Filosofia dell`educazione 2014-2015

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Libera Università Maria Santissima Assunta
Dipartimento di Scienze Umane
Cattedra di Filosofia dell’educazione
Anno accademico 2014-2015
prof. Cosimo Costa
Corso di Filosofia dell’educazione (M-PED/01). 60 ore
Crediti formativi universitari 9, 8.
Valido per gli studenti del corso di laurea in Educatori dell’infanzia e dell’integrazione sociale (ex Scienze
dell’educazione e della formazione - L19); Scienze della formazione primaria (LM 85bis).
PROGRAMMA
E
GUIDA METODOLOGICA
Materiale ad uso degli studenti LUMSA
PROGRAMMA
Obiettivi formativi
Sensibilizzare alla comprensione dell’agire educativo e alle sue leggi specifiche. Avviare e
sostenere con rigore metodologico il dialogo con gli autori dell'umano sui temi vitali dell'educativo.
Imparare a comprendere il costruirsi dell’umano nell’uomo. Acquisire una sensibilità paideutica per
iniziare al senso appropriato di educabilità umana. Responsabilizzare su quanto e su come il mistero
della parola possa travagliare la comunicazione umana.
Contenuti del corso
Analisi dei dinamismi di sviluppo della soggettività, delle dinamiche dell’agire libero e delle
particolari esigenze educative relative alle differenti potenzialità umane. Introduzione alla lettura di
pagine significative di grandi autori del mondo classico e del mondo contemporaneo per cogliere le
dinamiche efficaci o pericolosamente distruttive del soggetto, specificamente quelle pertinenti il
potenziale umano in quanto oggetto dell'educazione. La dimensione dialogica nella relazione
educativa. L’approccio educativo alla realtà dell’agire interiore. Le costanti metastoriche della
convivenza umana per una decisionalità consapevole, responsabile, motivata.
Testi d’esame
I testi rispecchiano la suddivisione del corso in due parti. Bisognerà studiare rispettivamente,
per la parte istituzionale:
1. E. Ducci, Approdi dell’umano. Il dialogare minore, Anicia, Roma, 1999;
2. Platone, Apologia di Socrate, qualsiasi edizione;
3. Platone, Il mito della caverna in Repubblica, libro VII, 514a-520d;
per la parte monografica di approfondimento:
4. L. A. Seneca, Lettere a Lucilio, qualsiasi edizione;
Lettere per la tematica riguardante la strutturazione dell’animus: 1, 2, 3, 4, 10-13, 15-21, 23, 25-28,
30-34, 36-38, 41-44, 49-51, 53, 54. 57, 59, 61, 63-67, 69-72, 74, 76-80, 82, 84, 88, 89, 92-96, 98,
99, 101, 102, 104-108, 110, 113, 115-120, 124
Lettere per la tematica riguardante l’animus nella convivenza: 3, 5, 6, 7, 8, 9, 14, 22, 24, 29, 35, 39,
40, 45, 46, 47, 48, 52, 55, 56, 58, 60, 62, 68,73,75, 81, 83, 85, 86, 87, 90, 91, 95, 97, 100,103, 104,
109, 111, 112, 114, 121, 122,123
Argomenti su cui preparare l’esame, così come descritto nella Guida metodologica:
• Discere non scholae sed vitae.
• Il vero bene è la virtù.
• Senza ratio e filosofia non c’è via di scampo.
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La filosofia e il rapporto con i grandi.
Il senso dell’honestum per una convivenza di qualità.
Una vita felice è il risultato di una perfetta saggezza.
Della funzione dei principi generali e dei precetti particolari.
Il processo per indurare l’animus.
Implicanze profonde tra animus, ratio, virtus, honestas.
L’importanza di una autonomia relazionata nella convivenza.
L’educazione per la disciplina, per la libertà, per la felicità.
Il problema del diverso e del rapporto con l’altro.
Comprendere il potere per una retta convivenza con se stessi e gli altri.
L’amicizia e la convivenza.
L’animus educato per la qualità della convivenza.
5. F. Dostoevskij, Memorie del sottosuolo, Einaudi, Torino, 2014.
Argomenti su cui preparare l’esame, così come descritto nella Guida metodologica:
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Il problema dello spirito.
Il problema della bellezza.
Il problema della libertà e della scelta.
Implicanze con Seneca.
Prerequisiti: aver sostenuto l’esame di Pedagogia generale.
Modalità di verifica dell’apprendimento: esame finale orale per tutti, frequentanti e non
frequentanti.
Attenzione: A disposizione degli studenti interessati c’è un CD con tutte le lezioni registrate. Per
informazioni e relativi accordi sul CD, contattare direttamente la libreria caffè
Barumba: p.zza delle Vaschette 15 – 00193 Roma; Tel. 06/45497439 Email:
[email protected].
Criteri di scelta dei testi
Perché i classici?
In una cultura come l’odierna in cui l’uomo tende a vivere solo di presente ed a confrontarsi
solo con l’utile immediato, il rischio di dimenticare il passato da cui viene e di chiudersi alle
prospettive del futuro, diventa sempre più necessario soffermarsi su pagine tra le più belle e sofferte
che la riflessione umana ci offre per dirci qualcosa sul senso dell’uomo e della sua educabilità. Sono
pagine, queste, che hanno attraversato i secoli e oggi si presentano con una attualità sconcertante.
Perché i contemporanei?
Per poter fare una analisi obbiettiva e critica della situazione vissuta dall’uomo di oggi.
Infatti, è tramite gli auctores del mondo moderno che possiamo filtrare e interpretare la perdita dei
principi e dei valori che dovrebbero caratterizzare il giusto uomo e il giusto cittadino. Se quanto
viviamo attualmente, non fosse analizzato tramite il valido aiuto di tali autori potremmo facilmente
cadere in emotive considerazioni, che di certo non aiuterebbero l’uomo “malato” del nostro tempo.
Una necessaria premessa
E’ naturale nutrire aspettative, in maniera più o meno cosciente, ogni qualvolta si dà inizio
ad un nuovo percorso di riflessione. Per questo motivo vedo l’opportunità di chiarire quale è il
guadagno che se ne può ricavare nello specifico e a quali condizioni.
Il corso non mira a garantire saperi pronti all’uso. Ha a che fare con il problema
dell’educabilità umana e dell’agire interiore, non per prescrivere regole che mettono al sicuro
l’efficacia dell’azione, ma per mettere in luce la bellezza, la possibilità e la necessità di educare, e
nello stesso tempo la faticosità, il limite, la problematicità. Per acquisire la consapevolezza non
basta lo studio ma occorre essere esistenzialmente coinvolti per capire i complessi dinamismi del
divenire umano.
L’atteggiamento con cui si ascolta e si devono leggere gli autori proposti richiede
determinate condizioni. Un’utile raccomandazione circa tali atteggiamenti la offre Nietzsche.
(F. Nietzsche, Sull’avvenire delle nostre scuole, Adelfi, Milano 2006).
Sull’ascolto l’autore scrive:
“[Il mio desiderio, anzi il mio presupposto è] di stare qui in un rapporto spirituale con ascoltatori,
i quali hanno riflettuto sui problemi dell’educazione e della cultura nella stessa misura in cui
hanno l’intenzione di favorire con i fatti ciò che hanno riconosciuto come giusto. E’ solo da tali
ascoltatori che io riuscirò a farmi comprendere […] se in genere essi hanno bisogno, non già di
essere ammaestrati, bensì soltanto di essere stimolati a ricordare”
(Sull’avvenire delle nostre scuole, p.4).
Sulla lettura:
“il lettore da cui mi attendo qualcosa deve avere tre qualità: dev’essere calmo e leggere senza
fretta, non deve far intervenire ogni volta la sua persona e la sua ‘cultura’, e non ha diritto di
attendersi da ultimo – quasi come risultato – dei prospetti”
(Sull’avvenire delle nostre scuole, p. 9).
“Non aver fretta”
“questo libro è destinato a lettori tranquilli, a uomini che ancora non sono trascinati dalla fretta
vertiginosa della nostra epoca, e che ancora non provano un piacere idolatra nell’essere pestati
dalle sue ruote! Costoro peraltro non possono abituarsi a stabilire il valore di ogni cosa in base al
risparmio o alla perdita di tempo; costoro ‘hanno ancora tempo’: a loro è ancora permesso
raccogliere e scegliere , senza dover rimproverare se stessi, le ore buone della giornata e i loro
momenti fecondi e vigorosi, per riflettere sul futuro della nostra cultura. Costoro possono anche
pensare di aver trascorso la loro giornata in un modo veramente profittevole e degno, cioè nella
meditatio generis futuri. Un tale uomo non ha ancora disimparato a pensare quando legge, conosce
ancora il segreto di leggere tra le righe, anzi ha una natura così prodiga, di riflettere ancora su ciò
che ha letto, forse molto tempo dopo di aver deposto il libro. E tutto ciò non per scrivere una
recensione o un altro libro, ma semplicemente per riflettere”
(Sull’avvenire delle nostre scuole, p. 9-10).
“Non far intervenire sempre la propria cultura”
“La terza e più importante esigenza consiste infine nel non far intervenire di continuo, alla
maniera dell’uomo moderno, se stesso e la propria cultura, quasi come una sicura misura e un
criterio di tutte le cose. Noi desideriamo piuttosto che egli sia abbastanza colto, da poter valutare
assai poco la propria cultura, anzi da poterla disprezzare. In tal casa egli potrebbe certo
abbandonarsi con la massima fiducia alla guida dell’autore, il quale ardirebbe parlargli
fondandosi unicamente sulla propria ignoranza e sulla coscienza di tale ignoranza. L’autore non
pretende di possedere null’altro se non un sentimento infiammato per l’elemento specifico per la
nostra attuale barbarie tedesca, per ciò che ci differenzia così notevolmente dai barbari di altre
epoche, come barbari del diciannovesimo secolo”
(Sull’avvenire delle nostre scuole, 10-11).
GUIDA METODOLOGICA
Iter di svolgimento del corso
1^ Parte - Istituzionale - La filosofia dell’educazione e l’uomo dialogico
Modulo A. Ducci e Platone. La filosofia dell’educazione e il tema dell’uomo educabile
La prima parte del corso è iniziato con lo studio del testo di E. Ducci, Approdi dell’umano. Il
dialogare minore. È stata la parte del percorso soprannominato istituzionale, poiché abbiamo
cercato di gettare le fondamenta su cui dare un taglio alla filosofia dell’educazione. Il testo in
questione è importante perche ci ha permesso di direzionare e quindi fermare la nostra attenzione su
alcuni punti chiave della filosofia dell’educazione, poi convergenti nel percorso monografico:
I. Nel primo punto, a cui abbiamo dato il titolo Per cominciare. Un taglio di filosofia
dell’educazione, appartengono gli interrogativi che ognuno di noi spontaneamente si pone di
fronte ad una nuova disciplina toccante l’educativo: che cos’è l’educazione? Che cos’è la
filosofia dell’educazione? Abbiamo così cercato di capire alcuni aspetti fondanti
l’educazione e in particolare la filosofia dell’educazione ducciana nelle vesti di disciplina
accademica: il problema/ i problemi dell’educativo oggi; i mezzi e le fonti: rispettivamente,
il linguaggio appropriato all’educazione, e gli auctores, importanti per quel giusto equilibrio
scientifico della disciplina. È stato in tale punto in cui abbiamo affrontato il Mito della
Caverna (allegato 1 – Schema di lettura per tematica): fondamentale per la filosofia
dell’educazione, vista la ricchezza di tematiche che da esso possono scaturire. Con esso, si è
cercato di scandagliare concetti chiave dell’educazione su cui la stessa filosofia
dell’educazione si fonda: nutrimento dell’anima, atto educativo, dialogo, volontà, scelta.
II. Il secondo punto che abbiamo nominato L’idea di uomo e della sua educabilità, ha toccato
temi introduttivi alla futura lettura dei testi di Seneca e Dostoevskij. Infatti, è propedeutico
alla detta lettura la conoscenza di tematiche caratterizzanti il tema dell’uomo, dell’umano e
dell’educativo: idea di uomo come essere vivente spirituale, idea di uomo e di educazione,
fino ad arrivare ad uno statuto della filosofia dell’educazione ducciana, l’educabilità umana
(si veda l’allegato 2 – E. Ducci, Educabilità umana e formazione) perno dell’uomo e della
sua educazione.
Modulo B. Verso l’Apologia di Socrate. La dimensione dialogica dell’uomo educabile
Anche il modulo B si è avvalso del testo della Ducci, Approdi dell’umano, per definire aspetti e
problemi caratterizzanti il dialogo in stretta connessione con l’uomo educabile. Questa è stata una
parte specifica poiché ha introdotto e risvegliato tematiche particolari della filosofia
dell’educazione, quali ad esempio il dialogo e parte dei suoi infiniti corollari. Abbiamo quindi
affrontato argomenti quali l’uomo dialogico, l’arte del dialogare, oltre che la figura del cercatore
inquieto e nostalgico. Inoltre, sempre nel presente modulo del corso, alla lettura di Approdi
dell’umano si è affiancata una ermeneusi del testo di Platone: l’Apologia di Socrate. Si è potuto
constatare infatti che tanti dei concetti contenuti in Approdi dell’umano, sono ritornati nel testo in
questione. Infatti, con l’Apologia di Socrate (allegato 3 – Schema di lettura per tematica) abbiamo
avuto modo di capire ed approfondire, cosa vogliano dire temi e termini quali: anthropine sophia,
scienza, opinione, interesse, ironia, legge, ignoranza, maieutica, metodo, missione, parola,
presunzione.
2^ Parte – Monografica di approfondimento - Il tema dell’uomo umano e del suo agire
interiore.
Nella seconda parte del corso, si è potuto osservare che un compito della filosofia dell'educazione è
quello di avviare e sostenere con rigore metodologico il dialogo con gli scandagliatori dell'umano
sui temi vitali dell'educativo. È stata la parte denominata monografica poiché, grazie alle basi
acquisite con la parte istituzionale, abbiamo cercato di fare una ermeneusi dei testi di Seneca e di
Dostoevskij. Infatti, quest'anno la ricerca monografica si è attestata sul pensare di due grandi
conoscitori dell'interiorità, valutatori sagaci della realtà politico-sociale: Seneca con le sue Lettere a
Lucilio e Dostoevskij con le sue Memorie del sottosuolo.
Modulo C. Lo stoicismo filosofico educativo. Seneca e le sue Lettere a Lucilio.
Il detto modulo è iniziato nel secondo semestre, e dopo aver operato una sintesi della parte
istituzionale evidenziando aspetti quali l’educabilità, il se e il come, l’omologazione negativa e
positiva, la sinergia, il fine, il rapporto interpersonale, la strumentazione soggettiva e oggettiva e le
fonti, la ricerca è entrata nella tematica dello Stoicismo evidenziando quei caratteri che più
interessano una filosofia dell’educazione schierata quale la nostra. Le tematiche e gli autori
affrontati sono stati: il nuovo modo di pensare che nasce con la distruzione di Atene da parte di
Alessandro il Macedone, il limite (si guardi alla metafora della mura della polis) che da sicurezza, il
caso, un accenno ad Epicuro e Zenone; il baricentro, Cleante e il suo Inno a Zeus, Panezio e il
seguire la natura, Posidonio ed il ritorno al religioso e infine il concetto di folgorazione (allegato 4
– C. Costa, Lo Stoicismo in una prospettiva filosofica educativa). Questa è stata una parte
importante perché ha potuto farci notare l’importanza del cambiamento storico oltre che farci capire
alcuni concetti di Seneca. Di quest’ultimo però, prima di affrontarlo nel suo pensiero attraverso le
Lettere a Lucilio, abbiamo preferito introdurlo tramite la vita affrontando i momenti più salienti, di
seguito elencati, che meglio contestualizzano il pensiero del nostro auctor: Elvia e il figlio Seneca,
il tempo delle grandi donne, i due Sestii, Seneca precettore di Nerone (il quinquennio di Nerone), il
suicidio, riflessioni sulle Consolationes. Procedendo con la riflessione su Seneca, abbiamo visto
Seneca educatore dell’animus. E’ stato l’animus, quindi il potenziale umano in quanto oggetto
dell'educazione, a dominare la tematica del corso monografico. Per Seneca abbiamo prima cercato
di capire la strutturazione dell’animus e secondariamente ci siamo allargati ad alcune costanti
metastoriche della convivenza umana. Talune situazioni hanno una ricaduta attendibile sulle
dinamiche decisionali; infatti, sta all'educativo individuare spazi e modi per avviare la decisionalità
verso una forma consapevole, responsabile, motivata. Le tematiche affrontate sono state le seguenti:
animus e cultura, animus e sua strutturazione attraverso la cultura: i principi e i precetti, l’animus
verso una autonomia relazionata, l’animus e la saggezza: la filosofia, per indurare l’animus,
l’animus verso la libertà, la convivenza e il diverso, i diversi, la convivenza e il potere, la massa,
nella convivenza: vivere per l’altro, vivere per gli altri, nella convivenza: la conoscenza di sé
tramite l’altro, l’amicizia, educare per incrementare la qualità della convivenza. Nell’allegato 5
(Lezioni su Seneca) si possono vedere le varie tematiche affrontate nelle singole lezioni attraverso
la lettura di alcune lettere.
Per non fuggire dal testo ed entrare solo nei concetti generali e quindi in una preparazione generica,
si sono proposti 15 argomenti, di seguito elencati, attraverso i quali preparare l’esame su Seneca.
1. Discere non scholae sed vitae.
2. Il vero bene è la virtù.
3. Senza ratio e filosofia non c’è via di scampo.
4. La filosofia e il rapporto con i grandi.
5. Il senso dell’honestum per una convivenza di qualità.
6. Un vita felice è il risultato di una perfetta saggezza.
7. Della funzione dei principi generali e dei precetti particolari.
8. Il processo per indurare l’animus.
9. Implicanze profonde tra animus, ratio, virtus, honestas.
10. L’importanza di una autonomia relazionata nella convivenza.
11. L’educazione per la disciplina, per la libertà, per la felicità.
12. Il problema del diverso e del rapporto con l’altro.
13. Comprendere il potere per una retta convivenza con se stessi e gli altri.
14. L’amicizia e la convivenza.
15. L’animus educato per la qualità della convivenza.
Possiamo impostare così come segue la preparazione: si legge interamente il testo, si scelgono
minimo 5 argomenti, poi se ne possono scegliere quanti se ne vogliono o anche inventarne altri oltre
quelli ufficiali, si fanno convergere su questi argomenti tutte le lettere specifiche in cui si è
riscontrata la presenza dell’argomento, poi si fa una traccia in cui si sviluppano gli argomenti, infine
si evidenziano le varie sfaccettature presenti nelle varie lettere. Un elaborato scritto (senza scrivere
tanto, max 2 o 3 pagine ad argomento) da discutere direttamente il giorno dell’esame senza
presentarlo prima del dovuto.
Modulo D. Per la trascendenza e il senso dell’uomo. Dostoevskij e le Memorie del sottosuolo.
Il presente modulo si è basato sull’interpretazione del testo di Dostoevskij per poter comprendere lo
spirito dell’uomo. Nelle Memorie del sottosuolo una delle prerogative massime della libertà è quella
di poter capire la razionalità, mentre con Seneca la ratio affrontava e risolveva tutti problemi.
Mettendo vicino Seneca e Dostoevskij l’uno rappresenta il limite per l’altro. La posizione di
Dostoevskij è esasperatamente anti 2 + 2= 4, è come se ci portasse in mezzo all’oceano senza una
bussola e dicesse: andate! Ma noi diciamo: dove andare? Con Dostoevskij tutta una vita è stata da
inventare, mentre con Seneca abbiamo dato una bella organizzazione alla vita attraverso la saggezza
che da la tranquillità, il giusto distacco dalle cose, la fortuna che non preoccupa. Due temi hanno
particolarmente interessato la prospettiva di lettura del testo: lo spirito tra libertà e dolore, e
andando verso la Neve bagnata, lo spirito che si affaccia all’altro. Anche Dostoevskij è stato
introdotto attraverso la sua vita evidenziando soprattutto la sua dura esperienza in Siberia.
Nell’allegato 6 (Lezioni su Dostoevskij) si possono vedere le varie tematiche affrontate nelle
singole lezioni attraverso la lettura di alcune pagine del testo Memorie del sottosuolo.
Anche per il testo di Dostoevskij, per non fuggire dalla lettura ed entrare solo in una preparazione
generale, si sono proposti degli argomenti, di seguito elencati, attraverso i quali preparare l’esame.
1.
2.
3.
4.
Il problema dello spirito.
Il problema della bellezza.
Il problema della libertà e della scelta.
Implicanze con Seneca.
La preparazione si imposta secondo come segue: si legge interamente il testo, si riflette sui 4
argomenti, si fanno convergere su di essi tutte le parti del testo che possono interessare, si fa una
traccia in cui si sviluppano gli argomenti, evidenziando le varie sfaccettature presenti nel testo. Un
elaborato scritto (senza scrivere tanto, max 1 o 2 pagine ad argomento) da discutere direttamente il
giorno dell’esame senza presentarlo prima del dovuto.
ALLEGATO 1
SCHEMA DI LETTURA PER TEMATICA DEL MITO DELLA CAVERNA •
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Struttura e contenuto
Significato metafisico
Significato gnoseologico
Significato etico e religioso
! Stadio iniziale o stadio pre-educativo > la situazione di non verità dell'uomo
∗ Anankazoito 515c6 costringere > Oggetto e fine di tale costrizione > passaggio dalla prima
alla seconda (liberante) > Sforzo > dialettica naturale ma faticosa.
! Stadio educativo
I verbi attivi, di movimento
∗
∗
∗
∗
anistasthai > alzarsi
periaghein > girare la testa
badizein > camminare
anablepein > levare lo sguardo
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Insoddisfazione e disag
La presenza dell’organo
L'esistenza di un oggetto
Segnavie > categorie
Inattualità > ma quale il bisogno?
ALLEGATO 2
SCHEMA DI LETTURA PER TEMATICA DELL’APOLOGIA DI SOCRATE •
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Accuse
Antiche: rende forti le ragioni deboli e deboli le ragioni forti 18 b6, 19 b-c; istruisce dietro
compenso 19 d-e
Recenti: Socrate corrompe i giovani 23 d; introduce nuove e diverse divinità 24 c
Anthropine sophia
… mi sono procurato questo nome per una certa sapienza … quella che viene considerata
sapienza umana … rischia di essere saggio in questa. L’altra non la conosce 20d-e
Dialogo
ha consacrato il dialogo come modo di pensare e di dire l’educativo
Educazione
hanno parlato (gli accusatori antichi) in quella età nella quale più facile è essere convinti 18c
Ignoranza
non presume: quel che non sa, sa di non saperlo 20c – 21b-d
Interesse
non prende soldi dallo svolgimento della missione19d-e
Ironia
sotto la spinta del loro abile parlare, giunsi per un poco a dimenticarmi di me stesso 17a
Legge
alla legge occorre dare ascolto e ci si deve difendere 19a
Maieutica
• Metodo
non si rapporta alla massa anonima ma a uno a uno
• Missione
il “dio” gli impone di render coscienti gli uomini che la sapienza umana sull’uomo è poca e
quasi niente
• Morte
non teme la morte ma soltanto di commettere ingiustizia 30b-c
Nutrimento dell’anima
• Opinione
le antiche sono più terribili, perché hanno tentato di persuadere e accusare molti di loro senza
dire nulla di vero, fin da quando erano fanciulli
• Parola – valore
abuso del potere della parola - intento di persuadere dicendo il falso 17a-d
• Presunzione
aveva la fama di essere sapiente per molti altri e in particolar modo per se stesso, ma in realtà
non lo era 21c
• Scienza
non disprezza la scienza ma non è interessato 19c-d
• Tempo
difficile difendersi in poco tempo 19a
• Verbi
si serve dell’interrogare ogni uomo nell’intento di condurlo alla testimonianza interiore:
Interrogare, indagare, confutare, esaminare, incoraggiare, esortare, mostrare, manifestare, far
conoscere, rivelare, risvegliare, far alzare, destare, rinfacciare, rimproverare, far vergognare,
incitare, provocare, persuadere, convincere, indurre. 11
ALLEGATO 3 EDUCABILITA’ UMANA E FORMAZIONE in AA.VV. Educarsi per educare. La formazione in un mondo che cambia, Ed. Paoline, Roma, 2002, pp. 25-­‐44. in Per una filosofia dell’educazione. Il pensiero di Edda Ducci attraverso i suoi scritti, a cura di C. Costa, Anicia, Roma 2014. Affrontare, nel vivo di un gruppo qualificato, il tema dell’educabilità umana è situazione
buona sia per intranearsi (cioè entrare con delicatezza e decisione) non da soli (perché è
sempre cosa rischiosa) nel cuore del mistero\uomo, sia per portare ad effetto il proposito di
toccare il punto nevralgico e alto del rapporto interpersonale, e non fermarsi alle forme apparenti.
Il tema richiede, naturalmente, una sufficiente strumentazione oggettiva (cioè una non breve
frequentazione degli scandagliatori dell'umano), accanto a questa la decisione di accettare il
coinvolgimento personale (con tutte le conseguenze), e, terzo ma non meno importante,
d’innescare una sinergia appropriata. Questo perché si vuole parlare dell’umano concreto (di cui
l’educabilità rappresenta il nucleo vivo), e di ciò non soltanto non si può parlare da soli, ma è
bene essere in molti, in tanti, con presenze diversamente autorevoli, e soprattutto (cosa
determinante) non si può restare estranei o lontani, perché tutti interpellati in prima persona e,
nel nostro caso, in prima persona e nella funzione che ci è stata affidata.
Non potendo trattare il tema nella sua interezza è saggio esplicitare la scelta metodologica
operata. Ho ritenuto opportuno privilegiare taluni aspetti solitamente meno trattati o trattati in
altri contesti, e comprendere nella trattazione anche i dinamismi ad essi collegati. E per quanto
concerne il linguaggio ho scelto di dimensionare quello puramente razionale, di evitare il
parenetico, e di lasciare il massimo spazio al linguaggio atto a invogliare, cioè a muovere la
volontà verso l’agire interiore e esteriore.
Quale educabilità?
La riflessione, in maniera forse insolita, prende le mosse non da una generica trattazione
dell’educabilità umana, ma da un movimento che ognuno di noi deve compiere: il
ripensamento, meglio il riattingimento della propria educabilità.
Si tratta di un movimento che può apparire remoto dal nostro contesto, perché va in senso
contrario a quello che è il movimento proprio del ruolo di educatrici, che consiste primariamente
nell’essere attenti all’educabilità dell’altro.
Questo avvio rivela la direzione della ricerca; nello stesso tempo può considerarsi un primo
elemento propedeutico per l’attingimento della propria educabilità: tenere o riportare il ruolo nei
suoi confini. Ed è movimento né facile né spontaneo, ma di assoluta necessarietà.
La sospensione del movimento del ruolo è, dunque, esigita per la corretta conduzione del
nostro riflettere; anzi ciò avrà, come secondo effetto, una percezione del ruolo più regolare, e lo
svolgimento del medesimo acquisterà in dignità.
Va rammentato che è penosamente possibile l’identificazione con il ruolo (anche nel settore
dell’educativo) sì da perdere il contatto immediato con le radici del proprio essere. Può
formarsi come un muro compatto che immiserisce il terreno e lo rende impermeabile.
L’abitudine al ruolo può imporsi anche in breve tempo, perché dipende dal modo di intendere il
rapporto tra il ruolo e l’essere personale. Il ruolo affascina, ma può mortificare la realtà
personale. Può sovrapporsi o addirittura sostituirsi alla vitalità della realtà personale. La
pericolosità è enorme quando il ruolo è quello di formatrici. Si può (paradossalmente) essere
eccellenti nel funzionare, forse anche apparire competenti, e restare miseri nella maniera
personale di vivere. Si tratta di un male che, soprattutto nelle forme leggere, può restare a lungo
inavvertito. Il ruolo può nascondere zone infiacchite, tessuti restati ripiegati che si guasteranno se
non arieggiati.
Affrontare il problema della propria educabilità prima ancora di parlare dell’educabilità
dell’altro, può essere, per chi svolge la funzione di formatore, una delle occasioni per
ricondurre il ruolo dentro i suoi confini. Se si scopre con rinnovata luce la natura bella e il
senso forte della propria educabilità ci si avvicina diversamente all’educabilità dell’altro.
Approdare a quel fascio di energie che costituisce l’educabilità
Educabilità umana ha la stesso senso di perfettibilità umana, di tensione viva ad
assimilarsi al Modello, di spinta a diventare quel io che si è. Non è uno spazio da riempire, né
una serie di comportamenti o di persuasioni da apprendere, bensì un fascio di energie inesauribili
da sviluppare in tutto l’arco del vivere (c’è in noi qualcosa di eterno). E’ il potenziale affidato a
ciascuno di noi. Ci distingue l’uno dall’altro. Di lui non conosciamo né l’intensità né la
misura, ma possiamo concretamente esperire l’una e l’altra. Svilupparlo è il compito di tutta la
vita, compito che va svolto interamente, e non può essere copiato da altri.
Dello sviluppo di questo fascio di energie (di tutte) siamo responsabili. Il richiamo alla parabola
dei talenti è spontaneo.
Talune di queste energie possono (per motivi differenti) restare sopite, non godere mai del
risveglio o, dopo risvegliate, ripiombare nel sonno. Possono essere state deformate nel loro
esprimersi, o possiamo (per motivi non congrui) avere impedito il loro prorompere nell’interiorità.
Forse le si conoscono troppo poco. Va rammentato che le energie si apprezzano quando dallo
stadio potenziale passano a quello attuale. Finché non passano all’atto non hanno un volto preciso.
Supporle, immaginarle, bramarle è poco o nulla. Necessario, anche se rischioso e faticoso, è
farle passare all’atto. E per sopportare rischio e fatica bisogna apprezzarle, esserne convinti e
appassionati. Non avvertirle mai come un peso. Se restano a livello di etichette da manuale non
verranno mai affrontati né fatica, né rischio. Dobbiamo fare a noi stessi l’incantesimo per
appassionarci e entusiasmarci, e così saper fare l’incantesimo agli altri, e insieme a loro
ringraziare il Donatore.
Più avanti parleremo di alcune di esse (anche se in forma molto breve), magari lasciando
da parte quelle canoniche. Se vogliamo amare le energie che costituiscono quel io che siamo e che
dobbiamo diventare, che accennano concretamente al compito assegnatoci, dobbiamo guardarle
nella bellezza di ogni risvolto.
Un secondo movimento propedeutico per impattare (e tali movimenti sono preziosi perché
l’impatto è necessario ma travaglioso) con la propria educabilità può essere indicato nella
rivisitazione dell’ascolto, fino a toccare la competenza nell’ascolto, e problematizzarla
opportunamente. Come per il ruolo anche qui si annida il pericolo che l’ascolto sia calibrato tutto
sulla funzione di formatrici. Si può, paradossalmente, sviluppare l’orecchio della formatrice e
lasciare che si restringa l’orecchio della persona in sé. Si ascolta, si percepisce quello che può
essere utile per la funzione, o quello che chiedono le persone in formazione, ma è come se
mancasse la competenza per ascoltare istanze che stimolano a continuare il cammino personale,
quello che sorregge il ruolo senza identificarsi con lui. Anche gli incontri a cui partecipiamo si
possono, purtroppo, considerare come offerta di apporti finalizzati all’uso, più che apporti per il
crescere personale.
L’orecchio interiore può tendere a restringersi per tanti motivi. Forse sembra di aver già
ascoltato tante e belle parole (forse troppe), ma è pur vero che resteranno sempre da conoscere
realtà non direttamente professionalizzanti, ma davvero umananti. Competenza nell’ascolto,
dunque, orecchio interiore sensibile ai grandi problemi che ci riguardano come soggetti umani
in sé, come soggetti tesi alla molteplicità delle relazioni, e desiderosi di assolvere bene la propria
funzione.
Delle grandi realtà dell’umano si rischia di avere una conoscenza misera, ripetitiva,
costretta su
binari soliti, scontata, e, forse, di seconda mano. La conoscenza delle grandi realtà umane può e
deve arricchirsi senza posa; non la si può mai ritenere esaurita, compiuta. Riconosciamo
umilmente l’incompletezza, la meschinità della nostra conoscenza di Dio e di ciò che riguarda il
sacro. Siamo meno umili circa la pochezza, l’angustia, lo sbiadimento della nostra conoscenza
dell’umano. Non si tratta della conoscenza da usare o da vantare, ma di quella da vivere in
prima persona. Quella conoscenza che appassiona e fa volere, ad ogni costo, il conseguimento di
un’umanità riuscita.
D’altra parte se, circa le realtà umane, si manca di conoscenza e soprattutto di conseguente
esperire personale, non si può essere comunicatori efficaci, ma soltanto persuasori scialbi, snervati,
inconcludenti. Parlare per sentito dire non si addice mai a un formatore. Per questo va
impietosamente saggiata la propria competenza nell’ascolto.
A lei si associa la sensibilità capace di avvertire e decifrare il bisogno naturale, integrale, costante
di educazione, presente in ogni soggetto, cioè il bisogno insopprimibile, la necessità reale di
avvalersi di cooperazione idonea per diventare quel io che siamo e che, paradossalmente,
dobbiamo scegliere di essere, e di cui dobbiamo decidere la qualità.
Il bisogno naturale di educazione potrebbe non essere mai stato ascoltato realmente dal
soggetto. Tutto quello che ha ricevuto può essere stato passivamente accolto perché offerto, o
addirittura perché imposto. Questa fondamentale voce interiore può non aver trovato l’orecchio
adatto.
Il terzo movimento propedeutico riguarda il volere - e cioè l’arte di snidare i pericolosi
camuffamenti che tentano di surrogarlo -, perché nitida ne risalti la natura, e si abbia il coraggio
di cogliere e dire le aporie che lo frequentano. Il soggetto umano bisogna che espressamente
voglia l’attuarsi della propria educabilità, il realizzarsi della propria perfettibilità (non
necessariamente con la precisione terminologica qui usata ma con vera consapevolezza
esistenziale). Il dinamismo interiore dell’attuarsi del potenziale (educabilità) potrebbe non essersi
mai avviato adeguatamente, perché mai si è attinta la radice del volere. Più che volere, il soggetto
è rimasto all’essere voluto. Il suggerito, o l’imposto, può, infatti, soppiantare l’originalità
(difficile da conoscere e scomoda da attuare) del potenziale. La passività o l’arbitrarietà
possono, inconsciamente, mascherarsi tanto da sembrare volizione.
Il fraintendimento tra il volere e l’essere passivamente voluto, magari anche da chi sta a capo, è
mortifero per il costituirsi dell’umano: illudersi di volere, e, invece, continuare, magari a lungo,
ad essere voluti nelle grandi o nelle piccole circostanze del vivere. Ancora una volta sono
infinite le possibili contraffazioni, e su di esse la riflessione personale deve essere inclemente.
Dal fascio di energie costitutivo della nostra educabilità deve affiorare, anzitutto, il volere
perché assuma il posto che è suo. Conoscere la natura del volere e soprattutto imparare a
volere, saper volere è cosa basilare.
Il volere si riferisce immediatamente a quel io che siamo e che dobbiamo diventare, e la cui
qualità dipende tutta sia dalla decisione fondamentale, sia dalle scelte singole che la esplicitano.
Rammentiamo anche che possiamo volere e scegliere il che cosa, ma non sempre direttamente;
esso talora è inserito in un contenitore più ampio o generico (scelgo il carisma di una
Congregazione, ma non le singole leggi, prescrizioni, tradizioni). Mentre è sempre in nostro
potere il come vogliamo, assumiamo, eseguiamo. Nel come siamo autonomi, siamo legge a noi
stessi, pienamente responsabili. Qui grandeggiano la fatica e la solitudine, perché nessuno può
risolvere al posto di un altro il come, cioè la qualità dell’agire interiore. Regole, precetti,
obbedienza sono vissute bene se vissute come: sono io che lo scelgo e che lo voglio nella
modalità esigita dalla scelta qualitativa che ho fatto circa quel io che voglio essere davanti a Dio.
Imparare a volere, saper volere, è essenzializzare il vivere interiore e mettere a frutto le
energie nobili. E’ vivere l’umano nel suo nucleo fondante, sì che il rapporto conoscitivo e
operativo con l’altro si impernia sulla connaturalità. La conoscenza per connaturalità è quella
meno impropria quando ci si riferisce alle grandi realtà umane, e le si considera nel vivo del
rapporto interpersonale.
E’ una conoscenza da volere per sé, da ricercare ad ogni costo, anche se il suo prezzo è alto.
Riflettere anzitutto sulla propria educabilità (poi su quella di chi ci è affidato) non è cosa
spontanea, è un agire interiore che deve essere coscientemente voluto, preparato e mantenuto
con cura, e protratto per tutto l’arco della vita.
Le energie interiori hanno una natura relazionale. Non sono destinate all’autoreferenzialità
o ad uno sviluppo solipsistico. Sono energie che per prorompere e andare verso la giusta
direzione esigono la sinergia. La funzione di diventare (movimento lungo quanto l’intero arco
del vivere) quel io che siamo non la si può assolvere da soli, occorre il dinamismo sinergico.
Per sinergia si intende il convergere di più energie, della medesima natura, per il compimento di
una funzione che un’energia da sola non potrebbe assolvere. La relazionalità sinergica interviene
nel primo prorompere, accompagna poi lo sviluppo, ed è in lei che le energie del singolo
trovano l’habitat appropriato perché la loro potenzialità si attui in ampiezza crescente. Esperire in
prima persona la sinergia è condizione necessaria per poi proporla, avviarla, sostenerla (anche
quando appare impossibile), trovare il modo di superare o aggirare ogni tipo di ostacolo.
Sarebbe improprio pensare di individuare le energie che costituiscono l’educabilità umana fuori
dalla relazionalità sinergica. Si tratta di un principio basilare che fonda un’umiltà che si
potrebbe definire ontologica, consente un concreto senso del limite, una netta visione dello statuto
relazionale preso in sé e curato adeguatamente anche negli aspetti minuscoli.
Prima energia: uditori e facitori della parola
La prima energia, quella che pur rimanendo misteriosa ha un lato constatabile, è
identificabile nel fatto che l’uomo ha la parola, anzi che l’uomo è uomo proprio perché ha la
parola. L’enunciato semplice deve evocare un mare di implicanze.
E’ giusto prendere atto che con la parola si tocca un tema immenso, ma davvero
determinante per comprendere l’educabilità umana (propria e altrui), in vista della formazione. Si
tratta, ancora una volta, di un tema che non può essere trattato adeguatamente in poco spazio e
in poco tempo. Per questo sarà bene accennare argomentazioni e motivi, corredare poi con
qualche testo di riferimento, sì che ognuno possa continuare il percorso in modo corretto.
Cosa fondamentale è non confondere parola e parole, queste non sono il plurale di quella,
perché tra l’una e le altre c’è una differenza qualitativa, non una differenza quantitativa.
Soltanto con questa distinzione il percorso è corretto e resta aderente alla realtà. Parola è
l’esprimibilità dell’essere, dell’esserci. Parole sono un veicolo convenzionale che può essere
slegato dalla parola. L’uomo ha la parola (cioè può e deve esprimere l’umano in quella
particolarità che è cosa propria di ognuno), e può usare le parole o come strumento oggettivo di
comunicazione a tanti livelli, o come veicolo per il pronunciamento della parola.
L’animo religioso ricerca l’origine del fatto che l’uomo ha la parola, la causa di questo
salto nei gradi delle cose create. Invece la visione limitata al finito e al temporaneo si ferma
all’esserci di questo fatto, non ne indaga la natura ultima, ma soltanto i processi, e, soprattutto,
vuole impiegare tutte le possibilità di utilizzo.
Grandeggiano nella riflessione dell’animo religioso le primissime pagine del Genesi e il
Prologo del Vangelo di Giovanni. Nel Genesi Dio ci ha svelato come è avvenuta la creazione:
mediante il suo dire. Nel Prologo ci ha detto del Logos e del suo diventare carne e piantare la
sua tenda in mezzo a noi. Qui c’è l’origine della parola che è nell’uomo, della parola che
qualifica il suo essere, che ne esprime la natura relazionale, e che dice in maniera incredibile la
sua dipendenza da Dio e il suo rapporto attuale con Lui.
In questo cammino verso il fondo dell’essere umano è dato l’impatto con l’esperienza
interiore primaria, esperienza che appartiene a ogni singolo, senza distinzione: scoprire
vitalmente la natura di tu della propria coscienza, segno indelebile dell’essere stato interpellato a
mo’ di tu nell’istante in cui è avvenuta la chiamata dal nulla all’esserci. Un’esperienza né
immediata né facile, ma che contiene in sé il mistero di ogni rapporto e l’energia per condurre
ogni rapporto nel giusto modo. L’essere stati (e il permanerci) il tu di Dio (e riprova tangibile di
ciò è l’avere la parola) dissolve ogni smarrimento interiore causato dall’isolamento.
L’essere (e l’essere stato primariamente) uditore della parola consente all’uomo di
diventarne facitore della parola. L’essere uditore presuppone e pone il rapporto vivo e attuale
dell’uomo con Dio. La capacità di essere vero facitore pone il rapporto dell’uomo con i fratelli,
rappresenta il primo soddisfacimento del bisogno che il soggetto ha degli altri. Bisogno
insopprimibile di esprimere il proprio essere, e bisogno di avere qualcuno a cui esprimerlo. Qui si
radicano la vita in comune e le forme varie della socialità, e da qui assumono il loro senso.
L’udire e il pronunciare la parola disegnano e accolgono un nodo di energie che il soggetto non
finirà mai di individuare, mai esaurirà i modi di collegarsi a loro vitalmente, e di desumere da loro
lo stile dei movimenti interiori.
La parola, nel momento in cui è indirizzata all’altro, palesa quella scheggia minima di
potere creante che ha serbato in sé, per questo infrange la muraglia cinese dell’isolamento e rende
possibile l’incontro. La parola, come forza viva, può permeare le parole e ogni altro linguaggio,
conferendo a questi efficacia e riscattandoli dalla sola convenzionalità o dal mero utilizzo. La
parola (che va sempre detta con tutto l’essere), può aderire alle parole e così renderle vive e
feconde, rendere possibile ogni reciprocità, e soprattutto la reciproca edificazione.
La parola umiliata a mere parole è la causa del vanificarsi della comunicazione o,
addirittura, dell’incomunicabilià.
Il dialogo si incardina sulla parola e si serve (soltanto si serve) delle parole, anche le più
alte e sofisticate. Il vero dialogo è nel mutuo scambio dell’espressione del proprio essere, della
propria originalità, nella dialettica dell’ascoltare e del rivolgere la parola.
Accogliere la parola dell’altro è offrire a lui l’occasione giusta per formularla meglio. Ci vuole
un orecchio capace di liberarsi da interferenze e rumori, perché la parola che l’altro esprime non
si snaturi, ma sia accolta nella sua vera estrinsecazione. Da qui anche l’occasione giusta
perché ognuno percepisca ed esprima sempre più fedelmente la propria. Esprimere la parola è
radicalmente risposta, perché la natura della parola è relazionale, essa è fatta per presupporre e
porre il rapporto tra i soggetti.
L’aver la parola è la prima energia in quel fascio che costituisce l’educabilità umana. E’
palesemente un’energia che rinvia alla sinergia perché se l’uomo è uomo perché ha la parola, la
funzione di diventare quel io che siamo si compirà nel mondo della parola ascoltato e indirizzata.
Lo scoglio da superare con cura costante è quello di non cancellare mai la differenza
qualitativa che intercorre tra la parola e le parole, non umiliare la parola stemperandola nelle
parole, non mortificare il potenziale privandolo di questa prerogativa determinante.
Forse ogni dialettica di formazione (e in tal modo resta sempre autoformazione) potrebbe
concretarsi nel rivolgere la parola all’altro perché l’altro possa esprimere la propria parola.
[Trattare un simile tema in così povere battute è davvero scorretto, per questo mi permetto di
sollecitare la lettura delle opere di Ferdinand Ebner, sia Parola amore, sia La parola è la via,
Anicia, Roma; e di Martin Buber, Il principio dialogico, San Paolo, Milano.]
Seconda energia: capaci di amare
La capacità di amare è indubbiamente un’altra delle energie massime che costituiscono
l’educabilità umana. Difficilissimo parlarne, impossibile parlarne in breve. Nell’affrontare questo
tema, tenendolo raccordato al precedente, viene spontaneo rilevare come effettivamente
nell’educabilità si annodino tutti i volti del mistero uomo. Qui, davvero, fanno capo le massime
realtà umane. Fin qui deve arrivare l’interrogare sull’uomo se vogliamo che i problemi siano
concreti e le sollecitazioni feconde.
L’amare è un’energia di cui tutti sappiamo (o crediamo di sapere), di cui tutti abbiamo
fatto esperienza (o speriamo di averla fatta), che, però, non possiamo padroneggiare né
concettualmente né all’atto pratico. L’interrogativo formulato già da Platone resta irrisolto: come
far sì che l’oggetto d’amore diventi soggetto d’amore, che cioè l’altro da amato diventi amante?
Il cristianesimo ha portato la problematicità dell’amare al punto culmine, ha aperto la strada
all’intensificarsi illimitato di tale energia, ha fatto, paradossalmente, dell’amare il precetto per
antonomasia, e così ha svelato che nell’uomo c’è una capacità di amare quasi infinita..
Qui non mi propongo né di risolvere il quesito platonico, né di illustrare il senso, la
natura, la possibilità del precetto cristiano, limito il mio compito a poche istanze, quelle che
mi paiono direttamente connesse con l’educabilità.
Per il cristianesimo l’amare umano è originariamente un ri-amare. Abbiamo già sostato su
questa strada a proposito dell’aver la parola, e della priorità, nella coscienza umana, della
natura di tu rispetto alla natura di io. L’amare è per il cristiano ontologicamente una risposta,
perché la risalita mediante l’avere la parola giunge al sentirsi amati, al sentirsi il tu di Qualcuno.
Qui grandeggia il dinamismo della conoscenza per connaturalità, si è nel mistero del teomorfismo.
L’uomo porta in sé un mistero di amore, un misterioso sapersi oggetto d’amore, una coscienza
che può crescere e intensificarsi durante tutto l’arco del vivere. Siamo nati per – già presagiva
l’Antigone di Sofocle – rispondere all’amore.
E, in forza di ciò, il cristianesimo tende nell’uomo la capacità di amare l’altro uomo fino ai
vertici dell’amicizia, da un lato, fino ai vertici dell’amore per i nemici dall’altro.
Il radicamento vitale nel primo fondamento (quello sopra rammentato), se reale e non
soltanto pensato o anelato, porta con sé (e dà la possibilità di realizzazione) la rimozione di
ostacoli precisi. Rammentiamone qualcuno:
- La chiusa egoistica, anche quella derivabile dalla mancata maturazione
affettiva.
- Qualsiasi atteggiamento interiore o esteriore di dis-prezzo dell’uomo (non dare all’altro,
per qualsiasi motivo, il prezzo che è suo e che gli spetta).
- Il fraintendimento dell’aver bisogno dell’altro sulla linea dell’utilizzo
- La voglia inumana di far soffrire l’altro
- L’inconcepibile paura dell’altro
- L’autoinganno, cioè il camuffare a se stessi sentimenti impropri quasi fossero amore.
Questi primi tratti elementari lasciano intravedere piccoli sentieri che conducono all’educabilità
e alla formazione.
Primaria è la qualità di immotivato che l’amore deve avere (non dipendere cioè, e quindi non
deve essere condizionato, dalle qualità dell’oggetto, e ciò per una povera somiglianza con la
modalità di amare propria di Dio), annodata strettamente con la concretezza (deve cioè
riguardare un concreto oggetto di amore, una persona reale non qualcosa di astratto).
Tra le tante sollecitazioni che si possono rintracciare a questo proposito c’è quelle contenuta
in una pagina bella di Kierkegaard negli Atti dell’amore. Una pagina segnata dalla peculiarità
dell’educativo incastonato nell’amare. L’enunciato è che amare una persona equivale a intuire
acutamente le sue proprietà, volerle amorosamente, e cooperare al loro pieno sviluppo senza
lasciare nessun marchio.
Le proprietà proprie dell’altro, quel quid che lo segna e lo individualizza e di cui nessuno è
privo, sono la sua originalità non misurabile con moduli oggettivi, sono il cuore della sua
dignità (non intaccabile da niente). Volere la loro piena attuazione è far sì che l’altro sia qualcuno
per qualcuno, nella celebrazione dell’unicità.
La maternità o la paternità possono avviare a percepire l’unicità di quell’essere umano
che è il figlio. La mancanza di questa massima esperienza va colmata. Il compito, per colui che
ama, è di volere profondamente le proprietà proprie dell’altro, fondamento della sua unicità.
Perché quelle proprietà costituiscono la struttura del suo essere, la forza del suo agire, la sua
sconfinata possibilità di instaurare rapporti. Vanno volute profondamente anche se non sono
identiche o simili a quelle di colui che ama, né rispondenti ai suoi canoni di apprezzamento e di
rispetto. Non vanno cancellate, nascoste sotto una proiezione delle proprie, né si possono
dichiarare non trovabili soltanto perché cercate con un cuore meschino o uno sguardo cieco.
Questo, per altro, è un esercizio buono per imparare ad amare in modo concreto, per
uscire dal bozzolo dell’egoismo (in cui è tanto facile ricascare), e persino per volere intensamente
lo sviluppo delle proprietà proprie.
Qui accestisce la gioia, anzi, qui è la fonte della gioia, a patto che si tenga aperta ogni possibilità
di sinergia. L’annodarsi di essere amati, amare, attizzare la capacità dell’altro lo si può accennare
così. La prova più grande di amore è far esperire l’essere amati, ma il senso di essere amati lo
si possiede nella misura in cui lo si è esperito, la veridicità, però, di tale esperito è nell’atto
interiore dell’amare.
Impossibile non riandare alle intuizioni e agli scandagli di Giovanni, Paolo, Agostino,
Tommaso e tanti altri. Forse si dovrebbero maggiormente frequentare le loro pagine per
cogliere il cuore dell’educabilità e la grande posta della formazione come vero aiutare l’altro
nell’attuazione della sua capacità di amare.
Nell’amare si annida tutto il mistero umano come mistero di relazionalità eterna, perché l’amare
(in tutta la vitalità del suo dinamismo), come proclama Paolo ai cristiani di Corinto, non cesserà
mai.
Terza energia: liberi interiormente
Si può ancora trascegliere da questo fascio l’energia-libertà, e soprattutto considerare il
potere che ha l’uomo di compaginarsi un’autentica libertà interiore. La libertà interiore
rappresenta per il soggetto un diritto primario, anche rispetto alla stessa libertà esteriore nelle sue
tante forme. Ma è un diritto che ognuno deve assicurare da sé a se stesso. Si può estendere ad
altri i benefici di una libertà esteriore ottenuta, ma quanto alla libertà interiore può esserci
soltanto un aiuto misurato, l’effetto è tutto e solo del soggetto che se ne impossessa.
Per la libertà interiore, come per le precedenti realtà grandi dell’umano, è impossibile parlare di
definizioni, può essere accennato qualche tratto, qualche aspetto che la faccia amare e, di
conseguenza, volere, nonostante il suo alto prezzo.
Si può partire dal processo di emancipazione. Il soggetto può essere emancipato da ogni
schiavitù interiore (per questo il formatore prendeva, negli stoici, l’appellativo di emancipatore),
e mutare così la sua condizione interna. Questo verrà da subito, nel pensare occidentale, inteso
come il massimo beneficio da offrire all’essere umano.
Se le schiavitù esteriori sono evidenti e facilmente disapprovate, le schiavitù interiori,
invece, sono ingannevoli, sfuggenti, facilmente ammantate di tratti simili a quelli della libertà.
Alcune schiavitù interiori pesano, opprimono, ma molte di loro sembrano securizzare o conferire
tono al soggetto.
La rimozione delle schiavitù esterne non soltanto non facilita direttamente la rimozione di
quelle interiori, ma, per assurdo, potrebbe rafforzarle o crearne di nuove. Ed è proprio e
soltanto la rimozione delle schiavitù interiori che rende il soggetto non condizionabile, infatti
non ha padrone da temere, né ricatti o coercizioni inchiodanti, in una parola, tale rimozione lo
rende libero.
Nella dizione classica, quella formulata da Aristotele nel libro I della Metafisica, è detto
libero colui che è a causa di se stesso, chi prende da se stesso il motivo, la forza, la direzione
per il proprio agire. Tra i tanti pensatori che hanno assunto ed enfatizzato questo sintagma, è
bello ricordare Tommaso. Lui lo utilizzerà anche commentando Giovanni 15, 15: il tratto bello in
cui Gesù dice ai suoi di averli chiamati amici e non servi; li ha, infatti, considerati liberi, e
Tommaso annota, cioè causa sui. Colui che attinge la forza che causa il suo agire interiore da
se stesso questi è libero, perché, ancora una volta, attinge direttamente da quel punto ontologico
che segna la sua dipendenza liberante da Dio.
C’è anche una suggestione forte di Dostoevskij. Per le infinite capacità del suo genio, e
per le incredibili esperienze del suo vivere Dostoevskij intravede e descrive l’uomo come un
essere capace di infinito bene e infinito male. Questo sconfinato potenziale può indurre nell’uomo
la paura della libertà assegnatagli da Dio, e la voglia di consegnarla, al fine di non doverla più
gestire da sé e sopportare gravosa solitudine e responsabilità. Talune Istituzioni sono pronte ad
accoglierla, a sottrarla all’uomo, sì che lui si senta securizzato anche se resta inesorabilmente
mutilato (utile ripercorrere le tappe della Leggenda del grande Inquisitore). E’ questa
un’intuizione inquietante che costringe a rintracciare costantemente la linea di demarcazione tra
la fuga e il dono, tra il disimpegno e l’impegno.
La libertà interiore è l’avvio alla estirpazione della capacità di infinito male. Un infinito
male alla portata di tutti, basti pensare al far soffrire gli altri. Di questo male infinito
possiamo essere colpevoli tutti, senza eccezione. E’ un male di cui è difficile liberarsi, perché
infinite sono le sofferenze che si possono infliggere, anche senza che questo appaia
minimamente. La tentazione di far soffrire gli altri è la più pesante tentazione di superbia e di
orgoglio, perché gestire la sofferenza altrui è assurdo impeto di onnipotenza. Soprattutto la
sofferenza morale può essere inflitta con facilità incredibile e per motivi pseudo giusti.
L’individuazione e la denuncia di ogni schiavitù interiore, la rimozione continua di esse e della
radice cattiva consentono l’atto fondamentale della libertà interiore: la decisione di diventare quel
io che siamo (chiamato dal nulla all’esserci per un atto di amore e con un’interpellanza diretta),
la scelta della qualità di questo medesimo io (che può avere come Modello e Misura soltanto
Dio), e, in base a questo, la motivazione (la forza che muove) per ogni altra scelta, grande o
piccola. Per volere la libertà interiore, volerla per sé come il beneficio grande, volerla con i suoi
rischi, le sue solitudini, le sue pretese, bisogna esserne affascinati, essere innamorati di lei, aver
perso la testa per lei. Ma perché questo avvenga la si deve intravedere nella sua bellezza
concreta. Insufficiente sarà la concettualizzazione più esatta, la presentazione logica più stringata.
Bisogna che qualcuno, lasciando trapelare la propria libertà interiore, offra all’altro il dono di
intravederla. Quando c’è, la libertà interiore trapela da tutto l’essere, dal modo di parlare, di agire,
di scegliere, di desiderare, di comportarsi con chi sta in alto e con chi sta in basso. La totalità
dell’essere e dell’agire rivelano la presenza della libertà interiore. Soprattutto si avverte che è
lei a dare al soggetto il senso della tenuta nella massima diversità degli accadimenti, consente di
affrontare nel giusto modo la sfortuna, ma soprattutto la fortuna, la povertà, ma soprattutto la
ricchezza, l’insuccesso, ma soprattutto il successo, di temere ciò che va temuto e non temere ciò
che non va temuto.
Se della libertà interiore ci si invoglia quando essa trapela, non quando di essa si parla, ne
consegue che chiunque ha il senso del per l’altro deve intensificare la cura nel compaginarsi
una libertà interiore bella, armoniosa, coraggiosa, rischiosa, senza confonderla con l’arbitrio, il
tutto permesso, la capricciosità dissimulata. Invadere, mortificare, soffocare la libertà dell’altro è
un’azione tutta disumanante. Compaginarsi un libertà interiore robusta è fare il massimo beneficio
a sé e, contemporaneamente, agli altri, perché l’esserci della libertà interiore è rivelatore di un aiuto
ricevuto, messo a frutto e partecipato, è entrare in una dinamica di reciprocità vitale. La natura
relazionale della libertà è tutta esplicita: la libertà si avverte, si celebra, si intensifica
nell’impatto con un’altra libertà.
L’analisi del fascio di energie che costituisce l’educabilità umana, il tentativo di scioglierlo
sì che ogni energia riveli tutta le bellezza del volto è soltanto principiato nella riflessione di
questo incontro. Ognuno moltiplicherà i propri percorsi.
Qualche tratto conclusivo. Riattingere la propria educabilità è operazione salutare sia come
persone, sia come formatrici, perché mediante tale movimento si realizzano cose che altrimenti
sfuggirebbero. La prima è un fondato stupore, un sorprendente entusiasmo per le grandi potenzialità
interiori sì che una decisione appassionata costringa a volerne l’attuazione massima per sé e per gli
altri, ad ogni costo, e il timore e tremore sia affiancato da una passione smisurata. Il secondo è la
pace che, pur nella rilevazione della faticosità e del rischio, promana per la intravista osmosi tra
queste stesse energie, e per il loro sfociare in una sinergia che man mano cresce di apporti e quindi
di intensità. E ultimo, perché addentrandosi nella propria educabilità, intuita e vissuta come
inesauribile mistero, la persona, imboccando il cammino diritto, impatta con il punto del rapporto
ontologico del suo essere con l’essere di Dio, e scopre la gioia della dipendenza liberante.
ALLEGATO 4
Lo Stoicismo in una prospettiva filosofico educativa in C. Costa, Indurare l’animus. Spunti paidetici da Seneca educatore, Anicia, Roma 2015 (in corso di pubblicazione) 1. Non un pensiero ma un nuovo pensare
Il pensiero in sé non è novità, ciò che è nuovo è la relazione che si instaura tra quanto ancora
non c’è e quanto invece esiste. Il pensiero, con la sua eredità, si avvicina ad una forma di relazione
che provoca il nuovo. Ma il pensiero cerca di capire il movimento tra il vecchio e il nuovo, tramite i
ricordi, i modelli mentali che ci appartengono, nonché tramite i condizionamenti del passato.
È in tale processo che si origina il conflitto.
È difficile comprendere questo rapporto di relazione, dovremmo essere capaci di vedere tutte le
cose così come effettivamente sono, senza vestirli di nomi quali ricordi, idee preconcette, questi
sono tutti condizionamenti del passato.
Il pensiero viene a identificarsi come una reazione del passato, dell’esperienza che abbiamo avuto,
della nostra memoria, individuale o collettiva, del singolo o della razza, conscia o inconscia.
Così, il pensiero non potrà mai essere nuovo. L’azione di pensare non potendo rigenerarsi non potrà
mai creare una idea nuova, sarà solo una reazione di quanto già c’è in noi, quindi condizionamenti,
tradizioni, esperienze, accumuli personali e collettivi.
Il pensiero quindi, può solo riconoscere ciò che ha già esperito, non ciò che ancora non è stato
vissuto. La mente è tormentata quando il pensiero cerca di indagare circa il nuovo, ed ecco il
tentativo di portare l’ignoto nel non ignoto; ma ciò è cosa impossibile, essa è fonte solo di scontro
tra conosciuto e sconosciuto, conoscenza e non conoscenza.
Ma che cos’è il pensare? Cosa vuol dire pensare? Mi pongo tali interrogativi per prendere
consapevolezza, quando sorge un problema, quando mi sento sfidato, quando mi viene posta una
domanda, quando si manifesta un attrito. Pensare è una reazione che si serve della mia memoria, dei
miei pregiudizi, della mia educazione, di tutti i miei condizionamenti.
Il centro è l’Io in azione. Fino a quando il processo del pensiero non è compreso e risolto, sono
destinato a vivere in un conflitto interiore, con gli altri e con me stesso.
Testimone di questo processo sono io che vivo il momento e la storia del pensiero di noi
uomini tutti.
Su quanto detto, comprendiamo cosa vuol dire essere portatori di un nuovo modo di pensare
e non di un nuovo pensiero: il nuovo pensiero è già il vecchio e il nuovo pensare è la vera
azione/reazione dell’uomo.
Negli accusatori di Socrate tutto era ben chiaro: «Socrate commette ingiustizia e si dà molto da fare,
indagando le cose che stanno sotto terra e quelli celesti, facendo apparire più forte il ragionamento
più debole e insegnando queste medesime cose anche agli altri» (Apologia, 19bc). Avevano intuito
che Socrate, essendo portatore non di un nuovo pensiero ma di un nuovo modo di pensare, stava
stravolgendo la legge della città, il “fragile” e “pacifico” ordine apparente.
Per cui il contributo socratico è stato determinante nel diffondere e rendere irreversibile un nuovo
modo di pensare: all’arcaica cultura fondata sul linguaggio poetico-mimetico dei poeti (con Omero
ed Esiodo in prima linea) contrapponeva il modo di pensare per concetti, con le martellanti
domande dialettiche sul “che cos’è” e sul “perché”, scardinando e sovvertendo completamente le
abitudini di Atene. Penso subito alla frase riportata da Platone in un dialogo: «E mi sembra
veramente, se è lecito celiare, che tu assomigli moltissimo, quanto alla figura e quanto al resto, alla
piatta torpedine marina. Anch’essa infatti fa intorpidire chi le si avvicina e la tocca» (Menone, 80b).
Ma quando nasce un nuovo pensare?
Bisogna prendere in considerazione l’ambiente sotto il suo aspetto politico, sociale e religioso; che
poi questo si coniughi come corrente storica o filosofica è secondario. L’importante è capire la
nascita del nuovo modo di pensare.
Quando arriva un pensiero, arriva un sistema, ma quando arriva un nuovo modo di pensare, arriva
una scompaginazione delle priorità, tra quanto è essenziale e quanto è periferico.
Quando si parla di un nuovo pensare, non si parla del contenuto, ma del modo di approcciare la
realtà: qual è la realtà centrata, messa a fuoco, di modo che tutto il resto è periferico e secondario?
Socrate risponde: «Io, cittadini ateniesi, mi sono procurato questa rinomanza non per altro che per
una certa sapienza. Qual è questa sapienza? Quella che forse, è una sapienza umana1. Infatti, di
questa può darsi veramente che io sia sapiente» (Apologia, 20d). Una sapienza che non fa indagini
metafisiche o epistemiche ma si limita a comprendere il campo del vissuto. Un approccio che non
richiama i grandi su cui costruire un nuovo pensiero, ma si limita a scandagliare il presente per dar
vita ad un nuovo modo di pensare, stimolato da una Atene corrotta (Cfr. Apologia, 29de) che vede
l’azione dell’io afferrare la propria capacità di intendere e di volere.
Lo Stoicismo può essere esempio importante di quanto appena detto, tramite gli svolgimenti
politici e culturali che caratterizzano il tempo ellenico, con la sua influenza durata per secoli, con il
suo nuovo modo di pensare la vita.
È infatti vero che per oltre quattro secoli esso poté vantare una larga quantità di seguaci fra
le élite colte del mondo greco-romano. Molti padri cristiani furono assai più profondamente
permeati di stoicismo di quanti essi stessi non riconobbero, e di nuovo con il Rinascimento, per
venire fino all’età odierna, l’eredità dell’insegnamento morale stoico ha operato diffusissima nella
cultura e nell’educazione dell’Occidente. Dottrine stoiche sono talora tornate a presentarsi
nell’opera di filosofi di primo piano. Spinoza, Butler e Kant furono tutti, significativamente debitori
agli stoici. Ma l’influenza dello stoicismo non si esercita solo sui filosofi di professione. Nei secoli
XVI, XVII, XVIII, Cicerone, Seneca, Marco Aurelio, [Epitteto]2 furono letti e riletti da quanti
all’epoca, avevano tempo per leggere. Questi autori romani contribuirono a diffondere e inculcare
presso molti, i principi basilari dello stoicismo, ed in primis presso i preti, i dotti, gli uomini della
politica.
Come è ovvio lo stoicismo era pagano e la cristianità abborriva il pagano. Ma era abbastanza facile
estrapolare dallo stoicismo quei precetti relativi al dovere e alla fermezza d’animo che anche il
cristianesimo era ben lontano dal voler negare. Nel deismo e nel naturalismo in forte voga nel
XVIII secolo, lo stoicismo trovò un clima favorevole. Ancora oggi una traccia della sua influenza
persiste al livello più ordinario, e ciò non soltanto nel nome e nella qualifica comunemente correnti
di stoico. Nel linguaggio popolare essere filosofo significa dimostrare quella fortezza nell’avversità
1
L’enigma uomo si sviluppa sotto un nuovo prospetto: dimensione misteriosa dell’essere umano, sostenuta e convalidata da una personale esperienza umana, l’anthropine sophia, nonché in quel sapere umano che congiunge teoria e prassi, sapere ed Erlebnis. È questa, una compresenza faticosa che chiama in causa sia l’intelligenza sia le energie e dinamiche interne del soggetto. È proiettare e trasformare nel vivere ciò che si è apprezzato per conoscerlo in modo più completo e comunicarlo con più efficacia. Essa è anche la strada giusta perché il singolo vada verso la piena realizzazione della propria umanità. È un modo di conoscere l’uomo e quanto di alto lo concerne, che ha come effetto il compimento umano di colui che conosce. L’anthropine sophia è dunque, un far prorompere l’umano dall’umano, un filosofare concreto, dinamico, legato alla quotidianità, rivolto a tutte le dimensioni del soggetto. -­‐ Si guardi per ulteriori approfondimenti il saggio di E. Ducci, Un risvolto poco noto della filosofia dell’educazione in La lettera e lo Spirito. Miscellanea di studi per il cinquantesimo del Magistero “Maria SS. Assunta”, Roma 1990, p. 485-­‐ 497. 2
Cfr. A. A. Long, La filosofia ellenistica. Stoici, epicurei, scettici, Il Mulino, Bologna 1997, pp. 145-­‐147 -­‐ Tra i nomi che Long cita è utile inserire la figura di Epitteto. Maestro di virtù ed eloquenza non solo per l’imperatore Marco Aurelio che lo cita spesse volte nei suoi Ricordi, Epitteto si pone alla confluenza di due correnti: la sua scuola, lo stoicismo, a cui appartiene in maniera totalmente ortodossa, e la stirpe dei saggi, Socrate e Diogene, che sono i suoi modelli. Si guardi C. Costa, La paideia della volontà. Una lettura della dottrina filosofica di Epitteto, Anicia, Roma 2008. che tanto raccomandano gli autori stoici; ed è questo un piccolo ma assai più significativo esempio
dell’influenza dello stoicismo3.
Si ammette spesso che il successo dello stoicismo è dovuto ai torbidi del tempo che lo ha
visto nascere. Infatti, di fronte all'angoscia dell'epoca, i greci si sarebbero rifugiati in un nuovo
pensare che dava loro la forza di restare indifferenti in mezzo agli sconvolgimenti del mondo.
Effettivamente, al tempo dell’apertura della scuola stoica, verso il 300 prima della nostra era, Atene
ha già perduto da una generazione la propria indipendenza; nel 338, la Grecia classica è tramontata
e prima di morire nel 332, Alessandro ha ridisegnato la carta della terra, dall’Adriatico all’Indo. Gli
storici moderni concordano nel chiamare ellenistica l’era che inizia con questa conquista folgorante
e che si compie con l’arrivo delle legioni romane. Lo stoicismo si impone rapidamente come una
grande filosofia del tempo. Maestra del teatro, dell’eloquenza, della storia, della scienza, della
filosofia e della democrazia, modello dell’architettura e della scultura classica, l’Atene dei secoli V
e IV, dalla vittoria di Maratona (490) alla sconfitta del 338, davanti alle truppe macedoni di Filippo
II, il padre di Alessandro, ha conosciuto in un secolo e mezzo Eschilo, Sofocle, Euripide,
Aristofane, Pericle, Prassitele, Tucidide, Socrate, Platone e Aristotele. È dunque allettante
considerarla come una sorta di paradiso perduto, la cui scomparsa può solo lasciare i Greci
disorientati. Ormai è stato detto tutto. L'ellenismo è arrivato al termine di se stesso. Resta solo da
gestire un passato, un patrimonio e una memoria. Il mondo ideale della città, che fa del cittadino il
padrone del proprio destino collettivo con la sua scomparsa, lascia l’uomo solo, davanti a dei regni
occupati, senza posa, a ricacciare le loro frontiere, nell’attesa che Roma vi costituisca il suo impero.
Ma tutto ciò pecca d’illusione prospettica. Rivisitata dall’idealismo tedesco4, l’immagine
scolare di un Atene di geni e di filosofi, abitata da un popolo ispirato in grado di realizzare un
momento di perfezione unica nella storia, è ampiamente confutata dalla realtà dei fatti.
Eterogenea, agitata, instabile, violenta, l’azione classica non ha molto a che vedere con la
rappresentazione ideale e patinata veicolata dai manuali. È una città imperialistica, quasi
costantemente in guerra, che alterna le vittorie a sconfitte a volte catastrofiche, al punto da
rovesciare temporaneamente lo stesso regime democratico. Oltre i costi umani di simile politica, le
campagne vengono regolarmente devastate dal passaggio delle truppe, i contadini si rifugiano in
città. In queste circostanze infierisce anche la celebre epidemia di peste del 430, risultata fatale a
Pericle.
La stessa democrazia si trova in balia dei processi politici. Nel gioco costante delle alleanze, dei
negoziati, delle definizioni, dei rivolgimenti tra le città, gli uomini politici sono frequentemente
sospettati. Le passioni si esagerano e le reazioni sono a volte violente. Lungi dal costituire, come
per noi, un principio politico fondamentale, la democrazia, che esclude le donne, i non cittadini e gli
schiavi, ossia una grandissima maggioranza di popolazione, registra un funzionamento tanto
discutibile da attirarsi le critiche dei migliori spiriti del tempo, Platone e Aristotele. Peraltro gli
ateniesi non sembrano faticare molto a consolarsi della denominazione macedone. Fanno buona
accoglienza ai nuovi padroni, che lasciano loro l’autonomia e la città non verrà mai posta sotto
un’amministrazione straniera.
L’Atene ellenistica si trova pertanto in una situazione paradossale. Politicamente non è più
padrona della propria vita5; integrata in un regno, può solo sperare la fruizione di una finta libertà. E
ha pure cessato di essere una posta in gioco di primo ordine. L’Oriente è molto più ricco. Ormai le
grandi battaglie per gli imperi e per le ricchezze non passano più per Atene, che più non si trova al
centro degli scambi mediterranei, e anzi si va spopolando. Alessandria e Rodi sono molto più
importanti. In compenso, le resta intatto il prestigio intellettuale. Politicamente provincializzata,
Atene resta per secoli una capitale intellettuale, soprattutto filosofica.
3
La filosofia ellenistica. Stoici, epicurei, scettici, pp. 145-­‐146. Il legame che unisce l'idealismo tedesco a Platone, Plotino e ai neoplatonici, è stato interpretato in particolare da Werner Beierwaltes in Platonismus und Idealismus, Frankfurt am Main, 1972 (trad. it. Platonismo e idealismo, a cura di Elena Marmiroli, Il Mulino, Bologna 1987). 5
Sulla civiltà ellenistica cfr. soprattutto Kärst, Hellenismus e Wilamowitz, Hellenistische Dichtung, I, Berlin 1924. 4
La scomparsa quasi totale della letteratura ellenistica non è segno di un’era decadente. Al contrario,
ci troviamo davanti a un’epoca eccezionale per erudizione, storia, geografia, medicina e soprattutto
scienze matematiche, con Euclide e Archimede.
Se gli eserciti macedoni hanno messo fine al tempo delle città, hanno anche fatto entrare l’intero
Medio Oriente e l’Egitto nella sfera dell’ellenismo. Il mondo greco conosce pertanto un’espansione
culturale che la stessa conquista romana non metterà mai in causa: i romani si porranno essi stessi
alla scuola dei greci, e il greco resterà la lingua della parte orientale dell’impero.
Roma prende coscienza della superiorità dell’arte, del pensiero, della letteratura di coloro che i suoi
eserciti riescono a dominare. Roma impara il greco, fa venire a sé artisti e intellettuali, invia i suoi
figli più fortunati a compiere i loro studi in Grecia. Gli scrittori latini si ispirano ai modelli greci,
anzi i Romani filosofeggiano il più delle volte in greco. Roma diventa una metropoli ampiamente
bilingue, ne i greci si daranno pena di imparare il latino. Con l'arrivo dei romani, il mondo
ellenistico cambia dunque padrone, ma non lingua e cultura. I suoi nuovi padroni sono
intellettualmente suoi allievi. Ne si ha, da questo punto di vista, la minima rottura.
Il grande stacco intellettuale, è di conseguenza, quello che apre l’Oriente all’ellenismo con
la conquista di Alessandro. L’ellenizzazione è rapidissima, pur restando fondamentalmente urbana.
I conquistatori fondano un gran numero di città. Le più grandi come Alessandria, superano la stessa
Atene per popolazione e per importanza economica.
Ma lo stoicismo non è una filosofia di consolazione per un’epoca decadente. È il pensiero
maggiore di un ellenismo trionfante, che ridisegna il mondo e crea uno spazio immenso, nel quale
la sua cultura, la sua arte, il suo pensiero si offrono in termini di modello universale.
Quando dei greci vengono a insediarsi in un luogo, i ricchi indigeni non tardavano ad ellenizzarsi,
adottando la lingua e il modo di vita dei conquistatori e mandando i loro figli alle scuole greche. Le
differenti popolazioni si mescolano rapidamente tra loro. Ne da l’esempio lo stesso Alessandro, che
fa sposare i suoi generali con donne indigene.
Ma per i greci l’unica distinzione pertinente è quella che li separa dei barbari, cioè da coloro
che non parlano la loro lingua.
Indubbiamente, da quanto si nota, le conquiste di Alessandro produssero una diffusione
duratura del pensiero e della cultura greca attraverso il Vicino Oriente antico, ma il suo impero
provocò la scomparsa dei “confini”: e la Grecia ne rimane travolta, Atene perde la propria
autonomia e deve darsi da fare per non perdere almeno la propria identità morale. Un rivolgimento
che porta a mille sconvolgimenti, soprattutto di carattere culturale. Con la rimozione dei confini non
ci sono più greci e barbari. Lo sconvolgimento è grande poiché l’identità dell’uomo greco si fonda
sul senso di appartenenza alla polis, essere uomo o essere donna è cosa futile rispetto ad essere
barbaro o essere greco6. Il mondo è senza confini, e il confine da sempre sicurezza, fuori dal
confine domina il caos. La polis greca ha mura ben definite, rappresentanti certezza, riferimento,
chiarezza. Con e dopo Alessandro tutto si sconvolge: la polis non ha più confini, non ha più mura di
difesa e soprattutto, non si distinguono più i greci dai barbari7.
L’uomo greco è sconvolto. Non riesce a far tacere la propria mente in quel che sarebbe potuto
accadere. Si rifugia così nel pensiero di poter capire quello che c’è oltre, non capendo che il
pensiero deve tacere, deve entrare nel silenzio. Quello che c’è oltre può essere scoperto solo se la
mente è silenziosa. Potrebbe esserci qualcosa o assolutamente nulla.
6
L’interesse di Socrate è interesse verso l’individuo ed il cittadino. Socrate intende educare l’uomo ed il cittadino (sé stesso e altro) attraverso analitica ed etica. L’educazione dell’uomo è educazione dell’individuo e del cittadino. Dove il bene dell’individuo è curarsi di sé senza curarsi delle cose materiali e il bene del cittadino è il curarsi della città senza curarsi delle cose materiali della città. Essere buon uomo nel senso di buon individuo e buon cittadino vuole dire diventare ottimo curatore di se stesso e della città. Socrate non disgiunge mai i due termini uomo e cittadino si guardi all’Apologia 20b6, 29de. Per il tema dell’ identità tra essere uomo e cittadino, si guardi M. C. Nussbaum, Coltivare l'umanità. I classici, il multiculturalismo, l'educazione contemporanea, Carocci, Roma 2006. 7
Cfr. M. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, Bompiani, Milano 2005, pp. 12-­‐13. Se mi preoccupo di quello che c’è al di là, allora non guardo lo stato di vero silenzio. Se per me è
solo un muro verso qualcosa che sta oltre, allora non sono interessato a quel muro, invece ciò che
conta è il muro stesso, il silenzio in sé.
Quel “greco” o l’uomo, non può chiedersi che cosa ci sia al di là. La cosa importante è che la mente
sia silenziosa. E allora che cosa avviene? Quello che mi interessa è tutto qui, non quello che c’è al
di là del silenzio.
Fino all’esistenza delle mura, l’uomo greco pensava nel silenzio, e si guardi all’armonia
della civiltà greca arcaica; quando la polis decadde, la sua mente si chiese cosa ci fosse al di là di
quelle mura, facendo entrare la sua vita nella confusione.
Ma ciò vuol dire anche, che le divinità protettrici della città non hanno retto, hanno rivelato
debolezza8. La polis è minata da tutte le parti, non ha più confini, le divinità non hanno più senso,
non c’è più una linea di demarcazione fra greci e barbari.
Appare una nuova divinità: il caso, incontrollabile, all’insegna dell’assurdo e dell’irrazionale.
Ma la mente dell’uomo, libera dal conosciuto, non è forse essa stessa caso? È la mente
dell’uomo che diviene caso. Dopo tutto, ciò di cui si ha paura è lasciare, è perdere il conosciuto;
quel conosciuto fatto dall’accumulo di conclusioni, giudizi, paragoni.
Conosco mia moglie, la mia casa, la mia famiglia, il mio nome, ho coltivato certi pensieri,
perseguito certe esperienze, certe virtù, e ora ho paura di lasciare che tutto ciò scompaia.
Ma se il caso regola tutto, la conseguenza è che mi trovo in balia totale di cose cumulate che non
conosco nella loro vera essenza.
Ecco che vedo dilagare scetticismo e corruzione. Sono scettico quando non trovo i punti di
riferimento a cui aggrapparmi, l’effetto è la mia corruzione o un nuovo modo di pensare per meglio
essere.
La sensazione di solitudine, e il sentirmi indifeso, mi porta al bisogno di una guida che mi
insegni a comportarmi nello sconcerto, che mi dia una garanzia nel poter fronteggiare il caso, me
stesso.
Platone nella sua Repubblica, rappresentando la metafora delle mura, pensa di poter securizzare
l’uomo, facendogli vivere il modo giusto della vita secondo i canoni della polis, con le sue categorie
e le sue classi.
Ma la polis non da più punti di riferimento, ed ecco Epicuro e Zenone. Ora, ciò che conta è
rispondere profondamente al disordine in cui si è sprofondati, non con un pensiero ma, con un
nuovo modo di pensare che diventa un nuovo vivere, garante di cura e direzione. L’uomo in balia
del caos e senza riferimenti9, deve essere curato.
2. Il baricentro
L’esistenza è soffocata dal dolore, dalla sovrapposizione, dall'incapacità, dalla disonestà.
Come affrontarla? Ma cosa significa vivere una tale situazione nella realtà quotidiana?
Se la esamino vedo che è una lotta, una serie di sforzi, una continua battaglia. È impossibile
sfuggire. Fuggire da tutto questo non risolverebbe i problemi della vita, ma cosa poteva esser fatto
continuando a vivere nel mondo così come era? Si poteva cambiare la vita? C’era una vita senza
conflitti? I conflitti sono violenza. C'è una continua lotta per essere qualcuno sia nel mondo, sia
interiormente. Si lotta per lottare. Quindi, possiamo cambiare noi stessi? Possiamo trasformare
8
L’eterno ritorno dei fatti e delle cose: si pensi al dopo Auschwitz. Dio, ebreo o cristiano, o non c’è o forse non ha tutta la forza che gli è stata attribuita. 9
Subiscono uno sbandamento anche le precedenti proposte etiche, ogni legame tra la filosofia e la polis scompare. Lo stato ideale che Platone aveva additato ai Greci della sua età come un compito da realizzare ed una meta da raggiungere, diviene utopia; in tal modo l’intera sua costruzione di pensiero perde il proprio punto di riferimento. E lo spirito di ricerca che Platone, e con lui Aristotele, aveva avviato nei suoi discepoli, sebbene non si spegnesse ed anzi guadagnasse cerchie più vaste, è indirizzato sempre più verso il lavoro specialistico, mentre il problema centrale del destino dell’uomo, problema che un tempo era servito da elemento unificatore, rimane relegato in secondo piano. -­‐ Eratostene non volle più tendere verso la saggezza ma verso la scienza; non volle essere più chiamato filosofos ma filologos , Cfr. Svetonio, De grammaticis, 10. radicalmente la nostra mente? Senza rimandare al futuro e senza restare nel tempo? Per una persona
con coscienza religiosa c'è la ricchezza sacra del presente. Riusciamo a vivere completamente la
nostra vita? Siamo in grado di trasformare le nostre relazioni quotidiane? Il vero problema non è la
condizione del mondo. Il mondo siamo noi, il mondo non è altro che noi, con tutti i suoi errori e ne
siamo responsabili.
Per cui, come riacquisire la propria responsabilità per vivere in armonia con ciò che ci circonda?
In genere, un oggetto trova la sua armonia, e con armonia intendo il proprio baricentro,
quando su di lui agisce soltanto la forza di gravità; ed allora è solido, saldo, tanto che raggiunge il
suo equilibrio meccanico: la somma di tutte le forze agenti su di lui è pari a zero, senza oscillazioni.
Ora, un conto è il baricentro fisico, un conto è il baricentro spirituale, anche se entrambi pensano
che su di loro dovrà agire soltanto la forza di gravità. È mettendomi nella giusta posizione con la
forza di gravità che trovo l’equilibrio.
Per Platone e Aristotele tale forza si configura con il bene.
Infatti, fin quando l’uomo vive tra le mura della polis su di lui agisce la forza di gravità, quando
l’uomo fuoriesce, comincia a pendolare, perde il suo equilibrio, ed ecco il dolore delle false identità,
delle guerre, della confusione.
E nel mondo interiore è difficile capire l’equilibrio: basta una contrarietà per scompaginare
l’equilibrio (illusorio).
Ora, Platone e Aristotele indicano il bene come forza di gravità: se riesco a percepire l’attrazione
del bene, così come un oggetto a percepire la forza di gravità, potrò ritenermi in equilibrio, perché
mi starò dirigendo verso la virtù. Ma come faccio a mettermi nella condizione di subire l’attrazione
del bene?
Le “mura” della polis e gli dei, osservano, reggono e dirigono. Ma crolla la polis e crollano gli dei.
Non c’è più nessuno che indica la posizione in cui mettersi per trovare l’attrazione del bene; ma
l’equilibrio si instaura nel momento in cui si percepisce l’attrazione per il bene.
Ecco in scena Epicuro e Zenone10 che indicano un buon punto per la propria armonia, fisica e
interiore: sono in balia di tutto finché non lo trovo.
Dostoevskij e Nietzsche avevano ben capito l’uomo senza meta: Ma allora, domando, che
sarà dell’uomo? Senza Dio e senza vita futura? Tutto è permesso dunque, tutto è lecito?, e ancora
Nietzsche: Non sentiamo nulla del rumore dei becchini che stanno seppellendo Dio? Non sentiamo
l'odore della putrefazione di Dio? Eppure gli Dei stanno decomponendosi! Dio è morto! Dio resta
morto! E noi l'abbiamo ucciso!11.
Ma trattandosi di equilibrio, un ritorno al desiderio è d’obbligo: si pensi a Caterina da Siena,
le sue grandi trattazioni son desideri. Se non desidero non mi muovo, non trovo, ma se ho un
desiderio sproporzionato dovrò muovermi con attenzione per non perdere il cammino. Se ho
desideri inadeguati o paure disarmoniche rispetto alla mia natura, non troverò la mia armonia, il mio
baricentro.
Il piacere è importantissimo perché rivela l’equilibrio, ma anch’esso è causa di equilibrio.
Nessuno potrà più manovrarmi se avrò i mezzi per raggiungere il mio baricentro.
Ma chi trova il baricentro non è gradito alla dittatura, alla tirannia o allo stato in genere,
perché diviene una fortezza senza brecce, impossibile da manipolare.
Lo stoico è invulnerabile perché ha trovato il baricentro, scardinando l’etica dalla politica.
Ma come trovare il punto fermo in una società corrotta e scettica? Solo esperendo interiormente la
forza del baricentro, con i suoi equilibri e le sue attrazioni; in fondo che il baricentro sia il bene non
si può sapere alla fine di un sillogismo ma solo esistenzialmente, rendendomi consapevole che
l’attrazione del bene è più forte dell’attrazione di un piacere che passa. È necessario il baricentro
razionale ma quel che più rende consapevoli per non andare oltre quel muro, è il baricentro esperito,
10
L’epoca ellenistica vede nascere pressoché simultaneamente due scuole antagoniste: l’epicureismo che resta libero da formalismi e lo stoicismo che andremo ad analizzare nel presente saggio. 11
Rispettivamente Cfr. F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Garzanti, Milano, 1979, vol. II, pp. 619, 623 e 680-­‐681. Nietzsche F., La Gaia Scienza -­‐ Aforisma 125 “L'uomo pazzo”, Grandi Tascabili Economici Newton, Roma 1993. vissuto. Ed Epitteto: fatemi veder uno stoico, e quando si vede uno stoico? Quando è torturato e
felice, quando è esiliato e felice (Diatribe, II, 19).
Non è importante ricostruire la polis o templi per le divinità, ma aiutare l’uomo a trovare la propria
armonia: sono con un nuovo pensare, non con un nuovo pensiero12. Bisogna ridare sicurezza alla
condotta umana, ormai persa. Focalizzare l’equilibrio dell’uomo non più in balia della fortuna, del
destino o delle disgrazie. Non sarà più importante il come, quanto i reali punti di appoggio; ed ecco
la fisica, la logica, l’etica, garanzie per ciò che si comunica. Ciò che veramente preoccupa è
fondare, impostare e quindi risolvere il problema della condotta umana per portare l’uomo alla sua
felicità.
Cambia il pensare, cambia la posizione da cui mi pongo per guardare la realtà: l’etica come
realizzazione della felicità dell’uomo; ciò che conta è la nuova ricerca della verità nella concretezza
della vita vissuta.
Ma Zenone fu un mercante, Cleante zappava i campi e Crisippo si esercitava nella corsa in
lungo.
Zenone13 interrogò l’oracolo chiedendo quale fosse il modo migliore per vivere, la risposta
fu: procurati di uguagliarti ai morti14. Egli capi e si dedicò allo studio degli antichi.
12
È come il nuovo pensare di Nietzsche: non propone un nuovo pensiero. In che cosa consiste la novità del pensare di Nietzsche? Si pensi all’intercambiabilità dei valori: pensare che i valori siano intercambiabili non è una proposta singola ma è una globalità del pensare. Nietzsche va all'origine dei valori criticando il valore dei valori esistenti che dominano la scena attraverso due movimenti inseparabili: ricondurre ogni cosa e l'origine di qualunque valore a dei valori, ma anche ricondurre tali valori a qualcosa che ne sia l'origine, che decida il loro valore. Cfr. G. Deluze, Nietzsche e la filosofia, Feltrinelli, Milano 1992, p. 32. 13
Nato a Cipro, nella città di Cizio, verso il 332 a. C., Zenone giunge ad Atene a ventidue anni, verso il 310. Lo si vede come un uomo di pelle bruna, fisicamente debole. Serio e modesto, vive in maniera frugale e si nutre con sobrietà. Ama i fichi e il buon vino, socievole, non sdegna sempre i banchetti ma teme la folla e non ha con sé, abitualmente, più di due o tre persone. Sulle circostanze del suo arrivo ad Atene le fonti storiche sono discordi. Concordano invece sul fatto che è un commerciante ma secondo alcuni avrebbe perduto il carico in un naufragio, mentre per altri, dopo essere riuscito a vendere la merce, si sarebbe dedicato alla filosofia. In ogni caso è ad Atene che Zenone scopre casualmente la filosofia, per la quale abbandona le attività commerciali. Per una decina di anni segue l’insegnamento di tre correnti fedeli a Socrate: i megarici, i dialettici e i cinici. Ma soprattutto segue l’Accademia. Zenone apre una scuola verso il 301, cinque anni dopo Epicuro, sotto un portico di Atene chiamato il portico dipinto. Da qui il nome di Stoa. Cfr. da Diogene Laerzio, Vitae Philosophorum, VII, I segg. (SVF I, I) Zenone era di Cizio, una città greca che aveva avuto dei coloni fenici […] Si dice che gli piacesse mangiare fichi verdi e starsene a prendere il sole […] “procura di uguagliarti ai morti”; egli comprese e si dedicò alla lettura degli antichi […] Da allora divenne discepolo di Cratete […] Usava far lezione sotto il portico dipinto perchè voleva che il suo insegnamento si svolgesse lontano dalla folla […] Gli Ateniesi resero grandi onori a Zenone […] per molti anni ha fatto professione di filosofia nella nostra città e la sua condotta è stata ottima sotto tutti i rispetti; poiché egli ha incitato alle azioni più nobili i giovani che si accostavano a lui, esortandoli alla virtù e alla saggezza, e a tutti offrendo in esempio la sua stessa vita, condotta in assoluta coerenza con la filosofia che egli professava. – Suida, Lexikon, s.v. Zénon o Mnaséou [79] 16, p. 507 Adler. “La forma migliore di vita sentenziò che consiste nell’assimilarsi ai morti, cioè agli antichi, con la lettura dei loro libri […] fu inventore di una filosofia di tipo nuovo -­‐ Vitae Phil., I, 13-­‐15 “Da Socrate derivò Antistene, e da questi Diogene il cane e da questi Cratete Tebano, da questi poi Zenone di Cizio; da lui Cleante e da quest’ultimo Crisippo – Cicerone, De finibus bon. et mal., III, 2, 5= SVF I, 34 “Zenone, il primo fra tutti loro, si può considerare inventore non di cose nuove ma di nuove parole”; Tusc. Disp., V, 12, 34 = SVF I, 35 “Zenone di Cizio, uno straniero, un ignobile foggiatore di parole, appare chiaramente essersi insinuato nei panni di una filosofia che già esisteva” – Temistio, Orat. XXIII, 295d = SVF I, 9 “fu l’Apologia di Socrate a condurlo dalla Fenicia al Portico dipinto”-­‐ Seneca, De tranquillitate animi, I, 10 = SVF I, 28 “ Pronto e ben disposto seguo Zenone, Cleante e Crisippo, nessuno dei quali partecipò di persona alla vita politica, ma non vi fu nessuno di loro che non vi indirizzasse qualcuno dei discepoli” – Musonio, De victu, presso Stobeo, Eclog., III, 17, 42, p. 506 Hense = SVF I, 287 “Non credeva infatti che neanche a scopo di cura si dovesse concedersi alcuna blandizia, e questo sia per sé, sia per gli schiavi che per caso si ammalassero”. 14
«Ecatone, e anche Apollonio di Tiro nel primo libro Su Zenone, riferiscono che, quando egli interrogò l’oracolo per sapere che cosa dovesse fare per vivere nel migliore dei modi, il dio rispose che sarebbe vissuto nel modo migliore se avesse avuto rapporti con i morti -­‐ Ecatone, fr. 26 Gomoll.-­‐ Zenone comprese il senso di queste parole, e lesse le opere degli antichi». Vitae Phil., VII, 2 (p. 729). L’universo si presenta al pensiero di Zenone come fatto di pneuma e di materia; il primo è la parte
immateriale, spirituale, materia fluida che ha in sè delle ragioni, è il principio attivo; il secondo si
identifica con la materia divenendo principio passivo. Conseguenza, sono imperniato di razionalità,
di organicità, sono natura. Potrò trovare il mio baricentro solo nella razionalità, nonché seguendo la
natura. Ma la legge l’hanno fatta i deboli, la natura vuole che a dominare siano i più forti15. Dovrò
essere consapevole di questa distinzione: il nomos che cambia è per i deboli, la fusis che non
cambia è per i forti.
3. Seguire la natura
Secondo quanto insegna la scuola stoica, si è consapevoli degli alberi, del cielo, della terra,
si sente il rumore, i suoni, si vede la luce, il colore; ma rientrando nella mia interiorità cosa accadrà?
Potrò osservare che essere consapevoli incondizionatamente delle cose esterne è facile, ma portare
l’attenzione a me stesso ed essere ugualmente consapevole, senza condannarmi, giustificarmi, senza
paragonarmi a qualcun altro, è molto più difficile. Devo essere consapevole di ciò che accade
dentro di me, delle mie convinzioni, paure, dogmi, speranze, frustrazioni, ambizioni. Allora lo
svelarsi del mondo conscio e inconscio comincia. Dovrò essere consapevole; questo è ciò che
dovrei fare, senza giudizi, senza forzature, senza cercare di cambiare ciò di cui divento
consapevole.
Se sarò consapevole in modo incondizionato, l’intero campo della coscienza comincerà a schiudersi
e mentre si schiuderà, dovrò seguirlo. Seguire nel senso di stare con il movimento di ogni pensiero
che sorge, di ogni sensazione, di ogni desiderio segreto. Diventerà difficile nel momento in cui mi
opporrò, nel momento in cui giudicherò, notando il lato del bene o del male. Diventerà difficile
perché andrò contro la mia più profonda natura.
Lo stoico insegna che cominciando con l’esterno e muovendo dentro noi stessi, troveremo che
esterno e interno non sono cose diverse, che la consapevolezza di ciò che è all’esterno non è
differente da quella rivolta all’interno, che entrambe sono la stessa cosa. Vivrò in tal modo la mia
natura e scoprirò di vivere nel passato; scoprirò che non c’è mai un momento di vita attuale,
presente; solo quando né il passato né il futuro esisteranno si sarà nel momento attuale.
Vivere nel passato, nei ricordi, vuol dire vivere nella memoria. È per questo che bisogna
comprendere la memoria, non negarla, sopprimerla, o fuggirla.
Quindi, fusis come forza organica, non caotica, di cui sono fatto. Seguendo tale forza potrò
ritrovare sia il baricentro sia l’armonia cosmica. Starò bene nel cosmo.
Seguire la natura vuol dire individuare la forza organica, sia in me sia fuori di me, e attenermi a lei
per il mio equilibrio. Il singolo uomo è portatore di natura, sia in Grecia sia nel cuore dell’Africa.
Quindi, importante non è la struttura della polis ma la mia natura. Non è più importante dichiararsi
ateniese, spartano o barbaro, ora l’uomo, in quanto tale, ha in sé una forza organica che è la stessa
15
Callicle: «Io invece credo che a stabilire le leggi siano stati i deboli, la moltitudine (dei deboli). Essi, dunque, pongono le leggi per sé e per il proprio interesse (sympheron come in Rep., 338c), e per sé e per il proprio interesse compongono elogi e biasimano. Poi, per mettere paura a quelli che, tra gli uomini, sono i più forti (erromenestérous), e sono quindi capaci di avere più degli altri, dicono che è cosa turpe e ingiusta il prevaricare, e che l'ingiustizia consiste proprio in questo, nel voler avere più degli altri. […] Eppure io sono convinto che la stessa natura riveli che è giusto, per il migliore (ameino) avere di più del peggiore, e per chi è più capace (dunatoteron) avere di più di chi è meno capace. […]. Ma se nascesse un uomo, la cui natura fosse all'altezza, egli, dopo essersi completamente sbarazzato di tutti questi impedimenti, dopo aver calpestato i nostri scritti, e incantesimi e canti e leggi, che sono tutti quanti contro natura, sollevatosi si trasformerebbe, da schiavo, in nostro padrone, e di conseguenza si manifesterebbe ciò che è il giusto secondo natura (Gorgia, 483b). Socrate chiederà a Callicle di distinguere tra più forte, più potente e migliore. Callicle asserisce che il migliore deve essere anche dotato di maggiore intelligenza (Gorgia, 490b), ma non pone limiti ai suoi impulsi appetitivi e al loro soddisfacimento. [Dice Callicle: «Colui che intende vivere rettamente, deve lasciare che i propri desideri siano il più possibile grandi, e non deve porvi impedimenti; e quando abbiano raggiunto la più estesa grandezza, deve opportunamente assecondarli con coraggio e intelligenza (phronesis), e deve appagare ogni desiderio che, di volta in volta, si presenti» (Gorgia, 491e – 492a)]. dell’universo. Si dice in tal modo l’unità: l’uomo ritrova se stesso indipendentemente dalla forma
politica dello stato in cui si trova; ecco perché è cittadino del mondo.
Ma per lo stoico, seguire la natura è seguire anche Dio. Il tutto è anche Dio, di cui abbiamo
una scintilla dentro. Seguire Dio, vuol dire seguire la scintilla che ho dentro. Ma bisogna imparare a
percepire tale “scintilla”.
L’uomo ha in sé l’elemento attivo e direttivo eppure si frammenta, confonde il religioso con il
confessionale.
Quindi, si è pagani, cristiani, cattolici, protestanti; ma il religioso che cosa è? Che cosa è la
religione? Quale il significato della parola religione? Innanzitutto credo di non poter dire relazione
con il divino: io non so nulla circa il divino.
La parola religione deriva dal latino e significa legare, congiungere, ma sin dall’antichità l’uomo
nega tale significato, e la parola si trasforma.
Religione vuol dire unire tutte le forze, le energie per cercare e scoprire. Unire tutte le forze per
indagare la verità e la realtà, per capire perché vivo nel mondo in cui vivo, per capire se posso
mettere fine alla sofferenza, per indagare l’amore.
Quindi religioso è essere luce a se stessi, non intrattenimento o rituali.
Per questo motivo bisogna sempre chiedersi che cos’è la religione, come posso ordinare la mia casa
se non conosco parte della casa? Quindi, devo capire il significato di religione e chiedermi se posso
mettere ordine nella mia casa, la nostra casa, quella dentro di noi: la struttura, le lotte, il dolore,
l’ansia, la solitudine, l’aggressività, la sofferenza, la pena, tutto questo è l’enorme disordine che è
nell’uomo.
Lo stoico capì che da questa confusione, da questo disordine, l’uomo cercava (e cerca) di
portare ordine fuori, in politica, in economia, socialmente, senza però avere ordine dentro. Ma è
impossibile aspettarci di trovare ordine fuori, senza averne dentro: comprendo con lo stoico che il
religioso è parte di me, quindi dimensione umana. Un’etica senza il risvolto religioso, è un’etica che
non regge se non ho la giusta apertura. Ecco quindi, l’unitarietà di fondo tra il principio religioso ed
il principio regolatore della vita umana.
Riesco a seguire la mia fusis solo se comprendo che il comportamento umano, con tutte le
sue contraddizioni, le sue frammentazioni, è il risultato del pensiero e voglio cambiare radicalmente
questo comportamento, non perifericamente, nelle espressioni marginali dell’esistenza umana, bensì
proprio nel nucleo del mio essere; allora dovrò scendere in profondità nella realtà del mio pensiero.
Il pensiero deve essere compreso, bisogna conoscerlo interamente.
Non più false statue e inutili rituali ma comprensione della propria fusis per comprendere
Zeus che è parte di noi, con la sua natura personale, con la stessa natura a cui tutti partecipiamo
tramite la “scintilla” che è in noi. È solo in tal modo che potrò concepire Zeus come essere
personale, facente parte di me.
In linea di massima, il discorso appare come panteistico ma il fine non è definitorio, quanto
piuttosto rivelativo della mia natura che è divina, che è destino, che è provvidenza, che è necessità.
Si guardi a Cleante16 ed al suo Inno a Zeus: la fusis è natura individuale. Non scendo in un
sistema monolitico, ma resto libero interiormente: assimilandomi a Dio, intuisco che conservo
16
Originario di Assos, città greca dell’Asia Minore, vicina a Troia, Cleante (331-­‐232ca.C.) arriva ad Atene con quattro dracme in tasca e si pone alla scuola di Zenone. La sua povertà lo obbliga a lavorare di notte: ex atleta, usa la sua forza fisica ad attingere acqua nei giardini, guadagnandosi il soprannome di secondo Ercole. Il suo ardore per il lavoro e il suo zelo per la filosofia suscitano ammirazione anche se i suoi condiscepoli ne motteggiano a volte la lentezza e la timidezza, senza riuscire a fargli perdere la pazienza. Se Cleante non è allievo più brillante e agile della scuola, possiede però certamente delle reali qualità intellettuali, visto che lascia molte opere, tutte andate perdute. Cfr. Vitae Phil., VII, 168-­‐176 = SVF I, 463, 474, 481, “Costui in un primo tempo faceva il pugile […] ma giunto ad Atene con quaranta dracme come dicono alcuni, e imbattutosi in Zenone, si mise a esercitare la filosofia in maniera eccellente”. Cfr. Suida, Lexikon, s. v. Cleánthes, 1171, III, p. 126 Adler “Cleante di Asso, amante del denaro; figlio di Fania e discepolo prima di Cratete, poi di Zenone, del quale divenne successore; maestro di Crisippo di Soli e del re Antigono. Costui prima era pugile, ma, venuto ad Atene, si innamorò della filosofia, e fu così amante della fatica di esser dentro di me, la forza per diventare libero. La prerogativa è la libertà interiore, quando la trovo,
divento come Dio: la libertà è l’emblema della felicità, se trovo la libertà all’interno di me stesso, se
sgorga completamente da me stesso, posso essere come Dio, quindi posso essere felice. È la felicità
il banco di prova, perché se posso far scaturire da me la mia felicità, potrò assimilarmi a Dio.
Importante è comprendere cosa esige la mia fusis, così che possa seguire e quindi trovare la mia
felicità. Colui che è invulnerabile, è invincibile; ma si diventa invincibili seguendo la propria
natura, senza intendere seguire come una sovrastruttura ma come un ritornare alle origini profonde
del proprio essere.
Di fronte alla maestà divina scompare nell’uomo l’orgogliosa coscienza della propria forza, e il
sentimento della miseria spirituale e morale che grava sull’uomo, trova sfogo in una fervida
preghiera a Zeus, dispensatore di ogni bene e padre misericordioso: come lassù, dio della natura17,
squarcia con il folgore fiammeggiante le nubi oscure, così possa togliere dagli occhi degli uomini
l’oscurità che li avvolge ed illuminarli, affinchè spontaneamente si pieghino alla giusta sua legge e
la glorifichino come fanno gli dei stessi del cielo.
Sommo onnipotente dio dai molti nomi,
Zeus, signore della natura, che ogni cosa governi
[con la legge,
salve! la tua lode si addice agli uomini mortali.
Poiché noi tutti siamo nati da te e dotati di linguaggio,
(5)
siamo noi soli fra quante cose vivono e si muovono
[sulla terra.
Perciò io voglio celebrarti e cantare sempre la tua
[potenza.
Tuo è il cosmo che si volge intorno alla terra,
te segue dove tu lo conduci, si piega spontaneamente
[al tuo volere,
ben conosce il ministro che tu scagli con invitta mano,
(10) il fulmine a due punte, infuocato, sempre vivo,
che col suo urto poderoso rinsalda le cose della natura.
Per mezzo suo tu reggi il mondo, si che dovunque si
[afferma la ragione,
ti comunichi tanto alle grandi quanto alle piccole luci
[del cielo,
(13bis)
ci dai per mezzo di esse il calore e col calore la vita.
Per mezzo di lui tu sei così grande, sei l’onnipotente re
[del mondo.
(15)
Si, nulla c’è sulla terra che si sottragga alla tua divinità,
nulla del regno dell’etere né tra le onde del mare.
Solo ciò che di male compiono gli uomini lo fa la
[loro stoltezza.
Ma tu sai raddrizzare ciò che è storto. Ciò che è brutto
nella tua mano diviene bello, ciò che è nemico
chiamato un secondo Eracle. Non avendo mezzi di fortuna per vivere, di notte attingeva acqua dietro compenso e di giorno passava il suo tempo fra i libri e gli studi; e perciò fu chiamato anche il pozzaiolo. Lasciò moltissimi scritti”. 17
Si veda Aezio, Placita, I, 7, 17, Dox. Gr., p. 302 = SVF I, 532 “Diogene, Cleante, Enopide ritengono che dio sia l’anima del mondo” – Minucio Felice, Octavius, 19, 10 = SVF I, 532 “Teofrasto, Zenone, Crisippo, Cleante, sono ambigui nelle loro teorie, ma in definitiva tutti poi si rifanno alla provvidenza, conciliandosi così fra loro. Cleante afferma esser dio ora l’intelletto, ora l’anima, ora l’etere, per lo più la ragione”. – Tertulliano, Apol., 21, 10, p. 64 Waltzing = SVF I, 533 “ Tutte queste cose Cleante le pone nello spirito vitale, che afferma esser ciò che permea l’universo. – Lattanzio, Div. Inst., I, 5, 19, p. 16 Brandt = SVF I, 534 “ Cleante e Anassimene dicono che il dio supremo è l’etere”. (20)
(25)
(30)
(35)
18
[si consegna all’amore;
il bene e il male vengono riuniti,
una sola ragione regna in eterno, raccoglie tutto in
[armonia.
Cercano di sfuggirle gli uomini che scelsero il male,
ma attirano su di se la sventura. Tutti aspirano al ben,
ma occhi e orecchie sono chiusi alla legge di Dio.
Se la seguissero con la ragion, avrebbero una vita [beata.
Ma sono senza ragione, una vana parvenza li attrae
chi qui e chi là. L’uno con folle spirito di contesasi
[sforza
di raggiungere fama e onori, l’altro la cupidigia trascina
qua e là senza meta e senza scelta, un terzo conosce
[solo lo sforzo
di procurare piacere al corpo, di concedergli il dolce
[far niente.
Ciascuno aspira al bene, ma tutti si smarriscono,
aspirano proprio a ciò che è il contrario del vero bene.
Perciò, Zeus immensamente buono, in mezzo alle
[oscure nubi
signore del fulmine fulgente, sii benevolo verso noi
[uomini!
Togli, o padre, anche dalla nostra anima l’oscurità
[della stoltezza!
Dacci l’intelligenza e il buon senso, tuo regale retaggio!
Se tu ci onori così, allora anche noi possiamo dare
[onore a te,
intonare l’inno di lode, quale si addice agli uomini
[mortali.
Poiché nessun ufficio più alto fu dato agli dei e agli
[uomini
che celebrare la legge che gli uni e gli altri nel giusto
[unisce18.
Riporto l’Inno a Zeus secondo Pohlenz, in La Stoa. Storia di un movimento spirituale, p. 220 -­‐ Si notano degli scostamenti, come lo stesso Pohlenz evidenzia, nei seguenti: v. 4) ec sou gàr genómesth (così Meineke, génos esmén cod. in base ad Atti degli Apostoli 17,28) échou mímema lachóntes = noi abbiamo ricevuto da te la favella, l’audé (perciò prosaudan al v. 3; cfr. SVF. II 144), la facoltà di imitare con i suoi suoni le cose e di significarle (cfr. SVF. II 146ve Diogene di Babilonia fr. 20 sull’echos). – v. 11) tou gár upo pleges fúseos pánt’ érga pépege (invece di pánt’érega). Si allude al sunecticos tónos (SVF. II 407), che, secondo Cleante fr. 536, è una plegè purós (cfr. 502, dove chiama il sole plectron elíou, perché con i suoi raggi plésson tòn cósmon eis tèn enarmónion poreían ágei. Il sole è per Cleante l’hegemonikon del mondo (fr. 499), ma deve la sua forza al fuoco divino (fr. 504) e qui viene ricordato solo al v. 13 insieme con le “piccole luci del cielo”. La posizione particolare che Cleante gli attribuisce non rappresenta pertanto una deviazione sostanziale dalla cosmologia zenoniana. v.19) filoponein invece di fília estín, cfr. SVF. III 395-­‐399 ecc. Sull’inquadramento del male nell’armonia del cosmo si veda SVF. II 1182, 1184. -­‐ v.26) seguo Wilamowitz: autoì d’auth ormosin áneu nóou állos ep’ álla. – v.30) suppergiù ep’állote d’álla férontai, cfr. Epitteto III, 23, 24 (per tutto ciò si avverte la reminiscenza di Solone I 42 ss. Diehl). – v.33) mén va integrato dopo: rúou, non prima. Nell’Inno è innegabile l’influsso di Eraclito: cfr. di questi il fr. 30 e il fr. 64. La palíntropos armonín ericlatea riecheggia in v.20 e v.25 (ma cfr. anche Platone, Leg. 714a: tén tou nou dianomén eponomázontes nómon). Si avverte però che la pietà religiosa di Cleante è essenzialmente diversa dall’atteggiamento spirituale del filosofo metafisico. Si guardi anche la trad. che ne fa Stobeo in Eclog., I, I, 12, p. 25 Wachsmuth = SVF I, 537. Secondo come si modifica il senso della fusis si modifica il senso di seguire la natura.
Seguire la natura è un punto fermo, ma come seguire la natura, dipende da ciò che intendo per
natura, nonché per fusis. Nel momento in cui intendo per natura una forza organica, quasi
personalizzata, seguire la natura assume il significato di un legame fortissimo, nel momento in cui
vedo la natura nella maniera organica, seguire la natura sarà un imperativo debole. L’imperativo
dipende dalla consistenza ultima della fusis.
Quando nella fisica la natura è, come in Cleante, una energia personificata, seguire la natura è
arrivare all’assimilazione a Dio; quando la natura è una forza fisica, organica, evidentemente,
seguire la natura comporta doveri molto più limitati.
Seguire la natura è seguire la mia natura, la fusis in cui sono immerso.
Platone nella Repubblica tenta di far vedere l’inveramento di una energia tramite le virtù
legate ai metalli. La virtù legata al metallo: spontaneamente seguo l’aretè, senza alienarmi o
diventare altro, e spontaneamente sento realizzare il mio metallo19.
Ed Aristotele: l’aretè avviene in quel terreno edificabile, in cui influiscono la razionalità, le passioni
e la natura. Per cui la virtù non è da natura, ma è secondo natura20.
La preoccupazione è che non ci sia alienazione nel momento in cui indico la strada; dovrò far
vedere che il telos proposto è inveramento delle mie potenzialità.
Secondo lo stoico tutto ciò dovrebbe essere quasi evidente.
Nel momento in cui svolgo un’attività, colui che mi segue non dovrà guardarmi dall’esterno,
non mi costringerà ma cercherà di farmi mettere in atto tutte le mie potenzialità, sarò io a capire se
l’attività svolta mi soddisferà. Infatti, se riuscirò ad individuare le esigenze della mia fusis dentro di
me oltre che fuori di me, e adempirò a tali esigenze, proverò il benessere.
Sarà un processo spontaneo, in cui nonostante la fatica, avrò fiducia nell’esistenza della mia
consonanza.
Lo stoico, non convince razionalmente, ma fa si che il soggetto senta di stare bene con se stesso. Ed
ecco Cleante:
«conducimi o Zeus, e tu, o destino
là dove avete stabilito per me;
vi seguirò senza esitare; se resistessi
dovrò seguirvi, da vile, pur sempre»21.
Oh Dio, dovrò seguirti gemendo? Lo farò. Non ci sarà dubbio che ti seguirò.
La sicurezza di fondo data dalla fisica, si incontra con l’etica, creando un grosso problema:
dovrò realizzarmi attraverso le istanze etiche, se non mi realizzerò sarò fallito, sprecato.
C’è un percorso in cui potrò diventare virtuoso, o meglio eccellente, se riuscirò ad individuarlo,
andrò dritto, spedito perché sarà ciò che, senza sapere, aspettavo. Ma dovrò individuare il percorso.
È tutta la ripresa della lotta all’errore, per il perseguimento della conoscenza.
19
Cfr. Platone, Repubblica, III, 415a. Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, II, 1103a 20-­‐25. 21
Epitteto, Manuale, 23 = SVF I, 527 e Seneca, Lettere a Lucilio, a cura di U. Boella, TEA, Milano 1997, 107, 10 = SVF I, 527 -­‐ Vi è una doppia versione dei versi cleantei: si è seguita qui quella di Epitteto oudèn etton épsomai, mentre abbiamo in Vettio Velente, Anthol. Astr., VI, 8, la forma autò touto peísomai, “dovrà subir ciò ugualmente”. La lezione di Vettio è ripresa e difesa da Meerwaldt, Cleanthea, Mnem. 1951, I, p. 57: occorre introdurre nei versi il senso di pásfein, subire, come è provato anche dalla traduzione senechiana. Per lo più i critici ritengono aggiunto da Seneca il quinto, incisivo verso “ducunt volentem fata, nolentem trahunt”. Per trovare una decisiva attribuzione del tutto a Cleante occorre risalire al Wendland, Philosophische Schriften über die Vorsehung, Berlin, 1892, p. 24, n. 4; cfr. Lo status questionis dato da H. Dahlmann, Nochmals “ducuntvolentem fata, nolentem trahunt”, Hermes, CV, 1977, pp. 342-­‐351. Più originale la posizione del Dahlmann non nel senso di un ritorno all’attribuzione di Cleante, ma nell’affermazione che in realtà il quinto verso senechiano non è una aggiunta ma una ripresa di motivi tutti reperibili nei versi cleantei, e che i cinque versi di Seneca traducono compiutamente i quattro versi di Cleante. 20
L’errore non consente di vedere la traiettoria, di esserne convinto: finché penserò alla morte come
un male, rischierò forte, tutto mi farà paura, chiunque mi potrà ricattare22.
Nel momento in cui dissiperò l’errore e capirò che la morte non è un male, agirò in maniera
diversa, mi sentirò libero, non avrò paura dei colpi della sorte.
La contemplazione diviene minima, per entrare nell’azione, quella interiore.
L’assillo di Zenone di Cizio, di Cleante di Asso, di Crisippo, di Epitteto, di Seneca, di Marco
Aurelio è non imparare per l’accademia ma per il vivere.
Lo stoico proteso al vivere. E Kierkegaard a Hegel: ci hai fatto fare una indigestione di
sapere e ci siamo dimenticati di esistere, mentre l’unica cosa che conta è esistere (Cfr. Diario, V,
III).
Si comunica potere, non sapere23.
Quindi, i doveri non saranno il mansionario di ciò che dovrò fare, ma un aggancio tra il conosciuto
e ciò che faccio.
Arriva l’impostazione di Panezio in un momento per Roma abbastanza delicato24: seguirò la
natura ma in maniera diversa. Il singolo in sé, prescindendo dal legame del cosmo, provoca una
natura individuale. Panezio considera il singolo nella concretezza che trova in se stesso25.
Con Panezio non sono solo una scintilla dell’universo, ma ho la capacità di conoscere, ho la
tendenza ad agire, ho la capacità di provvedere, ho il senso dell’ordine, intuisco cosa sia l’ordine e
cosa il conveniente, intuisco cosa vuol dire comportarsi decorosamente e indecorosamente, ho la
possibilità di raggiungere l’onesto, di raggiungere ciò che è degno di onore, ho tutte le componenti
per essere ben riuscito, magnifico, ho le possibilità di trovare e mantenere il baricentro.
Ancora Panezio: in me ci sono due esseri: l’essere comune, l’essere proprio; raggiungerò
l’honestum sviluppando il comune e il proprio26.
22
Cfr. Apologia di Socrate, 29ab. Ogni comunicazione di sapere è comunicazione diretta. Ogni comunicazione di potere è più o meno comunicazione indiretta -­‐ Cfr. S. Kierkegaard, Scritti sulla comunicazione, a cura di C. Fabro, V, I, Roma, Edizioni Logos 1979, pp. 89-­‐
93. Si veda anche E. Ducci, Il volto dell’educativo in Preoccuparsi dell’educativo, Anicia, Roma 2002, pp. 24 -­‐29. 24
Con Panezio di Rodi (185-­‐125 a.C.) si entra nella fase storica della conquista romana e, di contraccolpo, della penetrazione della filosofia, e in particolare dello stoicismo a Roma. Panezio lo troviamo appunto a Roma, nella cerchia molto ellenizzata degli Scipioni, la stessa dello storico Polibio. I vincitori di Cartagine, gli iniziatori dell’imperialismo romano, introducono a Roma la cultura greca. -­‐ Da un’antica notizia biografica risulterebbe che Panezio abbia preso parte a una spedizione militare compiuta per mare sotto lo stratego rodiese Telefo e che in seguito si sia dedicato per un certo tempo agli studi. Se poi questa notizia si riferisca alla terza guerra punica e a un viaggio d’esplorazione fatto allora da Polibio, non è certo. In ogni caso Panezio si trova insieme a Polibio al seguito di Scipione già da parecchio prima del 146, e certamente Scipione lo conosceva e lo apprezzava da molto tempo. […] Oltre che con Scipione, che era suo coetaneo, strinse rapporti di amicizia anche con Lelio e riuscì ad esercitare un profondo influsso su tutto il circolo di aristocratici che si raccoglieva intorno a questi due uomini. Cfr. La Stoà. Storia di un movimento spirituale, pp. 390-­‐391. Il fatto che Scipione si trovò contemporaneamente insieme a Panezio e a Polibio è ricordato da Cicerone, Rep. I 34. Sui rapporti di amicizia con Scipione si può vedere anche Cicerone, Mur. 66, Off. I, 90; su quello con Lelio, Fin. IV 23; per altri romani cfr. Pohlenz, Panaitios, col. 423. 25
Tra le opere di Panezio spiccava un tratto sul dovere che è la fonte principale di Cicerone nel I e nel II libro dei suoi Doveri. Secondo Cicerone in De Officiis, libro I, cap. 11, Ciranna, Roma-­‐Palermo, 1992. “Anzitutto, la natura ha dato ad ogni essere vivente l'istinto di conservare se stesso nella vita e nel corpo, schivando tutto ciò che può recargli danno e cercando ansiosamente tutto ciò che serve a sostentare la vita, come il cibo, il ricovero, e altre cose dello stesso genere. Comune altresì a tutti gli esseri viventi è il desiderio dell'accoppiamento al fine di procreare, e una straordinaria cura della loro prole. Ma tra l'uomo e la bestia c'è soprattutto questa gran differenza, che la bestia, solo in quanto è stimolata dal senso conforma le sue attitudini a ciò che le è presente nello spazio e nel tempo, poco o nulla ricordando del passato e presentando del futuro; mentre l'uomo, in quanto è partecipe della ragione (in virtù di questa egli scorge le conseguenze, vede le cause efficienti, non ignora le occasionali, e, oso dire, gli antecedenti, confronta tra loro i casi simili, e alle cose presenti collega strettamente le future), l'uomo, dico, vede facilmente tutto il corso della vita e prepara in tempo le cose necessarie a ben condurla”. 26
Cicerone in De Off., libro I, cap. 30 “Noi poco fa abbiamo chiarito le due forme dell'ingiustizia, aggiungendovi le cause dell'una e dell'altra; e prima ancora avevamo definito la vera essenza della giustizia; sicché ora potremo facilmente determinare quali siano i nostri particolari doveri nelle singole circostanze, se non ci farà velo l'eccessivo 23
Sarò in armonia solo in funzione di me stesso, valorizzando tutte le mie componenti.
Non seguirò semplicemente la natura scritta, dettata dal cosmo ma attuerò la natura scritta nella mia
individualità. Farò due trascrizioni del mio essere: la trascrizione al cosmo e la trascrizione alla mia
natura, ciò perché equilibrio ed armonia li dovrò trovare innanzitutto in me stesso.
Per Panezio dovrò mettere in evidenza una natura razionale, nutrita dall’apprendimento,
dall’aumento della conoscenza, cogitando, ruminando profondamente; una natura sensibile, nonché
il mio fluendi modus, il modo, la misura; una natura individuale, nonché le mie proprietà singole.
Solo sviluppando le tre nature27 raggiungerò l’honestum, il vir.
Ma con Panezio tramonta il religioso e rimane l’etico28, la morale si svincola dal religioso e
dal fisico per progredire nella comprensione e valorizzazione di me stesso nel concreto agire,
mettendo l’accento sulle mie capacità.
L’andirivieni tra dare spazio al religioso e dare spazio all’uomo.
Nel tempo stoico, l’orizzonte di trascendenza che in un primo momento sembra schiacciare l’uomo,
si risolve nello stesso modo quando in un secondo momento la mancanza di trascendenza appiattirà
l’uomo.
Ma se ben si pensa, quasi sempre la morte di Dio ha di seguito la morte dell’uomo29.
Ma con Posidonio30, l’elemento religioso prevale, anche se in maniera atipica.
Un buonismo panteistico: importante è aprirmi alla trascendenza, al religioso, all’assolutezza,
rivolgendomi, tramite una contemplazione coinvolgente oltre che ad una conformazione, a colui o
coloro che segneranno la mia strada.
amore di noi stessi: perché è ben difficile il prendersi a cuore gl'interessi altrui. Ha un bel dire Cremete di Terenzio: «Sono uomo: non c'è nulla di umano che non mi riguardi»; ma tuttavia, poiché ci toccano ben più i sensi e il cuore le fortune e le sfortune nostre che non quelle degli altri (queste noi le vediamo, per cosi dire, a gran distanza), diverso è il giudizio che facciamo di quelli e di noi. Saggio perciò è il consiglio di chi ci ammonisce di non far cosa alcuna della cui giustizia o ingiustizia siamo in dubbio. La giustizia risplende di un suo proprio splendore; il solo dubbio implica sempre un sospetto d’ingiustizia”. 27
Per un approfondimento si veda Nemisio 15; Tertulliano, De an. 14. In Cicerone, De Off. I 101 si allude solo alle dynameis dell’hegemonikon: duplex est vis animorum atque natura: una pars in appetitu posita est, quae est ormé Graece, quae hominem huc et illuc rapit, altera in ratione, quae docet et explanat quid faciendum fugiendumque sit; cfr. Tusc. II 47. 28
Se l’essere umano è per l’uomo l’essere sommo anche nella pratica la legge prima e suprema sarà l’amore dell’uomo per l’uomo. "Homo homini deus est": questo è il nuovo punto di vista il supremo principio pratico che segnerà una svolta decisiva nella storia del mondo. Cfr. Feuerbach L., L'Essenza del Cristianesimo, Feltrinelli, Milano, 2008. Per una attualità del discorso, è indispensabile richiamare Feuerbach perché parla del riportare a galla l’umano e del tramonto del divino. 29
Ricordo la metafora de Il serpente ed il pastore in Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano, 2005. pp. 183 – 186 e Sartre: se Dio non c’è tutto è permesso ma se tutto è permesso e Dio non c’è l’uomo non è libero -­‐ Sartre J.P., L'esistenzialismo è un umanismo, a cura di F. Fergnani, Mursia, Milano, 1978. Non sono problemi di matematica sono problemi in cui la bilancia pende secondo le passioni e le decisioni. 30
Posidonio (135-­‐50? a.C.-­‐ secondo Cicerone nelle Tusc. II 61 e cfr. Hortens. fr. 44 M, nel 45 Posidonio era morto già da qualche tempo), successore di Panezio, di Apamea, lascia ai posteri un’opera filosofica, storica, geografica e scientifica considerevole, pure andata interamente perduta. Le sue origini siriache hanno pure alimentato i fantasmi degli interpreti che, a dispetto delle testimonianze che ci sono pervenute, hanno voluto vedere in lui un orientale mistico, anziché uno spirito razionale e scientifico. Posidonio è pure una personalità pubblica: la scuola è ormai insediata a Rodi (l’insediamento a Rodi è forse legato alle difficoltà economiche, sociali e politiche in cui sembra abbia versato Atene, a partire dall’anno 10 a. C.), uno dei principali porti del Mediterraneo, di cui il celebre colosso ostenta la prosperità; e la città lo incarica di difender ei propri interessi presso l’autorità romana. Pompeo viene a visitarlo e Cicerone sarà suo allievo e amico – Su Posidonio si veda K. Reinhardt, Poseidonios, München 1921; Poseidonios in RE, XXII, col. 558-­‐826; Poseidonios über Ursprung und Entartung, “Orient und Antike“ VI, Heidelberg 1928. Cfr, Pohlenz, Göttt. Gel. Anz.1922, p. 261 e 1926, p. 273. Heinemann Poseidonios, II. Edelstein (Amer. Journ. Phil. 1936, p. 286) tenta una esposizione della filosofia di Posidonio esclusivamente sulle basi dei framm. esplicitamente attestati come posidoniani. Una concisa valutazione in Ed. Schwartz, Griechische Charakterköpfe, I, p. 87 e Wilamowitz Glaube, II, p. 403 ss. Si veda pure Rudberg, Poseidonios, Kristiania 1924. Posidonio in Cicerone, Div. I 6 ecc.; sulla pietas verso il maestro cfr. Off. III 8-­‐10. Si veda anche Long A., La filosofia ellenistica. Stoici, epicurei, scettici, pp. 281-­‐311. Ma quale uomo segna la strada di un altro uomo senza fermare, senza interferire, senza
imporre, senza plagiare, senza manipolare, senza omologare?
E Socrate: “O caro Pan, e voi altri dei che dimorate in questo splendido posto! Concedetemi di
diventare bello dentro, e che tutto ciò che ho di fuori sia in armonia con quello che mi porto dentro!
Che possa stimare ricco il saggio, e che possa avere a disposizione tanto oro quanto nessun altro
potrebbe prendersi e portarsi via, se non il temperante!”31.
L’essere saggio è colui che non da un metro di misura oggettivo, è colui che nella situazione
sa essere profondamente se stesso, è modello dinamico e non statico, mi dice il come e l’intensità32.
Il saggio è colui che non vuole nulla dall’altro, dato che è innamorato della vita; è colui che
da il giusto peso alle cose: sa che il mio giudizio, la mia mente, il mio affetto, la mia vita sono
viziati da cose che non hanno alcun valore.
Sa che risiedo nel dolore per non riuscire a misurare le cose.
Sa bene che in fondo ognuno di noi è discepolo della verità, che non dà speranza ma comprensione.
Il saggio conosce la verità come paese senza vie: non posso comprendere la verità tramite
organizzazioni, credi o dogmi, conoscenze filosofiche o tecniche psicologiche.
Per il saggio, troverò la verità attraverso lo specchio della relazione, attraverso la comprensione dei
contenuti della mia mente, tramite l’osservazione e non le analisi intellettuali o le dissertazioni
introspettive.
Il saggio stoico (o il saggio) è interessato all’umanità intera, non ha nazionalità, sa bene che
solo questa profonda comprensione può creare una nuova generazione che potrà vivere in pace.
Il saggio stoico è un pensatore folgorato, impressionato dalla luce del suo nuovo modo di
pensare, tanto da riuscire a intravedere nel resto, cose di poco conto, cose sfocate.
Esce dal sistema per rimanere folgorato, esplode interiormente per ritrovare un nuovo modo
di pensare.
31
Platone, Fedro, 279 b4 – c8 Il Cristianesimo batte molto su questo punto: solo Cristo è il modello (per un esempio dell’ampia letteratura a riguardo: Rm 15,5; Fil 2,5. Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, 38: AAS 58 (1966) 1055). Non perché sia un modello generico ma perché è modello perfetto a cui attenersi (Paolo VI, Omelia nella basilica dell'Annunciazione della beata Vergine Maria a Nazaret (5 gennaio 1964): AAS 56 (1964) 167-­‐168). Sembra una reminiscenza del demone socratico; ma il demone non da ingiunzioni, dice solo da cosa guardarsi. 32
ALLEGATO 5
Lezioni su Seneca lezione
Vita e opera di Seneca
• Una premessa sulle Lettere
• Un confronto per un esempio: le lettere 65 e 106
«non vitae sed scholae discimus»,
Seneca, Lettere a Lucilio, 106
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Conseguenza: eneka tou
Elvia e il figlio Seneca
Il tempo delle grandi donne
I due Sestii
Retorica o verità?
Seneca precettore di Nerone: il quinquennio di Nerone
Il suicidio è vicino
Le Consolationes: riflessioni
∗ Lettura per la vita di Seneca
«E finora non ti ho parlato del tuo grande conforto, di tua sorella, cuore a te fedelissimo, che condivide in
egual misura tutte le tue pene, animo per tutti noi materno. Tu hai mescolate alle sue le tue lacrime e, tra le
sue braccia, sei di nuovo tornata a vivere. (2) Ella partecipa sempre ai tuoi sentimenti; tuttavia quando si
tratta di me non si addolora soltanto per te. Fra le sue braccia io fui portato a Roma; per le sue cure affettuose
e materne io, dopo una lunga malattia, mi ristabilii; ella adoperò tutta la sua influenza per farmi ottenere
l'incarico di questore, vincendo la sua timidezza per amor mio, lei che non ha nemmeno il coraggio di parlare
o di salutare a voce alta. Né il tipo di vita ritirata, né la sua riservatezza, che fra tanta sfacciataggine
femminile sembra sgarberia, né il suo desiderio di pace, né le sue abitudini a una vita tranquilla le
impedirono che diventasse, per me, perfino».
Seneca, Consolatio ad Helviam matrem, XIX, 1-2.
36
lezione
Inizio del commento alle Lettere a Lucilio
Animus
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•
•
Interiorità "Animus
Come si nutre l’interiorità? Da chi va per nutrirsi?
La richiesta: il bene è materia?
Cosa vuol dire imparare per la vita e non per la scuola?
!
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o
Lettera 108
Come avvicinarsi al sapere
Il fine
Come si allarga l’animo
Quidam veniunt ut audiant, non ut discaut
Seneca, Lettere a Lucilio, 108, 8
o I maestri
o Filologia deve diventare Filosofia
o Il propositum nell’ascolto
!
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Lettera 2
Relazionarsi
I pericoli1)non aver il discernimento e 2) mutare troppo rapidamente.
Farsi il gusto
Andare negli accampamenti altrui
non tramquam transfuga sed explorator
Seneca, Lettere a Lucilio, 2, 5
! Lettera 64
Ego vero illos veneror et tantis nominibus semper adsurgo
Seneca, Lettere a Lucilio, 64,10
! Lettera 39
37
lezione
Animus e cultura
! Lettera 76
“tuttavia in quella scuola io insegno anche qualche cosa. Vuoi sapere che cosa insegno? Che anche
un vecchio deve imparare”
Seneca, Lettere a Lucilio, 76, 3
“invece là, dove si ricerca chi sia l’uomo virtuoso, dove si impara a diventare virtuosi, siedono
pochissime persone”
Seneca, Lettere a Lucilio, 76, 4
o Seneca dice che si vergogna di appartenere ad una umanità che sente il bisogno di divertirsi
e non sente il bisogno di imparare a vivere.
!
o
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o
o
Lettera 84
animus opposto al concetto di corpo
Le letture da non smettere per far crescere l’animus
Non affidare le letture alla memoria
La metafora delle api
La metafora del cibo
Come un figlio e non come un ritratto
Come il coro delle antiche tragedie greche
Adsidua intentione e ratione suadente
Seneca, Lettere a Lucilio, 84, 12
o Una serie di Relinque
! Lettera 88
o Le arti liberali
o Adiafora
!
o
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o
o
o
Lettera 104
Insensibilità e sensibilità
Stare vicino ai grandi
Animus indurare
Esempi concreti per l’educativo
Accezioni di animus
38
lezione
Animus e sua strutturazione tramite la cultura: i principi e i precetti
L’animus verso una autonomia relazionata
# Un nucleo di problemi non divisibili
# Il fine: essere simili a dio
# Breve divagazione sul concetto di educazione nelle Lettere.
! Lettera 27
!
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•
•
•
•
Lettera 25
L’educazione: saltare in altezza
Il problema delle lettere 94 e 95
Sui principi e i precetti la lettera 95
Le tre ipotesi
Avere per forza dei precettori per giuste idee generali (principi)
Il punto cardine dell’educativo
Cleante: Inno a Zeus
Dio è modello
!
•
•
•
•
Lettera 65
Il piacere fuggevole
La filosofia
Che cos’è l’assimilazione a dio?
Ritorno alle lettere 94 e 95 " principi e precetti
!
•
•
•
•
•
•
∗
Verso una autonomia relazionata
Da principi e precetti all’autonomia relazionata
Fondamento metafisico per l’animus libero
La relazione
L’autonomia
Cleante: noi di tua stirpe siamo
Autonomia relazionata
L’Inno a Zeus (lettura allegata)
! Lettera 90
• Vocaboli: Ratio, Honestus, Virtus
39
lezione
La filosofia per l’animus indurato
! L’animus e la saggezza: la filosofia
•
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Lettera 53
Lettera16
Cosa fa la filosofia (saggezza)?
Lettera 52
Lettera 53
Lettera 5
Lettera 4
! Per indurare l’animus
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Il motivo per indurare l’animus
Lettera 76
Ratio perfecta
Honesti - turpis
Bonum - bona
Laboriosum, damnosum, pericolosum
Pecuniam, voluptatem, potentiam
Solum ergo bonum est honestum, cui modus est
L’uomo magnus
40
lezione
L’animus verso la libertà
! Due modi di intendere la libertà
! Il filone del dio buono e il filone del dio destino
! Aspetti comuni
! La sapienza (filosofia) è l’unica libertas
! La libertà bisogna darla a se stessi
! Rapporto ratio - virtus
! Autodecisione e sapienza (saggezza)
! Devi leggere, rileggere, familiarizzare …
! Libertà intellettuale
! L’autodominio
41
lezione
La convivenza
! Lettera 60
• La convivenza
! Lettera 14: il corpo e le ricchezze
• Lo strepito
• La persona saggia
! Lettera 22
• Difendersi dal volgo
• La convivenza umana non vanifica l’induramento dell’animo ma rende più pensosi
! Lettera 14
• Il potente
! Lettera 73
• Il saggio, i potenti, le ricchezze
! Lettera 97
42
lezione
La convivenza e l’altro
! La convivenza e il diverso, i diversi
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•
Lettera 73
Legiferare sulla convivenza e gestirla
Lettera 97: è semplice corrompere chi sta al potere.
Lettera 47: il problema dei diversi
La regola d’oro
La clemenza
! La convivenza e il potere, la massa
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Il senso per la misura
Timore e amore tramite la clementia
Lettera 7: verso l’istinto del gregge
Il rapporto con gli altri
Lettera 7
Lettera 25
Una presenza qualificata
Lettera 29
Lettera 52
Chiedere il giusto aiuto
La lode e l’adulazione
La lettera 55: verso l’amicizia
43
lezione
La qualità della convivenza
!
•
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Nella convivenza: vivere per l’altro, vivere per gli altri …
Il bisogno e l’altro
L’amicizia e il mondo vitale
Aristotele e l’amicizia
L’amicizia in Seneca e l’esplosione della soggettività
Vivere è pienezza: vive per sé chi vive per gli altri
Lettera 6: il voler migliorare
!
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Nella convivenza: la conoscenza di sé tramite l’altro. L’amicizia
Il rapporto interpersonale
Lettera 3: parlare con l’amico come se parlassi con me stesso.
La teoria dello specchio
Lettera 45: l’amicizia e l’adulazione
La parola porta in sé l’energia di chi la pronuncia
Lettera 9: apateian
Se vuoi essere amato ama
Lettera 35: volere un amico non un discepolo
Lettera 48: vivere per gli altri
Lettera 62: vacatio
!
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•
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Educare per incrementare la qualità della convivenza
Lettera 63: l’amico morto
Il tema della comunicazione
Lettera 85: cosa si considera bene.
Lettera 47: l’uguaglianza
Libertà come acquisizione personale nel rapporto.
Sulla qualità della convivenza
44
ALLEGATO 6
Lezioni su Dostoevskij lezione
Introduzione a Dostoevskij
Per la trascendenza e il senso dell’uomo
Propedeutici allo studio di Memorie del sottosuolo sono due opere dell’auctor in questione: La
leggenda del Grande Inquisitore e il romanzo Delitto e Castigo.
• Brevi cenni biografici
• L’esperienza della Siberia.
•
La chiarezza delle Memorie
•
Il buio
•
Una ratio diversa da quella di Seneca
•
Scegliere il dolore
•
Un potere nientificante
•
Un uomo oggetto oggi: un tasto di pianoforte
•
Le lettere di Dostoevskij
•
L’uomo è un mistero antinomico
•
Il Dostoevskij degli articoli e delle figure: le due traiettorie
•
Le lettere
•
Le opere
•
Il risentire il Cristianesimo
•
Il problema della trascendenza
•
Il destino dell’uomo
•
La città
•
La stanza
•
L’uomo del sottosuolo
•
La libertà: potenza folle
•
2+2=4?
45
lezione
Lo spirito tra libertà e dolore
•
Il problema: questo Cristo è Dio o cosa?
•
Il faccia a faccia col Cristo
•
Le polarità dell’uomo
•
La libertà avvertita
•
Il livello a-razionale
•
Il livello dello spirito e non della psiche
•
Il dolore e le sue intensità
•
La scelta e il vantaggio
•
La scintilla della libertà nel sottosuolo
•
L’eternità
•
La libertà: potere costruttivo e distruttivo.
•
La capacità di fondo che impregna l’uomo
•
Lo spirito pneuma
•
Lo spirito e il risveglio
•
L’ebbrezza del dionisiaco
•
La ricchezza insondabile dello spirito
•
Gli interrogativi che angosciano
•
L’educazione alla libertà
•
L’educativo
•
Il problema della libertà
46
lezione
Verso la Neve bagnata. Lo spirito si affaccia all’altro
•
Spiritualizzare la vita
•
Volere un io diverso dall’io posto
•
Impattare con la libertà originaria
•
La disperazione
•
Il problema della scelta
•
La neve bagnata
•
Il rapporto con l’ufficiale
•
Il potenziale della libertà
•
Gli incontri
•
Il come e il che cosa
•
Un gioco libresco
•
Il servo
•
Il rischio della dirittura
•
Soffocare nel sogno e nella fantasia
•
La parte finale
•
Dal punto di vista dell’educativo
47
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