BIOGRAFIE Nell’anno 2009, in occasione dei 200 anni della nascita di Felix Mendelssohn, cinque eccellenti musicisti tedeschi, Anke Dill e Ulf Schneider, violini, Barbara Westphal e Volker Jacobsen, viole, Gustav Rivinius, violoncello, decisero di dar vita stabilmente ad un quintetto. Scelta insolita, perché generalmente, quando si tratta di affrontare il repertorio per quintetto, i quartetti per archi invitano un’altra viola per singoli concerti; e infatti, attualmente, non esiste una formazione stabile per questa tipologia strumentale. Ma la reciproca e consolidata amicizia dei suoi componenti e gli unanimi apprezzamenti che questa formazione va riscuotendo in Europa, stanno contribuendo a far apprezzare le opere espressamente scritte per il Quintetto d’archi. Il vantaggio è evidente: la profonda e prolungata esperienza cameristica di ogni componente conferisce alle interpretazioni del Quintetto Bartholdy una forza di coesione, una omogeneità interpretativa e un virtuosismo strumentale di prim’ordine. Tutti i membri del Quintetto sono molto interessati anche alle esecuzioni di opere contemporanee e, a questo proposito, hanno commissionato al giovane compositore tedesco Robert Krampe un’opera per loro. Questa composizione, dal titolo “...mein Saitenspiel... “ è stata presentata a Lubecca in prima esecuzione nel 2011 ed eseguita più volte con grande successo. Anke Dill è nata a Stoccarda ed ha studiato con Shmuel Ashkenasi, Nora Chastain e Donald Weilerstein. Vincitrice di numerosi premi, Anke suona come solista e in formazioni da camera in Europa, Giappone, Cina e USA. Dal 2004 è professoressa alla Musikhochschule di Stoccarda. Tiene masterclass in Svizzera, Austria e Germania. Winfried Rademacher ha studiato con Josef Suk (Vienna), Sándor Végh (Salisburgo), ai corsi di Nathan Milstein (Zurigo) e con i componenti del Quartetto Amadeus (Colonia). Ha ricevuto numerosi premi tra cui il Deutsche Musikwettbewerb di Monaco e BBC a Londra. Ha coperto il ruolo di primo violino di spalla con l’Orchestra della NDR di Amburgo con Günter Wand, con i Münchener Philharmoniker diretti da Sergiu Celibidache, la Chamber Orchestra of Europe con Claudio Abaddo e la SWR Stuttgart diretta da Sir Roger Norrington. Dal 2006 è docente presso la Razumovsky Accademy di Londra. Suona un violino Nicolo Gagliano del 1733. Barbara Westphal è stata allieva di Itzhak Perlman e Michael Tree (Guarneri Quartet). Ha vinto il primo premio al Concorso ARD di Monaco e il Wilheim-Busch Prize. Dal 1978 al 1985 ha suonato nel Quartetto Delos, con il quale ha vinto il primo premio al Concorso di Colmar (Francia). I suoi molti CD, alcuni per viola sola, documentano la sua notevole versatilità artistica. Dal 1989 insegna a Lubecca. Volker Jacobsen ha studiato alla Musikhochschule di Lubecca con Barbara Westphal. È stato tra i fondatori del Quartetto Artemis, con il quale ha collaborato fino al 2007. Dopo aver vinto con l’Artemis il primo premio ai Concorsi ARD di Monaco e Paolo Borciani ha suonato in tutto il mondo con il Quartetto. È stato professore di musica da camera all’Università delle Arti di Berlino e alla Cappella Musicale delle Regina Elisabetta del Belgio a Bruxelles. Dal 2007 insegna ad Hannover. Gustav Rivinius è stato l’unico violoncellista tedesco a vincere il primo premio e la medaglia d’oro al Concorso Tchaikovsky di Mosca nel 1990. Da allora ha suonato come solista con le più celebri orchestre tedesche ed europee. Suona spesso con il pianista Lars Vogt, con i violinisti Christian Tetzlaff e Antje Weithaas e con Sharon Kam. Ha fondato il Trio Gasparo da Salò e il Quartetto con pianoforte Tammuz. È professore alla Hochschule für Musik Saar. PROSSIMO APPUNTAMENTO Mercoledì 18 gennaio 2017 Teatro Verdi, ore 21 CARLO BOCCADORO | direzione Piercarlo Sacco | violino Aya Shimura | violoncello Andrea Rebaudengo | pianoforte Mirco Ghirardini | clarinetto Paola Fre | flauto Andrea Dulbecco | vibrafono e percussioni MUSICA COELESTIS NYMAN, GLASS, LANG, BRYARS, REICH i concerti della ottobre 2016 | giugno 2017 QUINTETTO BARTHOLDY Anke Dill | violino Winfried Rademacher | violino Barbara Westphal | viola Volker Jacobsen | viola Gustav Rivinius | violoncello MENDELSSOHN-BARTHOLDY, MOZART, BRAHMS MARTEDÌ 13 DICEMBRE 2016 Teatro Verdi, Pisa ore 21 NOTE ILLUSTRATIVE Non è frequente ascoltare un quintetto d’archi, anche perché i compositori l’hanno praticato di rado dopo i sei di Mozart. Infatti, se all’aristocratico equilibrio del quartetto d’archi si aggiunge una seconda viola, l’edificio sonoro rischia di appesantirsi troppo nel registro intermedio soverchiando la cantabilità dei violini e appannando la voce del violoncello, pilastro che regge l’intera architettura. L’effetto, insomma, potrebbe essere quello di una figura maschile ben formata, testa modellata a dovere, spalle larghe, gambe solide, però ventre enorme. Nel lavorare su un quintetto con due viole, il compositore deve dunque far attenzione a non riempirgli troppo la pancia per non metterne a rischio proporzioni e bilanciamento. Nel catalogo di Felix Mendelssohn-Bartholdy di quintetti se ne trovano due. Il primo, op. 18, concepito a ventidue anni, nel 1831: giovanile, si potrebbe dire, se l’autore non fosse stato considerato musicista fatto già durante l’infanzia, quando Goethe lo accoglieva a casa sua, sbalordito da tanto talento che trovava un precedente soltanto in Mozart. E limpida e ordinata, appunto mozartiana, è la declinazione che il romanticismo assume in Mendelssohn. A lui non appartengono le bizzarrie, gli eccessi, le psicosi di altri colleghi. La “felicità” che si attribuisce alla sua scrittura tinteggiata di sole anche laddove ricopre sentimenti turbolenti, lo rende a tutti gli effetti erede del Classicismo. Una sensibilità spiccata per la misura delle emozioni, per tornitura e coerenza delle forme, evidente anche nel Quintetto in si bemolle maggiore op. 87 composto nel 1845, nella serenità di un’estate trascorsa a Francoforte accanto a moglie e figli, libera da cogenti occupazioni professionali, lui che di solito era un iperattivo e, dedito alla creazione, al podio, al pianoforte, alla responsabilità artistica di orchestre, cori e festival, alla revisione di musiche del passato, all’insegnamento, si divideva fra Lipsia, Berlino e Londra. Tuttavia, malgrado l’architettura limpidissima e la proporzione timbrica perfetta tra le voci degli strumenti, del risultato del Quintetto non fu soddisfatto, se decise di lasciarlo in un cassetto - sarà reso pubblico quattro anni dopo la morte, nel 1851. D’altronde Mendelssohn non era uno che si accontentasse facilmente e la naturalezza che promana dalle sue opere è spesso il frutto di lavorazioni lunghe e ripensamenti. Ad aprire il Quintetto è un «Allegro vivace» che ha il carattere di narrazione cavalleresca ardente ma sorvegliata: il primo violino svetta, slanciato, sugli altri compagni con fervore eroico, pur senza mai dimenticare di essere parte di un gruppo - non un paladino solitario. Invece esibisce un portamento aristocratico, di antica eleganza, l’«Andante scherzando», con le sue studiate tarsie contrappuntistiche e i numerosi, pungenti pizzicati. Clima ancora differente nel successivo «Adagio e lento». Ritmo e tremoli vi sono come elettrificati: se la loro tensione aumentasse di un briciolo, farebbe slittare il pezzo dalla dimensione cameristica a quella teatrale. Tale è la perturbazione emotiva che pare di intravederci addirittura Verdi. Ma a contrastare questo tratto provvede una melodia di mestizia dolce e intensa che Mendelssohn sembra prendere a prestito da qualche sua Romanza senza parole. La parte tecnicamente più elaborata è ancora quella del violino primo - come lo sarà anche nel movimento seguente - però qui anche il violoncello riesce a emergere con un canto colmo d’espressione. Forse la ragione per cui l’autore non pubblicò il Quintetto risiede nell’«Allegro molto e vivace». Questo finale, seppure impeccabile nella scrittura, non lo soddisfaceva; probabile gli suonasse impersonale, troppo di maniera. Dal 1781, nel suo ultimo decennio d’esistenza, Wolfgang Amadeus Mozart abitò a Vienna. Della capitale si conquistò subito i favori come pianista e compositore. Fu adorato dall’aristocrazia, corteggiato dagli editori, applaudito nei teatri per una manciata d’anni. Poi, dall’epoca delle Nozze di Figaro (1786), la fortuna l’abbandonò: la sua musica – che si evolveva incurante della moda e delle abitudini d’ascolto del pubblico – cominciò a suonare troppo ostica alle orecchie dei viennesi, concerti e commissioni si diradarono, gli altri compositori attivi in città gli misero i bastoni fra le ruote giacché lui non aveva mai fatto nulla per renderseli amici. Ma mentre Vienna gli voltava le spalle, Praga lo ossequiava e nel 1787 gli richiese un’opera nuova, Don Giovanni. Durante la stesura Mozart ebbe seri problemi economici - che andranno ad aggravarsi nel corso del tempo, e solo l’aiuto costante offerto da alcuni confratelli massoni riuscirà un tantino ad alleviarli - cosicché si interruppe per dedicarsi a scrivere qualcosa da pubblicare subito, facile da smerciare. In realtà restò a lungo invenduto ciò che il compositore produsse in quella primavera dell’87: i Quintetti per archi K. 515 e K. 516, due fratelli diversi come il sole e la luna poiché il primo nella tonalità radiosa di do maggiore, l’altro in un agitato sol minore. Normale tale sfortuna, data la singolarità dell’organico e la densità di una scrittura timbricamente bilanciatissima ma troppo innervata di contrappunto per il gusto medio. D’altronde la condotta polifonica delle parti era divenuta naturale per Mozart dacché, nel primo periodo a Vienna, la frequentazione del barone Gottfried van Swieten gli aveva rivelato i capolavori di Bach e Händel allora ignorati perfino dai musicisti. E quanto gli incontri a casa del barone avessero dato frutto, nel Quintetto K. 515 lo si coglie a ogni passo. Sovente il rincorrersi nei cinque strumenti di temi o frammenti di tema avviene per mezzo di intarsi discreti che si rivelano più alla lettura che all’ascolto - e questa è la grandezza di Mozart, far sembrare lieve la complessità. Ma talvolta lo spirito della fuga barocca si manifesta potente, come accade nel cuore e in coda al primo movimento, «Allegro». Il quale si basa su un motivo ascendente buffonesco che poi si ripiega in un vezzo galante: dapprima se lo spartiscono violoncello e violino, poi viceversa. Invece nel meraviglioso «Andante» il violino intrattiene la conversazione principale con la prima viola. È come un duetto operistico, con gli altri strumenti-personaggi che parteggiano per l’uno o l’altro, e di tanto in tanto emerge il violoncello per dire la sua. Segue il Menuetto, che nelle vecchie pubblicazioni (e dunque anche nelle esecuzioni che a queste si rifacevano) si trovava in seconda posizione; l’edizione critica l’ha riportato in terza, secondo l’autografo di Mozart. Il finale, «Allegro», pare voltarsi verso lo stile arioso e disincantato degli anni giovanili a Salisburgo, malgrado l’affacciarsi del contrappunto nelle sezioni di raccordo. Nelle intenzioni di Johannes Brahms il Quintetto in sol maggiore op. 111, datato 1890, avrebbe dovuto essere l’ultimo suo pezzo. Poi avrebbe voluto dedicarsi a tempo pieno ad amici, letture, viaggi. A cinquantasette anni, infatti, il compositore tedesco vivente più celebre al mondo credeva di aver esaurito le cartucce – si sbagliava, perché continuerà a scrivere ancora per qualche stagione prima della morte avvenuta nel ’97. Ma la feroce autocritica cui da sempre sottoponeva ogni sua opera e il precoce invecchiamento che si era autoimposto dalla gioventù - anche occultando i bei tratti del viso dietro un barbone da profeta biblico che ne rendeva burbera la fisionomia - sembravano, in quel momento, avergli prosciugato la volontà creatrice. Perciò nel Quintetto, scritto durante la villeggiatura a Bad Ischl, Alta Austria, riversò anche il materiale tematico pensato per una futura Quinta sinfonia la cui idea aveva abbandonato definitivamente. Credeva, d’altronde, che per sigillare una carriera gloriosa come la sua non ci sarebbe stato numero d’opera migliore che il 111, lo stesso dell’ultima Sonata pianistica di Beethoven, del quale, fin da ragazzo, si era proposto di raccogliere la gravosa eredità artistica. La nascita dell’op. 111 si deve al grande violinista Josef Joachim che nel bel mezzo di una cena incitò Brahms a dare un fratello al Quintetto op. 88 del 1882. Ciò perché il compositore lavorava generalmente su coppie di pezzi del medesimo genere: il primo inteso come una sorta di prova generale che nel secondo trovava compimento. Come sovente accadeva, anche stavolta il risultato suscitò ammirazione e dibattiti nell’entourage di Brahms; e lui, le prese di posizione dei suoi sodali, le teneva in considerazione. I più, compreso Joachim, gli imputarono la difettosa strumentazione dell’incipit: la melodia rampante del violoncello - che pare ricavata da un qualche poema sinfonico di Richard Strauss, giovanotto bavarese allora emergente sulla scena musicale - risulta soffocata dall’accompagnamento “forte” degli altri archi, cosicché servirebbero la potenza di tre violoncellisti per farla emergere a dovere. L’autore rifletté molto su questa faccenda e del passaggio criticato preparò una versione meno spessa, ma giunta l’ora di stampare il Quintetto, nel 1891, le preferì comunque la stesura originaria. Del resto nell’op. 111 la densità sinfonica convive con il respiro cameristico. E se la tinta complessiva tende al bruno, giacché il peso specifico di viole e violoncello è decisamente superiore a quello dei violini, tuttavia il ricorso a passi di valzer - nell’«Allegro non troppo, ma con brio», primo movimento, e nel terzo, «Un poco allegretto», sebbene qui il temperamento della danza sia più autunnale - e alla rielaborazione personalissima del folclore ungherese - nel finale, «Vivace ma non troppo presto» - ne mitigano sia l’austerità di stampo prussiano, sia la scrittura concettosa ovunque brulicante di contrappunto che da un minimo di materiale fa germinare il tutto - un processo particolarmente evidente nell’«Adagio», che ricava quattro variazioni da un tema -. Insomma volteggia la musica d’intrattenimento dell’impero asburgico nel Quintetto di Brahms, viennese d’adozione: quella della dinastia Strauss assieme ai ritmi zingari, due mondi che il compositore adorava e da cui già aveva tratto ispirazione in lavori precedenti. Eduard Hanslick, il più influente critico musicale di lingua tedesca del tempo, brahmsiano fino al midollo, descrive perfettamente la partitura quando parla di «sentimenti semplici nell’espressione forte e vigorosa» e ne loda «la generosa e splendida solidità della fattura, l’intensità espressiva e l’ammirevole concisione della forma». Gregorio Moppi PROGRAMMA FELIX MENDELSSOHN-BARTHOLDY (Amburgo, 1809 – Lipsia, 1847) Quintetto per archi n. 2 in si be molle maggiore, op. 87 WOLFGANG AMADEUS MOZART (Salisburgo, 1756 - Vienna, 1791) Quintetto per archi n. 3 in do maggiore, K. 515 JOHANNES BRAHMS (Amburgo, 1833 – Vienna, 1897) Quintetto per archi n. 2 in sol maggiore, op. 111