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Il contenzioso in materia immobiliare
Cod.: P15008
Data: 9-11 febbraio 2015
Condominio e terzi creditori
Antonio Scarpa, Ufficio del Massimario, Corte di cassazione
SOMMARIO: 1. PREMESSA – 2. LA MOROSITÀ ULTRASEMESTRALE – 3. III. LE INFORMAZIONI
SULLA MOROSITÀ DOVUTE A CONDOMINI E CREDITORI - IV. CHI SONO I ―CREDITORI‖ E I
―CONDOMINI MOROSI‖ ? - V. L’AZIONE DEL CREDITORE NEI CONFRONTI DEI CONDOMINI IN
REGOLA COI PAGAMENTI – 6. CREDITORI E CONTO CORRENTE CONDOMINIALE – 7.
DELIBERAZIONI DELL’ASSEMBLEA E CREDITORI.
I. Premessa
L’esplicita, per quanto oscura, disciplina della relazione tra condominio e terzi creditori
costituisce un aspetto di oggettiva novità nella Riforma della normativa in materia di
condominio negli edifici, intrapresa con la legge 11 dicembre 2012, n. 220, e poi già
modificata con il decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 145, convertito dalla legge 21
febbraio 2014, n. 9. Dico che si tratta di novità essenzialmente perché nei primi due
commi dell’art. 63 disp. att. c.c. compare il riferimento a questo indistinto ceto dei
creditori, che sovverte il dibattito sull’imputazione dei rapporti correlati alla gestione
degli interessi comuni, in quanto la regolamentazione positiva contenuta begli originari
artt. 1117 e ss. c.c. e 61 e ss. disp. att. c.c. si preoccupava in via esclusiva di normare
diritti ed obblighi correnti soltanto tra i condomini, relegando i contatti tra il
condominio ed i terzi all’area del residuale ius excludendi implicito nella complessa
situazione soggettiva condominiale, di per sé dissolta nel più semplice diritto di
proprietà individuale. E’ questo del legame tra condominio e creditori uno dei contenuti
―nuovi‖ della Riforma del 2012: sta a noi ora comprendere se questo ―nuovo‖ equivalga
ad una ―creazione‖, così manifestandosi la novità assoluta alla quale preesisteva ―il
nulla‖, o se invece esso si riduca in un ―divenire‖, e cioè in una semplice trasformazione
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o elaborazione di un dato già esistente, se non, addirittura, in una mera ripetizione o in
un ingannevole ritorno.
Anche dall’esatta ricostruzione della categoria dei ―creditori‖, cui si rivolge l’art. 63, 1 e
2 comma, disp. att. c.c., discende, invero, la possibilità di superare la tradizionale
configurazione della situazione di condominio edilizio come risolutiva di un problema
di sola attribuzione di beni, sostanziata dalla connessione materiale e dalla relazione di
accessorietà correnti tra le porzioni di proprietà esclusiva e le res comuni. E’ indubbia la
―realità‖ della ―situazione soggettiva di condominio‖, giacché essa si contrassegna
proprio per tale nesso di accessorietà con la proprietà solitaria, nesso che giustifica
l’appartenenza, individua l’oggetto del diritto, ne determina il contenuto e delinea i
caratteri della partecipazione all’organizzazione del gruppo. Rimane tuttavia sempre da
affrontare il problema di individuare chi sia il titolare di questo diritto di condominio,
chi abbia, cioè, i poteri e le facoltà di compiere le azioni necessarie per conseguire dalle
cose condominiali interessi giuridicamente vincolanti, e su chi incombano in via diretta
e primaria i conseguenti obblighi assunti nei confronti dei terzi.
L’individuazione del profilo soggettivo della situazione di condominio è stata, com’è
noto, di recente interessata da una significativa pronuncia delle Sezioni unite della Corte
di Cassazione, proprio alla luce delle novità introdotte dalla legge n. 220 del 2012. Mi
riferisco, evidentemente, a Cass. sez. un. 18 settembre 2014, n. 19663, la quale, nel
riconoscere al solo amministratore (e non anche ai singoli condomini che non siano stati
parte in causa) la legittimazione ad agire per l'equa riparazione in caso di violazione del
termine ragionevole del processo promosso dal condominio, ha affermato in
motivazione che, se pure non è desumibile nella legge n. 220 del 2012 il riconoscimento
della personalità giuridica in favore del condominio, tuttavia non possono ignorarsi gli
elementi (tratti dall’art. 1129, comma 12, n. 4, c.c., dall'art. 1135, n. 4, c.c., e,
soprattutto, dall'art. 2659, comma 1, n. 1, c.c.) ‹‹che vanno nella direzione della
progressiva configurabilità in capo al condominio di una sia pure attenuata personalità
giuridica, e comunque sicuramente, in atto, di una soggettività giuridica autonoma›› (al
riguardo, non sia intesa come un passo indietro rispetto a questa linea evolutiva la
successiva Cass., sez. 3, 7 novembre 2014, n. 23782, la cui massima ufficiale contiene
un’affermazione di principio sull’insussistenza della distinta personalità del
condominio, che appare estranea alla ratio decidendi della sentenza).
Quel che vuol già qui sostenersi, in sede di premessa, è che pure la definizione
concettuale di questa nuova figura dei creditori, cui fanno rinvio i commi 1 e 2 dell’art.
63, disp. att. c.c., dovrebbe indurre gli interpreti ad abbandonare ogni remora nel
ravvisare diritti ed obblighi riferibili al condominio in quante tale, e non invece sempre
e comunque immediatamente imputabili - per l’intero o in proporzione alle rispettive
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quote - a ciascuno dei condomini. Il fenomeno del condominio di edifici non si
esaurisce nella contitolarità delle parti comuni, in quanto regolato da un principio di
organizzazione e di unificazione dell’insieme, che si regge su organi aventi competenze
esclusive, tali da giustificare un proprio meccanismo di imputazione.
Nell’ambito del complesso delle dinamiche condominiali, vi sono certamente posizioni
di natura reale, che vengono per esigenze di semplificazione unitariamente
rappresentate dall’amministratore o gestite dall’assemblea ―nell’interesse comune‖, ma
che non possono mai prevaricare il diritto individuale ―pro quota‖ di ciascun condomino
in ordine alle parti elencate dall’art. 1117 c.c. ; questa indispensabile coesistenza tra
gestione e rappresentanza unitarie e frazionabilità dei poteri sui beni comuni giustifica
anche la concorrente legittimazione processuale riconosciuta altresì ai singoli
partecipanti per le azioni inerenti all’estensione della proprietà condominiale. Da tale
prima cerchia, che comprende tutte quelle situazioni reali le quali necessariamente sono
riferibili in via immediata ad ogni condomino in misura proporzionale al valore dalla
rispettiva quota, esulano, invero, quei rapporti che concernono non i diritti in sé su beni
o servizi comuni, bensì la gestione di essi, in quanto intesi a soddisfare esigenze
soltanto collettive della comunità condominiale. In queste ultime fattispecie, non può
ravvisarsi alcuna correlazione tra l’interesse direttamente comune e l’interesse mediato
esclusivo di uno o più dei partecipanti. Si pensi, ancora, agli obblighi di manutenzione,
riparazione e custodia dei beni di proprietà comune, i quali sono stati individuati come il
―contenuto di una situazione soggettiva che si imputa al condominio come tale ed è
esercitata attraverso i suoi organi‖ (Cass. 8 marzo 2003, n. 3522, in Mass. Giust.
civ. 2003, 497). Sono, peraltro, innumerevoli già da anni le pronunce che configurano il
condominio (per dire, quale committente del contratto d’appalto per la manutenzione
dell’edificio condominiale, o quale contraente assicurato nella polizza per la
responsabilità civile contro i danni a terzi) come parte unica, seppur soggettivamente
complessa, insensibile alle mutazioni delle persone che la compongono, e dunque centro
di imputazione delle posizioni attive o passive nascenti da un determinato programma
contrattuale. Ancor più il sicuro convincimento giurisprudenziale di un’applicazione
estensiva dell’art. 2373 c.c., riguardante il conflitto di interessi del socio nelle
deliberazioni della società per azioni, ai fini del calcolo delle maggioranze assembleari
richieste dall’art. 1136 c.c. , depone per la ravvisabilità di un interesse istituzionale del
condominio stesso, distinto dagli interessi individuali dei singoli partecipanti, fondato
sull’individuazione di un autonomo centro d’imputazione e sulla funzionalizzazione dei
meccanismi deliberativi al perseguimento di uno scopo
comune, con il quale è
incompatibile ogni speciale vantaggio personale.
Di fronte alla ―collettività organizzata‖ condominio, l’interprete non dovrebbe, allora,
avvertire il bisogno di moltiplicare i soggetti, aggiungendo alle persone fisiche dei
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singoli condomini la persona giuridica del condominio, quanto quello di moltiplicare i
rapporti, distinguendo, in base al contenuto ed al regime di legge, quelli che i condomini
intrattengono come singuli da quelli che gli stessi intrattengono come universi.
La Riforma introdotta con la legge n. 220 del 2012 ha, così, incrementato i già cospicui
indici di evidenza normativa di una soggettività attenuata del condominio: alla notevole
rilevanza che in ambito condominiale è attribuita al principio di maggioranza, già di per
sé espressione di autonomia della struttura organizzata, come alla capacità processuale
attiva e passiva conferita all’amministratore, vengono ora ad unirsi altri sintomi
dell’attribuzione di una capacità di diritto patrimoniale al condominio, in forza della
quale questo acquista la titolarità del diritto di proprietà sulle cose comuni dell’edificio
e può rivestire la qualità di parte complessa in rapporti obbligatori assunti nel rispetto
delle regole riguardanti la formazione di volontà del gruppo.
II.La morosità ultrasemestrale
L’art. 1129, comma 9, c.c. obbliga l’amministratore ad agire per la riscossione forzosa
delle somme dovute dagli obbligati entro sei mesi dalla chiusura dell’esercizio nel quale
sia compreso il credito esigibile, a meno che non sia stato espressamente dispensato
dall’assemblea. Questa norma duplica il preesistente art. 1130, n. 3), c.c., secondo il
quale l’amministratore deve riscuotere i contributi ed erogare le spese occorrenti per la
manutenzione ordinaria delle parti comuni dell’edificio e per l’esercizio dei servizi
comuni. Il mancato rispetto del termine di sei mesi dalla chiusura dell’esercizio di
competenza non fa venir meno la legittimazione dell’amministratore ad agire, sia pure
in ritardo, per la riscossione delle somme dovute dai condomini, né opera quale vicenda
estintiva del credito. L’unica conseguenza di un promovimento dell’azione di recupero
dei crediti condominiali oltre il semestre dalla chiusura dell’esercizio di riferimento,
pertanto, non può che essere l’eventuale responsabilità dell’amministratore nei confronti
del condominio (PARINI, 123). D’altro canto, lo stesso art. 1129, comma 9, c.c.
ammette che l’amministratore possa essere espressamente dispensato dall’assemblea
dall’agire per la riscossione entro il ricordato termine: il che, oltre a rimettere
all’assemblea una sostanziale possibilità di derogare ad un’ipotesi tipizzata di revoca
dell’amministratore, permette altresì al collegio dei condomini di ratificare il tardivo
operato dell’amministratore, anche condividendo le ragioni che lo abbiano indotto a non
agire tempestivamente per la condanna dei ritardatari. Così, inoltre, si ribadisce
implicitamente pure come non rientri tra le attribuzioni dell’amministratore il potere di
concedere dilazioni di pagamento ai singoli condomini, senza apposita autorizzazione
dell’assemblea, avendo soltanto questa l’effettiva disponibilità delle vicende
obbligatorie che si riflettono sulle sfere giuridico – patrimoniali individuali. Per la
deliberazione di espressa dispensa ex art. 1129, comma 9, c.c. basta la maggioranza di
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cui ai commi 2 e 3 dell’art. 1136 c.c.: oggetto di essa è, del resto, un mero diritto
obbligatorio (la riscossione delle somme dovute dagli obbligati) e non un diritto reale
dei partecipanti al condominio, sicché può disporne la maggioranza ordinaria per
l’esercizio del potere di rinunciare o di rinviare il promovimento della controversia nei
confronti dei morosi, impegnando tutti i condomini, anche i dissenzienti, in base alla
regola generale enunciata dall'art. 1132 c.c. (cfr. Tribunale Cremona, decreto 19
novembre 2014, in Guida al diritto, 2015, 3, 15 ss.).
Non si ravvisa alcuna coerenza sistematica dell’indicazione di questo termine
semestrale assegnato all’amministratore, decorrente dalla chiusura dell’esercizio di
maturazione del credito, giacché il riferimento al semestre appare più consono allo
statuto delle società di capitali. Per contro, la gestione condominiale viene piuttosto
tutta rapportata alla competenza annuale, visto che l’amministratore è tenuto anno per
anno a predisporre il bilancio preventivo ed a far approvare dall’assemblea il bilancio
consuntivo. Al fine di individuare l’esercizio in cui sia compreso il credito
condominiale, e quindi il dies a quo del termine semestrale, occorre distinguere tra
spese necessarie alla manutenzione ordinaria, alla conservazione, al godimento delle
parti comuni dell’edificio o alla prestazione di servizi nell’interesse comune, e spese
attinenti a lavori che comportino un’innovazione o che comunque comportino, per la
loro particolarità e consistenza, un onere rilevante, superiore a quello inerente alla
manutenzione ordinaria dell’edificio. Nella prima ipotesi, il credito si deve ritenere
sorto non appena si compia l’intervento ritenuto necessario dall’amministratore, e
quindi in coincidenza con il compimento effettivo dell’attività gestionale. Nel caso,
invece, delle opere di manutenzione straordinaria e delle innovazioni, la deliberazione
dell’assemblea, chiamata a determinare quantità, qualità e costi dell’intervento,
assumerebbe altresì valore costitutivo della relativa obbligazione in capo a ciascun
condomino. In forza dell’art. 63, comma 3, disp. att. c.c. — inoltre, la mora nel
pagamento dei contributi condominiali protratta per oltre un semestre legittima
l’amministratore a sospendere al condomino l’utilizzazione dei servizi comuni
suscettibili di godimento separato. Non può condividersi, per l’intrinseca limitazione
delle attribuzioni degli organi condominali, la tesi che reputa che la sospensione dai
servizi condominiali consentirebbe all’amministratore di attuare anche le necessarie
operazioni sugli impianti da eseguirsi all’interno della proprietà esclusiva del
condomino moroso, il quale sarebbe obbligato a tollerare tali attività (v. Trib. Milano,
19 ottobre 1998). Durante il percorso della Riforma, si era anche ipotizzato che i
condomini in ritardo di un semestre nel pagamento dei contributi non avessero più
diritto di voto (sul modello di quanto dispone, ad esempio, l’art. 2466 c.c. per il socio
moroso). Non avendo più previsto una simile conseguenza la legge, è da escludere che
ad identico effetto possa utilmente pervenire una clausola regolamentare, che, del pari,
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faccia discendere dalla morosità del condomino l’inibizione all’esercizio di voto in
assemblea, atteso che una clausola limitativa del diritto di voto del condomino, pur che
intenda muoversi in un àmbito di autonomia negoziale, sembrerebbe alterare lo schema
essenziale della disciplina legislativa del condominio. Non può, invero, porsi in dubbio
che, ai fini del calcolo delle maggioranze necessarie per approvare le delibere, occorra
tener conto di tutti i partecipanti e del valore dell'intero fabbricato, compresi i
condomini morosi. Una soluzione diversa è adottata, ad esempio, in Spagna, dove l’art.
15, comma 2, della legge n. 49 del 21 luglio 1960, stabilisce che i condomini non in
regola coi pagamenti partecipano alla discussione assembleare ma non dispongono del
diritto di voto. E’ vero, d’altro canto, che la sospensione del diritto di voto per le quote
millesimali pignorate potrebbe gravemente pregiudicare la gestione condominiale, ove
si tratti di frazioni notevoli del valore dell’edificio; come sarebbe pericoloso affidare ai
restanti condomini il compito di assumere ogni decisione sulle parti comuni, lasciando
sia il debitore esecutato che il custode in balia della maggioranza.
Nel testo approvato dell’art. 63, comma 3, disp. att. c.c., è altresì scomparso il
temperamento, che era stato fissato in un primo momento durante il percorso
parlamentare della legge n. 220/2012, allorché il potere di sospensione dalla fruizione
dei servizi era così limitato: ―salvo che l’autorità giudiziaria, adita anche in via
d’urgenza, riconosca l’essenzialità del servizio per la realizzazione di diritti
fondamentali della persona e l’impossibilità oggettiva del ricorso a mezzi alternativi‖.
La mancata previsione testuale del criterio di valutazione dell’adeguatezza
dell’iniziativa inibitoria dell’amministratore non impedirà, peraltro, al giudice di
censurare in base ai principi generali la legittimità della stessa, in modo da scongiurare
la lesione o anche la minaccia del diritto alla salute, all’incolumità e all’integrità fisica
dei condomini privati del godimento del servizio condominiale, o di altri loro diritti
soggettivi fondamentali della persona umana, in modo che mai sia oltrepassata quella
soglia minima di solidarietà e di rispetto comunque necessaria e doverosa nella gestione
dei rapporti di condominio.
III.Le informazioni sulla morosità dovute a condomini e creditori
In forza dell’art. 1130, n. 9), c.c., l’amministratore deve fornire al condomino che ne
faccia richiesta attestazione relativa allo stato dei pagamenti degli oneri condominiali e
delle eventuali liti in corso.
A sua volta, il comma 7 del riformulato art. 1129 c.c. sancisce il diritto di ciascun
condomino di chiedere, per il tramite dell’amministratore, di prendere visione ed
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estrarre copia della rendicontazione periodica del conto corrente condominiale, su cui
devono transitare le somme ricevute a qualunque titolo dai condomini o da terzi.
La previsione di cui all’art. 1130, n. 9, c.c. è sostanzialmente in linea con i principi di
tutela dei dati personali elaborati in argomento dal Garante della privacy, in base ai
quali, anche per esercitare i controlli in ordine all’esattezza dell’importo esigibile a
titolo di contributo per la manutenzione delle parti comuni e per l’esercizio dei servizi
comuni, ciascun partecipante dovrebbe poter essere informato in ordine all’ammontare
della somma dovuta dagli altri. Tali informazioni potranno essere trattate dai
condomini, vantando gli stessi un legittimo interesse non soccombente rispetto a quello
degli interessati cui si riferiscono i dati, ai sensi dell’art. 24, comma 1, lett. g), del d.lgs.
30 giugno 2003, n. 196 (c.d. Codice in materia di protezione dei dati personali).
Possono, quindi, formare oggetto di trattamento, per le menzionate finalità di
amministrazione del condominio, pure dati giudiziari, nella misura indispensabile al
perseguimento delle medesime finalità.
Un diritto dei singoli condomini alla conoscenza delle eventuali situazioni individuali di
morosità nella riscossione dei contributi può discendere pure dall’obbligo di rendiconto,
cui è tenuto l’amministratore in forza del contratto di mandato che intercorre con il
gruppo, obbligo che, tuttavia, concerne necessariamente la specificazione non dei dati
personali degli inadempienti, quanto dei dati meramente contabili delle entrate, delle
uscite e del saldo finale, nonché di tutti gli elementi di fatto funzionali
all’individuazione ed al vaglio delle modalità di esecuzione dell’incarico, onde stabilire
se l’operato dell’amministratore si sia adeguato, o meno, a criteri di buona
amministrazione. Se, pertanto, il rendiconto annuale costituisce la modalità di
comunicazione dell’amministratore tipicamente destinata a rendere edotti i singoli
condomini degli eventuali inadempimenti di altri partecipanti, questo non è un
contenuto irrinunciabile del rendiconto, ben potendo l’assemblea validamente approvare
un bilancio di gestione che non presenti, in realtà, alcuna analitica indicazione dei
nominativi dei condomini morosi nel pagamento delle quote condominiali e dei
corrispondenti importi da ciascuno dovuti, purché le poste attive e passive risultino
comunque correttamente iscritte nel loro importo (v. Cass., 28 gennaio 2004, n. 1544).
Dunque, alla stregua della Riforma, qualsiasi condomino può rivolgere espressa
richiesta all’amministratore circa la situazione di morosità degli altri partecipanti; non
occorre, in tal caso, premunirsi del consenso espresso, libero, specifico e documentato
per iscritto (art. 23 del d.lgs. n. 196/2003) dei condomini inadempienti interessati. La
scelta di obbligare normativamente l’amministratore a fornire ―al condomino che ne
faccia richiesta attestazione relativa allo stato dei pagamenti degli oneri condominiali e
delle eventuali liti in corso‖ è implicata dalla soluzione, adottata nel comma 2 dell’art.
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63 disp. att. c.c., per la quale ―i creditori non possono agire nei confronti degli obbligati
in regola con i pagamenti, se non dopo l’escussione degli altri condomini‖.
Ciò detto quanto agli obblighi interni al rapporto di mandato corrente tra amministratore
e condomini, l’art. 63, comma 1, disp. att. c.c. dispone invece che l’amministratore è
altresì tenuto a comunicare ai creditori non ancora soddisfatti che lo interpellino i dati
dei condomini morosi. Si delinea così un obbligo di cooperazione con il terzo creditore,
posto direttamente dalla legge in capo all’amministratore ed esulante dai contenuti del
programma obbligatorio interno al rapporto di mandato corrente tra condomini ed
amministratore. Se l’amministratore è tenuto a comunicare al creditore i dati dei
condomini morosi, l’eventuale sua inerzia diviene sanzionabile. Si tratta per
l’amministratore di un dovere legale di salvaguardia dell’aspettativa di soddisfazione
dei terzi titolari di crediti derivanti dalla gestione condominiale.
Per la liceità della comunicazione dei dati relativi ai condomini morosi in favore dei
terzi creditori, ora così imposta dall’art. 63, comma 1, disp. att. c.c., non occorrerà più,
quindi, verificare la sussistenza o del consenso del condomino interessato, o della causa
di esonero dal consenso, ex art. 24, lett. f), del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, prevista
per le ipotesi di trattamento volto a far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria.
La superfluità del consenso dei condomini inadempienti al trattamento dei loro dati
personali discende, infatti, dalle prime due cause di esonero contemplate dal citato art.
24 (v. Cass., 23 gennaio 2013, n. 1593; Cass., 4 gennaio 2011, n. 186).
La Riforma non obbliga, invece, l’amministratore, altrettanto esplicitamente, a fornire al
creditore i nomi e le quote dei condomini in regola con i pagamenti, cui quello potrà
rivolgersi dopo l’inutile escussione dei morosi. Ai fini del riscontro del limite di liceità
abitualmente prescritto dall’Autorità Garante in materia di trattamento di dati personali
nell’àmbito dell’amministrazione di condomini, non rivela alcuna funzionalizzazione
allo svolgimento delle attività di gestione ed amministrazione delle parti comuni la
comunicazione che coinvolga i partecipanti regolarmente adempienti. L’informazione
rivolta al creditore dei nomi e delle quote dei condomini ―in regola‖ esula, pertanto,
degli obblighi legali e contrattuali dell’amministratore, ed impone, perciò, il consenso,
ex art. 23 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196. Può in tal caso, soltanto farsi salva l’ipotesi
di esonero dal consenso di cui alla lett. f) dell’art. 24 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196,
volto a favorire la tutela giudiziaria di un diritto.
Dovrà tenersi conto delle prescrizioni più volte indicate dal Garante per la protezione
dei dati personali, relative alle operazioni di trattamento di dati personali effettuate
nell’àmbito delle attività connesse all’amministrazione dei condomini. Alla luce del
principio di liceità, di cui all’art 11 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, possono, invero,
formare oggetto di trattamento da parte dell’amministratore di condominio (quale
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responsabile del trattamento, ai sensi degli artt. 4, comma 1, lett. g, e 29 del medesimo
Codice), le sole informazioni personali pertinenti e necessarie rispetto allo svolgimento
delle attività di gestione ed amministrazione delle parti comuni ed idonee a determinare
le posizioni di dare ed avere dei singoli partecipanti, siano essi proprietari o usufruttuari
(v., al riguardo, il Vademecum ―Il condominio e la privacy‖ del 10 ottobre 2013; il
provvedimento del Garante 19 maggio 2006; Cass., 4 gennaio 2011, n. 186).
IV.Chi sono i “creditori” e i “condomini morosi” ?
I primi due commi dell’art. 63 disp. att. c.c. poggiano i loro diversi regimi sostanziale e
processuale su diversità di condizioni soggettive solo apparentemente univoche: vi si
parla di ―creditori non ancora soddisfatti‖, di ―condomini ―morosi‖, di ―obbligati in
regola con i pagamenti‖, ma le differenze che da tali nozioni discendono in termini di
titolarità di diritti e di obblighi, e di conseguenti legittimazioni processuali, chiamano
l’interprete a tentare di fare chiarezza. La nozione di ―condomino moroso‖ torna,
invero, nel comma 4 dell’art. 63 disp. att. c.c., prima analizzato, e qui viene identificata
con la situazione in cui versa l’obbligato la cui mora nel pagamento dei contributi ―si sia
protratta per un semestre‖; manca, tuttavia, una definizione univoca, sull’esempio di
quanto fa, ad esempio, il codice civile per delineare la figura del socio moroso
nell’eseguire il pagamento della quota di capitale sottoscritta. Ora, i creditori, di cui ai
primi due commi dell’art. 63 disp. att. c.c. (categoria del tutto nuova per la disciplina
codicistica delle relazioni condominiali), non sono certamente i creditori personali di
uno o più partecipanti, ma, piuttosto, i creditori del condominio in quanto tale, avendo
riguardo unicamente ai rapporti di gestione di interesse comune. Occorre considerare
come, ogni qual volta l’amministratore contragga con un terzo, coesistono distinte
obbligazioni, concernenti, rispettivamente, l’intero debito e le singole quote, facenti
capo la prima al condominio, rappresentato appunto dall’amministratore, e le altre ai
singoli condomini, tenuti in ragione e nella misura della partecipazione al condominio ai
sensi dell’art. 1123 c.c. Le diverse azioni di adempimento — quelle nei confronti del
condominio, e per l’intero debito, in via diretta, e quelle, invece, pro quota, verso i
singoli condomini — possono essere proposte anche cumulativamente, fondandosi su
diversi presupposti: ovvero, rispettivamente, il contratto che lega il condominio al terzo
creditore e l’obbligo ex lege gravante sui singoli condomini di contribuire alle spese
comuni. Come si vedrà nelle prossime pagine, l’art. 63, comma 2, disp. att. c.c., pone a
presidio degli obblighi pro quota gravanti sui singoli un meccanismo di beneficio di
escussione in favore di coloro che siano in regola coi pagamenti.
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Inoltre, agli effetti sempre dei commi 1 e 2 dell’art. 63 disp. att. c.c. (obbligo di
comunicazione dei dati e sussistenza, o meno, del beneficium excussionis), e dunque nel
rapporto con il terzo, possono intendersi “condomini morosi” (e di conseguenza,
all’opposto, ―obbligati in regola coi pagamenti‖), quei partecipanti che non abbiano
versato (ovvero, che abbiano pagato) all’amministratore la loro quota di contribuzione
alla spesa necessaria per il pagamento di quel creditore: anche se il condomino sia in
ritardo nell’adempimento di debiti condominiali derivanti da distinte annualità di
gestione o da distinte delibere di approvazione, lo stesso non può ritenersi debitore per
un’unica causa, ma per una pluralità di rapporti di obbligatori, aventi titoli differenti,
tant’è che gli spetta la facoltà di imputazione riconosciuta dall’art. 1193 c.c. (v. Cass.,
28 febbraio 2013, n. 5038). Diverso, giacché apparentemente sganciato dallo specifico
titolo del maturato debito per i contributi (e, dunque, dalla correlazione della mora con
la fruizione di quel determinato servizio condominiale che si intenda sospendere) è,
invece, il concetto di ―condomino moroso‖ di cui all’art. 63, comma 3, disp. att. c.c.
Da quando il condomino può intendersi “moroso”? Sin dal momento di esigibilità di
quella spesa derivante dal vincolo obbligatorio contratto con il terzo? O assume rilievo,
anche nei confronti del terzo creditore, l’ultrasemestralità della mora nel pagamento,
come ai fini della sospensione dalla fruizione dei servizi comuni (art. 63, comma 3,
disp. att. c.c.) o dell’obbligo di agire per la riscossione dell’amministratore (art. 1129,
comma 9, c.c.)?
Occorre considerare come il debito per le spese condominiali sia soggetto alle generali
regole delle obbligazioni pecuniarie, contenute negli artt. 1182, comma 3, e 1277,
comma 1, c.c., per le quali le obbligazioni aventi per oggetto somme di danaro devono
adempiersi al domicilio del creditore e con moneta di corso legale (salva l’applicabilità
dell’art. 15, comma 4, del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito dalla l. n. 221/2012,
che impone anche all’amministratore condominiale, in quanto soggetto che effettua
attività di prestazione di servizi professionali, di accettare altresì pagamenti effettuati
attraverso carte di debito). In questa prospettiva, nell’esercizio dei suoi poteri di
rappresentanza, compresi quelli correlati alla gestione amministrativa del condominio,
quale, appunto, la riscossione dei contributi, l’amministratore è da reputarsi domiciliato
nel luogo od ufficio a ciò specificamente destinato nell’àmbito dell’edificio o degli
edifici in condominio. In difetto, il domicilio del condominio, che non ha una sua sede
nel senso previsto dall’art. 46 c.c., coincide con quello della persona fisica
dell’amministratore che lo rappresenta (v. Trib. Salerno, 8 giugno 2010). Ai fini
dell’applicabilità dell’appena richiamato art. 1182, comma 3, c.c., occorre convenire
sulla premessa che l’obbligazione di pagamento delle spese condominiali è
un’obbligazione ―portabile‖, in quanto ha per oggetto una somma di danaro già
determinata nel suo ammontare, o comunque determinabile in base ad un semplice
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calcolo aritmetico, sicché la mora del singolo condomino debitore si determina, ai sensi
dell’art. 1219, comma 2, n. 3), c.c.,
alla scadenza del termine in cui il pagamento deve essere eseguito (mora ex re).
Tuttavia, diversamente la giurisprudenza, quanto alla decorrenza della prescrizione
stabilita dall’art. 2948, n. 4), c.c., correla l’esigibilità del credito in ogni caso alla data di
approvazione del rendiconto e del relativo stato di riparto (v. Cass., 25 febbraio 2014, n.
4489; Cass., 5 novembre 1992, n. 11981).
Fin quando il “condomino moroso” rimane “moroso”? Cosa avviene, cioè, se,
comunicati dall’amministratore al creditore i dati del condomino a quella data moroso,
quest’ultimo poi provveda a pagare nelle mani del primo le quote arretrate quando,
semmai, il creditore abbia ormai intrapreso la sua azione diretta verso l’originario
inadempiente?
E come è da qualificare (―moroso‖ o ―obbligato in regola con i pagamenti‖) il
partecipante che avesse versato direttamente nelle mani del creditore del condominio,
privo di titolo esecutivo, la sua quota di contribuzione alla spese (v., in proposito, Cass.,
17 febbraio 2014, n. 3636)? Questi certamente è ancora in mora nel pagamento dei
contributi condominiali, eppure ha soddisfatto quale debito pro quota che tanti scrivono
lo leghi direttamente al terzo creditore.
Non potrebbe certo sostenersi, in ogni caso, che la condizione di morosità del
condomino, convenuto dal creditore senza sobbarcarsi la preventiva escussione degli
altri morosi, debba sussistere soltanto al momento dell’introduzione del giudizio,
incidendo, essa, piuttosto, sul diritto del terzo ad ottenere una sentenza di condanna,
sicché è indispensabile che la stessa permanga nel momento in cui la lite viene decisa.
IV. L’azione del creditore nei confronti dei condomini morosi
I primi commenti alla Riforma del condominio non sembrano disposti ad abbandonare il
presupposto assiomatico, su cui radicano pure i primi due commi dell’art. 63 disp. att.,
c.c., della diretta riferibilità ai singoli condomini delle obbligazioni assunte
dall’amministratore nell’àmbito delle sue attribuzioni e nell’adempimento degli
obblighi di mandato a lui affidati dal condominio mandante (v. Cass., 17 aprile 1993, n.
4558; Cass., 14 dicembre 1982, n. 6866; Cass., 21 marzo 1979, n. 1626; Cass., 11
novembre
1971, n. 3235).
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Deve invece assumersi che il singolo condomino non è titolare di alcun credito e di
alcun debito di natura sinallagmatica nei confronti del terzo contraente prescelto
dall’amministratore o dall’assemblea. L’obbligo di pagamento degli oneri condominiali
da parte del singolo partecipante ha causa immediata nella disciplina del condominio,
e cioè nelle norme di cui agli artt. 1118 e 1123 ss. c.c. (che fondano il regime di
contribuzione alle spese per le cose comuni) e non in un rapporto contrattuale con il
terzo, rapporto che obblighi una controparte ad una controprestazione.
Così come il condomino non è legittimato ad agire direttamente contro il terzo per
ottenere l’adempimento dell’obbligazione che questi abbia contratto nei confronti del
condominio, dovrebbe venir parimenti facile negare al terzo, creditore della gestione
condominiale, la legittimazione ad agire, in via diretta, nei confronti dei singoli
condomini.
La stessa giurisprudenza ha chiarito che l’obbligo del singolo partecipante di pagare al
condominio le spese dovute e le vicende debitorie del condominio verso i suoi
appaltatori o fornitori rimangono del tutto indipendenti. Tant’è che il condomino non
può ritardare il pagamento delle rate di spesa in attesa dell’evolvere delle relazioni
contrattuali tra condominio e soggetti creditori di quest’ultimo, né può utilmente
opporre all’amministratore che il pagamento sia stato da lui effettuato direttamente al
terzo, in quanto, si assume, ciò altererebbe la gestione complessiva del condominio:
sicché il singolo deve sempre e comunque pagare all’amministratore, salva l’insorgenza,
in sede di bilancio consuntivo, di un credito da rimborso per gli avanzi di cassa residuati
(così Cass., 29 gennaio 2013, n. 2049). Se, dunque, il pagamento effettuato dal singolo
condomino direttamente nelle mani del terzo creditore del condominio non libera il
solvens nei confronti dell’amministratore, esso deve configurarsi come un indebito
soggettivo ex latere accipientis, in quanto il debito di colui che ha eseguito il
versamento esiste, ma non verso colui che lo ha ricevuto; e, per converso, questo
significa pure che il terzo, appaltatore o fornitore, non è titolare di un credito diretto
verso il singolo condomino e non dovrebbe avere legittimazione primaria ad agire nei
confronti di quest’ultimo. Il concetto della legittimazione processuale ad agire o
contraddire è notoriamente correlato al potere sostanziale di disporre ed obbligarsi. Non
basta evidenziare che sussiste un concreto interesse del terzo creditore ad agire a tutela
delle proprie ragioni nei confronti del singolo partecipante: occorre che tale interesse si
soggettivizzi in capo al medesimo creditore ed al condomino debitore. Poiché il singolo
condomino non può, di regola, disporre del rapporto intercorrente con il creditore della
gestione collettiva, non avendone ―competenza dispositiva‖, egli non deve avere
nemmeno la correlata legitimatio ad causam.
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Sempre la giurisprudenza (v. Cass., 17 febbraio 2014, n. 3636) ha affermato il principio
secondo il quale, ponendosi il condominio, nei confronti dei terzi, come soggetto di
gestione dei diritti e degli obblighi dei singoli condomini attinenti alle parti comuni,
l’amministratore di esso assume la qualità di necessario rappresentante della collettività
dei condomini, e ciò sia nella fase di assunzione degli obblighi verso i terzi per la
conservazione delle cose comuni, sia, all’interno della medesima collettività
condominiale, in quanto unico referente dei pagamenti ad essi relativi; se ne è fatta
discendere la conclusione secondo cui il pagamento diretto eseguito dal singolo
partecipante a mani del creditore del condominio non è idoneo ad estinguere il debito
pro quota dello stesso relativo ai contributi ex art. 1123 c.c., a meno che il terzo
creditore non si sia già munito di titolo esecutivo nei confronti del singolo condomino.
Se allora il pagamento al terzo creditore deve indispensabilmente avvenire per il tramite
dell’amministratore, dovrebbe per minima coerenza negarsi che il singolo condomino
sia immediato debitore di quello, facendosi salva l’ipotesi in cui il terzo si sia ormai
premunito di un titolo esecutivo verso quel determinato partecipante. Ove si ritenesse
ancora che ciascun condomino sia direttamente obbligato verso il creditore della
gestione condominiale, non si potrebbe obliterare l’interesse di quel debitore ad
adempiere spontaneamente pro quota nelle mani del terzo, in modo da procurarsi la
liberazione dal vincolo anche invito creditore, senza dover attendere, per assurdo, che
questi consegua dapprima un titolo esecutivo, con modificazione aggravativa del debito
(in relazione alla maturazione degli accessori), contrasto con il principio di correttezza e
buona fede, nonché lesione del principio costituzionale del giusto processo,
traducendosi l’ineliminabile soggezione del condomino alla domanda giudiziale del
terzo, diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria, in un abuso degli strumenti
processuali che l’ordinamento offre alla parte pur sempre nei limiti di una corretta tutela
del suo interesse sostanziale.
Ai terzi creditori potrebbe dirsi accordata soltanto un’azione surrogatoria, ex art. 2900
c.c., in luogo dell’amministratore, rimasto inerte nell’adempiere al suo dovere di
riscossione. L’art. 63, comma 1, disp. att. c.c. va correlato all’art. 1129, comma 9, c.c.,
il quale — come visto — vincola l’amministratore ad agire per la riscossione forzosa
delle somme dovute dai singoli condomini obbligati entro sei mesi dalla chiusura
dell’esercizio annuale in cui sia maturata la spesa. Quella nei confronti dei morosi si
configurerebbe come azione surrogatoria, giacché diretta appunto a consentire al terzo
creditore della gestione condominiale di prevenire e neutralizzare gli effetti negativi che
possano derivare alle sue ragioni dall’inerzia del condominio debitore, il quale, in
persona dell’amministratore a tanto deputato, ometta di esercitare le opportune azioni
dirette alla riscossione delle somme dovute dai condomini inadempienti, e perciò non si
curi di incrementare il suo patrimonio. Se tale sia la corretta ricostruzione della nuova
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fattispecie, qualora l’amministratore non risulti più inerte, per aver posto in essere
comportamenti idonei e sufficienti a far ritenere utilmente intrapreso il recupero delle
somme dovute dai morosi, verrebbe a mancare il presupposto perché a lui possa
sostituirsi il creditore. Può essere significativo ricordare come una versione provvisoria
del comma 1 dell’art. 63 disp. att. c.c., poi abbandonata nel corso dell’iter della
Riforma, obbligasse l’amministratore ―a comunicare ai creditori del condominio non
ancora soddisfatti‖ anche ―l’eventuale ricorso a strumenti coattivi di riscossione ai sensi
dell’articolo 1129, nono comma, del codice‖ civile.
La legittimazione primaria dell’amministratore di condominio ad incassare le somme
dovute dai partecipanti e la legittimazione derivativa, o secondaria, del terzo ad agire
nei confronti dei morosi, in forza del trasferimento surrogatorio offertogli dall’art. 63,
comma 2, disp. att. c.c. vanno, del resto, necessariamente coordinate fra loro, ad evitare
che il singolo possa essere destinatario di un’inammissibile duplicazione di condanne, e
perciò di titoli esecutivi, l’una verso il condominio, l’altra verso il creditore. Dunque,
l’inerzia ultrasemestrale dell’amministratore nel riscuotere i contributi dovuti dai
condomini potrebbe intendersi variamente considerata nella l. n. 220/2012: essa
sembrerebbe delineare il presupposto dell’inerzia indispensabile per l’esercizio
dell’azione surrogatoria intentata dal terzo creditore nei confronti dei morosi, i cui dati
l’amministratore deve comunicargli; rappresenta, poi, un’esemplificazione di grave
irregolarità che legittima la revoca giudiziale dell’amministratore, ai sensi dell’art.
1129, comma 12, n. 6), c.c., ove lo stesso abbia ―omesso di curare diligentemente
l’azione e la conseguente esecuzione coattiva‖; può, infine, generare una responsabilità
dell’amministratore nei confronti del medesimo terzo creditore. Sia chiaro che il testo
dell’art. 63 disp. att. c.c. non contiene alcuna espressa qualificazione dell’azione del
terzo creditore nei confronti dei morosi come azione surrogatoria: a ciò si perviene
unicamente sulla base della configurazione della struttura del rapporto obbligatorio
corrente tra il creditore e il condominio, del convincimento di una distinta ed autonoma
imputazione dello stesso alla collettività organizzata, piuttosto che a ciascuno dei
membri di quest’ultima, e delle opportunità che disvela siffatta ricostruzione come
azione surrogatoria rispetto a numerose esigenze della pratica. Il creditore, ad esempio,
a norma dell’art 2900, comma 2, c.c., dovrebbe citare anche l’amministratore del
condominio al quale intenda surrogarsi, stanti il litisconsorzio necessario fra creditore,
condomino inadempiente e condominio, nonché l’inscindibilità della causa a cui i tre
devono partecipare; gravi sarebbero, altrimenti, i pregiudizi che il condominio subirebbe
ove si formasse, in sua assenza, un giudicato di accertamento negativo del debito di
contribuzione alle spese del partecipante moroso, così come, per converso, il moroso,
debitor debitoris, si troverebbe, in mancanza dell’integrazione del contraddittorio, ad
ottenere un’eventuale vittoria nel processo interpreso dal terzo creditore che non lo
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rassicurerebbe dal rischio di essere nuovamente convenuto dall’amministratore per il
pagamento di quelle stesse spese. Troverebbe, inoltre, applicazione l’art. 23 c.p.c., il
quale introduce un foro speciale esclusivo ed attribuisce la competenza per territorio al
giudice del luogo in cui si trova l’immobile condominiale anche per le liti inerenti al
pagamento dei contributi relativi alle cose comuni, in quanto il terzo creditore, che
agisca in surroga nei confronti del moroso in luogo dell’amministratore di condominio,
proprio debitore, esercita il medesimo diritto di credito che sarebbe spettato a
quest’ultimo. Si è autorevolmente detto di recente che la riferibilità diretta dei debiti
condominiali ai singoli partecipanti sia imposta ancora dalla carenza di personalità
giuridica del condominio (TRIOLA 2014, 212). Ora, a parte i tanti sintomi di evidenza
normativa di una soggettività nel condominio presenti nella Riforma del 2013, ed a
parte i chiari segnali di entificazione del condominio stesso che provengono (forse,
però, non del tutto consapevolmente) dalla stessa giurisprudenza, non sembra decisivo,
per smentire l’autonoma imputazione del rapporto obbligatorio al condominio,
individuare, o meno, in questo una persona, un soggetto, un ente diverso da quello dei
singoli partecipanti. Quel che appare, invece, determinante, è verificare se il rapporto
obbligatorio assunto dall’amministratore di condominio o deliberato dall’assemblea
abbia davvero lo stesso identico contenuto dell’obbligazione individuale dei singoli; o
se, per contro, esso non sia sottoposto ad uno speciale regime normativo. Mi pare che
soltanto ostacoli di ordine concettuale impediscono di ravvisare nell’obbligazione della
collettività condominiale qualcosa di essenzialmente diverso da altrettante obbligazioni
solidali o parziarie riferibili ai singoli condomini. Indagando, in particolare, l’aspetto
della fattispecie procedimentale di formazione dei contratti che obbligano il
condominio, se da un lato si ricava conferma del tratto unificante postulato dal principio
di organizzazione dell’insieme dei partecipanti, dall’altro ci si convince che la fonte
costitutiva delle obbligazioni contrattuali, di volta in volta assunte per la gestione delle
cose comuni, non risiede comunque nell’accordo tra i condomini, né nella delibera
dell’assemblea (la quale resta elemento esterno al contratto concluso con il terzo). Ora,
ad una tale unitarietà della fattispecie obbligatoria dovrà, per coerenza sistematica,
corrispondere una equipollente unitarietà sotto il profilo degli effetti e dei rapporti che
dagli stessi contratti condominiali derivano. In tal senso, si può negare che
l’obbligazione contratta in nome e per conto del condominio dia luogo ad una pluralità
di debiti e di crediti, tanti quanti sono i singoli condomini, individuando, per contro, in
essa un rapporto unico, ovvero il ―contenuto di una situazione soggettiva che si imputa
al condominio come tale ed è esercitata attraverso i suoi organi‖ (così Cass., 8 marzo
2003, n. 3522). Ciò già permette di ravvisare nel condominio una autonoma ―parte
negoziale‖, intesa come centro di imputazione delle posizioni attive o passive nascenti
dal contratto concluso per la gestione delle parti comuni, avente carattere
soggettivamente complesso, e perciò insensibile alle mutazioni attinenti ai soggetti che
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la costituiscono; riflettendosi tale insensibilità anche sulle rispettive posizioni
obbligatorie che dal contratto derivano.
Si aggiunge criticamente dalla stessa dottrina che il comma 2 dell’art. 63 disp. att. c.c.
parla di ―obbligati in regola con i pagamenti‖, sicché questo confermerebbe che i
condomini siano, appunto, obbligati nei confronti dei terzi creditori; in verità, questa
norma non dice ―verso chi‖ quelli siano obbligati, e potrebbe comunque intendersi
―obbligati‖ verso il condominio, visto che di ―obbligati‖ parlano pure, e proprio in
questa direzione, l’art. 1129, comma 9, c.c. e l’art. 63, comma 5, disp. att. c.c. D’altro
canto, sembra significativo, esattamente all’inverso, che la norma diversifichi il grado di
meritevolezza delle aspettative del terzo creditore facendo riferimento a due
denominazioni (‖morosi‖ ed ―obbligati in regola coi pagamenti‖) che hanno senso
soltanto nei confronti della gestione condominiale, e nulla affatto nei confronti di quel
terzo; anzi, la diretta riferibilità del rapporto obbligatorio ai singoli condomini, che si
vuole confermare secondo la tradizionale interpretazione, dovrebbe indurre a definire
tutti i partecipanti come unanimemente morosi rispetto al creditore insoddisfatto. È
giusto notare che l’art. 63, comma 1, disp. att. c.c. non qualifica per nulla l’azione come
surrogatoria; ma è altrettanto giusto che questa norma neppure prevede un’azione diretta
del creditore verso i morosi, anzi non dice proprio a che scopo l’amministratore debba
comunicare al terzo i dati degli inadempienti. E se inutile sarebbe stato ribadire in tale
sede quel che già consentirebbe l’art. 2900 c.c., tanto più inutile risulterebbe aver
riaffermato l’esistenza di una banale azione diretta, fondata su una legittimazione
creditoria primaria. Infine, è vero che, di regola, la surrogatoria è data al creditore per
agire verso i terzi al fine di acquisire al patrimonio del debitore inerte risultati utili; non
mancano però opinioni che ritengono il creditore surrogante legittimato a ricevere per sé
la prestazione altrimenti spettante al debitore surrogato, quel che appunto sarebbe
consentito al creditore del condominio.
V. L’azione del creditore nei confronti dei condomini in regola coi pagamenti
All’azione attribuita al creditore nei confronti dei condomini morosi, il comma 2
dell’art. 63 disp. att. c.c. somma una legittimazione del medesimo creditore ad agire nei
confronti dei condomini che siano in regola con i pagamenti, dopo, però, l’escussione
degli altri condomini.
Vista la formulazione della norma in esame, ha sinceramente poco senso chiedersi
ancora oggi se i debiti contratti con i terzi dal condominio per il godimento di beni e
servizi comuni abbiano attuazione solidale o parziaria nei confronti dei singoli
condomini.
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È affermato in maniera ineludibile che l’obbligo di pagamento delle quote dovute dai
morosi, posto in capo ai condomini in regola nella contribuzione alle spese, vada
subordinato alla preventiva escussione di questi ultimi. Sembra certamente impossibile
sostenere che gli uni e gli altri (cioè, i morosi e i condomini in regola) siano condebitori
solidali in senso proprio per la totalità della medesima prestazione (secondo la nozione
spiegata dall’art. 1292 c.c.) a vantaggio del creditore. Poiché la Riforma ha voluto che i
creditori possano agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti dopo
soltanto l’escussione degli altri condomini, non può intendersi che l’obbligazione di
gestione condominiale sia vista dal legislatore come vicenda costitutiva dell’insorgenza
del debito di una stessa prestazione per l’intero a carico dei partecipanti al condominio,
restando salvi i criteri di ripartizione ex art. 1123 c.c. nei soli rapporti interni fra
condomini. Semmai, l’obbligo sussidiario di garanzia del condomino solvente risulta
limitato in proporzione alla rispettiva quota del moroso, secondo un criterio di ―doppia
parziarietà‖.
Si è diversamente sostenuto che ―la regola delle obbligazioni dei condomini è la
parziarietà, ribadita dal meccanismo dell’art. 63 citato, per cui l’escussione del singolo
nei limiti della quota costituisce il necessario presupposto per il recupero del residuo‖,
ma nel senso che i condomini solventi sarebbero tenuti a pagare ―soltanto quanto non è
stato corrisposto: vale a dire, quanto risulta dalla sottrazione tra l’intero dovuto [da tutti]
e l’ammontare già sborsato [da lui e dagli altri condebitori]‖ (così CORONA 2013,
148). Questa ricostruzione, tuttavia, rivelerebbe un’obbligazione che nasce parziaria, ma
che poi, ove si verifichi l’inadempimento di uno dei condomini al proprio debito pro
quota, si trasforma in solidale per i soli condomini in regola con i pagamenti, tenuti
all’intero ―residuo‖.
Si è anche affermato che il condomino in regola con i pagamenti risponda del debito dei
condomini morosi non per intero, ma solo nei limiti della propria quota (TRIOLA 2014,
210). La tesi non appare convincente, poiché l’obbligo posto a carico del condomino in
regola discende da un’autonoma garanzia ex lege, che non ha la natura delle spese
regolate dall’art. 1123, comma 1, c.c., in ragione della quota come conseguenza
dell’appartenenza in comune delle cose, degli impianti e dei servizi.
L’art. 63, comma 2, disp. att., c.c., configura, in capo ai condomini che abbiano
regolarmente pagato la loro quota di contribuzione alle spese condominiali, ed in favore
del terzo che sia rimasto creditore (per non avergli l’amministratore versato l’importo
necessario a soddisfarne le pretese), un’obbligazione sussidiaria ed eventuale, favorita
dal beneficium excussionis, avente ad oggetto non l’intera prestazione imputabile al
condominio, quanto unicamente le somme dovute dai morosi. Condomini morosi e
condomini solventi, pur essendo condebitori responsabili verso il terzo creditore per il
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saldo dovuto, si trovano in posizione non paritetica, sussistendo una graduazione in
ordine al relativo pagamento.
Non è stata quindi affatto superato, e semmai data per scontata dalla l. n. 220/2012, la
ricostruzione operata da Cass. S.U., 8 aprile 2008, n. 9148, secondo la quale — com’è
noto — non avendo la solidarietà tra i condomini per i debiti nei confronti dei terzi
alcun fondamento normativo, e prevalendo, anzi, al riguardo l’intrinseca parziarietà
dell’obbligazione, il creditore avrebbe potuto procedere all’esecuzione individualmente
nei confronti dei singoli condomini soltanto nei limiti della rispettiva quota di ciascuno
e giammai per l’intero.
Si insegna che il debitore sussidiario — sia quando risulti vincolato ad eseguire una
prestazione diversa da quella dovuta dall’obbligato principale, sia quando debba
adempiere la stessa prestazione inutilmente attesa dal debitore principale — è sempre da
considerarsi come tenuto ad un’obbligazione del tutto autonoma e distinta da quella
principale. La sussidiarietà è, del resto, eccezione rilevante alla regola posta dall’art.
1292 c.c., in quanto il creditore, pur in presenza di più debitori responsabili per l’intera
prestazione da lui vantata, non può indifferentemente rivolgersi ad uno qualsiasi di loro
per chiedere l’adempimento della totalità. ―Quando la legge dice che il creditore può
pretendere l’intero da ciascun debitore, in ciò è implicito anche che il creditore può
scegliere liberamente il debitore a cui rivolgersi per primo‖ (RUBINO, 163; v. anche
AMORTH, 14; BUSNELLI, 60; MAZZONI, 612). L’obbligo del debitore sussidiario,
pur avendo contenuto identico a quello del debitore principale, funziona essenzialmente
come strumento di garanzia del diritto del creditore nei confronti di quest’ultimo, e
soltanto perciò, una volta adempiuto il primo, si estinguerebbe di riflesso anche il
secondo.
Così impostato il problema, il riconoscimento normativo di una relazione di
sussidiarietà tra il debito del condomino moroso e quello del condomino solvente non
depone affatto per la sussistenza di un nesso di solidarietà tra gli stessi. È più corretto
ravvisare, in favore del creditore, distinte posizioni obbligatorie e perciò anche distinte
azioni di adempimento, l’una per l’intero debito, esperibile nei confronti
dell’amministratore, e le altre nei limiti della rispettiva quota, verso i singoli condomini,
rendendosi poi ammissibile l’eventualità di pretendere da un partecipante il pagamento
del debito originariamente dovuto da un altro condomino solo in seguito all’infruttuosa
escussione del patrimonio di quest’ultimo.
L’art. 63, comma 2, disp. att. c.c. si spiega come fonte di un’obbligazione legale di
garanzia di ogni condomino per le quote non sue. La diversità tra l’obbligo principale e
l’obbligo sussidiario si radica nel difetto della eadem causa obligandi, diverse essendo
le fonti stesse delle obbligazioni azionate, giacché l’obbligazione per la propria quota ha
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origine negli artt. 1123 ss. c.c., mentre quella sussidiaria con funzione di garanzia trae
origine dall’art. 63, comma 2, disp. att. c.c.
Ravvisare un nesso di sussidiarietà, invece che di solidarietà, tra i debiti dei condomini
solventi e quelli dei condomini morosi non è questione meramente teorica, in quanto
l’assunto escluderebbe, ad esempio, ai fini dell’estensione dell’efficacia dell’atto
interruttivo della prescrizione, la diretta applicazione dell’art. 1310 c.c. (per il quale
l’atto interruttivo contro uno dei condebitori in solido determina l’interruzione
permanente della prescrizione anche nei confronti dei condebitori). Se ci si convince
che il debito del condomino moroso ed il debito di garanzia del condomino in regola
derivano da obbligazioni distinte ed indipendenti, sarebbe del tutto ovvia la resistenza
ad accettare che l’atto che interrompe la prescrizione nei confronti di un condebitore
possa spiegare effetto pure nei confronti dell’altro condebitore. Non è operante per il
condomino garante, in regola con i suoi pagamenti, l’art. 1297, comma 1, c.c., limitativo
della proponibilità delle eccezioni personali del condomino moroso. Né opera l’art.
1298 c.c., circa il riparto nei rapporti interni, non potendosi certo sostenere che il debito
per la quota del moroso si divida in parti uguali con il condomino solvente. Vi sono
estranei, ancora, gli artt. 1300, 1301, 1302 e 1303 c.c., non apparendo credibile che, ove
vicende estintive diverse dall’adempimento abbiano riguardato il condomino moroso, il
condomino garante in regola con i pagamenti sarebbe comunque liberato per la parte del
debitore primario. Non si applicano al condomino in regola, che abbia pagato al
creditore la quota dovuta dai morosi, le regole che limitano il diritto di regresso
nell’àmbito dei rapporti fra condebitori solidali con riferimento alla corrispondente parte
di debito (art. 1299 c.c.); piuttosto, il condomino solvente, garantendo l’adempimento
del contributo imposto al moroso, ovvero un
debito altrui, una volta effettuato il pagamento, avrà azione di regresso per l’intero nei
confronti del debitore principale e si surroga nei diritti del creditore. Resterebbero,
probabilmente, a regolare pure l’ipotesi di solidarietà impropria corrente tra debito del
moroso e debito del condomino a posto con i pagamenti le disposizioni concernenti la
transazione col creditore (art. 1304 c.c.), il giuramento (art. 1305 c.c.), la sentenza (art.
1306 c.c.) e il riconoscimento del debito proveniente da uno dei due obbligati (art. 1309
c.c.).
In favore dei condomini in regola con i pagamenti è previsto dal comma 2 dell’art.
63disp. att. c.c. non solo un onere per il creditore di chiedere in primo luogo
l’adempimento dei morosi (c.d. beneficio d’ordine), quanto la più gravosa condizione
di escutere preventivamente il patrimonio degli stessi partecipanti inadempienti (c.d.
beneficium excussionis).
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La preventiva escussione richiede, comunque, l’esaurimento effettivo della procedura
esecutiva individuale in danno del condomino moroso, prima di potere pretendere
l’eventuale residuo insoddisfatto al condomino in regola. Essa comporta non soltanto il
dovere del terzo di iniziare le azioni contro il moroso, ma anche di continuarle con
diligenza e buona fede: dunque, il creditore del condominio deve dapprima agire contro
i partecipanti che siano in ritardo nei pagamenti delle spese per ottenere la condanna,
ovvero un titolo esecutivo che permetta di dar corso all’espropriazione dei beni di
quello; deve, inoltre, compiere ogni atto cautelare contro i beni stessi, per
salvaguardarne l’indisponibilità durante il giudizio diretto alla condanna. Si reputa
generalmente che il beneficio di preventiva escussione non opera in via diretta, per
efficacia della previsione di legge, ma pur sempre in via di tempestiva eccezione
dilatoria in senso stretto. L’eccezione sarà rilevabile non soltanto se in concreto
sussistano beni da sottoporre ad esecuzione al momento della scadenza del credito, ma
sempre che tale esecuzione sia giuridicamente possibile, ipotesi che non si riscontra, ad
esempio, con il fallimento del condomino moroso, evento che per definizione esclude la
sussistenza di beni da poter sottoporre ad esecuzione individuale.
La lettera dell’art. 63, comma 2, disp. att. c. c. (―i creditori non possono agire nei
confronti degli obbligati in regola‖) lascia pensare che il condomino in regola,
convenuto in giudizio dal terzo per il pagamento del restante credito condominiale,
possa paralizzare, in via di eccezione, l’azione del creditore, con l’opporre utilmente il
beneficio della preventiva escussione del patrimonio del condomino moroso, senza
dover perciò necessariamente chiamare in causa quest’ultimo. Sembra, dunque, da
negare che la disposizione sul beneficio di escussione abbia efficacia limitatamente alla
fase esecutiva. Se così altrimenti funzionasse, al terzo creditore non sarebbe impedito di
richiedere sùbito stragiudizialmente la prestazione al condomino in regola, per
provocarne l’adempimento diretto; né di agire in sede di cognizione per munirsi di uno
specifico titolo esecutivo nei confronti pure del condomino adempiente, onde poter
iscrivere ipoteca giudiziale sugli immobili di quest’ultimo, oppure poter procedere in
via esecutiva contro di lui, senza ulteriori indugi, una volta che il patrimonio del moroso
risulti incapiente o insufficiente al soddisfacimento del credito vantato. Per come qui
intesa, l’eccezione della mancata escussione del condomino moroso tende, però, al fine
diretto della reiezione della domanda di condanna, opponendo al diritto di credito fatto
valere dall’attore un diritto idoneo a paralizzarlo. Sono, tuttavia, destinati a riproporsi a
proposito del comma 2 dell’art. 63 disp. att. c.c. quei contrasti interpretativi sul
beneficio di escussione in senso tecnico, che da decenni animano il dibattito sull’altra
ipotesi in cui esso certamente era già presente nel nostro ordinamento, segnata dall’art.
1944, comma 2, c.c. in tema di obblighi del fideiussore. Potrebbe dunque sostenersi, con
non minore forza persuasiva, che il beneficio di preventiva escussione genera non
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soltanto un’eccezione, ma esclude come attualmente esistente l’azione del creditore
verso il condomino in regola, il che varrebbe a differire l’insorgenza, o quanto meno
l’esigibilità, del debito di garanzia di quest’ultimo fino al momento dell’esito
infruttuoso dell’azione nei confronti del condomino moroso: l’essere l’infruttuosa
esecuzione fatto costitutivo della pretesa del creditore verso il condomino in regola con
i pagamenti, ovvero oggetto di mera eccezione, comporta intuibili differenze, ad
esempio, in ordine agli effetti della costituzione in mora di quest’ultimo compiuta prima
ancora dell’escussione del moroso, come in ordine alla ripetibilità del pagamento della
quota spettante al moroso eseguito nelle mani del creditore dal condomino in regola
anteriormente alla preventiva aggressione di quello.
Al condomino in regola con i pagamenti, escusso dal terzo creditore per la parte dovuta
dai morosi, dovrà consentirsi di avvalersi, oltre che dell’azione di regresso verso il
debitore principale inadempiente, altresì della surrogazione legale (in forza dell’art.
1203, n. 3, c.c.), senza, peraltro, mai esperire contemporaneamente i due rimedi. Com’è
noto, mentre il regresso, che ha per oggetto il rimborso di quanto sia stato pagato a
titolo di capitale, interessi e spese, consiste in un diritto che sorge per la prima volta in
capo al condebitore adempiente (sulla base del c.d. aspetto interno dell’obbligazione
plurisoggettiva), la surrogazione implica, invece, con il subentrare del condebitore
adempiente nell’originario diritto del creditore soddisfatto (oltre che negli accessori, ivi
comprese le eventuali garanzie), l’acquisizione della stessa posizione giuridica del
creditore e dà luogo, quindi, ad una vicenda successoria. Il condomino che, adempiuto il
debito sussidiario verso il terzo per la quota dovuta dai morosi, faccia valere il suo
diritto alla surrogazione legale a norma dell’art. 1203, n. 3), c.c. può, pertanto, vedersi
opporre non solo le eccezioni relative al rapporto interno tra i condomini, ma anche
quelle opponibili allo stesso terzo creditore, relative a limitazioni, decadenze e
prescrizioni inerenti al credito. In tale azione, inoltre, il termine di inizio della
prescrizione coincide con quello in cui il debitore in solido abbia adempiuto l’intera
obbligazione.
Appare, in definitiva, plausibile concludere nel senso che la posizione del condomino in
regola con i pagamenti, chiamato dal creditore a rispondere delle quote dovute dai
morosi, dopo la preventiva escussione degli stessi, sia assimilabile a quella di un
fideiussore, sia pure ex lege. Il condomino solvente garantisce l’adempimento del
contributo imposto al moroso, ovvero un debito altrui
Ciascun condomino è realmente obbligato (in via primaria verso l’amministratore, e in
via surrogatoria verso il creditore) soltanto per la quota di debito proporzionata al valore
della sua porzione, ed è invece garante per le quote dei condomini inadempienti,
restando i rispettivi rapporti obbligatori distinti perché generati da cause
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normativamente distinte. L’obbligo del condomino puntuale nei pagamenti, essendo
accessorio ed ausiliario di quello del condomino moroso, nonché diretto ad adempiere a
quello che quest’ultimo manca di soddisfare, è, in tal senso, condizionato a
quell’inadempimento e commisurato alla rispettiva quota non versata.
VI. Creditori e conto corrente condominiale
L’art. 1129, comma 7, c.c. obbliga
―l'amministratore a far transitare le somme ricevute a qualunque titolo dai condomini o
da terzi, nonché quelle a qualsiasi titolo erogate per conto del condominio, su uno
specifico conto corrente, postale o bancario, intestato al condominio‖,
aggiungendo che
―ciascun condomino, per il tramite dell'amministratore, può chiedere di prendere
visione ed estrarre copia, a proprie spese, della rendicontazione periodica‖.
Tra le ipotesi tipizzate di gravi irregolarità, legittimanti la revoca dell'amministratore,
figurano, conseguentemente,
i casi della ―mancata apertura ed utilizzazione del conto intestato al condominio‖,
o anche
―la gestione secondo modalità che possono generare possibilità di confusione tra il
patrimonio del condominio e il patrimonio personale dell'amministratore o di altri
condomini‖ (art. 1129, co. 12°, nn. 3 e 4, c.c.).
La Riforma del 2012, dunque, esplicita un riferimento alla nozione di ―patrimonio del
condominio‖, in modo da tenerlo separato da quello dell'amministratore e dei singoli
condomini.
È noto, al riguardo, come la diffusa convinzione del difetto di soggettivazione
dell'organizzazione condominiale, e della discendente imputazione immediata in capo ai
singoli delle obbligazioni assunte dall’amministratore per le parti comuni, nonché della
correlata responsabilità, discendesse proprio dal mancato rinvenimento nella disciplina
codicistica del condominio di un patrimonio autonomo o di un fondo comune ricollegati
al gruppo. Oltre alla generale impossibilità di individuare un debitore inadempiente in
un soggetto sprovvisto di un elemento patrimoniale in grado di soddisfare anche
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coattivamente l'interesse del creditore, si è fatta sempre rilevare, al fine di escludere la
responsabilità del condominio, la peculiare insuscettibilità all'espropriazione ed alla
vendita delle cose, degli impianti e dei servizi condominiali (Capponi, 201). In sostanza,
veniva affermato che il condominio intanto si sarebbe potuto dire debitore se fosse stato
dotato di suoi beni, e cioè di un patrimonio che garantisse l'adempimento, assorbendo le
ricadute dell'eventuale inadempimento, in base alla regola generale posta dall'art. 2740
c.c. Così, la struttura delle obbligazioni assunte dall'amministratore è stata
costantemente desunta non dall'esame della fattispecie costitutiva del vincolo, ma
dall'esigenza di allocare economicamente gli effetti di quella fattispecie. Il bisogno di
riferire al singolo condomino gli effetti dell'obbligazione scaturente dalla deliberazione
assembleare o dall'attività dell'amministratore sorgeva dal calcolo degli inconvenienti
legati alla tutela della garanzia del terzo creditore, che avesse dapprima contratto con il
condominio e andasse poi alla ricerca di un patrimonio da assoggettare all'azione
esecutiva. In verità, la mancanza di un patrimonio autonomo già non sembrava
argomento decisivo nella ricostruzione della struttura delle obbligazioni assunte
dall'amministratore per la gestione delle cose comuni. Andrebbe ancora aggiunto che,
per il vero, l'ordinamento del condominio conosce pure la possibilità di costituire un
proprio ―fondo speciale‖. Ci si riferisce all'obbligo (e non più facoltà), imposto
all'assemblea dall'art. 1135, n. 4) c.c., di predisporre un fondo speciale per le opere di
manutenzione straordinarie e le innovazioni, di importo pari all'ammontare dei lavori.
Ora, per effetto della Riforma del 2012, si avrà necessariamente ―uno specifico conto
corrente, postale o bancario, intestato al condominio‖, nonché un ―patrimonio del
condominio‖.
Il conto intestato al condominio potrà allora rappresentare la misura della responsabilità
patrimoniale dei condomini per le obbligazioni di gestione delle cose comuni. Non
sarebbe più inevitabile ritenere che i singoli partecipanti siano obbligati diretti verso i
terzi creditori, passando i loro debiti di contribuzione attraverso il conto corrente ed il
patrimonio comune, nei limiti determinati dall'art. 1123 c.c. Laddove i fondi a
disposizione dell'amministratore si rivelassero insufficienti per l'adempimento delle
obbligazioni contratte, questi sarebbe l’unico legittimato a richiedere in via primaria ai
condomini il pagamento dei contributi necessari; ai terzi creditori sarebbe concessa
invece un'azione surrogatoria, in luogo dell'amministratore, rimasto inerte
nell'adempiere al suo dovere. Così si spiegherebbe anche il nuovo art. 63, co. 1° e 2°,
disp. att. c.c.
Non è decisivo replicare che il conto corrente intestato al condominio, formato con i
contributi dei condomini, non viene sottoposto a misure di conservazione, in modo da
concentrarvi la garanzia dei creditori. Alcun vincolo sorge, si obietta da alcuni,
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dall'apertura del conto corrente al soddisfacimento delle obbligazioni connesse alla
gestione condominiale, il che renderebbe possibile in ogni momento la distrazione delle
somme raccolte e la loro restituzione ai singoli. Ora, è innegabile che il conto corrente
intestato al condominio, a norma dell’art. 1129, co. 7°, c.c., non è inquadrabile fra i
patrimoni separati, in quanto la stessa previsione normativa non imprime ad esso alcun
vincolo di destinazione; ciò però non significa che il conto condominiale non svolga,
comunque, una funzione di garanzia e di responsabilità, allo scopo di assicurare i terzi
creditori del condominio. Trattandosi di garanzia generica, come del resto la
responsabilità patrimoniale ex art. 2740 c.c., essa non è provvista di forza di esclusione
o di prelazione; né, una volta allestito il conto, può essere sottratta ai condomini la
libera disponibilità dello stesso, rimanendo al creditore di azionare gli strumenti di
tutela preventiva o successiva della sua garanzia.
Tutti i contributi versati dai partecipanti devono transitare sul conto corrente intestato al
condominio, confondendosi con le altre somme già ivi esistenti, e andando perciò ad
integrare quel saldo che è ad immediata disposizione del correntista ―condominio‖,
secondo l’art. 1852 c.c., senza che mantenga alcun rilievo lo specifico titolo
dell’annotazione a credito, né la provenienza della provvista dall’uno o dall’altro
condomino. Quando, così, un creditore del condominio sottoponga a pignoramento le
somme risultanti presso l’istituto bancario ove il condominio intrattiene il rapporto di
conto corrente e sul quale affluiscono anche le rate del fondo per la manutenzione
straordinaria e le innovazioni, il credito del debitore che viene pignorato è il credito alla
restituzione delle medesime somme depositate, il quale trova causa, appunto, nel
rapporto di conto corrente, rimanendo del tutto prive di significato le ragioni per le quali
le singole rimesse siano state effettuate, come la provenienza delle stesse dall’uno o
dall’altro condomino. Si assume da alcuni che, pignorando il creditore le somme
giacenti sul conto corrente intestato al condominio, ove si siano determinate morosità
tra i partecipanti con riguardo a quella determinata spesa, lo stesso creditore verrebbe
così ad aggirare il ―beneficium excussionis‖ posto dall’art. 63, co. 2°, disp. att.,
aggredendo in via diretta la disponibilità bancaria creata proprio dai soli obbligati in
regola coi pagamenti. Occorre tuttavia ricordare come, ogni qual volta la gestione
condominiale contragga con un terzo, coesistono distinte obbligazioni, concernenti,
rispettivamente, l’intero debito e le singole quote, facenti capo la prima al condominio,
rappresentato dall’amministratore, e le altre ai singoli condomini, tenuti in ragione e
nella misura della partecipazione al condominio ai sensi dell’art. 1123 c.c. ed agli effetti
dell’art. 63, co. 1° e 2°, disp. att. c.c. (Cass. 27 settembre 1996, n. 8530). Le diverse
azioni di adempimento - quelle nei confronti del condominio, e per l’intero debito, in
via diretta, e quelle, invece, pro quota, verso i singoli condomini, in via surrogatoria possono essere proposte anche cumulativamente, fondandosi su diversi presupposti:
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ovvero, rispettivamente, il contratto che lega il condominio al terzo creditore e l’obbligo
ex lege gravante sui singoli condomini di contribuire alle spese comuni. Il pignoramento
del saldo di conto corrente condominiale da parte del creditore è allora volto a
soddisfare in via esecutiva la sola obbligazione per l’intero gravante
sull’amministratore e non interferisce col meccanismo del beneficio di escussione ex
art. 63, co. 2°, disp. att. c.c., il quale è posto a presidio unicamente dei distinti obblighi
pro quota spettanti ai singoli.
VII. Deliberazioni dell’assemblea e creditori
Dovrebbero qualificarsi nulle tutte le deliberazioni dell’assemblea, prese a maggioranza,
che abbiano l’effetto di far insorgere in capo ai condomini, in regola coi pagamenti delle
spese, l’obbligo di sopperire all'inadempimento dei morosi, ampliandone la
responsabilità patrimoniale sussidiaria rispetto al meccanismo di garanzia e preventiva
escussione stabilito dall’art. 63, comma 2, disp. att. c.c.
Appare, invero, estranea alle attribuzioni della assemblea la delibera con cui la
maggioranza dei partecipanti provveda a ripartire tra i condomini non morosi il
debito delle quote condominiali dei condomini morosi, oppure ad istituire un fondo
cassa ad hoc, non sussistendo in capo ai condomini in regola coi versamenti delle quote
di rispettiva pertinenza alcun vincolo di solidarietà passiva in senso proprio nei
confronti del terzo creditore, e non potendosi, perciò, prefigurare alcuna urgenza
derivante dalla possibile esecuzione individuale, la quale è subordinata all’infruttuosa
esecuzione nei confronti degli inadempienti (così già Trib. Salerno, 6 giugno 2009, in
Arch. loc. e cond. 2009, 459, superando Cass., 5 novembre 2001, n. 13631, alla stregua
dell’insegnamento di Cass., 8 aprile 2008, n. 9148; ma la validità di una simile delibera
è ancora condivisa da Cass., 18 aprile 2014, n. 9083).
Così nulla (occorrendo a tale scopo, altrimenti, una convenzione presa all'unanimità) è
la delibera di approvazione di interventi di manutenzione straordinaria o di innovazioni
che disponga di non costituire il preventivo fondo speciale di importo pari
all’ammontare dei lavori, ovvero, se sia così previsto dal contratto, il fondo pari ai
singoli pagamenti dovuti in funzione del progressivo stato di avanzamento delle opere.
L’art. 1135 n. 4 c. c. (anch’esso modificato dal citato d. l. n. 145 del 2013) postula,
infatti, che l’allestimento anticipato del fondo speciale per gli indicati lavori (che sono
poi quelli di più rilevante importo e perciò di maggiore esposizione patrimoniale)
soddisfi l’interesse anche del singolo condomino a veder escluso il proprio rischio di
dover garantire al terzo creditore il pagamento dovuto dai morosi, secondo quanto ora
previsto dal comma 2 dell’art. 63 disp. att. c.c., essendo il versamento anticipato delle
somme da parte di tutti i partecipanti condizione di legittimità della delibera di
approvazione delle opere.
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Un identico argomentare può portare a sostenere la nullità della deliberazione
assembleare volta alla stipula di un mutuo giustificata dall’urgenza di trarre ―aliunde‖
le somme necessarie per la gestione comune, in maniera da soddisfare i terzi creditori
del condominio ovviando alla carenza di liquidità cagionata dall’'inadempimento dei
morosi. L’apertura del finanziamento bancario, rendendo esposto verso l’istituto di
credito ciascun singolo condomino mutuatario per l’intera somma data in prestito,
amplia gli obblighi di contribuzione alla gestione condominiale dello stesso singolo
rispetto a quelli gravanti in base ai criteri di proporzionalità fissati nell'art. 1123 cod.
civ., nonché alla garanzia voluta dall’art. 63, comma 2, disp. att., c.c., e perciò impone il
conferimento di un apposito mandato a contrarre all’amministratore, ovvero una
convenzione da adottare all'unanimità (per la sufficienza dell’autorizzazione
dell'assemblea del condominio al fine di contrarre un mutuo per il pagamento delle
spese di gestione, Cass., 5 marzo 1990, n. 1734).
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