beckett e la filosofia - Dipartimento di Arti e Scienze dello Spettacolo

BECKETT E LA FILOSOFIA
«Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a
gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”».1 Ho scelto di caratterizzare con le parole del filosofo
Friedrich Nietzsche una ricerca disperata, che mi appare molto simile a quella che è posta al
centro del capolavoro beckettiano Aspettando Godot, in modo da mettere in rilievo l’analogia tra il
pensiero nietzscheano ed il messaggio nichilistico che traspare da un’opera spiazzante ed
emblematica quale Aspettando Godot. Allo stesso modo in cui Nietzsche si fa portatore della
dissoluzione della filosofia che lo ha preceduto, Beckett si fa carico della crisi in primo luogo
dell’essere umano, nonché del teatro, novecenteschi. In Aspettando Godot i personaggi si trovano
in una situazione di incessante attesa. La loro ricerca di Godot, mai appagata, è simbolo della
ricerca di senso dell’esistenza umana, della necessità ed allo stesso tempo della impossibilità di
creare un contatto con una entità trascendente, con il divino. Il momento dell’apparizione di Godot
è continuamente rimandato e nel frattempo i due personaggi, resi orfani e allo stesso tempo
completamente dipendenti da lui, in quanto datore di significato nei confronti della loro esistenza,
brancolano nel più angosciante deserto di senso: ignorano in quale giorno si trovino («VLADIMIRO:
Ha detto sabato. (Pausa). Mi pare. […] ESTRAGONE: Ma quale sabato? E poi, è sabato oggi? Non sarà piuttosto
domenica? (Pausa). O lunedì? (Pausa). O venerdì?»),2 nutrono dei dubbi addirittura sull’identità di Godot
(«ESTRAGONE: Si chiama Godot? VLADIMIRO: Credo»),3 pronunciano frasi sconnesse, totalmente
incapaci di instaurare un dialogo. Lo stesso deserto di senso reso protagonista del messaggio
pronunciato dal “folle uomo” nietzscheano: «Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia?
Chi ci dette la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del
suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E
all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come
attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte,
sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina?».4 I protagonisti dei drammi beckettiani non
indugiano ad “accendere lanterne la mattina”, in loro si spettacolarizza e si consuma il dramma
dell’assurdo, il paradosso costante che caratterizza l’esistere. La sovversione della tradizione, che
si erge a comune denominatore tra il drammaturgo ed il filosofo, si esplicita anche nel ribaltamento
dei ruoli fedeli-divinità. Infatti in Godot sono gli esseri umani a mandare messaggi ad
un’indifferente e quanto mai indisponibile divinità, rovesciando quindi il tradizionale rapporto tra un
fedele che chiede ed un dio che risponde tramite segnali, rivelazioni, responsi oracolari più o meno
criptici («RAGAZZO: Che devo dire al signor Godot, signore? VLADIMIRO: Digli… (esitando) … digli che ci hai visti.
(Pausa). Sei sicuro di averci visti, no? RAGAZZO: Sissignore»);5 similarmente in Nietzsche la divinità è
umanizzata a tal punto da risultare suscettibile alla morte, sottraendosi dunque al ruolo di eterno
ed immutabile punto di riferimento dell’essere umano: «Non fiutiamo ancora il lezzo della divina
putrefazione? Anche gli dei si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto!».6
Un altro aspetto che accomuna il soggetto nietzscheano e i protagonisti di Aspettando Godot
concerne il tempo: i personaggi di quest’opera sembrano immersi in un tempo circolare, in cui si
concentra il dramma dell’individuo e l’insensatezza della sua condizione, e che si svolge mediante
ripetizioni di medesime circostanze, domande e proposte. Ad esempio, la domanda di Estragone
circa la specie dell’albero che si trova sulla strada dove attendono, e la conseguente proposta di
impiccagione, ricorrono all’inizio del primo atto e alla fine del secondo: «VLADIMIRO: Ha detto davanti
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all’albero (Guardando l’albero). Ne vedi altri? ESTRAGONE: Che albero è? VLADIMIRO: Un salice, sembrerebbe. […]
ESTRAGONE: Impicchiamoci subito. VLADIMIRO: A un ramo? (Si avvicinano all’albero e lo guardano). Io non mi fiderei.
ESTRAGONE: Si può sempre provare.» (Atto primo);7 «ESTRAGONE: (guardando l’albero) Che cos’è? VLADIMIRO: È
l’albero. ESTRAGONE: Volevo dire, di che genere? VLADIMIRO: Non lo so. Un salice. ESTRAGONE: […] E se ci
impiccassimo?». (Atto secondo)8 La radice nietzscheana anche in questo caso è evidente. Si legge
infatti ne La gaia scienza: «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora
innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e
ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e
successione».9 La concezione circolare del tempo in Nietzsche non ha valenza esclusivamente
cosmologica, ma si carica di significato individuale e psicologico: il soggetto nietzscheano deve
poter dar forma all’eterno ritorno dell’uguale (secondo alcuni studiosi eterno ritorno del nulla)
tramite la propria adesione incondizionata alla vita, all’istanza dionisiaca, al caos che potrebbe
ricordarci l’elemento che Hölderlin aveva denominato “aorgico” e che è molto vicino all’abisso
quotidiano del molteplice in cui si trovano risucchiati i personaggi ai quali Beckett sceglie di dare
voce.
Il continuo confronto e dialogo dell’opera beckettiana con la filosofia non si limita ad attingere a
Nietzsche. Il filosofo e sociologo novecentesco Theodor L. W. Adorno (1903-1969) individua la
presenza di echi esistenzialistici nella produzione teatrale di Beckett. Nel saggio “Capire Finale di
partita” (1961) egli indica, oltre allo smarrimento di senso proprio dei personaggi beckettiani, uno
smarrimento di tempo che ad esso si accompagna: «Come un tempo il messianico Myskin ha perso
l’orologio, poiché non sa che farsene del tempo terrestre, così i suoi antipodi hanno perduto il tempo perché esso
costituirebbe ancora un fattore di speranza».10 Privi di tempo (come appaiono Hamm e Clov) o, in modo
ugualmente drammatico, prigionieri di un tempo circolare (Vladimiro ed Estragone), i personaggi di
Beckett sono privi di ogni speranza. Tuttavia Adorno non tarda a rilevare una significativa
differenza, un diverso punto di vista sviluppato da Samuel Beckett rispetto alla filosofia
esistenzialistica: se essa ha trasformato positivisticamente il non-senso, l’assurdo, in un concetto, i
drammi beckettiani decostruiscono il concetto di non-senso in maniera antisistematica, sottraendo
ad esso quella universalità che gli conferirono i filosofi: «Per battere la storia e forse riuscire così a
sopravvivere, Finale di partita si pone al nadir rispetto a ciò che allo zenit della filosofia requisiva la costruzione del
soggetto-oggetto: la pura identità diventa identità dell’individuo annientato, identità di soggetto e oggetto nello stadio
della piena alienazione. […] È questa oggettivamente, senz’ombra di intenzione polemica, la sua [di Beckett, aggiunta
mia] risposta alla filosofia esistenziale che, protetta dalle ambiguità del concetto di senso, trasfigura in senso la
mancanza stessa di senso, dandole prima il nome di deiezione e poi di assurdità. A quel concetto Beckett non
contrappone una visione del mondo, ma lo piglia in parola. Una volta demoliti i caratteri del senso dell’esserci,
dall’assurdo non risulta un dato universale- ché in tal modo l’assurdo tornerebbe a costituire un’idea, ma risultano meste
particolarità che si beffano del concetto e che sono come uno strato di utensili in un’abitazione di fortuna».11 Inoltre,
mentre in Heidegger il dasein mantiene dei confini che potremmo indicare come soggettivi, il
personaggio beckettiano smarrisce ogni principium individuationis, fino a scomporsi, frammentarsi
in mancanza di un centro motivazionale unificante, fondersi con la situazione, con l’ambiente
esterno, con l’oggetto: «Beckett, buon allievo di Proust e amico di Joyce, restituisce al concetto di situazione quello
che esso dice e quello che la filosofia-che ne abusa- faceva scomparire: la dissociazione dell’unità di coscienza in
elementi disparati, la non identità. Ma non appena il soggetto non è più con certezza identico a se stesso, non è più un
nesso significante in se concluso, ecco che anche il confine che lo separa dall’esterno si dilegua, e le situazioni
dell’interiorità diventano contemporaneamente situazioni della natura fisica».12 La situazione psicologica del
personaggio beckettiano, così descritta all’interno dell’acuta analisi di Adorno, richiama da vicino la
struttura psichica degli eroi omerici, caratterizzati come privi di un centro emozionale unificante.
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Essi agiscono in primo luogo spinti dall’azione delle divinità, che muovono gli umani a mo’ di
pedine su una scacchiera; «ma anche i gesti non compiuti per diretta istigazione divina non possono venir riferiti al
controllo di una soggettività unificata, responsabile di deliberazione volontaria. Nell’uomo omerico la vita, l’emozione,
l’azione appaiono disaggregati in una pluralità di esperienze non accentrabili intorno ad un io consolidato, a un
complesso psicosomatico unitariamente governato».13 Nella cultura greca il concetto di soggettività emerge
in un periodo più tardo, in seguito alla riflessione socratica, fino a sfociare, all’interno del sistema
etico teorizzato da Aristotele (IV secolo a. C.), nella memorabile distinzione tra azioni volontarie ed
involontarie. Nello stesso periodo in cui Socrate procedeva ad un’individualizzazione e
moralizzazione della psyche umana, alcuni riti iniziatici diffusi in Grecia già a partire dal VI secolo
a. C., di probabile provenienza asiatica (dunque barbarica) facevano leva sulla brama di fusione
del singolo con il Tutto, tentando di oltrepassare l’esistenza di confini individuali, necessari per la
nascita e lo sviluppo del pensiero della soggettività. In questi riti orgiastici facenti parte del culto
bacchico, l’individuo perdeva la centralità della propria psyche ed il controllo su se stesso, si
fondeva con l’ambiente a lui esterno, avendo accesso ad uno stato sfrenato e selvaggio, ferino,
che culminava nell’uccisione di un animale selvatico, dilaniato senza pietà e sbranato crudo a mani
nude (questo rituale prendeva il nome di diasparagmòs). Si potrebbe dunque intravedere una
similitudine tra lo stato psichico del personaggio beckettiano, così come mirabilmente ritratto da
Adorno, e l’atmosfera di confusione, di oltrepassamento del sé in virtù della complessità del Tutto,
presente nel partecipante a tali riti bacchici. In entrambi i casi infatti il confine della soggettività è
superato e ha luogo una fusione del soggetto con l’ambiente, scardinando la tradizionale
impostazione filosofica (così centrale in Kant) che vede soggetto ed oggetto rigorosamente distinti.
Questo aspetto del culto dionisiaco è stato magnificamente indagato da un filosofo sensibile ai
temi più dibattuti del Novecento, per molti versi anticipatore di tali tematiche, ancora una volta
Friedrich Nietzsche. Ne La nascita della tragedia dallo Spirito della musica (1876) egli si sofferma
a riflettere su come, nel rito bacchico, venga superato il principium individuationis, di cui sono privi
anche i personaggi beckettiani. «Non si può onestamente far derivare il tragico dall’essenza dell’arte, qual essa è
comunemente intesa secondo l’unica categoria della parvenza e della bellezza; solo partendo dallo spirito della musica
possiamo riuscire a comprendere la gioia per l’annientamento dell’individuo. Infatti nei singoli esempi di un tale
annientamento ci viene reso chiaro solo l’eterno fenomeno dell’arte dionisiaca, che esprime la volontà nella sua
onnipotenza per così dire dietro il principium individuationis, la vita eterna al di là di ogni apparenza e nonostante ogni
annientamento».14
Un’altra etica antica che può condurci ad un parallelismo con la condizione esistenziale dei
personaggi beckettiani è quella cinica. Il personaggio che mi appare evidentemente connesso con
il modo di vivere del saggio cinico è Krapp, che si trova a condurre la propria esistenza in
condizioni più animalesche che umane, oppure non tarda a catturare la mia attenzione il possibile
paragone fra i cinici e i clochards di Aspettando Godot: «La legge della città appare ai cinici irrigidita in una
forma tutta esteriore di decoro, ostile all’autenticità dell’esistenza. Di qui la loro gestualità di protesta e di provocazione,
che si riassume nel progetto di “inselvatichire la vita”, e che in certe pratiche estreme di animalizzazione - il mangiare
carne cruda, il rifiuto delle regole sessuali – appare come una sorta di riattivazione del dionisismo. Del resto, come ha
dimostrato Detienne, i pitagorici esuli e marginali del IV secolo scadono rapidamente, nella loro condotta ormai
incomprensibile e altrettanto bizzarra, alla condizione del clochard cinico, con una singolare torsione che riconduce la
tentata via d’uscita verso l’alto dalla condizione umana a quella verso il basso, che era stata dionisiaca e che ricompare
ora nella disillusa replica cinica. C’è un aneddoto sulla morte di Diogene che può avere in questo senso un valore
emblematico. Egli avrebbe cessato di vivere trattenendo il respiro: il recupero, dunque, di una vecchia tecnica
sciamanica, ma ormai senza il ritorno né a questa né all’altra vita dell’anima, senza il coro dei discepoli in vesti bianche,
ma piuttosto fra i cani affamati che Diogene prediligeva al punto di prenderne il nome».15 Nel panorama storicoBeckett e la filosofia
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filosofico di molti secoli dopo, la teoria della linea di continuità fra animale ed essere umano verrà
posta al centro del darwinismo morale.
Tornerei a soffermarmi sulla interessante riflessione di Adorno. Egli analizza lo statuto del
soggetto in Beckett. L’abbandono totale del soggetto nelle mani di una realtà gravida di assurdo e
la sua fusione con ciò che è stato tradizionalmente indicato dai filosofi come “oggetto” equivalgono
al nulla, all’alienazione, al non-soggetto. «Il totale, puro porsi del soggetto, è il nulla. […] La ratio,
completamente strumentalizzata, priva della meditazione su se stessa e su ciò che ha privato di ogni qualità, va in cerca
del senso che essa stessa ha cancellato. Ma giunti allo stadio che impone tale ricerca, l’unica risposta possibile è il
nulla: essa stessa è già il nulla in quanto forma pura. […] La contraddizione permanente dell’assurdo, il nonsenso che è
punto termine della ragione, schiude con enfasi la possibilità di un Vero che non può più esser nemmeno pensato. […]
L’ontologia negativa è la negazione dell’ontologia».16 La soggettività dunque scompare, l’essere umano è
un nulla e perciò divengono inconsistenti i rapporti interpersonali, assumono i toni di una
mancanza di relazione (un nulla) tra due o più nullità. Contrariamente a quanto sostenuto da Alain
Badiou (Beckett. L’inestinguibile desiderio, Il Melangolo, Genova, 2008), Adorno mette in rilievo le
connotazioni negative dei “rapporti” che legano i personaggi di Beckett tra loro. Ad esempio, in
Finale di partita, il rapporto tra Hamm e Clov è caratterizzato da Adorno (prendendo in prestito
l’espressione hegeliana) come un rapporto servo-padrone, in cui il servo Clov è totalmente
dipendente dal padrone, l’unico fra i due a conoscere la tecnica per aprire la dispensa. Dunque
l’essere umano in Beckett è un nulla circondato da nulla: «HAMM: Le onde, come sono le onde? CLOV: Le
onde? (Punta il cannocchiale) Piombo. HAMM: E il sole? CLOV: (guardando) Nulla».17 Gli è negata qualsiasi
capacità poetica o immaginativa, il suo sguardo è disincantato, deluso, amareggiato, si posa su un
ambiente desolato, privo di senso anch’esso. Non c’è spazio per i sentimenti, i personaggi
beckettiani sono troppo confinati nell’intimo del proprio nulla per potersi schiudere all’amore. A mio
avviso essi riescono, anche se flebilmente, a provare emozioni, che restano però necessariamente
chiuse all’interno del microcosmo di ognuno, nella gabbia che ciascuno si costruisce per
proteggersi dal non senso che lo circonda, e questa costrizione finisce per rendere insensati e
disumani gli stessi individui. Essi risultano quindi abbandonati in un universo caotico e allo stesso
tempo vacuo, carente, impoverito, in cui non possono che regredire allo stadio animalesco per
tentare una qualche sorta di relazione fra loro: «NELL: Che volevi, cocco? (Pausa) È per scopare?».18 Il
rapporto sessuale è privato di qualsiasi valenza simbolica per diventare mero atto fine a sé stesso,
pseudocomunicativo, laddove persino la parola è vuota di senso. Questa brutalità primitiva a cui
l’era moderna (e ancor più quella contemporanea) ha costretto l’individuo, sempre più isolato,
affettivamente analfabeta, emotivamente frustrato e sempre meno “animale politico” attirò anche
l’attenzione del filosofo Karl Marx, che nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 descrive il
processo di scambio tra lo statuto ferino-animale e l’umano: «L’uomo […] si sente libero soltanto nelle sue
funzioni animali, come il mangiare, il bere, il procreare […]; e invece si sente nulla più che una bestia nelle sue funzioni
umane. Ciò che è animale diventa umano, e ciò che è umano diventa animale».19
L’individuo nei drammi beckettiani si mette totalmente a nudo, mostra le proprie paranoie, i propri
disagi, portando a galla ciò che è più intimo ed insano, sepolto nell’inconscio: «SIGNORA ROONEY:
Ricordo che una volta sono stata a una conferenza di uno di questi nuovi specialisti delle malattie mentali, adesso non
so più come si chiamano. […] Speravo che mi aiutasse a veder chiaro in quella mia vecchia ossessione per le natiche
dei cavalli ».20
La morte prematura è in più luoghi considerata come una fortuna, l’uccisione di un bambino è
vista come un tentativo di «stroncare un disastro sul nascere»,21 utilizzando le parole di Rooney in Tutti
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quelli che cadono. In questa concezione risulta marcata l’eco del pessimismo di Menandro (IV-III
sec. a.C.) , il quale, in un frammento reso celebre dalla citazione che ne fece Leopardi nell’epigrafe
del suo Amore e morte, afferma “Muore giovane chi è caro agli dei” (11 K-Th). Non a caso in Tutti quelli
che cadono la vittima dell’incidente ferroviario è proprio un bambino e Beckett insiste crudelmente
sui particolari più macabri di questa triste vicenda, facendo dire a Jerry: «È stato un bambino che è
caduto dal vagone, signora. (Pausa). Sulle rotaie, signora. (Pausa). Sotto le ruote, signora».22
Nella stessa opera troviamo una raccapricciante presa di coscienza da parte della signorina Fitt,
incapace di riconoscere per strada la signora Rooney, figura che le sarebbe dovuta risultare
familiare: «SIGNORA ROONEY: Domenica scorsa ci siamo viste in chiesa. Ci siamo inginocchiate fianco a fianco,
davanti allo stesso altare. Abbiamo bevuto dallo stesso calice. Sono così cambiata, da allora? […] FITT (scandalizzata):
[…] Sono distratta, molto distratta […] Vedo, sento, tocco e così via, faccio i soliti gesti, ma non col cuore, signora
Rooney, il cuore non c’è. […] E perciò non creda che abbia fatto finta di non vederla, signora Rooney, sarebbe farmi
torto. Io ho visto solo una gran macchia pallida, una delle tante macchie pallide.».23 La signorina Fitt è un
personaggio emblematico in questo caso, ella rappresenta il disagio della modernità, l’essere
umano diventato opaco a sé stesso e agli altri, circondato da una nube di torpore, da una latente
incoscienza ed indifferenza, avvolto in un sonno dei sensi all’interno di un universo senza senso.
La comunicazione in questo orizzonte è ovviamente ridotta all’osso, quando non resa del tutto
impossibile.
Ne L’Ultimo nastro di Krapp è portato al culmine il processo di riduzione dell’essere umano: Krapp
vive in funzione del suo registratore, affida tutti i suoi ricordi ad una memoria a lui esterna. Il
soggetto è reso poco più di un accessorio e l’oggetto diviene una sorta di essere animato. Krapp è
descritto comicamente, è più una caricatura che un personaggio, si rivolge alle bobine in modo
affettuoso, quasi le riconoscesse come persone; come ho avuto modo di affermare in occasione
del parallelismo con l’etica cinica, è descritto con caratteristiche animalesche, colpisce ad esempio
la sua predilezione quasi ossessiva per le banane. L’affidamento di intere sfere della propria
esistenza a ciò che è inorganico ed inanimato è un tratto essenziale dell’essere umano del XXI
secolo. Dipendiamo in misura sempre maggiore da cellulari, agende, computers, macchine
fotografiche ecc. Il confine tra ciò che è oggetto e ciò che è soggetto spesso si sfuma e non si
riesce immediatamente a capire chi/che cosa sia in funzione di chi/che cosa. Un esempio eclatante
può essere quello dei Google glasses, occhiali capaci di catapultare l’individuo che li indossa
all’interno di una realtà aumentata, in cui troverà indicazioni circa le persone che incontrerà, i
luoghi che visiterà, i vari ristoranti fra cui potrà scegliere qualora avverta lo stimolo della fame, tutte
in formato digitale e aperte all’interattività dell’utente. Il rischio che si corre in questo tipo di
innovazioni è senz’ombra di dubbio un impoverimento delle capacità umane, prima fra tutte la
memoria, non a caso quella che Krapp decide di affidare al registratore. Volendo avere i suoi
ricordi immediatamente e durevolmente disponibili, egli finisce di fatto per non averne, finisce per
dipendere da ciò che sostituisce la sua memoria. La memoria del registratore è potenziata, risulta
sovrumana ed in ciò è compiuta la disumanizzazione di Krapp: egli, affidandosi all’inorganico,
perde quanto di umano accoglieva in sé. Il rischio di una progressiva riduzione della memoria
umana ci rimanda agli albori della civiltà, all’epoca della comparsa della scrittura: nel Fedro
platonico il demone Theuth è fatto colpevole del dono del peggior phàrmakon per i mortali, ciò che
avrebbe fatto durare più a lungo il pensiero dei filosofi, ma avrebbe ucciso il dialèghesthai
socratico ed avrebbe sminuito le eccezionali capacità mnemoniche dei greci dell’età preclassica (si
pensi ad esempio alle straordinarie capacità di mnemotecnica degli aedi). Il processo di
affidamento di parti del proprio sé a oggetti esterni è stato lungamente analizzato da Pietro
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Montani (docente di Estetica presso la Facoltà di Filosofia dell’Università La Sapienza di Roma),
che ha riflettuto sul grave depotenziamento delle facoltà umane, persino di quelle percettive,
nell’epoca tecnologica: «L’estensione del campo di influenza delle protesi tecniche della sensibilità in funzione
vicaria […] si presenta come un’essenziale anestetizzazione che seleziona e mantiene attivi solo quei segmenti di
sensibilità che possono essere canalizzati su oggetti particolari».24
Il teatro dell’assurdo mette in scena il Male, il negativo, il non
senso. La dottoressa Arianna Bianchi cita la domanda aristotelica:
“Perché nell’arte dà piacere ciò che in natura ripugna?” (Poetica 48-b 3-19).
La fruizione estetica è svincolata dalla riflessione morale? Nasce il
problema del rapporto tra i due ambiti. Come ha avuto modo di
notare molto intelligentemente Guido Gatti, la pretesa della
scientifizzazione della morale, che iniziò con Cartesio,
recentemente è stata messa in crisi dall’emergere di nuovi metodi
di riflessione morale, che non sfociano dalla logica, ma dal
coinvolgimento emotivo, sottolineando il legame tra estetica ed
etica. «Da Descartes in poi, l’applicazione dell’esprit de géométrie alla filosofia e
alla morale e l’ambizione di costruire un’ethica more geometrico demonstrata non
hanno più abbandonato la ricerca filosofica […] La consapevolezza del
sostanziale fallimento dell’ambizioso programma di geometrizzazione del discorso
morale ha dato luogo a diversi tentativi di revisione e perfino di ripudio del programma stesso, con il ricupero
intenzionale e dichiarato di alcune delle forme del discorso morale in cui si era espresso il pensiero classico, molto
diverse da quelle delle scienze esatte, ma ritenute più consone con la natura specifica e “diversa” della verità che nel
discorso morale deve trovare espressione».25 Rifondare un’etica della virtù, come quella aristotelica, e
rivalutare lo spettacolo come forma capace di suscitare fertili riflessioni morali (si pensi ad esempio
all’importanza della tragedia greca nell’ambito del discorso morale nell’antichità): queste appaiono
le intenzioni di un filosofo morale come Mac Intyre. «Gli esseri umani sono, in questa visione, “personaggi di
una narrazione in atto”.26 “L’uomo nelle sue azioni e nella sua prassi è essenzialmente un animale che racconta
storie”[…]27 Esiste una identità totale tra l’essere soggetto di azioni e di responsabilità morali ed essere il personaggio o
il tema di una storia in atto. […] La ricerca morale, poiché si dà solo all’interno di una vita che è di sua natura storia e
narrazione, troverà nel linguaggio della narrazione il suo strumento di elezione».28 Oltre al contributo di Mac
Intyre, la rivalutazione del linguaggio narrativo, poetico, drammatico in ambito teoretico-morale è
avvenuta grazie allo sviluppo della filosofia dell’ermeneutica (basti pensare a H. G. Gadamer),
sistema teorico che riflette sul carattere costitutivamente linguistico e interpretativo dell’esperienza
umana. L’essere umano, radicato nell’essere, tramite il linguaggio e l’interpretazione, appartiene a
quel mondo che egli deve a sua volta interpretare e comprendere. Superato dunque ogni iato tra
essere e conoscere, la forma narrativa (sia poetica sia drammatica) appare un linguaggio ben più
adatto di quello delle scienze esatte al fine di delimitare i confini del discorso morale e riflettere al
suo interno. Per questo Gatti indaga l’opera beckettiana Finale di partita tramite la lente di
ingrandimento fornitagli dalla filosofia morale ed arriva a riconoscere una povertà morale nei
protagonisti dell’opera, che si presenta come diretta conseguenza dell’assurdo: «A quello che
potremmo chiamare il nichilismo metafisico, corrisponde una altrettanto radicale negatività morale. Un mondo senza
trascendenza, senza speranza e senza significati è anche un mondo senza valori etici, un mondo in cui l’impegno
morale sarebbe sprecato. Non vale la pena cercare di essere seri, retti, generosi, leali, quando non ha senso vivere.
Non ci può essere vero confine tra il bene e il male, dove manca il senso. […] In Clov, il negativo morale che emerge
sullo sfondo della sua visione cinica della vita è essenzialmente costituito dalla viltà. Ne è prova la sua prigionia nel
“rifugio”, simbolo a sua volta della sua incapacità di uscire dal cerchio ristretto delle sue abitudini, dagli stereotipi del suo
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comportamento e dalla sua dipendenza , grettamente opportunistica e rassegnatamente calcolata, da Hamm. Da una
vita intera egli cerca invano di ribellarsi, di affermare la sua dignità, magari fuggendo incontro al nulla esterno, senza
avere mai il coraggio di trasformare la velleità in decisione. […] Ma tutta la negatività etica del dramma è in qualche
modo concentrata nel suo personaggio principale, Hamm. Essa consiste essenzialmente in una forma di egocentrismo
infantile che lo chiude in se stesso e lo porta sistematicamente a immaginarsi al centro del mondo e gli impedisce di
vedere negli altri delle persone, capaci di sofferenza e portatori di diritti. Questo egocentrismo trova la sua espressione
simbolica nella sua ossessione di stare, con la sua sedia a rotelle, al centro preciso della stanza».29
Arianna Bianchi, oltre a porre il problema della possibilità di un nuovo rapporto tra estetica e
morale, si sofferma a riflettere sulle conseguenze che la messa in scena dell’assurdo comporta
negli spettatori: «I fatti storici che hanno attraversato il mondo recente hanno necessariamente modificato lo sguardo
di chi assiste: non è più tempo di battaglie ideologiche, di vendette di ghenos e ardimentose prove di coraggio da parte
di protagonisti dall’intelletto acuminato, in grado di smascherare e annientare i tranelli crudeli della sorte. È tempo di
sguardi consapevoli, di prove documentarie. È tempo di assumersi la responsabilità dell’accaduto, davanti alle
innumerevoli vittime in primis, ma anche davanti a noi stessi, alle nostre coscienze. È tempo che il nostro intero sistema
di valori e riferimenti si modelli sugli accadimenti atroci che hanno attraversato il Novecento e che hanno plasmato una
nuova categoria di individui».30 Emerge dunque la necessità di responsabilizzare lo spettatore rispetto a
ciò che è accaduto nell’ultimo secolo, mediante un processo connaturato all’essere umano, ovvero
quello empatico: «recenti acquisizioni dell’ambito scientifico sono giunte in soccorso, motivando il doppio legame tra
attore e spettatore […] in nome di un dato organico. L’individuazione dei neuroni specchio, e i recenti studi di neurologia
sull’emozione e sul sentimento, offrono interessanti spunti d’osservazione e aprono scenari innovativi rispetto al
significato e al valore dell’empatia».31
Responsabilizzazione ed empatia: queste appaiono dunque due fra le linee guida del nuovo teatro,
a detta della dottoressa Arianna Bianchi. La responsabilità dell’essere umano del Novecento di
fronte alla catastrofe di quel secolo, la stessa dello spettatore dei drammi beckettiani, appare
simile, ancora una volta, all’assunzione di responsabilità del superuomo nietzscheano,
l’accettazione del mondo in tutte le sue brutture, dissonanze, informità: « ” […] L’eterna clessidra
dell’esistenza sarà sempre di nuovo rovesciata, e tu con essa, granellino di polvere”. – Non ti getteresti tu allora per terra
digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai vissuto una volta un momento
meraviglioso, in cui gli risponderesti: “Tu sei un dio e non ho mai udito voce più divina!”».32
Quella empatica emerge come una potente linea guida della riflessione morale di un filosofo a noi
contemporaneo, Eugenio Lecaldano. Il sentimento morale, a detta di questo pensatore, non nasce
da un’attenta e fredda disamina razionale delle circostanze, né prende le mosse da un
disincarnato ed inflessibile calcolo degli interessi o dei diritti degli individui coinvolti nell’azione,
piuttosto emerge in conformità alla natura dell’essere umano, al suo altruismo, alla sua
caratteristica di essere permeabile alle sofferenze altrui.
Anche il confronto tra Beckett e la filosofia del linguaggio risulta particolarmente fecondo. «Beckett fa
propria la scissione tra parola e realtà, e insieme riconosce che l’atto linguistico è comunque imprescindibile,
ineliminabile e che l’uomo vi è portato irrefrenabilmente, e che anzi lì riconosce la sua vocazione specifica.».33 In
Beckett troviamo dunque l’accostamento di due filosofie totalmente diverse, anche se entrambe
partorite nell’ambito greco, quella sofistica, che vuole una netta scissione tra la cosa e la parola, si
confronti ad esempio la riflessione gorgiana, e quella aristotelica, che vede l’uomo come un
animale politico, quindi come un animale sociale. Anche Marx definisce l’essenza dell’uomo lo
stare in società, l’essere aperto all’altro.
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“Non c’è nulla da esprimere, nulla con cui esprimere, nulla da cui esprimere, nessun potere di esprimere, nessun
desiderio di esprimere, insieme con l’obbligo di esprimere”.34 Il rapporto che lega i significanti ai referenti
appare estremamente precario. Molloy, il protagonista dell’omonimo romanzo beckettiano, ad
esempio ci fa notare come anche la scienza, nel corso del secolo novecentesco, abbia contribuito
a farci dubitare della solidità ed integrità delle cose che ci circondano. La condizione dell’oggetto,
in seguito alle più recenti scoperte scientifiche – afferma Molloy - è quella di essere senza nome.
La poetica beckettiana si basa sul superamento della differenza tra
attore e spettatore, uomo comune e personaggio teatrale. A questo
proposito appare calzante la riflessione del filosofo stoico Epitteto,
che nel suo Manuale afferma «Ricordati che sei attore di un dramma, e di
quale dramma lo decide l’autore: di un dramma breve se lo vuole breve; di uno
lungo, se lo vuole lungo. Se vuole che tu faccia il mendicante, bada di recitare
bene anche questa parte, e lo stesso per la parte dello zoppo, del magistrato, del
privato cittadino: questo infatti è il tuo compito, recitare bene il ruolo che ti è stato
assegnato; sceglierlo invece spetta a un altro».35 Come accennavo in
occasione dell’accostamento Beckett-Nietzsche, il drammaturgo
irlandese sovverte ogni canone estetico-teatrale del proprio tempo,
peculiarità che egli non tardava a riconoscersi: «Se alla mia opera si
può attribuire un qualche significato, questo è dovuto più all’ignoranza,
all’incapacità e all’intuitiva disperazione che ad ogni altra forza individuale. Penso
di essermi liberato, forse, di certi principi formali».36 Per tali principi formali molto probabilmente egli
intendeva la presenza di un narratore onnisciente, una causalità organica nella struttura
psicologica dei personaggi, la certezza dell’esistenza di un ego unitario.37 «Qualsiasi ordine esiste in
quanto è creato, imposto dall’uomo arbitrariamente, artificialmente, per placare la sua anima e i suoi nervi. I fallaci ed
artificiali sistemi dell’uomo-il linguaggio, la matematica, la legge, la religione, la logica naturalmente, e spesso l’arte
stessa- creano l’apparenza ingannevole di un ordine e ad un punto tale travisano quella realtà, che per Beckett è
semplicemente caos».38 «Trovare una forma che accolga il caos, questo ora è il compito dell’artista».39 Il caos che
circonda l’essere umano nella modernità è stato magistralmente descritto dalla filosofia
nietzscheana.
Samuel Beckett si interessò di filosofia a partire dalla
fine degli anni Venti. Durante la sua frequentazione del
Trinity College di Dublino non fu avviato allo studio di
tale disciplina, circostanza che a suo parere comportò
una grave lacuna nel suo bagaglio culturale e che,
pochi anni dopo la scuola, lo spinse ad impegnarsi da
autodidatta in un programma di accanite letture di
filosofi. Fra le sue letture di questo periodo giovanile
(1929-1930) campeggiano il grande Cartesio ed il
filosofo belga Arnold Geulincx (1624-69), seguace di
Cartesio. «Ne aveva sentito parlare per la prima volta a Dublino ed era rimasto profondamente impressionato dalle
sue tesi: l’uomo pensante deve rendersi conto di poter conseguire la vera indipendenza soltanto nello spirito e l’unica
cosa che egli è in grado di controllare è la propria condizione mentale. L’uomo, pertanto, non deve sprecare energie e
tempo nel tentativo di controllare il mondo esterno, che comprende il suo stesso corpo fisico, in quanto il corpo rifiuta
spesso di essere controllato dallo spirito. Per citare le parole dello stesso Geulincx, ubi nihil vales, ibi nihil velis: dove a
niente vali, niente devi volere. […] La filosofia di Geulincx esercitò su Beckett l’influenza più profonda di tutto quanto
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avesse letto fino ad allora».40 Tanto che, come testimonia lo stesso biografa, Beckett fece del precetto
del filosofo belga la propria linea guida, l’insegnamento morale da cui trarre beneficio: la passività
può giovare all’individuo, in quanto tutto ciò che ci serve ci è donato anche senza il nostro
impegno, affannarci per ottenere successi ai quali non siamo destinati è inutile e dannoso (si
leggano influssi dell’etica stoica in questa teoria). Non a caso Beckett, facendo tesoro di questo
prezioso insegnamento filosofico, non insistette oltremodo per la pubblicazione delle sue prime
opere, ed anche successivamente, se mai fece pressioni, agì in modo molto discreto. Echi
schopenhaueriani non tardano a farsi sentire nel corso della sua formazione filosofica. Negli anni
Trenta il drammaturgo elabora la sua visione pessimistica dell’esistenza umana: la vita è
considerata una malattia mortale, sia l’infante sia il morente sono incapaci di autonomia e nel non
saper badare a sé stessi consiste l’insensatezza dell’inizio e della fine della nostra permanenza nel
mondo.
Come ho già avuto modo di esprimere, personaggi che vivono situazioni mentali disagiate sono
spesso chiamati in causa da Beckett. Nel romanzo Murphy (scritto nei primi anni Trenta) emblema
della lotta tra sanità mentale e malattia psichica è una partita di scacchi tra il personaggio che dà il
nome all’opera (dublinese di una certa cultura, che lavora come infermiere presso la Maison
Maddalena di Misericordia Mentale) ed Endon, un malato che deve essere costantemente
sorvegliato, onde evitare che si suicidi per apnea. Nella partita Endon non sbaglia una mossa e
Murphy non può che riconoscere la propria sconfitta di fronte alla straordinaria abilità dell'uomo
“malato”. Risuona anche in questo caso l’insegnamento di Geulincx : ubi nihil vales, ibi nihil velis:
l’incapacità di Murphy è la sua mancata rinuncia al controllo razionale, la sua sanità, il suo essere
“normale”. La condizione del malato viene dunque immediatamente riscattata, anche alla luce delle
esperienze personali di Samuel Beckett, che lo fecero avvicinare alla figura di Jung.
Il 2 febbraio 1968 l’emittente televisiva della Repubblica fedreale
tedesca Westdeutscher Rundfunk, dopo aver mandato in onda due
pellicole beckettiane (il filmato di una rappresentazione di Commedia,
nella messa in scena di Marin Karmitz, ed il mediometraggio Film),
trasmise un colto dibattito televisivo, animato fra gli altri dalla
presenza di Theodor W. Adorno e Martin Esslin. Un primo paragone
fatto da Esslin ed Adorno nel corso di questa intervista accosta la
poetica beckettiana alla filosofia buddista. «ESSLIN: Beckett è un mistico,
più o meno nel senso buddistico del termine, che anela al non-essere […]
ADORNO: È la morte il fine verso cui si proietta il desiderio, contrapposta alla vita
che non è altro che dolore senza fine. Ebbene, il signor Esslin ha paragonato tutto
ciò al buddismo, e devo ammettere che il confronto con la filosofia buddista e con
quella schopenhaueriana mi pare piuttosto plausibile».41 Inoltre Esslin in
questa intervista radicalizza la disperazione che scaturisce dal
mancato arrivo di Godot, che per lui non rappresenta
semplicisticamente il divino, bensì ingloba anche ogni quotidiano obiettivo dell’esistenza. Secondo
lui Aspettando Godot «è l’espressione della condizione esistenziale dell’uomo che si rende la vita sopportabile
affidandosi a speranze ingannevoli».42 Come risposta alla filosofia heideggeriana, che voleva riportare le
parole al loro significato originario, Beckett svaluta provocatoriamente il linguaggio. Adorno infatti
rileva che in un suo radiodramma, intitolato Parole e musica, il drammaturgo irlandese risolve
l’antico conflitto letteratura-musica a favore della seconda, in quanto, nel suo universo nichilistico,
la parola perde ogni potere. La musica è stata considerata nella tradizione filosofica come l’arte più
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immateriale (si veda ad esempio la concezione esposta da F. Nietzsche in La nascita della
tragedia dallo Spirito della musica) e quindi si potrebbe interpretare questa vittoria attribuita da
Beckett all’arte musicale in linea con la perdita della soggettività che emerge dall’analisi delle sue
opere teatrali e con la sua visione spietatamente nichilistica dell’individuo. Nel corso della stessa
intervista, gli illustri opinionisti si soffermano sul sottotitolo del mediometraggio beckettiano, ovvero
Esse est percipi, essere è essere percepito. Samuel Beckett sembra in questo caso farsi gioco
della filosofia di George Berkeley, smentirla, vanificarla, dimostrarne l’inconsistenza e giungere alla
disperazione che ancora una volta consegue da questa confutazione. Infatti Berkeley afferma: «Per
me è del tutto incomprensibile ciò che si dice dell’esistenza assoluta di cose che non pensano, e senza nessun
riferimento al fatto che vengono percepite. L’esse delle cose è un percipi, e non è possibile che esse possano avere una
qualunque esistenza fuori dalle menti e dalle cose pensanti che le percepiscono».43 Dal canto suo Beckett mette
in scena il dramma di un uomo che, volendo cessare di esistere, tenta di cessare di essere
percepito; ma anche nel più completo isolamento, egli non riesce nel suo intento, dato che è
proprio egli stesso a continuare a percepirsi. Argomenta infatti Beckett: «Soppressa ogni percezione
estranea, animale, umana, divina, la percezione di sé continua a esistere. Il tentativo di non essere, nella fuga da ogni
percezione estranea, si vanifica di fronte all’ineluttabilità della percezione di sè».44 L’eco di Adorno suona in
questo modo: «nell’attimo in cui l’oggetto esperisce l’autopercezione del proprio corpo, colui che osserva, vale a dire
l’io percipiente, e colui che viene percepito, si rivelano la stessa persona. Si tratta alla lettera della catastrofe, a
proposito della quale resta da decidere se corrisponda direttamente alla morte oppure, cosa che a me pare rispecchiare
maggiormente l’idea dell’autore, a ciò che lo stesso Beckett in un’altra opera […] definisce una “condanna a vita alla
morte”».45 All’interno della stessa preziosissima intervista, Fischer si sofferma a pensare la struttura
dialettica ed intimamente drammatica del soggetto beckettiano, in questo caso rappresentato dal
protagonista di Film, condannato a scindersi in oggetto percepito ed io percipiente, ed a tal
proposito cita Nietzsche: «Adesso / da te stesso afferrato / tua propria preda / penetrato entro te stesso… / Adesso
/ da solo con te / in due col tuo proprio sapere / in mezzo a cento specchi / falso di fronte a te / in mezzo a cento ricordi /
incerto / di ogni ferita stanco / per ogni gelo freddo / strozzato dai tuoi propri lacci / conoscitore di te / carnefice di te
stesso!».46 Il già citato rapporto che lega Beckett al pessimismo schopenhaueriano viene di nuovo in
questa sede problematizzato da Adorno: «Dal momento che gli uomini non possono liberarsi da questo io, dal
momento che vi sono murati o imprigionati, si abbandonano a loro volta a questa apparenza. […] Come potrebbe
l’individuo, che sottosta al principium individuationis e non è altro che una pura e casuale emanazione della volontà,
come potrebbe mai questo povero individuo che è solo apparenza negare a se stesso la volontà di vivere e tirarsi fuori,
per dirla con Schopenhauer, dall’anello di carboni ardenti da cui è circondato? Beckett direbbe: non potrebbe in nessun
modo, ed è per questo che la vita è un inferno. Si può dire che ha finito con il portare Schopenhauer alle sue estreme
conseguenze»;47 il già citato Geulincx (filosofo che influenzò notevolmente il giovane Samuel con la
sua massima che invita ad astenersi da ciò che non si può cambiare) spingendosi al punto di non
concepire nemmeno volontà di azione nei riguardi di ciò verso cui non possiamo fare nulla, mi
appare del resto molto vicino alle visioni ascetiche, di rinuncia al mondo, sfiorate più volte da
Schopenhauer, il filosofo della noluntas, e tanto vivide nelle filosofie orientali, in primis quella
buddista.
Nella sua opera Teoria estetica Adorno non cessa di riservare parole di ammirazione per
l’irlandese maestro dell’assurdo: «La sua opera è estrapolazione del kairos (occasione) negativo. La pienezza
dell’attimo si capovolge in infinita ripetizione, convergente col nulla […]. Il surplus di realtà fa la decadenza della realtà:
uccidendo il soggetto, la realtà diventa essa stessa mortuale; questo passaggio costituisce ciò che c’è d’artistico
nell’antiarte».48 Egli definisce Beckett realista, più realista del realismo sovietico, in quanto la sua sincera denuncia
dell’assurdo si colloca in continuità con il panorama storico-sociale che caratterizza l’Europa dopo la seconda guerra
mondiale. Adorno nel 1949 infatti affermò che scrivere una poesia dopo ciò che accadde ad Auschwitz sarebbe stato un
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atto di barbarie. Successivamente il filosofo rivide la propria posizione, asserendo in Dialettica negativa che scrivere
poesie per un sofferente (e l’artista è il sofferente per eccellenza) può essere considerato come un atto liberatorio al pari
dell’urlo che emette un essere umano martirizzato. Dunque, per dirla con Adorno, «lo spazio che resta alle opere d’arte
fra barbarie discorsiva e palliamento poetico non è più grande del punto d’indifferenza in cui Beckett è andato a
ficcarsi».49
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Bibliografia
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(edizione italiana diretta da G. Colli e M. Montinari), Adelphi , Milano, 1965. Da
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4. F. Nietzsche, La gaia scienza, Volume V Tomo II in Opere di Friedrich Nietzsche
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5. S. Beckett, Aspettando Godot, in S. Beckett, Teatro (a cura di Paolo Bertinetti),
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6. F. Nietzsche, La gaia scienza, Volume V Tomo II in Opere di Friedrich Nietzsche
(edizione italiana diretta da G. Colli e M. Montinari), Adelphi , Milano, 1965. Da
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7. S. Beckett, Aspettando Godot, in S. Beckett, Teatro (a cura di Paolo Bertinetti),
Einaudi, Torino, 2002, atto primo, pag 12 e pag 16
8. S. Beckett, Aspettando Godot, in S. Beckett, Teatro (a cura di Paolo Bertinetti),
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9. F. Nietzsche, La gaia scienza, Volume V Tomo II in Opere di Friedrich Nietzsche
(edizione italiana diretta da G. Colli e M. Montinari), Adelphi , Milano, 1965. Da
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12. T. L. W. Adorno, Capire Finale di Partita, in Le ceneri della commedia. Il teatro di
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13. M. Vegetti, L’etica degli antichi, Laterza, Roma-Bari, 2006
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15. M. Vegetti, L’etica degli antichi, Laterza, Roma-Bari, 2006
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28. G. Gatti, Il dramma come forma di discorso etico. Una lettura etica dei drammi di
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30. A. Bianchi, La drammaturgia contemporanea e il problema del Male. Studio sul
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Milano, Scuola di dottorato Humanae Litterae, Dipartimento di Filosofia, a.a.
2010/2011, tutor Chiar.mo Prof. D. Bigalli, coordinatore del Dottorato Chiar.mo Prof.
P. Spinicci)
31. A. Bianchi, La drammaturgia contemporanea e il problema del Male. Studio sul
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Milano, Scuola di dottorato Humanae Litterae, Dipartimento di Filosofia, a.a.
2010/2011, tutor Chiar.mo Prof. D. Bigalli, coordinatore del Dottorato Chiar.mo Prof.
P. Spinicci). Sull’empatia: Cfr. A. Damasio, Alla ricerca di Spinoza. Emozioni,
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32. F. Nietzsche, La gaia scienza in Opere di Friedrich Nietzsche, Gherardo Casini
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33. A. Bianchi, La drammaturgia contemporanea e il problema del Male. Studio sul
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Milano, Scuola di dottorato Humanae Litterae, Dipartimento di Filosofia, a.a.
2010/2011, tutor Chiar.mo Prof. D. Bigalli, coordinatore del Dottorato Chiar.mo Prof.
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Gontarski, L’estetica del disfacimento, in Le ceneri della commedia. Il teatro di
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43. G. Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana, Laterza, Bari, 1984
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1977
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gomene, 2012
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Immagini prese dal web
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