[LA GUERRA IN YEMEN E LA DOTTRINA OBAMA]
LA GUERRA IN YEMEN E LA DOTTRINA OBAMA
Germana Tappero Merlo
Circa tre anni fa, su questo sito, scrissi di uno Yemen
che non interessava nessuno, sebbene si stesse
consumando fra una guerra civile, sanguinaria e logorante, e
una guerra al terrore, supertecnologica ma invasiva,
condotta dagli Stati Uniti ad al-Qaeda nella Penisola Arabica
(AQAP) che da lì opera, mettendo a rischio - a parere di
Washington e che da ciò si legittima ad agire - la sicurezza
nazionale americana. Allora sottolineai che scrivere dello
Yemen risultava quasi una perdita di tempo, perché niente di
quanto stava accadendo in uno dei Paesi più strategici del
Vicino Oriente, sembrava poi così rilevante ai vertici politici
e militari occidentali. Tutto era ricondotto superficialmente
dai media e da una buona dose di analisti ad un altro
faticoso tentativo di primavera araba che, però, si stava
rivelando illusorio e perdente.
Sottovalutare allora ciò che stava accadendo in Yemen è
stato uno degli errori più grossolani di molti colleghi analisti:
che sia stata volontà, incapacità o frutto dell’attitudine
sempre più diffusa a illustrare solo gli avvenimenti che
interessano i media, sta di fatto che ora e per tutti è arrivato
il momento di confrontarsi seriamente con l’affare Yemen,
altrimenti non si è credibili.
Ciò che sta avvenendo nello Yemen è una guerra in
apparenza solo civile e interna, capeggiata dai dissidenti
Houti (sciiti zaiditi)[1] contro la corruzione e la svendita del
Paese agli interessi stranieri da parte del suo governo
centrale (sunnita), e camuffata da scontro religioso fra le
due anime dell’Islam, appunto sciiti e sunniti, nell’ormai
semplicistico e abusato approccio a tutte le crisi o i conflitti
che imperversano dal Nord Africa al Centro Asia.
E’ innegabile che questa dicotomia abbia un ruolo; ma non è
prioritaria ed è necessario andare oltre.
Ciò che avviene è anche lo scontro fra una concezione
tribale ed una unitaria di nazione yemenita fra le diverse
élite e tribù che si contendono il potere in uno Stato che gli
schemi analitici occidentali definirebbero “fallito”. A ciò si
aggiunge l’ampia ed ingombrante presenza dell’AQAP,
decisa a controllare una buona porzione di territorio, quello
orientale, del Paese.
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Per raggiungere e garantirsi questo obiettivo, la crisi
yemenita è riuscita là dove altri conflitti nella regione hanno
fallito. Non è azzardato, infatti, paragonare la criticità della
guerra yemenita a quella siriana, dove potenze regionali
come Arabia Saudita (e paesi arabi musulmani moderati
dell’area del Golfo) e Iran (in pieno sostegno delle comunità
sciite, da quella siriana a quella irachena, bahreinita e
appunto yemenita) si confrontano in questa proxy war
appoggiando attori locali e rischiando l’allargamento del
conflitto ad altri Paesi - come è accaduto con l’ Iraq e
potrebbe accadere presto in Libano - o derive militari
estreme, come il rafforzamento di Da’ish-Isis, oppure
inusuali, come la istituzione di milizie sciite in territorio
iracheno, con gli inevitabili interrogativi circa il loro impiego
futuro.
La guerra civile in Yemen, tuttavia, è riuscita a
ottenere molto di più di quella siriana e irachena, ossia
l’accordo fra 10 Paesi arabi musulmani sunniti, con
l’appoggio dell’Autorità Palestinese, a intervenire
militarmente per contrastare la presa di potere degli sciiti
Houti a scapito del governo centrale legittimo sunnita
moderato.
Gli Houti del giovane e carismatico Abdel Malek al-Houti, in
appoggio all’ex presidente Abi Abdullah
Saleh, controllavano già da tempo settori critici
dell’amministrazione centrale yemenita; ma da gennaio
erano riusciti a prendere il controllo totale della capitale
Sana’a e a insediarvisi, in quello che è stato definito un vero
e proprio colpo di Stato, e obbligare il Presidente Abedrabbo
Mansour Hadi a rifugiarsi ad Aden verso cui, negli ultimi
giorni, stanno avanzando, imponendogli un’ulteriore fuga via
mare.
Questa minaccia di un allargamento e un controllo del
potere da parte della frangia sciita, il cui braccio armato
Ansarollah, dal 2009-2010, ossia dall’ ultima di una lunga
serie di guerre fra Yemen e Arabia Saudita, gode
dell’appoggio dell’Iran tramite consiglieri hezbollah e
forniture d’armi (secondo fonti di intelligence militare
israeliana, giunte attraverso navi [2] e addirittura con i
numerosi voli di linea civili che collegano ancora
settimanalmente Teheran e Sana’a), non poteva non
allarmare le case regnanti sunnite del Golfo e buona dose di
chi teme l’ampliarsi, in quella parte del territorio arabico, di
un modello politico, religioso e militare sciita filoiraniano,
come appunto hezbollah.
Ma l’affare Yemen va ancora oltre tutto ciò.
In Yemen, di fatto, si sta giocando pesantemente una
partita geopolitica fra le più critiche degli ultimi anni: la
rilevanza economica è limitatissima, dato che il Paese non
possiede riserve petrolifere così importanti su cui mettere
mano e l’unica variabile ragguardevole in tal senso è quella
del traffico commerciale internazionale, ossia il passaggio
dei convogli marittimi nelle acque antistanti le sue coste,
nello stretto di Bab el-Mandeb, un choke point fra i più
strategici delle rotte commerciali. Il peso strategico dell’
“obiettivo Yemen”, quindi, ossia ciò su cui si sta
combattendo con brutalità da anni, è dato solo ed
esclusivamente dal controllo di quella sua posizione
geografica.
Di ciò si era già avuto chiaro sentore nel novembre scorso
quando, in occasione dei festeggiamenti della Ashura (giorno
dell’espiazione) fino ad allora celebrata in Yemen con toni
pacati, attraverso le accorate acclamazioni dei capi religiosi
aveva invece assunto quelli accesi di una vera e propria sfida
politica. A molti venne in mente ciò che era già successo a
metà degli anni ’80 quando gli sciiti dei sobborghi di Beirut,
fuggendo avevano trovato asilo a sud del Libano e gli
hezbollah avevano iniziato a sfruttare le celebrazioni
dell’Ashura come una esperienza sociale e politica
plasmante un nuovo senso di appartenenza, di status, di
forza e di ambizione proprie dell’intera comunità sciita
repressa.
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A poco o nulla, quindi, sembra sia servito il finanziamento di
facoltosi privati sunniti per armare al-Islah, la branca
yemenita dei Fratelli Musulmani, per contrastare l’avanzata
degli Houti, dello sciismo e dell’influenza iraniana nel
Paese. Insomma, il timore è che lo Yemen possa diventare
un hub di influenza iraniana ed estendersi dalla Penisola
Arabica all’Africa orientale verso cui propende il suo
territorio.
Il 26 marzo iniziava, quindi, l’offensiva aerea
saudita chiamata Operation Decisive Storm contro le
postazioni Houti, con l’ammassamento di 150 mila uomini
lungo i confini fra i due Paesi. L’azione era stata decisa dopo
che miliziani Houti avevano lanciato un razzo verso la
capitale saudita, mancandola di una cinquantina di
chilometri. Un’ aperta dichiarazione di guerra, quindi, che
necessitava di risposta immediata.
Le implicazioni di tutto ciò sarebbero notevoli e
riguarderebbero non solo lo scontro tradizionale fra le due
anime dell’islamismo, quanto il fatto che in questa partita di
dominio regionale, elementi destabilizzanti quali il
terrorismo di matrice mediorientale e quello africano
potrebbero trovare ulteriore terreno fertile nell’
instabilità che si verrebbe a creare nell’area.
Il 4 aprile, poi, un portavoce militare saudita confermava la
presenza di corpi speciali dell’Esercito e della Marina sauditi
sul territorio yemenita nel “supportare armi e le
comunicazioni” alle forze fedeli al presidente Hadi, così
come di “coordinamento e guida” per azioni di attacco ai
ribelli, seppur non veniva specificata l’area operativa. Il 6
aprile il Pakistan dichiarava ufficialmente che l’Arabia
Saudita aveva chiesto navi, aerei e uomini per operazioni
nello Yemen. A queste si aggiungevano unità inviate da
Pechino per l'evacuazione di propri concittadini, ma anche
per impedire forniture d'armi via mare ai ribelli e garantire,
così, come già in occasione della minaccia piratesca
dall'Oceano Indiano al Golfo di Aden, anche la sicurezza delle
proprie rotte commerciali.
La perdita, infatti, da parte dei Paesi sunniti a favore di uno
Yemen (o parte di esso) filoiraniano del controllo dello
stretto di Bab el-Mandeb, inteso come porta di accesso al
Mar Rosso e al Mediterraneo, potrebbe rivelarsi foriera di
ulteriori tensioni, con relative conseguenze circa la sicurezza
del passaggio delle proprie petroliere, così come per possibili
implicazioni militari. A questi timori dei Paesi del Golfo si
sommano, infatti, quelli di Israele, in particolare per la
possibilità alle navi militari iraniane di accedere alle acque
israeliane del Mar Rosso e a quelle, appunto, antistanti le
sue coste sul Mediterraneo. Il timore ebraico risiede
soprattutto nell’apertura di una ulteriore via di accesso ad
armi e uomini alle forze sia di Hezbollah che di Hamas, con il
conseguente rafforzamento dell’accerchiamento di Israele,
nazione che le posizioni militari più estreme iraniane non
intendono riconoscere ma abbattere definitivamente.
L’attenzione internazionale sullo Yemen si è risvegliata,
tuttavia, solo ultimamente, ossia il 20 marzo scorso nel
momento in cui 4 shahid, i martiri-kamikaze, provocavano
150 vittime fra gli sciiti in preghiera nelle moschee di Sana’a.
La rivendicazione della responsabilità di quegli atti da parte
di Da’ish-Isis, parallelamente a quella fatta da AQAP, oltre a
confermare quanto sia appetibile essere protagonisti
nell’instabilità yemenita, dava ulteriore supporto alla tesi di
coloro, in particolare l’Iran, che ormai da tempo individuano
una conveniente convergenza di interessi di soggetti legati
alle case regnanti sunnite con quelli dei movimenti eversivi
terroristici più estremi della regione, in cui spicca appunto
Da’ish-Isis e al-Qaeda.
Ma se ciò rappresenta il lato più oscuro, controverso e
smentito dai diretti interessati, della deriva eversiva che sta
insanguinando il Vicino Oriente, l’azione politica e
diplomatica più visibile si concretizzava a fine marzo, a
Sharm el-Sheikh quando, nel corso del vertice della Lega
Araba, il Consiglio di Cooperazione dei Paesi del Golfo (CCG),
oltre a Egitto, Giordania, Marocco, Sudan e
Pakistan decidevano per l’intervento armato in Yemen, con
l’Arabia Saudita come capofila, a cui sarebbero seguiti l’
assenso e il supporto degli Stati Uniti a sostegno del governo
legittimo di Sana’a e in nome della guerra ad al-Qaeda e
Da’ish-Isis, e per rispondere alla richiesta di aiuto
internazionale mossa appunto dai rappresentanti politici
legittimi yemeniti.
Venivano, inoltre, confermati combattimenti nell’isola di
Myun, nello stretto di Bab el-Mandeb, in mano ad unità
Houti che, disponendo di missili, avrebbero potuto mettere
in serio pericolo il traffico marittimo commerciale.
L’offensiva aerea saudita, tuttavia, proprio per l’elevato
numero di vittime civili sembrava sortire effetti contrari,
ossia una maggior coesione della popolazione yemenita
verso gli Houti stessi. Una situazione, dunque, molto
critica destinata a durare a lungo e dai risvolti imprevedibili.
Fra questi, meno noti perché celati alla stampa oppure per
alcuni solo perché supposti, vi sarebbero stati anche raids
aerei congiunti sauditi e israeliani su postazioni Houti.
Innegabile, infatti, il timore di Tel Aviv circa l’aumento
dell’influenza iraniana nel complesso di un nuovo scacchiere
regionale in itinere, in particolare dopo la recente firma di
una bozza di accordo sul nucleare a Losanna fra Iran e
6 potenze mondiali.
Ecco perché lo Yemen va ben oltre qualsiasi scontro interno
all’Islam fra sciiti e sunniti e persino oltre a quelle che sono
le aspettative delle stesse forze in campo, siano essi Houti o
forze regolari yemenite, entrambi a loro volta oggetto di
attacchi del terrorismo salafita insurrezionale, sempre
indirizzato ad allargare i confini del suo Califfato. Se poi
venisse confermata nei fatti la notizia trapelata da fonti
arabe circa la dichiarazione del capo di al Qaeda, al Zawahiri,
di sciogliere la “base” e lasciare affluire i suoi combattenti
verso Da’ish-Isis, si verrebbe a creare in quella parte di
Yemen controllata da al-Qaeda, un’area di transito, rifugio e
addestramento per quella che ormai si può definire
“l’internazionale del terrore”, fatta da combattenti jihadisti
di entrambe le sigle.
Se questa ipotesi non ha ancora contorni chiari e ben
definiti, tuttavia, è innegabile che sullo Yemen stiano
convergendo tutte quelle tensioni che non hanno trovato
sino ad ora soluzione concreta e pacifica nel resto della
regione. La guerra in Yemen rappresenta, infatti, il perfetto
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terreno di scontro dove non sono in gioco preziose riserve di
idrocarburi ma il ruolo di potenza di nazioni in grado di
influenzare drasticamente i destini di una vasta regione, dal
Nord Africa al Centro Asia, come dimostrato dalla
partecipazione attiva di Pakistan e Marocco all’accordo di
Sharm el-Sheikh.
per l’Iran di costruire impianti in Paesi da esso controllati,
come l’Iraq, appunto (la messa in funzione della centrale di
Heidarjeh, vicino a Kerbala o quella di Sadr City, fra l’altro
sviluppata con tecnologie e capitali cinesi), o in Yemen, con il
quale ha già un contratto per la costruzione di una centrale
elettrica di 200 megawatt.
Lo Yemen, infatti, sarebbe solo il punto di arrivo di un ampio
circuito tra l’Iran stesso, le comunità sciite dall’Asia centrale
sino a quelle strategiche, c.d. “di controllo”, e posizionate
nei Paesi del Golfo, ossia Bahrein (75% della popolazione è
sciita), Kuwait (35%) e il Qatar (25%). Ecco del perché dei
timori di gran parte del Vicino Oriente circa il risultato di
Losanna e il contemporaneo aumento della conflittualità in
Yemen.
Ecco perché ricondurre sempre e soltanto a obiettivi e
riferimenti economici è una malaconsuetudine
dell’Occidente che non riesce a staccarsi da parametri propri
di una gestione della politica internazionale euroatlantica
tipica del secolo scorso ma che, in quella regione, ha già
mostrato i suoi limiti (come, in ultimo, in Iraq e Siria), per cui
vecchia, perdente e ampiamente superata.
Come da sempre in quella regione, nulla di quanto accade è
assolutamente indipendente da ciò che riguarda i propri
vicini e la constatazione di un rientro e di un maggior
ruolo dell’Iran e della sua influenza sulla scena
internazionale preoccupa i protagonisti regionali più ancora
della presenza violenta e destabilizzante di Da’ish-Isis.
L’esultanza del ministro degli esteri iraniano Jafar Zarif e del
presidente Rohani alla firma del pre-accordo di Losanna, non
ha trovato solo il disappunto israeliano quanto, sebbene
poco o per nulla evidenziato dai media occidentali,
dell’intero mondo sunnita soprattutto moderato, ossia di
coloro che temono ora l’esacerbarsi dei toni del confronto e
il rischio che l’intera regione venga ulteriormente stravolta
dagli estremismi sia sunniti che sciiti, alimentati dagli aneliti
dei falchi del mondo politico iraniano e israeliano.
Perché - è stato evidenziato - tanto entusiasmo iraniano su
un accordo che pone limiti ad un suo programma dal vasto
coinvolgimento politico, economico e finanziario oltreché di
immagine dell’Iran come potenza regionale, e che fino ad
ora è stato per Teheran un’ arma di pressione efficace da
utilizzare nei delicati rapporti anche mondiali, se non vi
fossero concessioni ben più importanti?
Non si tratta di rammaricarsi di un accordo su un tema così
delicato, quanto della constatazione che all’Iran è stato
riconosciuto di rientrare a far parte a pieno titolo del futuro
della regione, illudendosi che la gioia espressa dagli
esponenti politici iraniani fosse per la garanzia, in cambio di
una “buona condotta”, della fine di sanzioni ed embarghi e
per la conseguente possibilità di produrre energia nucleare
a fini civili.
Secondo i più preparati e strenui oppositori di quell’accordo,
si tratterebbe di puro inganno, in quanto non si spiega
perché l’Iran, fra le maggiori potenze energetiche al mondo,
necessiti di energia nucleare a fini civili, così come sono
ormai ben noti i legami economici e commerciali con gran
parte dell’Asia e dell’Estremo Oriente, in particolare la Cina,
per ovviare ai limiti imposti da sanzioni e embarghi
dell’Occidente.
La preoccupazione circa un possibile via libera, seppur
controllato, di centrali nucleari civili, secondo alcuni
commentatori arabi moderati, risiederebbe nella possibilità
Un rientro in grande stile, quindi, dell’ Iran fra le
potenze mondiali, ma soprattutto con il beneplacito degli
Stati Uniti, il nemico storico di Teheran dalla rivoluzione di
fine anni ’70: ed è proprio su quanto promesso da
Washington per giungere a quella bozza di accordi e
sul ruolo statunitense nel gestire il complesso scenario di
crisi mediorientale che si addensano le ombre più cupe e i
timori più che fondati di molti altri protagonisti regionali.
Certamente gli accordi di Losanna sono stati un perfetto
esercizio di diplomazia multipolare, forse il primo e dal
risultato più spettacolare nella nuova era delle relazioni
internazionali del nuovo millennio. Tuttavia, la storia
mediorientale è colma di accordi e road map inverosimili,
studiati e imposti dall’esterno e, pertanto, fallimentari. Non
tutto ciò che è avvenuto nella lunga ed estenuante maratona
diplomatica per il nucleare è stato detto e rivelato: e
concessioni e accordi segreti fanno parte del gioco
diplomatico mediorientale da sempre.
Ciò che, quindi, si teme maggiormente è quanto sia stato
concesso dagli Stati Uniti a un Iran che è diventato, nel
contempo, partner strategico nella guerra contro Da’ish-Isis
in Iraq - e da cui dipende la soluzione del sempre più
complesso scenario siriano - ma anche Paese, secondo gli
Stati Uniti, la cui influenza nella regione deve essere
assolutamente limitata, come nel caso dello Yemen.
Non da meno, infatti, il supporto statunitense alla coalizione
araba sunnita in Yemen e proprio contro le fazioni sostenute
dall’Iran - e al momento della firma dell’accordo già
apertamente dichiarato - evidenzia una duplicità di
comportamento da parte di Washington che non solo non gli
appartiene storicamente, ma soprattutto confonde
ulteriormente e non rassicura affatto chi ha riserve su un
Obama come è apparso sino ad ora, dal post-rivolte arabe
alla guerra siriana, ossia indeciso e inconcludente, se non
addirittura contraddittorio o dannoso nelle sue alleanze.
Troppe volte ormai vengono ricordati i suoi tentennamenti
e incongruenze: dal permettere la degenerazione della
situazione in Libia dopo la caduta di Gheddafi, alla
pressione per la fine di Mubarak, consegnando di fatto il
Paese ai Fratelli Musulmani sostenuti proprio da
Washington tanto da indirizzare ora l’Egitto di al-Sisi verso
Mosca, sino all’affare delle armi chimiche di Assad e il
mancato attacco una volta scoperte le responsabilità dei
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massacri dei civili siriani (criticità risolta dalle pressioni russe
su Damasco affinché consegnasse quelle armi) oppure, a fine
agosto 2014 una volta deciso di intervenire con raid aerei
contro il Da’ish-Isis in Iraq, iniziare l’offensiva senza dare un
nome all’operazione - per la prima volta da parte del
Pentagono dopo l’affare di Panama del 1989 - e solo più
tardi chiamarla superbamente Inherent Resolve, una
definizione che si è rivelata più un desiderio che un risultato
concreto.
Questi almeno sono gli argomenti di chi, in ambito
mediorientale, arabo, turco ed ebraico, esprime riserve su
quanto avvenuto a Losanna, sulla mediazione
dell’amministrazione Obama e soprattutto sulla sua
opportunità e convenienza in questo delicato frangente.
Insomma, oltre all’inaffidabilità di Teheran, costoro temono
la debolezza caratteriale ma anche gestionale del Presidente
statunitense che, sebbene coerente con quanto promesso a
suo tempo all’elettorato americano, tuttavia, non ha
mostrato un temperamento in grado di gestire questa fase
di criticità estrema a cui è giunto uno degli scenari fra i più
complessi al mondo.
Ed è proprio la natura critica di questa crisi - intesa
nell’eccezione derivante dal greco krisis, ossia come
“mutazione” e “passaggio”, in questo caso,
dall’unipolarismo passato proprio statunitense
al multilateralismo futuro nelle relazioni mondiali che, per
alcuni osservatori, sta facendo emergere le gravi carenze di
leadership della potenza americana: lo avrebbero
dimostrato i fallimenti nella gestione regionale del dopo
rivolte arabe, la degenerazione di quelle crisi in guerre civili
sino a conflitti ed emergenze umanitarie senza più confini,
così come nell’allargamento e nel radicamento della
minaccia terroristica, ossia proprio di quella long war su cui
l’amministrazione Obama ha concentrato maggiormente i
suoi sforzi di intervento militare, fra intelligence, droni e
forze speciali. All’indomani degli attacchi alle moschee di
Sana’a molti critici evidenziarono come solo pochi mesi
prima lo stesso Obama avesse solennemente dichiarato che
lo Yemen fosse un esempio della strategia vittoriosa contro il
terrorismo internazionale.
Difficile, per costoro, credere che con l’accordo di Losanna
l’amministrazione americana abbia ritrovato una credibilità
derivante da una capacità gestionale con le caratteristiche
della genialità diplomatica che, invece, con soggetti come
Henry Kissinger era appartenuta alla storia delle relazioni
internazionali degli Stati Uniti.
Al contrario, altri osservatori affermano che Obama stia
agendo in piena coerenza con il suo programma elettorale
del 2008 (porre fine alle “stupide guerre di G.W. Bush”) e
che concretizza la sua dottrina secondo un progetto
innovativo di più ampio respiro.
Ciò avviene, secondo costoro, adeguando gli interventi degli
Stati Uniti agli scenari di crisi, attraverso veri e propri
passaggi di ruoli, repentini ed inimmaginabili, da parte
dell’amministrazione di Washington, ossia talvolta
delegando alle potenze regionali di turno le principali
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decisioni in merito all’intervenire o meno in certe aree
(come la Lega Araba in Yemen, appunto) oppure, al
contrario, sostenendo militarmente i propri nemici storici
come l’Iran nel contrastare minacce comuni come il Da’ishIsis in Iraq e Siria, sino a giocare come grande mediatore per
un accordo come sul nucleare, garantendo di fatto il rientro
dell’Iran come protagonista delle relazioni regionali e
internazionali, ma sottolineando parallelamente
l’indiscutibilità della sicurezza militare per Israele, in una
sorta di mantello garantista e protettivo tutto statunitense a
uno dei temi più complessi, pericolosi e perniciosi la
sicurezza non solo dell’area mediorientale.
Ed è proprio sulle garanzie che si concentrano le maggiori
critiche all’operato dell’amministrazione Obama fino ad ora
incerto e contraddittorio, per cui non affidabile. Difficile,
tuttavia, formulare giudizi, sebbene non si possa non
concordare con commenti, come quello di Daniel Pipes,
secondo cui la dottrina Obama, alla luce del suo operato nel
Vicino Oriente, è simple and universal: warm relations with
adversaries and cool them with friends, e ciò per
compensare moralmente per i suoi precedenti errori.
Tuttavia, è altresì necessario prendere coscienza del grande
mutamento in atto nelle relazioni mondiali, nei caratteri
stessi, sempre più discontinui delle guerre in corso e dei loro
protagonisti, convenzionali e non, come dimostrato dalle
guerre libiche, siriana, irachena e ora yemenita.
Se è vero, come affermava von Clausewitz, che “in guerra
l’unica certezza è l’incertezza” non possiamo pretendere che
in questa lunga e complessa fase di crisi, intesa come
passaggio sanguinario e violento delle relazioni mondiali e
contrassegnata da innumerevoli conflitti, vi siano certezze
esclusive proprie del passato, come la superiorità dei numeri
nei bilanci militari – come sostenuto da Obama - o l’efficacia
di sanzioni economiche – come preteso dall’Unione Europea
-, soprattutto se queste provengono da un mondo
occidentale incapace ad affrontare unitariamente e
coerentemente le grandi sfide imposte dal nuovo corso della
geopolitica globale a causa di una sua condizionata, scarsa
ed inadeguata conoscenza degli scenari attuali e i loro
relativi attori.
[1] Rappresentano il 5% della popolazione di 25 milioni
di abitanti, mentre il 70% è dato da sunniti sciafeiti.
[2] Si parla di una eterogenea fornitura fra missili
balistici, pezzi di artiglieria leggera e anticarro, armi
leggere e supporto alle comunicazioni.
7/4/2015
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