L’opera (italiana) nel 700 Fino a tutto il 700 l’opera era considerata un prodotto privilegiato del regno della fantasia per cui non si cercava assolutamente di mettere in scena situazioni realistiche. Inoltre il centro di interesse non risiedeva nell’intreccio quanto, piuttosto, nell’arte compositiva con cui la storia era realizzata in musica: ecco perchè 27 drammi di Metastasio abbiano potuto dar vita a circa 800 opere diverse. Tutto sommato l’opera era apprezzata non tanto come la realizzazione musicale di una vicenda, bensì come una sequenza di momenti musicali “attraenti” e non necessariamente collegati logicamente. Il fulcro di interesse non era tanto l’intreccio bensì l’interpretazione. Naturalmente questa sorta di fuga nel regno del fantastico si rifletteva anche nel libretto che per tutto il settecento si mantenne rigorosamente in versi (quindi avulso da qualunque istanza di somiglianza col linguaggio parlato) e quasi sempre dotato di lieto fine (sebbene la vicenda originaria avesse un finale drammatico). Nei casi in cui non se ne poteva fare a meno, la catastrofe non avveniva mai davanti agli occhi degli spettatori. La mancanza di verosimiglianza si rifletteva anche nei timbri vocali che sono in gran arte innaturali: la voce del protagonista maschile doveva svettare su tutte (non era secondo a nessuno in quanto eroe della vicenda) per cui aveva la meglio l’uomo con voce sopranile (ossia in grado di salire alle zone acute come i soprani). Da questo orientamento prende piede la diffusione dei castrati. Il fatto che i vari momenti musicali non dovessero necessariamente essere collegati logicamente diede il via libera ai capricci dei cantanti che iniziarono a pretendere arie composte ad hoc per loro o, addirittura, inserirono nell’opera i propri cavalli di battaglia estrapolati da altre opere (anche se queste arie non c’entravano nulla!!). Ecco, quindi, i primi fenomeni di divismo e vera e propria idolatria nei confronti dei cantanti alcuni dei quali venivano pagati più dei compositori. Pensiamo almeno ad un nome entrato nella storia dell’opera: il castrato Carlo Broschi meglio noto come Farinelli. Struttura generale dei libretti Anch’essa non realistica essendo basata sull’alternanza di “tempo reale” (in genere nel recitativo) e rallentamento e sospensione del tempo (in tutti i numeri ‘melodici’). La sospensione del tempo drammaturgico si realizza con (pensiamo alle arie): ripetizioni di parole e frasi lunghi vocalizzi ripetizione della sezione iniziale nell’aria col da capo (ossia con struttura A-B-A) Questo assetto dell’opera (troppo poco verosimile e troppo legato allo strapotere ed ai capricci dei cantanti) non piaceva, però, agli intellettuali settecenteschi e, per questo motivo, si avvicendarono alcuni tentativi di ‘riformare’ l’opera (soprattutto quella ‘seria’). DALL’ARCADIA ALLA RIFORMA DI ZENO-METASTASIO Il malcontento degli intellettuali investi anche il malcostume del pubblico; in particolare il pubblico nobiliare che affittava o comprava i palchi e li utilizzava come una propria depandance: [Dalla Lettre sur le méchanisme de l’opéra italienne di anonimo (1756)] «i palchi sono, a dire il vero, delle sale di ritrovo; in effetti i cavalieri vanno di palco in palco a fare la corte alle dame e le dame si scambiano visite da un palco all’altro.[…] I corridoi sembrano strade; ma si fa di più; nei palchi si gioca, si cena, e il chiasso provocato dall’insieme di tante voci, per la maggior parte stridule, consente a malapena di udire l’orchestra. […] Ci sono ancora sale private ove si gioca d’azzardo, ove ciascuno va per giovare e veder giocare» Per i letterati, poi, il melodramma era un genere spurio e doveva essere modificato ed allineato alla nobiltà della coeva tragedia. A questo proposito già dal 1690 era nata a Roma l’Accademia d’Arcadia. Le riflessioni sul teatro degli Arcadi si diffusero grazie anche ad una capillare organizzazione anche fuori da Roma (avevano molte sedi dette Colonie) e suggerirono una diversificazione interna al genere operistico ed il desiderio di maggiore coerenza drammaturgica. Le loro istanze erano ispirate dal desiderio di razionalità a sua volta suscitato dalla nascente filosofia cartesiana. Inoltre ebbe molta influenza il confronto con la coeva Tragedia per musica francese, sicuramente non inquinata da esigenze estranee alle ragioni drammaturgiche. Intendo dire che in Francia l’opera era considerato un genere teatrale nobile e di alto valore musicale, letterario e drammaturgico (non si sarebbero mai sognati, quindi, di infarcire l’opera con numeri musicali estranei alla vicenda, per esempio). Per gli arcadi in Italia, invece, il posto della grande tragedia è stato usurpato dal dramma per musica e si doveva porre rimedio. Alcuni addirittura suggerirono di sopprimere il teatro musicale. Fortunatamente non tutti erano così radicali ed accordarono al dramma in musica diritto di cittadinanza purché fosse riformato ed epurato di tutte le irregolarità. Molti Arcadi si produssero, quindi, in scritti coi quali tentarono di dare delle regole di cui riassumo quelle che maggiormente influenzarono i compositori: struttura dell’opera in tre atti; nel primo atto si prepara l’intreccio presentando i personaggi nel secondo ha luogo la vicenda vera e propria nel terzo atto si hanno peripezie ed agnizioni (in pratica colpi di scena) e si ha lo scioglimento definitivo oppure la catastrofe. il recitativo deve consistere in settenari ed endecasillabi tra loro mescolati La riflessione degli intellettuali d’inizio settecento influenzò essenzialmente la struttura drammaturgica complessiva. Fino alla fine del Seicento, l’opera aveva un carattere composito ed all’interno del singolo evento coesistevano elemento drammatico e buffo. Ora, invece, si iniziò a chiedere: unica vicenda senza vicende accessorie eliminazione dei personaggi comici niente deus ex machina ridimensionamento della presenza di argomenti mitologici e soprannaturali. Fra gli scritti più rilevanti la palma dell’ironia va al mordace Benedetto Marcello il quale col suo libello Il teatro alla moda (1720) sbeffeggiò gli autori (librettisti e compositori) descrivendone (come se le consigliasse) i difetti più macroscopici. Eccone alcuni estratti. A’ POETI In primo luogo non dovrà il Poeta moderno aver letti, né legger mai gli Autori antichi Latini o Greci. Imperciocché nemeno gli antichi Greci o Latini hanno mai letti i moderni. Non dovrà similmente professare cognizione veruna del Metro e Verso Italiano, toltane qualche superficiale notizia che il Verso si formi di sette o d’undici sillabe, con la quale Regola potrà poi comporne a capriccio di tre, di cinque, di nove, di tredici, e di quindici ancora. […] A’ COMPOSITORI DI MUSICA Si guarderà poi di legger l’Opera tutta per non confondersi, bensì la comporrà Verso per Verso, avvertendo ancora di far cambiar subito tutte l’Arie, servendosi poi nelle medesime di motivi già preparati fra l’anno; e se le Parole nuove di dette Arie non andassero felicemente sotto le Note (il che per lo più suole accadere) tormenterà di nuovo il Poeta finché ne resti appien sodisfatto. […] La satira di Marcello ben illustra lo stato dell’opera italiana ed è per questo motivo che da tempo gli Arcadi lavoravano per una seria riforma. Riforma che ebbe luogo con due poeti Arcadi: Apostolo Zeno e Pietro Metastasio APOSTOLO ZENO (1668-1750) Fondatore nel 1698 della colonia veneziana dell’Arcadia, fu poeta cesareo (ossia di corte) alla corte di Vienna dal 1718 al 1729. Nel suo caso, in realtà, non si può parlare di una vera e propria cosciente riforma. Più che altro egli si fece portavoce delle istanze sopra illustrate e formalizzò 3 precetti: 1. eliminazione personaggi comici 2. preferenza per soggetti storici al posto di mitologici 3. riduzione drastica del numero di arie Per Zeno, però si trattò di un palliativo; per lui, infatti il modello tragico (letterario) era sempre compromesso dal canto. Di Zeno ci sono giunti 36 libretti tutti di argomento storico. PIETRO METASTASIO (1698-1782) http://www.progettometastasio.it/pietrometastasio/index.jsp Anche lui, come Zeno, divenne poeta cesareo a Vienna nel 1730 e mantenne questa carica fino al 1782, anno della sua morte. Metastasio è probabilmente il più importante librettista della storia della musica. Rispetto a Zeno, Metastasio era più elastico, infatti per lui l’associazione tragedia/musica non era, poi, così problematica. Egli scrisse 27 libretti che diedero vita a circa 800 opere. I suoi libretti furono dotati di dignità letteraria “alta” ma nello stesso tempo furono pensati per essere musicati: ne deriva una costruzione calibrata secondo i principi letterari “arcadici” e nel contempo aperta alle esigenze del canto virtuosistico. Possiamo individuare alcune caratteristiche. celebrazione ed omaggio del potere assoluto (caratteristica importante:in quanto poeta cesareo non si poteva sottrarre all’omaggio ai potenti; articolazione in tre atti Impianto ispirato ai precetti di Aristotele: convergenza dell’azione verso la catastrofe che sfiora la tragedia e poi scioglimento (ho evidenziato due termini della poetica aristotelica). Solo tre libretti metastasiani hanno finale tragico: Didone abbandonata, Catone in Utica e Attilio Regolo cura del lessico che doveva contenere spunti descrittivi e sonori generando un preciso bagaglio di figurazioni ritmiche, sonore e retorico-musicali: tempesta = tremoli archi guerra = trombe timpani e ritmi puntati caccia = corni onde = flusso scorrevole e ininterrotto di valori brevi fulmini = rapidi scale ascendenti e discendenti sia vocali che strumentali lacrime = arpeggi e staccati nei violini. Detto questo, va chiarito che il ruolo ‘moralizzatore’ di Metastasio non deve assolutamente essere enfatizzato. Anch’egli inserì nei propri libretti delle arie ‘neutre’, ossia non strettamente legate alla vicenda così da potere essere trasportate (secondo il capriccio dei cantanti) all’interno di altre opere. Si tratta di un’usanza radicata (che neanche Metastasio riuscì a scalfire) rappresentata dalle cosiddette arie da baule ossia le arie che i cantanti estraevano dal baule del proprio repertorio ed inserivano a piacere (ed arbitrariamente) in tutte le opere che si trovavano ad eseguire. Va, poi, chiarito anche che, relativamente all’opera di questo periodo (anche quella metastasiana) il concetto di originalità era del tutto assente. Si spiega quindi, non solo che, per esempio, Artaserse fu musicato da almeno 81 compositori, ma addirittura 3 volte dallo stesso Hasse. L’azione di Metastasio, quindi, non limitò più di tanto lo strapotere dei cantanti, ma di sicuro (nel nome di una maggiore dignità letteraria) eliminò quasi del tutto la presenza di personaggi comici dall’opera seria. I personaggi comici, quindi, traghettarono verso un nuovo genere operistico: opera comica o buffa o buffonesca o farsa in musica (o molte altre denominazioni consimili). E in questo genere fu particolarmente felice la vena creativa napoletana. A Napoli vennero, infatti, aperti due teatri specializzati in opere comiche: Teatro nuovo e Teatro della Pace, entrambi inaugurati nel 1724 col sostegno della nobiltà. Si deve, infatti, smentire che il genere comico fosse riservato al popolo e quello serio alla nobiltà; Anche l’opera comica era sponsorizzata dalle classi aristocratiche. Da smentire anche l’idea che l’opera comica fosse una sorta di tranche de vie. Si trattava di comicità scarsamente ancorata alla vita reale: a volte densa di tratti paternalistici (tipici, quindi dell’aristocrazia) e a volte ricca di elementi marcatamente buffoneschi e grotteschi desunti dall’ambiente popolare ma volti a far ridere la nobiltà. Le opere comiche si possono ripartire in due grandi filoni: 1. intermezzo 2. commedia musicale INTERMEZZO Si tratta di un’opera breve (pochi episodi) con due, massimo tre personaggi più un mimo. Nacque come interludio da eseguire nei due intervalli di un’opera seria (quindi in genere è organizzata in due atti detti propriamente “intermezzi”: la celeberrima Serva padrona di Pergolesi, quindi, tecnicamente non è un intermezzo bensì due intermezzi). Questo genere si sviluppò dagli elementi farseschi dell’opera seria che lentamente si coagularono in una rappresentazione autonoma. Caratteristiche generali degli intermezzi • quotidianità (ma non realismo) della vicenda • ritmo teatrale rapido • nessun virtuosismo canoro, quindi interpreti meno capaci (mai i castrati) e più convenienti per l’impresario • interpreti dotati di maggior senso comico-teatrale (senso mimico) • minori spese • poche e semplici scenografie (La serva padrona: sempre solo la camera). Si trattava, quindi, di uno spettacolo conveniente sia per gli impresari che avevano pochissime spese sia per il pubblico a fronte di un biglietto di ingresso sicuramente meno caro di quello dell’opera seria. Ciò contribuì al successo degli intermezzi (ma lo stesso vale anche per le commedie in musica) che lentamente si staccarono dalla propria funzione di interludi all’opera seria e iniziarono ad essere rappresentati autonomamente. La sintesi perfetta di tutte le caratteristiche degli intermezzi è La serva padrona di Pergolesi (1733). Originariamente inframmezzava l’opera seria Il prigionier superbo dello stesso Pergolesi; poi se ne staccò e tuttora gode di vita autonoma (mentre Il prigionier superbo è uscita dal repertorio). Essa consta di: recitativi, due duetti (uno per intermezzo) e cinque arie. COMMEDIA PER MUSICA Si trattò di una forma di teatro musicale comico (originariamente dialettale) promossa dall’aristocrazia napoletana. L’atmosfera generale era abbastanza simile a quella degli intermezzi, ma con una caratteristica peculiare: una tinta patetica sentimentale e malinconica. Nella commedia per musica coesistono personaggi seri e comici: quelli seri cantano in uno stile simile a quello dell’opera seria mentre quelli buffi si producono in canzonette di facile vena melodica. Intorno agli anni quaranta del 700 l’opera si trasferì da Napoli a Venezia dando vita alla vera e propria opera comica in italiano. A Venezia entrò in scena Carlo Goldoni che, oltre che celeberrimo commediografo, fu anche librettista formalizzando la struttura formale dell’opera comica (un po’ come fece Metastasio con l’opera seria). Rispetto alle precedenti esperienze comiche, Goldoni attribuì all’opera una struttura più complessa legata a vicende più caricaturali e a tratti paradossali (sull’esempio della commedia dell’arte) e (cosa molto importante) diede maggior peso ai personaggi seri. La presenza di questi personaggi seri modificò un po’ l’assetto drammaturgico non è più improntato solo alla farsa ma anche ad elementi lacrimevoli e sentimentali. In pratica Goldoni importò in Italia un genere che in Francia ed in Inghilterra aveva un certo successo: la cosiddetta comédie larmoyante (commedia lacrimevole) imperniata sul tema del conflitto sociale innestato all’interno di una storia d’amore. Il più celebre esempio del genere è Cecchina, ossia la buona figliola che Goldoni trasse da una propria commedia – Pamela – a sua volta desunta dal romanzo Pamela or virtue rewarded (1740) dello scrittore inglese Richardson. La Cecchina fu messa in musica prima da Egidio Duni (1756) e poi da Niccolò Piccinni (1728-1800) che nel 1760 diede vita ad un vero capolavoro. La formalizzazione di Goldoni sancisce l’atto di nascita di uno schema formale che di lì a poco sarebbe entrato a far parte anche dell’opera seria: il concertato di fine atto ossia un finale in cui si ritrovano sul palcoscenico tutti i personaggi principali. Un particolare tipo di concertato (assolutamente esilarante) è il cosiddetto concertato di stupore che consiste in una scena di insieme in genere così organizzata: 1. succede qualcosa che genera lo stupore dei personaggi; stupore che determina una sorta di fermo immagine, di apnea emotiva in cui, quasi senza respiro, i protagonisti esprimono il proprio stupore. In genere in questi casi la musica pare quasi galleggiare nell’aria in totale assenza di ritmo. 2. Entra in gioco la successiva reazione: nella mente di ciascuno si scatena una ridda di pensieri dando vita ad un’espressione musicale ai limiti della follia. Nel Don Giovanni di Mozart (opera italiana, quindi ispirata ai modelli comici italiani) abbiamo una sorta di concertato di stupore embrionale nel II atto allorché viene scoperta la tresca di Leporello e Don Giovanni (e gli altri personaggi vogliono “far fuori” il povero maggiordono). Ma colui che veramente raggiunse il top nella realizzazione di spassosissimi, geniali e folli concertati fu Rossini; in particolare nell’Italiana in Algeri (finale dell’atto primo). Nella stretta (ossia le sezione conclusiva del finale caratterizzata dalla ridda di pensieri) Rossini fu in grado di creare una straordinaria scena musicale altamente paradossale.