PERCORSI DIDATTICI Giuseppe Verdi A duecento anni dalla nascita Lorenzo Bianconi NELL’IMMAGINARIO POPOLARE GIUSEPPE VERDI (1813-1901) È IL MUSICISTA “NAZIONALE” PER ANTONOMASIA: PIAZZE, STRADE, TEATRI, SCUOLE DI MUSICA A LUI INTITOLATE LO DIMOSTRANO. LA SUA ARTE TOCCÒ CORDE PROFONDE DELL’ANIMO COLLETTIVO; NELL’ODE IN MORTE DI GIUSEPPE VERDI GABRIELE D’ANNUNZIO SEPPE DIRLO CON RARA CONCISIONE: «DIEDE UNA VOCE ALLE SPERANZE E AI LUTTI. PIANSE ED AMÒ PER TUTTI». L a lunga parabola creativa di Verdi si colloca in una fase cruciale della storia nazionale: nato nel Ducato di Parma agli sgoccioli dell’età napoleonica, si formò, debuttò, incontrò i primi successi a Milano e a Venezia sotto il governo austriaco; da artista aderì idealmente ai moti del ’48; intorno al 1859 il suo nome divenne addirittura uno slogan politico («Viva Vittorio Emanuele Re D’Italia»); nel 1861 fu eletto al Parlamento del Regno, nel 1874 nominato senatore. Oltralpe, oltremanica, oltreoceano il nome di Verdi, nella seconda metà dell’Ottocento, fu sinonimo di musica italiana, di volta in volta in senso elogiativo o limitativo. In realtà la qualifica di musicista a Verdi stava stretta. «No, no, lasci andare il gran musicista, io sono un uomo di teatro!», avrebbe pubblicamente protestato nel 1893. Il grosso della sua produzione consiste nei 27 melodrammi composti tra il 1839 e il 1893. Come operista – ossia come compositore dedito a una forma di produzione multiforme, cooperativa e dispendiosa – Verdi si trovò a lavorare entro i vincoli obbliganti di un sistema produttivo ben rodato: un sistema teatrale che sull’arco di mezzo secolo subì notevoli sviluppi e al tempo stesso manifestò una ragguardevole tenacia. Nuova Secondaria - n. 2 2013 - Anno XXXI Giuseppe Verdi, incisione di E. Mancastroppa dalla fotografia di A. Ferrario nel numero speciale de «L’Illustrazione italiana» dedicato a Falstaff (1893). 53 PERCORSI DIDATTICI I ritmi di produzione Uno sviluppo significativo nel sistema teatrale riguardò i ritmi di produzione: negli anni ’40 Verdi scrive mediamente due opere all’anno, negli anni ’50 una ogni due anni (ma Il trovatore e La traviata, due capolavori assoluti, furono varati a un mese e mezzo di distanza, in due città lontane come Roma e Venezia), da vecchio una a decennio: è evidente che l’impegno creativo profuso nel progettare, stendere, realizzare il singolo melodramma muta radicalmente. Nel 1858 Verdi – ormai all’acme della fama nazionale e mondiale, proprietario terriero padrone della propria vita – dichiara: «Da Nabucco in poi non ho avuto, si può dire, un’ora di quiete. Sedici anni di galera!!». Ma fin dai primi anni Verdi, artista dotato di una smagliante chiarezza ideativa e uomo dal temperamento imperioso, aveva preteso da impresari, librettisti, editori il rispetto rigoroso delle proprie intenzioni. Così facendo aveva dato un impulso notevole all’ammodernamento del sistema teatrale italiano, accentrando sul compositore una responsabilità ben maggiore che per il passato. Il sistema delle voci: il triangolo soprano-tenore-basso Una costante tenace del sistema operistico italiano consiste nella preponderanza del canto. Per dirla con una formula coniata dal critico Fedele d’Amico, «il personaggio, nell’opera lirica, è la sua voce»: non si dà drammaturgia se non attraverso il risalto dato al cantante, o per meglio dire ai cantanti, alla costellazione dei personaggi che s’incarna nella costellazione delle loro voci. Nel melodramma romantico italiano questa costellazione – la metafora astronomica rende bene l’idea d’un insieme di corpi assoggettati a una forza di gravitazione che li tiene in continuo movimento – è codificata, standardizzata. Nella battuta di un 54 critico fiorentino del 1852, nelle opere italiane inesorabilmente «il tenore ama un soprano, di cui il baritono è geloso». Questo triangolo – su di esso si fondano tutte le opere serie di Verdi, dall’Oberto conte di San Bonifacio (1839) all’Otello (1887) – preesiste a Verdi e sopravvive a Verdi. Lo slancio del tenore, una voce giovane innaturalmente spinta verso l’acuto, è idealmente proteso ad abbracciare il registro femminile del soprano, mentre il timbro più scuro e pieno del baritono – la voce dell’uomo adulto, coi piedi per terra, di volta in volta pugnace o disincantato – è fatalmente eccentrico rispetto agli altri due vertici del triangolo canoro. A margine stanno i personaggi complementari, le voci di contorno: quasi sempre un basso (di solito una figura vetusta, vuoi severa e benigna, vuoi minacciosa e feroce), spesso una seconda donna. A ciascun cantante, alle prime parti come alle seconde, spetta un certo numero di pezzi – arie e romanze assolo, duetti, terzetti, ecc. – secondo una gerarchia che corrisponde al peso e al ruolo del personaggio nell’intreccio. Altri triangoli In Verdi la triade soprano-tenorebaritono, che per Bellini e Donizetti è essenzialmente un triangolo erotico, subisce volentieri una torsione generazionale. Non mancano i baritoni giovani e focosi, rivali del tenore per la conquista del soprano: il Conte di Luna è un ventenne, a mala pena più adulto di Manrico, l’eroe del Trovatore (1853). Ma spesso la gelosia del baritono promana da un padre nobile, come Germont che nella Traviata (1853) si oppone al sodalizio del figlio Alfredo con la prostituta Violetta. Addirittura – novità sensazionale – il baritono può ergersi a protagonista, a vettore del conflitto drammatico: è il caso del protagonista di Rigoletto (1851), personaggio turpe nell’aspetto e nel ruolo (gobbo, buffone di corte) ma genitore tenerissimo, infine vittima della vendetta ch’egli trama contro il seduttore della figlia; è il caso del protagonista di Simon Boccanegra (1857), il corsaro eletto doge di Genova che all’apogeo della gloria riabbraccia la figlia rapitagli ventiquattr’anni prima, nel giorno stesso in cui muore avvelenato da colui che l’aveva spinto al trono. Sul triangolo amoroso si innestano talvolta triangoli supplementari, che arricchiscono la costellazione dei personaggi e delle voci e complicano l’intreccio. Il trovatore ha due primedonne di pari peso: a Leonora (soprano) desiderata da Manrico (tenore) e da Luna (baritono) si contrappone Azucena (mezzosoprano), madre dello stesso tenore perseguitata dallo stesso baritono. In Aida (1871) il soprano (Aida) e il tenore (Radamès) sono sotto il tiro di ben tre antagonisti: il baritono (Amonasro, genitore di Aida) è rivale del tenore in guerra, il mezzosoprano (la principessa Amneris) è rivale del soprano in amore, il basso (il gran sacerdote Ramfis) è rivale del tenore in politica. Ma per quante complicazioni subisca lo schema di base, permane inalterata la legge che assegna ruoli drammatici prestabiliti ai diversi registri vocali e distribuisce i pezzi musicali in base ai rapporti di attrazione e repulsione tra i personaggi. Convenzione e invenzione Già questi dati ci dicono che la posizione di Verdi nella storia dell’opera in musica non si comprende se non entro la dialettica convenzione/invenzione. Le convenzioni invalse nel sistema teatrale garantiscono l’efficacia e la rapidità della produzione, assicurando nondimeno un sufficiente tasso di libertà inventiva (e di rischio artistico). Il concetto di convenzione, inviso a un’estetica fondata sull’originalità e l’individualità dell’opera d’arte, va inteso qui in un’accezione neutra, denotativa: il termine, di origine Nuova Secondaria - n. 2 2013 - Anno XXXI legale, designa un accordo stipulato tra due contraenti. In teatro, la convenzione è il tacito patto stabilito tra il palcoscenico e la sala, tra gli autori ed esecutori e gli spettatori. Senza convenzioni condivise dai produttori e dai destinatari, semplicemente non si dà comunicazione. Lo spettatore, che nell’Ottocento va a teatro tutte le sere che c’è spettacolo, porta con sé, magari senza rendersene pienamente conto, aspettative cementate dalla consuetudine, dalla ricorrenza di certi moduli musicali, di certi schemi formali, di certe situazioni drammatiche più o meno ripetitive. Soddisfare queste aspettative inconsapevoli, ma anche giocarci a rimpiattino depistando a bella posta l’ascoltatore per sorprenderlo e colpirlo, è il compito del musicista teatrale: l’aspettativa fuorviata non nega la norma, la presuppone nel momento stesso in cui ne deroga. Perché scocchi la scintilla dell’invenzione artistica – anche la più incendiaria – non è detto che si debbano trasgredire o sovvertire le convenzioni: essa si può accendere anche entro la griglia di aspettative consuetudinarie. La ribellione contro le regole tramandate, «la completa obliterazione della “formula”», è lo stendardo sventolato dagli Scapigliati capitanati dal giovane Arrigo Boito (1842-1918). Verdi è invece un genio eminentemente pragmatico, unisce il vigore dell’ideazione teatrale al saldo possesso delle regole del mestiere: usa le convenzioni disponibili, le osserva o le manipola o le scavalca secondo quanto gli detta la situazione scenica, l’idea o (come diceva lui) la «tinta» del dramma. I numeri chiusi Tra le convenzioni che Verdi eredita dal sistema operistico italiano e sostanzialmente mantiene fino alla fine ve n’è una che tra il 1839 e il 1893 mutò profonda- Nuova Secondaria - n. 2 2013 - Anno XXXI G. Verdi, Otello, indice nello spartito Ricordi n. 51023 (Milano, 1887). mente: la costruzione a numeri chiusi. L’opera italiana risulta dalla concatenazione di una serie di pezzi staccati, dotati ciascuno di un inizio, uno svolgimento, una fine. Alla fine di ciascun pezzo il pubblico, se ha gradito, applaude. Letteralmente, gli autografi di Verdi constano di fascicoli numerati (p.es. nel Trovatore sono 14); e gli editori musicali pubblicavano e smerciavano gli spartiti in tanti pezzi staccati, acquistabili anche singolarmente. Orbene, questa che fino agli anni ’60 è un’ovvietà, un dato scontato e pacifico della forma opera (e non soltanto in Italia), con l’avvento di Richard Wagner – a metà secolo in Germania, dal 1871 in Italia – viene contestata in radice: il dramma musicale durchkomponiert (a tessuto continuo), basato sull’idea che un conflitto drammatico credibile esiga un discorso unitario, una «melodia infinita» insofferente di schemi formali prestabiliti, entra in attrito con le convenzioni vigenti nell’opera italiana. Anche Verdi asseconda a modo suo 55 PERCORSI DIDATTICI questa evoluzione, si mette al passo: nell’atto III di Aida, per dire – un capolavoro di suspense teatrale –, non c’è spazio per gli applausi a scena aperta. Ma il contrasto tra le due concezioni è in buona parte fittizio. Da un lato, gli stessi drammi musicali di Wagner sono di fatto articolati in scene e quadri ben riconoscibili, per quanto collegati nel tessuto orchestrale. Dall’altro lato, sotto l’apparenza di un flusso continuo anche un’opera modernissima come Otello (1887), cui molti critici rinfacciarono un eccesso di wagnerismo, presenta una trasparente articolazione in pezzi chiusi, dichiarata fin nell’indice dello spartito (cfr. fig. a p. 55). La distribuzione di questi pezzi chiusi virtuali tra i personaggi conferma la logica di fondo del sistema: il rovinoso conflitto che irretisce l’eroe iracondo (il tenore Otello), la candida vittima (il soprano Desdemona), il sobillatore invidioso (il baritono Jago) si manifesta in una sequenza di folgoranti, icastici quadri canori a solo, a due, a tre. La «solita forma» Anche l’organizzazione interna dei numeri chiusi ha le sue regole e convenzioni. Il critico musicale Abramo Basevi, nella primissima monografia su Verdi (1859), ha descritto en passant, dandola per cosa ovvia e risaputa, «la solita forma de’ duetti»: di norma, dice, dopo una scena in recitativo abbiamo «un tempo d’attacco, l’adagio, il tempo di mezzo, e la cabaletta». Il tempo d’attacco è un dialogo, via via più eccitato, tra i due personaggi che si attraggono o si respingono. Nell’adagio i due rimuginano tra sé, sfogano sentimenti vuoi concordi vuoi discordi. Il tempo di mezzo arreca qualche incidente nell’azione, l’arrivo di una notizia dirompente, il suono d’una campana o d’una fanfara o d’un coro che da fuori scena annuncia un evento incombente. Al che i due personaggi in scena inne- 56 scano un movimento agitato e impetuoso, la cabaletta (l’etimo della parola è incerto). Ciascuno dei quattro tempi contiene almeno una grande, distesa melodia (di sedici o più battute): sono, queste melodie che s’imprimono nella memoria dell’ascoltatore, la stoffa più pregiata del dramma cantato, i motivi che poi si canticchiano per strada riandando con la mente alle situazioni drammatiche che le hanno suscitate. Ora, è improbabile che ogni melomane sapesse descrivere per filo e per segno la «solita forma de’ duetti», coi quattro tempi elencati da Basevi; o la forma delle arie (dove di solito manca il tempo d’attacco), delle romanze (dove manca la cabaletta), dei finali d’atto (dove al posto dell’adagio scatta il largo concertato, l’attimo di sbigottimento generale causato da un colpo di scena). Ma ogni habitué del teatro d’opera sente e segue con precisione il decorso della forma, sa con esattezza quando trattenere il fiato, quando abbandonarsi al piacere dell’ascolto e quando, al termine della frenetica cabaletta, mentre rullano i timpani e rumoreggia il tutti orchestrale, sfogare nell’applauso la tensione accumulata. Verdi, ma prima di lui già Bellini e Donizetti, non è certo lo schiavo di questa «solita forma»: d’intesa col librettista, che nel dialogo gli predispone il tracciato della musica, il compositore si vale di questa forma standard per suscitare «effetti» esaltanti, sorprendenti, frappanti. È libero di ricombinarne i tempi, di ometterne qualcuno, di dilatarli, di comprimerli: sarà la situazione drammatica, la ricerca di un «effetto» particolare, a dettarglielo; ma ogniqualvolta l’osservanza dello schema risponde alla legge dell’«effetto» teatrale, non ha motivo di derogarne. Un solo esempio. Nell’atto III di Aida il feroce Amonasro (baritono) e l’accorata protagonista intonano un vasto tempo d’attacco e uno struggente adagio; il duetto s’interrompe però al sopraggiungere di Radamès, il tenore, mentre Amonasro «si nasconde fra i palmizi» a origliare il dialogo dei due innamorati. Il tenore, ignaro della presenza del suo nemico, avvia da capo un duetto in piena regola col soprano. Aida, col cuore in tumulto, non può che stare al gioco: il dialogo scorre tutti e quattro i tempi regolamentari, culminando in un’estatica cabaletta. Ora, l’impeto delle cabalette era venuto in uggia ai critici, che le consideravano di cattivo gusto. Scrive Verdi al suo librettista, Antonio Ghislanzoni: «Io sono sempre d’opinione che le cabalette bisogna farle quando la situazione lo domanda». E qui, appunto, la situazione lo domandava. Lorenzo Bianconi Università di Bologna RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ESSENZIALI A. Basevi, Studio sulle opere di Giuseppe Verdi (1859), a cura di U. Piovano, Rugginenti, Milano 2001. J. Budden, Le opere di Giuseppe Verdi, 3 voll., EDT, Torino 1985-1988. F. Della Seta, voce Giuseppe Verdi, in Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti. Le biografie, a cura di A. Basso, UTET, Torino 1988. G. de Van, Verdi: un teatro in musica, La Nuova Italia, Scandicci 1994. J. Rosselli, The Life of Verdi, Cambridge University Press, Cambridge 2000. F. d’Amico, Forma divina. Saggi sull’opera lirica e sul balletto, a cura di N. Badolato e L. Bianconi, Olschki, Firenze 2012. R. Mellace, «Con moltissima passione»: ritratto di Verdi, Carocci, Roma 2013. Nuova Secondaria - n. 2 2013 - Anno XXXI