocazione era preceduta da un apposito editto che fissava la data della
riunione, avendo cura di frapporre un intervallo di tempo (pari almeno ad un
trinudinum, all’incirca da 17 a 24 giorni cioè al periodo in cui potevano svolgersi
almeno tre mercati), durante il quale il magistrato illustrava al popolo riunito
informalmente in conciones la proposta di legge o il reato prefigurato. A seguito di
tali conciones poteva decidere di ritirare la proposta di legge o l’accusa criminale
ma, se non desisteva, il popolo veniva ammesso a votare (ma non anche ad apportare
eventuali emendamenti, i quali erano di competenza esclusiva del magistrato).
.
A
p.
CAPITOLO QUARTO
S.
LA FASE DELLA PRIMA REPUBBLICA
br
i
Sommario: 1. L’avvento del regime repubblicano. - 2. La situazione economica e militare. - 3.
La plebe. - 4. Gli obiettivi delle lotte dei plebei contro i patrizi. - 5. Il decemvirato legislativo. 6. Il codice decemvirale (XII Tavole). - 7. La provocatio ad populum. - 8. La soluzione del
conflitto di classe tra patrizi e plebei.
li
1. L’AVVENTO DEL REGIME REPUBBLICANO
©
Es
se
I primi cinquant’anni di vita del regime repubblicano sono considerate come
il periodo più oscuro di tutta la storia di Roma (TONDO).
Secondo la tradizione, attorno alla fine del VI secolo a.C. (509), una rivolta portò
alla espulsione dalla città di Tarquinio il Superbo e dei suoi figli.
Dopo l’allontanamento del tiranno, i Romani per motivi di equilibrio, scelsero,
in luogo di un solo capo perenne, due capi con poteri annuali (detti Praetores o
Consules).
Si trattava di una coppia di magistrati investiti, collegialmente e singolarmente,
dei poteri e che venivano eletti dai comizi centuriati.
La durata annuale e la dualità consentivano a Roma una dialettica tra poteri,
precedentemente assente con la figura del rex.
ht
Se queste furono le ragioni essenziali del tramonto del precedente assetto istituzionale, le
conseguenze furono le seguenti:
yr
ig
1) anche se nella «sostanza» il potere dei consules venne conservato inalterato rispetto a quello del rex
— tanto che i nuovi magistrati furono visti come continuatori del potere regio — fu tuttavia posto
il limite dell’annualità, che assicurava la concreta possibilità che lo stesso soggetto, una volta
deposta la carica, fosse chiamato a rispondere del suo operato;
2) si previde, poi, l’affidamento del potere sovrano contemporaneamente ed in solido a due persone;
ciò da un lato rendeva possibile la prevenzione di eventuali abusi di potere attraverso «l’intercessio»
del collega; dall’altro non precludeva l’esercizio individuale del potere di ciascun console.
2. LA SITUAZIONE ECONOMICA E MILITARE
op
A) La situazione economica
C
In origine l’economia romana era poco sviluppata e basata essenzialmente sulla
pastorizia e agricoltura; l’aristocrazia era formata dai maggiori proprietari di fondi,
i quali curavano personalmente le loro aziende agricole.
.
34
A
Capitolo Quarto
S.
p.
Gli Etruschi introdussero in Roma le prime forme di artigianato, le prime
industrie e il commercio incrementando, in tal modo, lo sviluppo dell’economia; la
decadenza della potenza etrusca e la conseguente fine dell’espansionismo etrusco,
a seguito della sconfitta di Ariccia del 504 a.C., determinò una diminuzione dei
traffici e causò una grave crisi economica. L’economia romana tornò, pertanto, a
fondarsi quasi integralmente sull’agricoltura.
br
i
Questa svolta del sistema economico aprì la via alle lotte di classe dei plebei, che non potendo più
dedicarsi con profitto ai commerci, furono costretti a tornare a lavorare nei campi di proprietà dei patrizi.
D’altra parte, le necessità economiche della novella civitas determinarono l’esigenza di conquistare
nuove terre per l’agricoltura cosicché il governo oligarchico della repubblica fu costretto ad intraprendere le prime guerre per la conquista del Lazio.
li
B) La situazione militare
Es
se
Il periodo di transizione dalla monarchia alla Repubblica fu caratterizzato da
numerose e violente guerre.
Il predominio etrusco aveva assicurato a Roma il vantaggio della pace, interrotta
volontariamente solo da guerre locali intraprese per mire espansionistiche. La
cacciata dei Tarquinii espose Roma prima ai tentativi di riscossa degli Etruschi e,
successivamente, alle guerre contro i Latini e i Volsci.
I Romani, dopo aver sconfitto i Latini (battaglia del lago Regillo, 497 o 496
a.C.), stipularono con essi ad opera di Spurio Cassio, il cd. foedus Cassianum (493
a.C.), un trattato di alleanza difensiva e di buon vicinato che assicurava ai Latini la
piena parità con i Romani.
yr
ig
ht
©
Uguale foedus aequum (che riconosceva la parità tra le due genti) fu stipulato con la popolazione
degli Ernici, la cui alleanza garantiva a Roma l’isolamento geografico delle popolazioni più tradizionalmente ostili, e cioè degli Equi e dei Volsci.
Sicura della fedeltà delle alleate, Roma si impegnò a fondo contro gli Etruschi e la loro città più
importante, Veio: dopo una precaria pace stipulata nel 474 a.C., la guerra fu ripresa dai Veienti e sembrò
concludersi nel 426, con la distruzione di Fidene.
Dopo circa 20 anni di pace, nel 407 o 406, creata una nuova legione, Roma riprese la guerra,
conclusasi, dopo 10 anni di assedio, con la distruzione di Veio, nel 396, ad opera di Furio Camillo. Il
territorio di Veio fu diviso tra Roma e i suoi alleati Latini.
Nello stesso periodo di tempo Roma fu protagonista di altri scontri militari. A partire dal 400 a.C.
la popolazione dei Galli cominciò a invadere l’Italia Centrale, giungendo fino alla posizione-chiave di
Chiusi (in mano etrusca). I Galli, capeggiati dal famoso Brenno, scesero fino a Roma, che fu invasa,
saccheggiata e incendiata; la tradizione racconta che, per riscattare Roma, si dovettero versare 1000 libre
d’oro. Secondo la tradizione, i Galli furono scacciati da un esercito guidato da Furio Camillo, l’eroe della
guerra contro Veio.
C
op
Fu proprio a causa delle frequenti mobilitazioni militari che la plebe, forte per
numero e, quindi, insostituibile nucleo dell’esercito, riuscì ad imporre il proprio
potere. Il gran numero delle guerre affrontate rese ben presto insufficiente la leva
dei soli patrizi, cosicché sempre più spesso si dovette ricorrere al reclutamento della
A
.
35
La fase della Prima Repubblica
S.
p.
plebe, al fine di rinforzare l’esercito. L’affidamento che Roma dovette fare sulle
energie militari ed economiche della plebe costituì la rampa di lancio della lotta dei
plebei per la conquista del potere (ARANGIO-RUIZ).
3. LA PLEBE
se
li
br
i
Le fonti ci forniscono notizie sull’organizzazione della plebe solo a partire dalla
prima secessione, avvenuta nel 494 a.C., ossia nel momento in cui ha inizio la lotta
fra i due ordini (patriziato e plebe).
Non si può, però, ritenere che prima di tale momento la comunità plebea non
avesse un’organizzazione propria.
All’interno della civitas la plebe godeva della libertà e della cittadinanza. Non
esisteva, pertanto, alcun rapporto di schiavitù tra plebei e patrizi nonostante la plebe
vivesse in palese condizione di inferiorità.
A) I diritti politici
Per il godimento di tali diritti, diversi sono gli orientamenti dottrinali:
ht
©
Es
— alcuni autori (ARANGIO-RUIZ) ritengono che i plebei probabilmente non
furono esclusi dai diritti politici, partecipando sia alle originarie tribù (Ramnes,
Tities, Luceres), sia al comizio curato, sia in un secondo momento, alle
organizzazioni istituzionali repubblicane: i plebei sarebbero stati esclusi soltanto dai vertici politici (magistratura, sacerdozi, collegio senatoriale);
— altri autori sottolineano, in contrario, la estraneità della plebe (almeno in
origine), rispetto al patriziato: la plebe, priva di organizzazione gentilizia, non
avrebbe potuto esser parte attiva di tutte le istituzioni collegate all’ordinamento
gentilizio (connubium, auspicia etc.).
ig
B) La posizione economica
C
op
yr
La soggezione economica della plebe al patriziato era notevole in quanto i plebei
erano, al contrario dei patrizi, esclusi dalle occupazioni di ager publicus» (vedi infra):
la plebe rustica era, così, costretta ad elemosinare la concessione di piccoli appezzamenti di terreno da coltivare, per trarne sostentamento, ponendosi con ciò verso i
concedenti patrizi in una posizione di clientela che ne limitava anche la libertà politica.
La plebe urbana, al contrario, si dedicò all’artigianato ed al commercio: nel
suo ambito si formarono, pertanto, «famiglie abbienti ed influenti, le quali diedero
man forte al popolo minuto nelle successive rivendicazioni».
All’interno della plebe non si riscontravano, quindi, condizioni economiche
omogenee.
.
36
A
Capitolo Quarto
p.
In virtù di quanto fin qui detto, alcuni studiosi ritengono che sia possibile distinguere nell’ambito
della plebe, due gruppi sociali: il «popolo grasso» e il «popolo minuto» (FREZZA):
S.
— per il primo gruppo la questione fondamentale era la parificazione giuridica con i patrizi;
— per il secondo la lotta contro i patrizi era rivolta essenzialmente al miglioramento delle proprie
condizioni di vita.
i
4. GLI OBIETTIVI DELLE LOTTE DEI PLEBEI CONTRO I PATRIZI
©
Es
se
li
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Due furono gli obiettivi principali delle lotte della plebe contro il patriziato:
— la aequatio iuris, cioè la rimozione degli ostacoli che si frapponevano alla
partecipazione attiva alla vita cittadina, sia da un punto di vista politico sia da
un punto di vista sociale.
Si collocava nel primo ambito la lotta per l’equiparazione nell’assunzione delle
cariche dello Stato, nel secondo la lotta per l’abolizione del divieto di connubio
(matrimonio) tra patrizi e plebei.
Va, peraltro, sottolineato che ai plebei interessava non tanto la facoltà, assai
limitata per tutti, di partecipare direttamente alla direzione politica, quanto la
possibilità di essere protetti dall’arbitrio dei potenti: in ciò si concretò, in
fondo, l’aspirazione alla libertà civile dei Romani;
— le rivendicazioni economiche, cioè la lotta per la rimozione dei privilegi
economici del patriziato, che si concretò nelle richieste di una più equa
distribuzione dell’ager publicus e dell’abolizione delle norme che ponevano il
debitore inadempiente nella totale disponibilità del creditore (si pensi all’istituto del nexum, con cui il debitore si sottoponeva fisicamente al potere del
creditore fino a quando non avesse soddisfatto il debito).
ig
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Tale intreccio di richieste, ispirate a logiche diverse e contrastanti, si può agevolmente spiegare,
ripensando alla composizione eterogenea della plebe. La parificazione giuridica rappresentava l’obiettivo fondamentale per il «popolo grasso»; la distribuzione delle terre e la cancellazione dei debiti
costituiva la richiesta pressante del «popolo minuto», vessato dai debiti ed escluso dal possesso delle
terre conquistate e dallo sfruttamento delle stesse.
yr
5. IL DECEMVIRATO LEGISLATIVO
C
op
Nel 451 a.C. venne eletto un collegio di dieci decemviri (Decemviri Legibus
Scribundis), tutti di origine patrizia.
Costoro ebbero pieni poteri militari e civili e di conseguenza furono sospese
tutte le magistrature ordinarie.
Trascorso l’anno di carica, l’anno successivo fu eletto un nuovo collegio, il secondo
decemvirato, col compito precipuo di completare ed integrare l’opera del primo.
A
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37
La fase della Prima Repubblica
S.
p.
L’importanza della legislazione decemvirale non sta tanto nel contenuto delle
norme, che in sostanza rimasero quelle tradizionali, ma nella stabilità normativa
e nella pubblicità ottenute grazie alla redazione ad un testo ufficiale.
Attraverso tale legislazione si volle garantire la cd. certezza del diritto e l’equa
applicazione dello stesso a vantaggio dei ceti più deboli.
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6. IL CODICE DECEMVIRALE (XII TAVOLE)
br
A) Generalità
ig
ht
©
Es
se
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Tale opera è andata perduta: notizie intorno ad essa ci sono giunte non
direttamente, bensì attraverso citazioni dirette e indirette riscontrate nelle diverse
fonti.
La ricostruzione è molto frammentaria e presenta non pochi motivi di dubbio
per quanto afferisce alla partizione della materia nelle singole «tabulae» e l’ordine
interno di queste ultime.
La dottrina prevalente è incline a considerare le XII Tavole come una codificazione parziale che, lungi dal coprire tutti gli aspetti della fenomenologia socioeconomica, aveva lasciato sopravvivere, in affianco ai suoi precetti, settori più o
meno ampi del diritto regolato dai «mores» (TALAMANCA).
Da un punto di vista stilistico/tecnico le XII Tavole presentano un testo in cui
le previsioni normative sono astratte e generalizzate.
Tuttavia, pur nella sua incompletezza, il contenuto delle XII Tavole rispecchia
fedelmente una società organizzata secondo lo schema della famiglia agnatizia,
dominata dalla potestas accentratrice del pater su tutti i sottoposti.
Comunque, nonostante la scarsezza di fonti, le leggi delle XII Tavole hanno dato
un valido apporto alla evoluzione della tecnica di produzione delle norme ed allo
stesso sistema normativo nel suo complesso.
Tale legislazione, oltre a contenere prescrizioni relative ai rami del diritto
privato e penale, raccoglievano disposizioni sugli schemi procedurali delle azioni
giudiziarie, fissando i presupposti delle varie actiones (vedi infra).
yr
B) Il diritto processuale
Il processo primitivo (cd. procedimento per legis actiones) aveva carattere
volontario e privato e richiedeva sempre l’impulso individuale (actio) di parte.
op
Il processo era diviso in due fasi:
C
— la prima fase, in iure, si svolgeva davanti al magistrato (cioè davanti ad un organo pubblico);
— la seconda, apud iudicem, si svolgeva davanti ad un giudice privato o arbitro (iudex privatus).
.
38
A
Capitolo Quarto
i
S.
p.
Elemento essenziale della fase in iure era la litis contestatio, ossia lo scambio delle dichiarazioni
solenni delle parti; scopo fondamentale della fase in iure era, invece, l’esatta individuazione dei termini
della controversia.
Le parti si presentavano davanti al magistrato ed esponevano unicamente le loro pretese, né il
magistrato era tenuto ad emettere un proprio giudizio.
Se il magistrato non riusciva a conciliare i contendenti, rimetteva le parti ad un iudex privatus. Con
questa remissione si apriva la fase apud iudicem: il iudex, che poteva essere anche un privato cittadino,
ascoltate le ragioni delle parti ed esaminati i mezzi di prova, pronunciava la sententia (definitiva e
vincolante) oralmente.
br
C) Il diritto penale
Es
se
li
L’ordinamento dell’Urbe (come detto al cap. 3, par. 8) si fondava, in larghissima
parte, sul principio della vendetta privata da parte dell’offeso.
Un intervento punitivo da parte dello Stato si aveva solo in caso di alto
tradimento (perduellio) e, forse, per certi delitti sacrali di interesse pubblico molto
gravi; cioè solo per quei fatti criminosi che si rivolgevano direttamente contro la
comunità. Diversamente, il compito di perseguire l’assassino (parricidas) veniva
lasciato al gruppo familiare dell’ucciso.
Esistevano, altresì, una serie di altri delitti per i quali le XII Tavole prescrivevano
espressamente la pena di morte (ad esempio il colpevole di incendio doloso doveva
essere bruciato vivo).
Differenza tra crimina e delicta
Nel sistema delle XII Tavole viene delineandosi la fondamentale distinzione tra:
ht
©
— delitti pubblici (crimina), perseguiti dallo Stato attraverso gli organi preposti a ciò e sanzionati
con pena pubblica, corporale o pecuniaria;
— delitti privati (delicta o maleficia), perseguiti dall’offeso nelle forme del processo privato e
sanzionati con pena privata, solo pecuniaria, dovuta esclusivamente alla parte lesa (TALAMANCA).
ig
7. LA PROVOCATIO AD POPULUM
op
yr
Si tratta di uno dei «pilastri della costituzione repubblicana». In virtù di esso
il cittadino, condannato a morte (in seguito anche a pene minori) dal magistrato
esercitante l’imperium (1) poteva sottrarsi alla condanna, chiedendo l’instaurazione di un regolare processo dinanzi ai comitia per contestare l’esercizio arbitrario
dell’imperium in quanto in Roma la “potenza dei ricchi aveva maggior peso della
libertà della plebe” (LIVIO).
C
(1) La provocatio si poteva esercitare solo contro l’imperium domi e non contro l’imperium militiae.
A
.
39
La fase della Prima Repubblica
S.
p.
Attraverso tale istituto il patriziato poteva cautelarsi contro i possibili abusi dei
magistrati. Anche se, teoricamente, gli stessi plebei — al pari dei patrizi —
potevano adire il popolo riunito, finché il potere rimase monopolio dei patrizi, tale
situazione in pratica si poté realizzare difficilmente.
L’istituto della provocatio fu introdotto dalla Lex Valeria de oratia provocatione del 509 a.C. Il processo comiziale si divideva in due fasi:
li
br
i
— fase della anquisitio (inchiesta istruttoria in tre sedute) del magistrato per
accertare l’effettiva esistenza del crimine: questa fase si concludeva in una
quarta riunione (dopo un intervallo di almeno 24 giorni detto trinundinum) con
la condanna o il proscioglimento (che venivano contrassegnate su una tavoletta
cerata con una D per damnatio, o una L per liberatio);
— fase della rogatio o richiesta dell’assemblea, che si pronunciava circa l’entità
della pena (2).
Es
se
I comizi dinnanzi ai quali si svolgevano i processi popolari furono inizialmente
i «comitia curiata». Solo successivamente tale svolgimento si spostò davanti ai
«comitia centuriata» (attorno alla metà del V sec. a.C.).
Questo cambiamento, introdotto dalle XII Tavole, rispondeva al principio
secondo cui: «quando in questione vi era il caput del cittadino la decisione doveva
essere riservata ai comizi centuriati» (Cicerone - «Pro Sestio»).
ht
©
Durante l’età imperiale i cittadini romani furono privati di tale guarentigia. Essi potevano far
ricorso al principe (mediante l’appello), ma si trattava di un rimedio meno sicuro, ovviamente, dello «ius
provocationis», infatti il potere discrezionale dei funzionari del principe (amplius cap. XV) in materia
era molto ampio in quanto essi potevano addirittura rifiutare di ricevere gli appelli interposti al solo scopo
di procrastinare l’esecuzione della sentenza.
8. LA SOLUZIONE DEL CONFLITTO DI CLASSE TRA PATRIZI E
PLEBEI
yr
ig
Con l’instaurazione della Repubblica emerse il contrasto tra patrizi e plebei che
perdurò fino al pareggiamento tra le classi del IV sec., in virtù del quale fu aperta
la possibilità di adire alla carriera delle magistrature anche agli appartenenti alla
classe plebea.
op
I patrizi che appartenevano alla gentes, (vedi ante) avevano origini certe in quanto discendenti
diretti dei fondatori della città: i plebei erano, invece, di stirpe ignota e, comunque, diversa, non erano
legati alle tradizioni pontificali e religiose e adoravano Dei differenti (Cerere, Libero, Libera) rispetto
ai patrizi legati a Giove, Giunone, Minerva.
C
(2) Al condannato che voleva sfuggire alla pena capitale era concesso di sottrarsi ad essa fuggendo in esilio e
subendo, così, la perdita della cittadinanza, nonché la confisca di tutti i suoi beni (interdictio acqua et igni).
.
40
A
Capitolo Quarto
p.
I plebei avevano il loro santuario fuori dal pomerium: sull’Aventino (detto, pertanto, “mons
plebeius”) per venerare la dea della caccia Diana.
S.
Lo scontro tra le due classi, con l’espansione dell’Urbe e la crescita economica
della classe plebea, era inevitabile: esso, però, si manifestò in progressive concessioni strappate al patriziato attraverso atti normativi che si seguirono per circa un
secolo fino al pareggiamento politico, erano le fasi più salienti.
i
A) La lex canuleia e l’abolizione del connubium
li
br
Livio riferisce che nel 445 a.C. il Tribuno Gaio Canuleio propose l’abolizione
del divieto di connubio tra patrizi e plebei, divieto contemplato nelle ultime due
tavole della Lex XII Tabularum.
L’abolizione di tale divieto rappresentò una tappa particolarmente significativa
per la parificazione giuridica e, quindi, politica, nell’ambito della comunità
dell’Urbe.
Es
se
Non a caso si parla di parificazione giuridico-politica: infatti se le nozze tra patrizi e plebei
venivano giudicate iustae, automaticamente i plebei (ed i loro figli) erano ammessi a partecipare alla vita
dei sacra gentilizi e, quindi, a prendere gli «ambitissimi auspici pubblici»; di conseguenza, veniva
implicitamente meno ogni preclusione all’esercizio anche da parte loro dell’imperium.
B) I tribuni militum consulari potestate
ht
©
Le fonti antiche (LIVIO) individuano l’origine di tale magistratura in motivi
diversi:
— motivi militari, nel senso che il senato avrebbe deciso di volta in volta se
eleggere consoli o tribuni sulla base delle esigenze belliche;
— conflitti di classe, nel senso che i plebei, non essendo ancora riusciti ad occupare
cariche consolari, impedirono l’elezione dei consoli ed imposero come magistrati
i capi militari dell’esercito, che potevano, invece, essere anche plebei.
yr
ig
Per gli studiosi moderni i due motivi addotti da LIVIO non solo non si
escludono, ma si integrano a vicenda.
In conclusione, per quanto concerne l’interpretazione della presenza di tribuni
militum ai vertici dello Stato è preferibile ipotizzare oscillazioni costituzionali del
periodo che segue il decemvirato e precede l’assetto definitivo raggiunto nel 367
a.C., determinate contemporaneamente sia dal conflitto tra le due classi che (con
le leggi Liciniae Sextiae) da esigenze militari.
C
op
Arbitro della continuità della magistratura consolare o dell’opportunità di
affidare funzioni magistratuali anche agli ufficiali della legione, fu il Senato,
perché:
— rappresentava la continuità del supremo potere a Roma;
A
.
41
La fase della Prima Repubblica
p.
— durante la crisi costituzionale era sentita la necessità di un organo in grado di
eleggere i magistrati supremi, per evitare lotte interne.
S.
Non è escluso che alla nomina dei tribuni abbia in qualche forma partecipato
anche l’esercito, attraverso l’assemblea delle centurie.
I poteri dei tribuni militum consulari potestate corrispondevano in linea di massima a quelli dei
consoli eccetto quelli fondati sulla titolarità dell’auspicium; così, i tribuni militum avevano:
br
i
— l’incapacità di nominare il dittatore;
— l’incapacità di suffectio (possibilità di colmare eventuali lacune nel collegio con la nomina di un collega);
— l’incapacità di ottenere l’onore del trionfo e di avere la stessa posizione di cui godeva il console,
scaduto l’anno in carica.
C) Le leges Liciniae-Sextiae (367 a.C.)
ht
©
Es
se
li
Le leggi Liciniae-Sextiae segnarono la vittoria finale della plebe che portò al
definitivo pareggiamento politico delle classi a seguito di una serie di normative
favorevoli al ceto plebeo, e cioè:
— misure a favore dei debitori: il debito da pagare al creditore veniva da un lato
diminuito di quanto era stato già versato a titolo di interesse e, da un altro lato
veniva rateizzato in tre annualità (Lex Licinia de aere alieno);
— misure relative alla distribuzione delle terre: la legge fissava un limite alle appropriazioni di terre pubbliche (di esclusivo appannaggio dei patrizi), stabilendo che nessun
pater familias potesse possedere più di 500 iugeri (Lex Licinia de modo agrorum);
— misure relative al Consolato: si stabilì la possibilità per i plebei di rivestire la
carica di console, riservando loro uno dei due posti. Questa norma di fatto sarà
osservata in modo regolare solo a partire dal 320 a.C., ma solo nel 172 a.C. data
in cui addirittura si ebbero due consoli plebei (Lex Licinia de consule plebeio).
D) Le leges Valeriae Horatiae (449 a.C.)
op
yr
ig
La prima di tali leggi attribuiva ai plebiscita emanati dai concilia plebis valore
vincolante, dando in questo modo più forza alla plebe (3).
La terza, invece, riconfermò la tribunicia potestas dei magistrati plebei riconoscendo il carattere sacrale dei loro atti.
Con tali leggi, dunque, fu raggiunto un compromesso politico tra patrizi e
plebei (TALAMANCA) e si riconobbe la “dualità” degli ordinamenti attribuendo
validità giuridica piena (e non più di fatto) all’attività delle istituzioni plebee.
Della seconda lex Valeria Horatia de provocazione si è già detto al par. 7 di
questo capitolo.
C
(3) Per la dottrina prevalente appare improbabile che questo “pacchetto” di provvedimenti da solo avesse già
sancito l’equiparazione dei plebiscita alle leggi.
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A
p.
S.
i
br
li
se
Es
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ig
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op
C
La romanizzazione dell’Italia alla metà del II sec. a.C.