1 PROGETTO ELEGìA Educazione alla Legalità: un metodo per la ricerca di Autonomia SEMINARI TENUTI DAL PROF. SORRENTINO "Elogio del disagio giovanile. Fiducia, comunicazione e responsabilità come processi educativi " Carlo Sorrentino: cenni biografici Sono nato a Napoli nel 1958 e vivo a Firenze dal 1985, dove sono arrivato per prendere il dottorato in Sociologia Politica, presso la Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri”. Attualmente insegno Sociologia e Teoria e tecniche delle comunicazioni di massa alla stessa Facoltà. Inoltre, dirigo il Master in “Politiche di rete e servizi sociali”. I principali temi su cui ho lavorato e lavoro riguardano i processi di modernizzazione della società italiana, con particolare attenzione alle trasformazioni culturali e al ruolo dei media. Attualmente, in qualità di coordinatore di Proteo: Osservatorio sulla comunicazione politica che svolge attività di ricerca dal 1995 presso l'Università di Firenze, mi sto occupando dei processi di cambiamento nella comunicazione politica in Italia. Inoltre, sto analizzando, attraverso una serie di lavori di ricerca, come cambiano le forme della partecipazione e della cittadinanza nella società italiana. L’ultimo libro pubblicato è Cambio di rotta. Temi e tendenze del giornalismo italiano, Napoli, Liguori, 1999. Dietro questo titolo provocatorio vi è la consapevolezza che la società moderna è caratterizzata da una sempre maggiore differenziazione sociale che produce un costante processo di individualizzazione. La socializzazione di ogni individuo è molto più articolata e complessa rispetto al passato, perché aumenta considerevolmente il numero di agenzie e di ambienti sociali che intervengono. Non a caso si parla di socializzazione continua, che incessantemente “costruisce” la realtà abitata dall’individuo: famiglia, scuola, media, gruppo dei pari, lavoro, ecc.. La quantità di mondi sociali frequentati da ogni individuo – direttamente o in maniera mediata attraverso i mezzi di comunicazione – produce una dimensione culturale molto più ampia; un’estensione delle relazioni sociali ed un’intensificazione del modo in cui tali relazioni sono poste in essere che arricchisce le forme dell’esperienza individuale attraverso la moltiplicazione dei ruoli sociali giocati quotidianamente dagli individui e delle possibilità di interpretare in modo differenziato tali ruoli sociali. Un esempio può rendere più chiaro quanto appena detto. Fino a poche decine di anni fa quasi tutte le donne vedevano esaurirsi la propria esistenza all’interno di due ruoli specifici: quelli di madre e di moglie. Anche le modalità interpretative di tali ruoli erano prescritte: madre affettuosa e moglie fedele. Non importa se poi molte fossero le trasgressioni a queste regole imposte dal ruolo; rileva che la norma sociale fosse questa, molto stringente, costrittiva, prescrittiva. Oggi, ogni donna, anche la più deprivata culturalmente ed economicamente, non si rinchiude all’interno di questi due ruoli, che pure restano molto importanti. Così come anche nello svolgimento di questi ruoli le possibilità interpretative sono tantissime. La causa principale di questa implementazione delle forme d’esperienza è la crescita continua di produzione simbolica, dove con questa definizione si intende la capacità di poter 2 continuamente accrescere dati, informazioni e conoscenze sul mondo. E’ stato calcolato che ogni sei anni raddoppia il numero di informazioni che ci permette di riflettere, scegliere, decidere ed agire: in ogni campo della nostra esistenza: dalla quotidianità (“le previsioni meteorologiche mi fanno sapere che oggi pomeriggio pioverà, per questo sarà meglio che prenda l’ombrello quando esco”), ai grandi quesiti: “cosa farò da grande”, “chi sposerò”, “dove vivrò”. Se ci pensiamo bene, a queste ultime domande i nostri antenati avevano quasi sempre una risposta predeterminata: avrebbero svolto il lavoro dei propri avi, avrebbero sposato la vicina di casa o la cugina che conoscevano fin dall’infanzia, avrebbero vissuto nello stesso contesto territoriale dei propri genitori, spesso nella stessa casa. Dunque, per controllare la nostra esistenza, per vivere ed agire abbiamo bisogno di un numero di dati, di informazioni, insomma di risorse cognitive che ci permettano di muoverci, di agire. Il processo d’industrializzazione, la nascita della burocrazia, l’urbanizzazione, ecc., insomma, tutti i principali fenomeni sociali che hanno caratterizzato la modernità hanno conseguentemente richiesto l’implementazione della conoscenza, per muoversi in un mondo più complesso, abitato da altri, da sconosciuti, che si incominciavano ad incontrare nelle fabbriche, nelle città, nei nuovi contesti di vita. Per far fronte a questa nuova realtà sono stati razionalizzati i processi di definizione delle conoscenze, attraverso l’alfabetizzazione di massa, la creazione di tecnologie che velocizzassero la trasmissione delle informazioni: dall’invenzione della stampa a caratteri mobili fino ad Internet non vi è stato altro che una velocizzazione del processo comunicativo, una vera e propria rivoluzione “inavvertita”, come è stata definita dalla studiosa tedesca Eisenstein. Metaforicamente, si può dire che l’universo simbolico di ogni individuo è come un enorme armadio in cui ognuno ha migliaia di capi d’abbigliamento, quasi tutti questi capi sono presenti in tantissimi armadi individuali: per dirla con i semiologi, le enciclopedie degli individui in buona parte si sovrappongono, ma ciò che diventa sempre più differente è l’uso che gli individui ne fanno. Quando è chiamato a “vestirsi” ognuno abbina come crede i capi di vestiario del ricco armadio, secondo il proprio gusto, gli abbinamenti di fogge e colori che sembrano rispecchiare meglio la sua personalità, gli umori del momento, ecc.. E’ improbabile che alla fine, quando si scende per strada e ci si incontra con gli altri, si sia vestiti allo stesso modo; è molto più probabile che ognuno riconosca capi posseduti ma usati diversamente. I processi culturali sono resi estremamente più ricchi ed elaborati dal fatto che ogni singolo individuo controlla un numero enormemente più esteso di unità d’informazione, ma sa anche di doversi confrontare con un altrettanto accresciuta e variegata complessità di significati attribuiti dagli altri. La cultura va intesa, pertanto, non soltanto come produttrice degli individui, in quanto attraverso le sue forme ne determina il comportamento, bensì come prodotto degli individui, in continua modificazione. Le forme culturali sono modi attraverso i quali si organizza la diversità degli individui in base alla disomogeneità della struttura sociale. La cultura è quindi organizzazione sociale della diversità. Si regge sempre più sull’impossibilità di avere un’uniformità di esperienze fra più attori sociali. Le singole azioni degli altri non possono essere più interpretate e comprese sulla base della conoscenza dell’intera vita dell’altro, sul poter confidare di avere profonde condivisioni di significati con questi altri. Si conosce un numero di individui, di “altri” incommensurabilmente più alto che nel passato, ma in modo meno approfondito. Per adoperare la terminologia di Alfred Schutz la relazione con i consociati, cioè le persone con le quali condividiamo tempo e spazio e con le quali possiamo perciò avere interazioni faccia a faccia, diventa qualitativamente meno rilevante rispetto al crescente rapporto con i contemporanei, quanti vivono nel nostro stesso tempo, sui quali ci costruiamo delle idee, con i quali attiviamo processi di reciproca influenza, sempre più rilevanti, anche se sappiamo che possiamo non incontrarli mai nella nostra vita. Sappiamo un numero di cose straordinariamente più grande che nel passato, ma conosciamo meno – e abbiamo consapevolezza di questo – i significati che ad ognuna di queste informazioni gli 3 altri attribuiscono. Ne deriva che intrinsecamente la nostra consapevolezza e poi la nostra azione potrà essere meno razionalmente orientata. Siamo costretti a reintepretare in continuazione il senso delle informazioni e delle azioni compiute dagli altri, ed anche delle conseguenze delle nostre sugli altri, proprio perché non controlliamo tutta la mappa cognitiva e culturale dei nostri interlocutori. In questo modo, la riflessività richiesta all’uomo contemporaneo è direttamente proporzionale all’ambiguità, all’ambivalenza della sua azione, all’incertezza delle conseguenze della sua azione. Questa amplissima produzione di dati, notizie, informazioni, questa grandissima produzione simbolica rende più difficile ed incerto il processo di selezione e di scelta. Per ogni minima circostanza, ripetiamo da quella della banale quotidianità (“se piove porto l’ombrello”) a quelle fondamentali per la nostra esistenza, le opzioni possibili sono tante. L’identità degli individui viene descritta di conseguenza come un articolato mosaico in continua costruzione, sempre in divenire; un processo incessante che rende tanto affascinante quanto complessa e talvolta angosciante la definizione della soggettività. In queste dinamiche è abbastanza scontato che gli adolescenti e poi i giovani, cioè coloro che vivono nella fase biologicamente e socialmente deputata alla “costruzione del soggetto” soffrano particolarmente l’incertezza della definizione del sé. Incertezza che diventa il tratto caratteristico delle nostre società – come ormai ci ricordano molte scuole di pensiero sociale – ma che ovviamente è ancora maggiore in chi si trova nella fase di massimo sforzo “costruttivo” e vede davanti a sé non l’indicazione di una strada, ma tantissime alternative, che possono spaventare, mettere a disagio. Anzi, devono spaventare, mettere a disagio, se davvero si è consapevoli dell’importanza delle scelte, della responsabilità delle decisioni; se si vuole essere, insomma, un individuo a parte intera. Perché, diversamente da quello che spesso si sostiene, il principale problema delle società moderne non è la mancanza di valori, bensì l’eccessivo numero di questi, l’eccessivo numero di modelli proposti. Non c’è più il modello, il valore, la scelta, bensì una varietà, che pone la decisione nelle mani del singolo, lo obbliga a riflettere, a soppesare, a comprendere. Insegnare a scegliere ed agire Per questo motivo, il principale percorso pedagogico da compiere è fornire gli strumenti, le conoscenze per poter scegliere, decidere ed agire. Ben sapendo che strumenti e conoscenze non sono equamente divisi in nessuna società. Educazione alla scelta vuol dire esercitare gli individui ad allenarsi alla riflessività a cui la complessità ci costringe. Ma vuol dire anche insegnare l’assunzione di responsabilità. Vediamo quindi qual è la strada che può aiutare questo processo d’apprendimento. A nostro avviso la consapevolezza d’attivare deve agire a due livelli. Il primo livello è l’acquisizione del limite. Ed è qui che si introduce la dimensione normativa. Il limite non deve essere concepito come ostruzione, penalizzazione, bensì quale inevitabile processo di contestualizzazione. In ogni mondo sociale l’azione del singolo è limitata dalle caratteristiche dell’individuo, dalle sue risorse, ma anche dal rapporto con gli altri e dal contesto. Conoscere se stessi, conoscere il contesto, conoscere gli altri sono, infatti, precetti fondamentali per sviluppare capacità relazionali atte a muoversi all’interno della descritta complessità culturale. Il limite, pertanto, non va descritto come limitazione, bensì come intrinseca regola comunicativa, come intrinseca norma relazionale. Si arriva così ad un punto centrale di ogni attività di mediazione culturale qual è l’azione educativa: la dimensione comunicativa. Non si può non comunicare. Come ben si sa anche il più cupo e radicale mutismo di un qualsiasi nostro interlocutore è in effetti una ben chiara comunicazione. 4 Ma allora bisogna chiedersi quali siano i parametri che definiscono la qualità della comunicazione. In questo modo ci si addentra in un altro intricato cammino. E' ancora molto diffusa la convinzione che la comunicazione abbia a che vedere prevalentemente con una funzione estetica; l'importante non è cosa si dice, ma dirlo bene, in modo chiaro, adeguato. La comunicazione viene relegata ad una sorta di «buone maniere», che tutti sappiamo essere importanti nella nostra vita quotidiana e soprattutto in quella pubblica, ma che sicuramente non contengono la vera essenza della materia comunicativa. Questa visione semplificatrice vede nella comunicazione una sorta di «belletto» che serve a spettacolarizzare, a confezionare contenuti, pratiche, azioni. Invece, la comunicazione è essa stessa azione. E' alla base dell'intrinseca natura relazionale dei rapporti umani, dei rapporti sociali. Pertanto la comunicazione è costitutiva dell'identità dei soggetti che comunicano. La comunicazione non è soltanto il canale attraverso i quali noi passiamo i contenuti, ma è essa stesso contenuto proprio in quanto esprime la capacità da parte di qualsiasi soggetto di rappresentare in pubblico la propria identità. La comunicazione è quindi attribuzione d'identità ed esibizione della stessa. A questo punto forse diventa un po' più chiaro l’importanza di saper comunicare. Il primo passaggio da fare è modificare il rapporto con i processi di conoscenza, passando da una visione trasmissiva del sapere ad una concezione basata sulla condivisione. La visione trasmissiva ha prevalso nella lettura sulla funzione sociale del sapere e sulla sua produzione di significato; ne è conseguita una centralità dell'attenzione per la volontà dell'emittente, considerato come unico dominus dell'atto comunicativo. La visione passiva dei riceventi spiega l’affermazione dei paradigmi sulla massificazione, sull’omologazione dei cittadini. Ancora più enfatizzati quando con i media il primato dell’emittente è sembrato diventare schiacciante. La visione trasmissiva non è priva di una sua logica. E’ indubitabile che chi emette l’atto comunicativo acquisisce un vantaggio, per l’appunto riesce a definire la situazione. Ma per farlo efficacemente deve conoscere bene con chi sta comunicando e dove. Per questo motivo piuttosto che di una lineare trasmissione di contenuti che dal ricevente sono imposti al destinatario, è più opportuno guardare alla comunicazione come ad un processo negoziale in cui l’emittente deve tener conto dei propri destinatari e del contesto in cui la sua azione comunicativa si svolge. Se si volesse rappresentare graficamente il processo comunicativo si dovrebbe superare il ricorrente schema unidirezionale, con il messaggio che scorre su di un prestabilito canale dall’emittente al ricevente, e rappresentare un cerchio o un ellisse - il contesto - al cui interno vi sono sia l’emittente che il ricevente. In questo senso si può dire che ogni atto comunicativo avviene sempre in un ambiente che definisce la situazione comunicativa. Ogni emittente deve sapere dove si trova e con chi si confronta. La nuova raffigurazione adoperata consente d’introdurre il concetto di condivisione come indispensabile perché ci sia effettiva comunicazione. Con questo termine non si vuole richiamare una visione idilliaca, utopica della comunicazione, come libero e democratico scambio fra eguali, si vedrà dopo che non avviene quasi mai in queste condizioni, ma semplicemente ricordare che se emittente e destinatario non condividono alcuni pre-requisiti - codice linguistico, schemi cognitivi, frames interpretativi - non vi è di fatto comunicazione. Ancora una volta espressioni tratte dal linguaggio comune possono soccorrerci. Si pensi al significato dell’espressione ricorrente “ ci intendiamo con uno sguardo”, in cui per l’appunto si sottolinea la sovrapposizione di tanti e tali ambiti comunicativi per cui due o più interlocutori non devono ricorrere ad altri registri comunicativi, se non a quello dell’immediata intesa della comunicazione non verbale. All’opposto si pensi alla separazione comunicativa provocata dal linguaggio. Possiamo incontrare persone che sappiamo culturalmente, politicamente, generazionalmente a noi vicini e non riuscire a comunicare perché parliamo due differenti lingue. La condivisione comunicativa non rappresenta quindi una situazione statica che c’è oppure non c’è, ma è un processo, naturalmente in fieri, che può essere migliorato o peggiorato e con essa migliora o peggiora l’efficacia comunicativa. 5 Si arriva così al secondo dei due livelli prima richiamati per ottenere una consapevole capacità di scelta e d’azione: la negoziazione, da intendersi come irrinunciabile prerequisito comunicativo. Come già accennato, la concezione trasmissiva riconosce una centralità dell’emittente ed un primato del testo. Ci si ferma all’aspetto strettamente contenutistico della comunicazione. Invece, se si guarda ad una concezione negoziale della comunicazione, in cui è fondamentale osservare l’accordo fra le parti, si concepisce l’atto comunicativo come una pratica culturale in cui diventa essenziale il lavoro interpretativo degli attori coinvolti, sia emittenti che riceventi. L’agire comunicativo è quindi un elemento centrale della modernità se si considera l’atto comunicativo come intrinsecamente legato ad un’attività di produzione delle esperienze, di costruzione di significati, d'articolazione della soggettività da parte di ogni singolo individuo. La centralità del processo interpretativo permette di cogliere meglio il capitale relazionale intrinseco ad ogni processo comunicativo, proprio perché ogni comunicazione si fa insieme, si condivide, si gioca nella relazione, nell’atto negoziale, in uno spazio sociale che abbiamo definito contesto. Costruire fiducia … Se assumiamo il paradigma della negoziazione e la conseguente centralità interpretativa intrinseca ai processi comunicativi, si arriva facilmente a comprendere come l’apprendimento scolastico debba avvenire attraverso la capacità dei docenti di entrare nei mondi dei loro studenti. Di regolare le proprie proposte ai contesti cognitivi dei partecipanti alla negoziazione. La comunicazione può essere definita come l’agire in un contesto al fine di produrre conseguenze fra coloro che abitano questo contesto. La comunicazione non è più dire, trasmettere, imporre, comandare, bensì fare. Mettere in comune. Agire insieme ad altri in un contesto. La condivisione è il frutto di un articolato processo di crescita sociale, in cui appare sempre più evidente il carattere relazionale, processuale della società, che si fonda sulle interazioni, sui rapporti, sulla costruzione di significati e luoghi comuni fra i cittadini. Questi rapporti quotidiani, quelli che ognuno di noi ha costruito nel corso della propria esistenza, giorno per giorno si basano – spesso anche inconsapevolmente – sulla fiducia. La fiducia, diversamente dalla speranza, dal confidare, si basa su prove concrete (appunto affidabili) di conoscenza circa la responsabilità dei nostri interlocutori, a cui affidiamo le nostre sorti, la nostra vita, la nostra simpatia, la nostra disponibilità, il nostro danaro e quant'altro. Come recitava un fortunato slogan di qualche anno fa ,«la fiducia è una cosa seria», che necessita pertanto di prove, di un contratto, di relazioni sostanziate da fatti, da conoscenze, da esperienze. Ognuno di noi deve sapere di potersi fidare. Cioè, deve conoscere. E' questo processo che obbliga ogni interlocutore, quindi anche la scuola, anzi soprattutto la scuola a dover costruire fiducia negli studenti. Lo statuto relazionale della comunicazione mette in evidenza due aspetti importanti. Innanzitutto, che alla definizione del processo comunicativo e al successo dello stesso co-partecipa il destinatario. Dunque, l'attività di comunicazione non è mai per qualcuno ma sempre con qualcuno. In secondo luogo, se si intende la comunicazione scambio d'interazioni che danno luogo a forme d'attività e non al semplice possesso di cose e di beni, allora bisogna considerare il contesto in cui tale servizio viene realizzato. Bisogna collocare questo processo, quest'attivazione che produce azione sociale e quindi attività trasformativa, in una realtà sociale che è costitutiva di questa relazione e nello stesso tempo costituita da questa relazione. … per ottenere cittadini La dimensione negoziale della comunicazione ci descrive un processo d’attivazione degli individui, di mobilitazione che richiede consapevolezza nella propria capacità interpretativa, che permette di sviluppare senso critico: in altri termini di acquisire cittadinanza, se si intende con 6 questa la capacità “di pensare con la propria testa”, o se si preferisce una definizione meno immediata, la capacità degli individui di possedere e gestire a proprio piacimento “beni relazionali”, cioè un ricco e articolato capitale di relazioni, per la gestione delle quali vi è bisogno di conoscenze e di coltivare la socialità. La cittadinanza permette di riflettere autonomamente sulle modalità attraverso le quali si formano le preferenze in campo morale, politico e sociale. In questo senso, l’attribuzione di cittadinanza richiede agli individui risorse sociali indispensabili per partecipare. Ma queste risorse non sono soltanto di natura economico-politica, come l’accezione classica del termine cittadinanza lascia pensare; si tratta anche di risorse che afferiscono ad una dimensione privatistico-espressiva, che permette di considerare la cittadinanza come acquisizione di autonomia individuale, definita ed elaborata nel contesto di vita del soggetto. Acquisizione di cittadinanza non deve significare, allora, limitarsi al godimento di diritti politici oppure assumere una funzione produttiva nella società, come a lungo si è creduto, bensì definire un’appartenenza culturale intesa come sviluppo normativo delle relazioni, cioè come capacità di definire la propria identità in rapporto agli altri e con gli altri, dunque attraverso quei concetti di limite e negoziazione prima richiamati. Non a caso sempre più spesso si parla di diritti di cittadinanza per i bambini, oppure di cittadinanza culturale, definita come la possibilità di fare esperienze plurime e diversificate. Dunque, il ruolo della scuola nell’attuazione dei propri compiti educativi e di definizione delle soggettività deve consistere nell’attivazione di sistemi di condivisione che permettano ai partecipanti di porsi al centro di una rete di relazioni, rapporti, diritti e doveri da gestire attraverso un sempre più articolato patrimonio di conoscenze, che permetta di scegliere, di decidere, di agire in un contesto che è al tempo stesso norma e risorsa per il cittadino. La funzione della scuola di attivare conoscenze diventa quindi intrinsecamente legata alla capacità di sviluppare una mobilitazione cognitiva che passi attraverso le variegate forme con le quali nelle società contemporanee si sviluppa il confronto con gli altri, la costruzione di matrici di significato: in definitiva, la costruzione dell’identità. Soltanto in questo modo possiamo avere cittadini attivi, cioè che partecipino alla vita collettiva. Dove la partecipazione non è considerata illuministicamente un dovere, bensì un’esigenza che nasce nei singoli attraverso la consapevolezza e l’interesse.