L.B. Archideo, G. Brenci, R. Ferro, F. García Bazán, F.T. Gratton, A, Masani, G.M. Prosperi, H. Puyau EPISTEMOLOGÍA DE LAS CIENCIAS EL TIEMPO Primera parte Lila Blanca Archideo (Coordinadora) Il Tempo in biologia Gianni Brenci CIAFIC ediciones Centro de Investigaciones en Antropología Filosófica y Cultural de la Asociación Argentina de Cultura © 1997 CIAFIC Ediciones Centro de Investigaciones en Antropología Filosófica y Cultural Federico Lacroze 2100 - (1426) Buenos Aires e-mail: [email protected] Dirección: Lila Blanca Archideo Hecho el depósito que marca la ley 11.723 Impreso en Argentina Printed in Argentina ISBN 950-9010-13-8 Il Tempo in biologia IL TEMPO Gianni Brenci* Istituto di Genetica Medica “G. Mendel” di Roma IL TEMPO FISICO Il nostro senso di identità è legato al perdurare della esperienza. Non basta dire “io sono in questo momento” in quanto per essere occorre la continuità della esperienza e quindi un fattore di raccordo che la garantisca come ad esempio la memoria. Eppure la necessità di un tempo “oggettivo” informa di se ogni nostra esperienza del reale a tal punto che ogni tentativo di definire questo concetto scientificamente incontra difficoltà, resistenza e scetticismo in particolare dopo le due rivoluzioni della fisica moderna: la teoria dei quanti e la teoria della relatività. La teoria della relatività in particolare ha modificato il concetto scientifico di tempo obbligando al confronto con questa teoria chiunque voglia tentarne una definizione soddisfacente. Fino alla pubblicazione del lavoro di Einstein il tempo della scienza era figlio * Gianni Brenci è nato a Roma il 6 Agosto 1931 ed ha frequentato nella locale Università il corso di Scienze Biologiche. Nel 1958 è entrato come ricercatore nell'Istituto G. Mendel di Genetica Medica e Gemellologia dove nel 1962 ha assunto la responsabilità dei Laboratori di Citogenetica e Biochimica. È stato docente di Biologia, Genetica e Genetica di Popolazione presso le scuole di perfezionamento di Statistica Sanitaria, di Medicina Forense, e di Genetica Medica della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università La Sapienza di Roma. Ha pubblicato su riviste internazionali oltre 70 lavori di genetica di popolazione e di gemellologia. Dal 1982 insegna Biologia e Genetica presso la Pontificia Università Urbaniana in Roma. Partecipa dalla fondazione agli incontri di epistemologia e filosofia della scienza organizzati dal CIAFIC a S. Maria dell'Armonia. Argomenti principali della sua ricerca sono: la vita media dell'informazione ereditaria, i modelli per lo studio delle popolazioni gemellari e la genetica degli anaerobici facoltativi. 15 della ricerca filosofica ed era considerato assoluto, costante, universale e indipendente delle altre grandezze fisiche e dall’osservatore. La prima vittima della relatività è stata proprio questa concezione in quanto Einstein ha dimostrato che il tempo è elastico e che il moto ne provoca l’allungamento o la contrazione. In altre parole ciascun osservatore ha una propria scala temporale che normalmente è solo sua e non coincide necessariamente con quella degli altri. Dal nostro punto di vista il tempo non sembra mai deformarsi, ma relativamente valutato a un altro osservatore in moto rispetto a noi, il nostro tempo appare sfasato. Nella relatività anche lo spazio è elastico come il tempo e subisce distorsioni correlate con quelle del tempo nel senso che quando il tempo si allunga lo spazio si contrae. La distorsione reciproca tra spazio e tempo si può anche interpretare come una conversione dello spazio che si contrae in un tempo che si allunga. Nella relatività generale Einstein identifica nella gravità la causa della distorsione. In un certo senso tutti noi viaggiamo nel tempo diretti verso il futuro ma essendo il tempo elastico alcuni arrivano prima di altri e, se siamo in moto a velocità prossime a quella della luce, rallentiamo la nostra scala temporale. Ne consegue che arriva prima ad un istante lontano nel tempo chi si sposta più velocemente nello spazio, si ha cioè una distorsione temporale, fenomeno molto utilizzato nella fantascienza benché non abbia nulla di fantastico. Uno degli esempi più usati per rappresentare gli effetti della elasticità dello spazio/tempo ci fa incontrare i gemelli. L’incontro è dovuto al cosiddetto paradosso dei gemelli di Langevin, nel quale si considera una coppia di gemelli identici dei quali uno parte per una stella vicina viaggiando su di una astronave ad una velocità prossima a quella della luce, mentre il cogemello rimane a casa sulla terra e ne attende il ritorno. Il viaggio dura complessivamente dieci anni. Finalmente il gemello astronauta torna sulla terra e si incontra con il suo gemello. Il gemello rimasto a casa è invecchiato di 10 anni mentre l’astronauta soltanto di uno in quanto la elevata velocità gli ha fatto vivere sull’astronave un solo anno mentre sulla terra ne sono trascorsi dieci. L’esempio anche se ipotetico conferma che il concetto attuale di tempo è dinamico e relativo. 16 Nella relatività il tempo può contrarsi, allungarsi o anche tendere ad azzerarsi come nel caso dello spazio prossimo a singolarità fisiche come i cosiddetti “buchi neri” 1. Il tempo “dinamico” impone quindi che la velocità degli “orologi” non è assoluta ma relativa allo stato di moto, alla situazione gravitazionale e all’osservatore. In mancanza di un orologio assoluto per una misura di riferimento del tempo si ricorre al divenire di fenomeni cosmologici possibilmente costanti ed ai concetti di “prima” e “poi” che permette di ordinare una successione di eventi. IL TEMPO COSMICO Il tempo inteso come successione ordinata di “prima” e di “poi” permette di studiare cronologicamente l’universo che, dalla sua origine a oggi ha segnato e segna una catena di fenomeni, descritti e studiati dalla cosmologia che sono in prima approssimazione databili sulla base del decadimento energetico, fenomeno relativamente costante dell’inizio dell’universo ad oggi. Le relazioni osservabili tra la distanza dei corpi celesti e le loro velocità relative conducono a pensare l’universo come il frutto della espansione di uno stato iniziale ad altissima densità ed altissima temperatura (Big Bang). L’algoritmo che collega la variazione della temperatura al trascorrere del tempo è del tipo: T = K/t, in cui T rappresenta l’energia termica, t il tempo in secondi e K una costante di proporzionalità dovuta alle unità di misura adottate. I calcoli condotti sui dati sperimentali situano l’inizio della fase di espansione intorno ai 15 miliardi di anni fa. Una stella di massa superiore ad una volta e mezzo la massa del sole, una volta esaurito il combustibile (idrogeno), si contrae. Durante la contrazione passa per un momento di instabilità dal quale esce "sparando" al'esterno la massa in eccesso producendo così una "Supernova" che esplodendo si rende visibile. Il residuo della supernova diventa una stella composta da soli neutroni con una densità tale che la massa di un asteroide di 180 km di diametro può essere concentrata in una sfera di 5 cm di diametro. Anche una stella di soli neutroni può avere istanti di instabilità e collassare verso una densità infinita diventando invisibile e capace di attrarre al suo interno la materia circostante. Questo particolare corpo celeste invisibile viene chiamato "buco nero". 1 17 La approssimazione delle misure sperimentali più che una data media, consigliano di indicare un intervallo in cui collocare l’inizio dell’universo intervallo che va da 5 miliardi a 50 miliardi di anni fa. La limitazione dell’universo nel tempo e nello spazio è un concetto accettato dalla maggioranza dei cosmologi. In termini di probabilità, questo concetto può essere formulato mediante le parole di Einstein: “Un universo infinito è possibile soltanto nel caso che la densità media della materia in esso contenuta sia zero e per quanto tale ipotesi sia logicamente possibile, essa è meno probabile dell’ipotesi che vi sia nell’universo una densità media finita”. Tab 1 Evoluzione dell’Universo EVOLUZIONE DELL’UNIVERSO SECONDO IL MODELLO DI GAMOW1 Tempo Temperatura o energia termica Densità Periodo 0 ∞ ∞ adronico 10-4 s 100 MeV 5000 K stellare 1010 anni 1 18 3K γ, υ e+, e- gli elettroni e positoni scompaiono 1 Me V radiativo 5000 anni γ, υ e+, e]+, ]-, ]º p, n, p , ñ particelle strane i ] sono gli ultimi adroni che scompaiono leptonico 1s Particelle presenti nell’irraggiamento termico 10-31 g/cm3 Da R. Omnès, in La Recherche, III, 23, 462 (1972). γ, υ fine dell’equilibrio termico; i fotoni dell’arraggiamento si raffreddano per l’espansione situazione attuale I dati sperimentali rilevabili rendono possibile non solo la stima del tempo di origine del cosmo, ma anche la valutazione della quantità di energia termica iniziale, che è calcolabile in 15 miliardi di Kº1. Tale energia, nel suo processo di decadimento ha dato origine a livello di una temperatura di 5 miliardi di Kº a particelle elementari come gli elettroni, i neutroni e i protoni. A livello di una temperatura di 300 milioni di Kº, per aggregazione delle particelle, ai primi nuclei mentre, a livello di 40 milioni di Kº, hanno potuto organizzarsi strutture più complesse. Per un intervallo di tempo che è durato milioni di anni l’energia radiante ha dunque rappresentato la maggior parte della realtà fisica. Mentre la densità dell’energia diventava progressivamente minore, l’universo passava attraverso i periodi a cui G. Gamow ha dato il nome di “adronico”, “leptonico”, “radiante” e “stellare”. Raggiunto l’equilibrio energia-massa, si sono formate per condensazione nubi composte da energia e particelle: le galassie che, per un’ulteriore condensazione, hanno determinato la formazione delle singole stelle. Le galassie hanno continuato il processo di espansione dell’universo e di decadimento dell’energia, raffreddandosi progressivamente dando, in qualche caso, origine a sistemi planetari come il nostro sistema solare. Dal tempo della fase stellare in poi, lo studio del tempo cosmico può continuare con lo studio del tempo del sistema solare ed in particolare con lo studio del tempo del pianeta che abitiamo, studio che diventa quindi, più propriamente lo studio del tempo geologico. L’origine del nostro pianeta è databile a 4.5 - 4.6 miliardi di anni fa. La data è molto meno approssimata di quanto non lo sia quella dell’origine dell’universo, in quanto il momento esatto della nascita della Terra può essere ottenuto sulla basa della velocità di trasformazione degli elementi radioattivi delle sue rocce. Il tempo geologico, continua con il consolidamento della cresta terrestre circa 3,5 miliardi di anni fa, mentre la separazione delle masse oceaniche è databile a 3,2 miliardi di anni fa. 19 Tab 2 Storia della Terra Dalla formazione degli oceani in poi, la storia della Terra e le sue trasformazioni possono essere seguite mediante lo studio delle rocce sedimentarie, frutto del ciclo dell’acqua che, con la successione di evaporazioni e condensazioni, livella le rocce 20 emerse. Dalla formazione della prima crosta terrestre della quale il più antico campione conosciuto è costituito dal granito della penisola di Kola, (3.5 - 3.6 miliardi di anni fa), fino alla comparsa dei primi reperti fossili (570 milioni di anni fa) si svolge il periodo precambriano. Nell’ambito del quale, da un’atmosfera riducente si è gradualmente passati ad un’atmosfera ossidante, si sono formati i primi bacini oceanici e in questi si sono depositati i più antichi sedimenti conosciuti come le formazioni di Onverwacht, si sono avuti numerosi e imponenti cicli orogenetici ed è infine comparsa la vita. IL TEMPO BIOLOGICO La storia della vita si apre intorno ai 3.5 miliardi di anni fa nel Precambriano con forme inferiori di vita acquatica, che non siamo in grado di ricostruire perché essendo senza parti scheletriche non hanno originato fossili. L’esistenza di queste forme di vita è però provata dall’esistenza di rocce ferrose e carboniose risalenti a quel periodo la cui origine non è magmatica, ma è necessariamente organica. Al Precambriano succede il Cambriano, periodo nel quale compaiono Alghe, Artropodi, Molluschi, con esso inizia, 570 milioni di anni fa l’era primaria o Paleozoico, che comprende in quei periodi l’Ordoviciano, periodo nel quale compaiono i Vertebrati agnati, il Siluriano nel quale compaiono i Pesci. Seguono, sempre nell’era primaria il Devoniano con i primi campioni di flora e fauna terrestri e il Carbonifero, poi il Permiano con gli Echinodermi. L’era secondaria, o Metazoico, si apre 225 milioni di anni fa con il Triassico, nel quale la vita si arricchisce per la comparsa dei primi Mammiferi. Gli Uccelli compaiono nel successivo Giurassico, mentre nel Cretaceo si affermano e diffondono sulle terre emerse i Sauri. E’ sempre di questo periodo la specializzazione dei grandi Rettili nelle varie nicchie ecologiche. Sono stati infatti ritrovati fossili sia di Ittiosauri che di Dinosauri e Pterosauri, adattati rispettivamente alla vita nelle acque, sulla terra ferma ed al volo. 21 Le modificazioni ambientali verificatesi alla fine del Cretaceo e delle quali non conosciamo bene le cause hanno modificato fortemente la fauna e la flora determinando per esempio la scomparsa dei Sauri. Geologi e paleontologi sono concordi nel considerare questi avvenimenti come i marcatori della fine dell’era secondaria. Altre forme di vita vegetale e animale compaiono nell’era terziaria, o Cenozoico, la quale inizia 65 milioni di anni fa e viene di norma suddivisa nei periodi Paleocene, Eocene, Oligocene, Miocene e Pliocene, periodi che marcano soprattutto l’affermarsi dei Mammiferi. Nel Quaternario, il cui inizio è da porsi tra 1,8 e 3 milioni di anni fa, e precisamente nel periodo chiamato Pleistocene, la storia della vita presenta i primi reperti fossili di Homo. Da allora il tempo biologico continua a fare storia attraverso le variazioni delle forme di vita esistenti e si concludono con la comparsa dell’uomo attuale o Neantropo (Homo sapienssapiens) tra i 30 000 e i 60 000 anni fa. I TEMPI DEGLI INDIVIDUI I tempi sin qui descritti riguardano il cosmo, il sistema solare, la terra, e la vita con la sua successione di forme e la storia della specie uomo ma non riguardano i tempi fondamentali per ciascun uomo: i tempi di vita individuali. Ciascun uomo sa che per ogni singolo individuo esiste un tempo per nascere o meglio un tempo per essere concepito, ed un tempo per morire e che tra questi due estremi si collocano traguardi temporali intermedi sia normali, come l’infanzia, l’adolescenza, la maturità e la conoscenza, sia patologica come l’insorgenza, il decorso e l’esito delle malattie, ma non si sofferma a riflettere sui meccanismi che li determinano e su cosa rende diversi questi tempi nei differenti individui. I tempi della vita individuale possono essere paragonati a quelli di una partitura musicale nella quale ogni nota prende il suo posto e dura per un tempo definito. Come sul rigo musicale però in modo assai più complesso per numero di note e di voci contemporanee, si comportano i tempi delle funzioni e delle strutture in un organismo. 22 Il quadro degli accordi sincronici delle diverse attività vitali può essere paragonato all’armonia prodotta da una suonata a più mani per pianoforte dove la qualità dell’esecuzione dello spartito è condizionata oltre che dall’interprete, dalla bontà dello strumento a disposizione ed in particolare dalla sua accordatura. E’ sufficiente pensare al meccanismo che sottostà all’esecuzione delle note in un pianoforte per rendersi conto che al variare della tensione di una corda corrisponde nell’esecuzione una nota stonata e che alla rottura di una corda corrisponde l’impossibilità dell’esecuzione della nota stessa. Uscendo dal paragone osserviamo che la presenza di strutture e funzioni differenti nelle cellule dei differenti tessuti di un organismo superiore, comportano che oltre ai meccanismi deputati alle diverse funzioni, esistono meccanismi operativi che attivano o reprimono nei tempi opportuni i meccanismi funzionali. Questa regolazione sincopale di apertura e di chiusura di attività conduce alla identificazione di un primo particolare modo di essere del tempo biologico e cioè il tempo biologico operativo. Tre diversi tipi di tempi operativi sono alla base dei diversi aspetti temporali della vita individuale e cioè i tempi di: a) Attivazione e disattivazione delle sequenze di sintesi che conducono alla trasformazione dell’uovo fecondato in un organismo (ontogenesi). b) Attivazione e disattivazione delle funzioni omeostatiche e cioè i tempi dei meccanismi necessari per l’interazione e l’equilibrio dell’individuo con l’ambiente in cui opera (omeostasi). c) Sincronizzazione delle funzioni con i tempi ambientali (cronobiologia). I tempi operativi non esauriscono però i tempi individuali di un organismo. Essi stessi anzi suggeriscono l’esistenza di un tempo durata dell’organismo e delle informazioni sia funzionali che operative, tempo durata che sottostà e rende possibile l’esistenza di tutti gli altri tempi. 23 Ritorniamo per un attimo al paragone musicale nella suonata a quattro mani. Il tempo durata di vita dell’individuo e delle informazioni è rappresentato dall’esistenza e dall’efficienza del pianoforte e all’interno dello strumento dall’esistenza e dall’efficienza delle singole corde. Come abbiamo detto la rottura di una corda rende l’esecuzione o carente di quella nota o se quella nota è indispensabile, in passaggi chiave rende l’esecuzione del brano musicale impossibile. Qualcosa di analogo avviene nella vita organismica dove le possibilità operative dipendono della durata delle strutture e dei meccanismi che a queste sottostanno e che quindi determinano attraverso la loro durata la durata di vita dell’organismo. La durata di vita è quindi una caratteristica di ogni individuo all’interno di un intervallo di tempo determinato per ogni singola specie. La caratteristica differenza della durata di vita nelle diverse specie porta a riflettere sulla natura dei meccanismi che la determinano. Infatti dato che molte specie diverse sono adattate ad ambienti simili è logico supporre che le durate di vita siano correlate alla struttura del genoma delle differenti specie. E’ possibile verificare nella specie umana l’ipotesi di un determinismo organico dei tempi individuali per la presenza nella specie di una disposizione sperimentale naturale rappresentata da gemelli. I GEMELLI La vita di alcuni gemelli identici segna una caratteristica contemporaneità durante il periodo dell’accrescimento, la quale contemporaneità non solo è attestata dal susseguirsi sincrono della prima e della seconda dentizione nonchè della pubertà maschile e femminile (menarca talora nella medesima notte), ma soprattutto dalla identicità corporea e funzionale di questi gemelli che talvolta impedisce di distinguere l’uno dall’altro. 24 Questa identicità si mantiene fino a quando i gemelli vivono si alimentano e operano nel medesimo ambiente anche raggiunta l’ omeostasi. Si attenua poi quando per vicende lavorative, matrimoniali o altrimenti i gemelli vivono in ambienti diversi, ma ritorna a manifestarsi nel periodo della senilità sotto forma di una contemporanea diminuita efficienza delle medesime funzioni organiche e nella subentrante scomparsa di alcune di esse, secondo un quadro di decadimento identico nei cogemelli monozigotici. Questa medesima evoluzione sincrona dei fenotipi di gemelli identici è un prezioso test dell’esistenza di una dimensione temporale del genoma. Lo studio di questa dimensione temporale comporta una analisi più approfondita del fenomeno gemellare. La gemellazione è una variante della funzione riproduttiva umana normale e può essere prodotta sia da poliovulazione (gemellazione dizigotica o gemelli fraterni) che da poliembrionia (gemellazione monozigotica o gemelli identici). Per comprendere i meccanismi che sono alla base della gemellazione è necessario premettere una descrizione, anche se sommaria, del fenomeno riproduttivo nella specie umana. La storia della linea germinale sia maschile che femminile inizia al terzo mese della vita endo-uterina quando si formano gruppi specializzati di cellule che daranno origine negli uomini agli spermatogoni precursori dei gameti maschili (spermatozoi) o nelle femmine agli oogoni precursori dei gameti femminili (ovuli). Gli spermatogoni sviluppano gli spermatociti questi gli spermatidi i quali producono gli spermatozoi. Gli oogoni sviluppano a loro volta gli oociti e questi gli ovuli. A livello degli spermatociti nel sesso maschile e degli oociti nel sesso femminile ha luogo la riduzione a metà del numero dei cromosomi e quindi anche delle coppie di geni che essi contengono, attraverso la divisione meiotica (meiosi). Entro il quarto mese della vita endouterina nei soggetti femminili si completano le ovaie che contengono circa 400 oociti bloccati in uno stadio della divisione meiotica (diacinesi) e che si 25 sbloccano solo dopo il menarca uno sotto l’azione di un ormone ipofisario chiamato FSH. Questo ormone induce la formazione del follicolo di Van der Graaf. L’induzione ormonale si ripete circa ogni mese ed è seguita dall’azione di un secondo ormone ipofisario l’ormone Luteinico (LH) che provoca tra l’altro la rottura del follicolo e il completamento della meiosi e la caduta dell’uovo nella cavità addominale dove le salpingi lo raccolgono. E’ a questo punto dell’itinerario dell’uovo che può avvenire l’incontro con i gameti maschili e quindi la fecondazione. Sia fecondato che non fecondato l’uovo inizia un proprio cammino lungo le tube. Nel primo caso formata la membrana pellucida e quindi, fusi i pronuclei maschile e femminile, si forma lo zigote che poi si trasforma in morula quindi in blastocisti e si inserisce in utero quando l’embrione è allo stadio di discoblastula. La storia del gamete maschile comincia anch’essa al terzo mese della vita endouterina con la migrazione sulle creste gonadiche di un gruppo di cellule che daranno origine alle gonadi maschili. Alcune cellule (i protogoni) saranno sottoposte in tempi successivi a meiosi e dopo un complesso periodo di maturazione daranno origine agli spermi, cellule altamente specializzate con nucleo condensato privo di RNA e con un flagello che conferisce la necessaria motilità ed un acrosoma che permette allo spermio di raggiungere la superficie dell’uovo. Non esiste per gli spermatozoi una periodicità maturativa come nel gamete femminile. Il numero di spermatozoi che vengono approntati per una eiaculazione è di circa un milione e mezzo (1,5 x 106). Accennata così la storia dei gameti femminili e maschili focalizziamo i meccanismi che producono i due tipi di gemelli. Per quanto riguarda la gemellazione dizigotica oggi è dimostrato che le variazioni dell’FSH e degli ormoni correlati come il luteinico (LH), l’ormone di accrescimento (GH) e la prostaglandina E2 sono in grado di indurre poliovulazioni, come è provato dalle terapie della sterilità ormonale che possono produrre attraverso l’induzione della maturazione contestuale di due o più follicoli gemelli Dz. 26 Per quanto riguarda la gemellazione monozigotica ricordiamo che il meccanismo gemellogenetico consiste o in una divisione completa dei due blastomeri originati dalla divisione dello zigote o in una separazione (clivaggio) delle cellule dell’embrione allo stadio di morula o di blastocisti o di discoblastula. Quando i gemelli monozigotici si dividono allo stadio di blastocisti o di discoblastula si possono formare anastomosi tra i circoli sanguigni fetali con scambio del sangue fra i due feti cosa che talvolta conduce a situazioni emodinamiche molto diverse e difficili perchè spesso competitive per i gemelli. Il fenomeno della gemellogenesi naturale è un carattere ereditario e questo è dimostrato in primo luogo dalla familiarità del fenomeno stesso. E’ usuale, infatti nella stesura degli alberi genealogici dei gemelli il rilievo di altre coppie gemellari nello spazio familiare. Particolare valore assume il fatto che se si parte come candidati da gemelli MZ si rilevano nello spazio familiare sia gemelli MZ che gemelli DZ ed altrettanto accade se si parte da una coppia di gemelli DZ. Il reperto genealogico suggerisce l’unicità del fenomeno della gemellogenesi. Una conferma dell’ereditarietà della gemellogenesi è data dalle diverse frequenze dei parti gemellari nelle diverse etnie. In Nigeria il tasso dei parti gemellari si attesta intorno al 20%, in Europa è in media del 10% ed infine in Estremo Oriente (Cinesi e Giapponesi) é intorno al 5%. Se dai rilievi statistici si passa all’analisi dei possibili modelli biochimici questi confermano che il meccanismo ereditario deve essere correlato ai genotipi che controllano gli ormoni FSH- LH- GH e PE2 per entrambe i tipi di gemellazione in quanto i parti gemellari indotti dalle cure ormonali della sterilità femminile mediante somministrazione degli ormoni anzidetti sono sia Dz che Mz e questi ultimi in proporzione maggiore di quelli rilevati nella popolazione. La nostra ipotesi è che la variazione dei rapporti tra ormoni ed in particolare tra l’FSH ed LH produca la gemellazione DZ e MZ a seconda del momento in cui questa variazione si esprime e cioè se si esprime a livello ovarico o a livello tubarico. Nel primo caso 27 si ha la induzione di una gemellogenesi DZ (eccesso di FSH / LH a livello ovarico) mentre nel secondo caso si determina una gemellogenesi MZ. La nostra ipotesi è ulteriormente confermata dal fatto che le gravidanze multiple, più che gemellari indotte da cure ormonali della sterilità femminile sono determinate da entrambi i meccanismi di gemellazione e originano un numero di gemelli MZ che è in frequenza superiore a quello atteso. La interscambiabilità e quindi l’identicità di cogemelli monozigotici è un dato di conoscenza letteraria e popolare che assume il grado di conoscenza scientifica quando se ne conoscano il significato ed i limiti. Quanto al significato bisogna distinguere la identicità dei monozigotici dalla rassomiglianza dei sosia. La identicità dei monozigoti ha un fondamento genetico globale, ossia genomico e permanente, fondato sulla eguaglianza, per duplicazione, del materiale ereditario, quella dei sosia è invece una uguaglianza di un limitato numero di caratteri fenotipici che dura per un determinato e limitato periodo di tempo. I fondamenti scientifici del fenomeno “identicità” sono da ricercare nella uguaglianza della variabilità individuale fenotipica che in tutti i viventi è determinata da fattori genetici, da fattori ambientali e dalla loro interazione. Il teorema di Fisher in genetica di popolazione formalizza questo concetto nel modo seguente: VPh=VG + VE + VGxE dove V di Ph G ed E indicano rispettivamente V la varianza Ph quella fenotipica G quella genetica ed E quella ambientale. Se ora consideriamo in due individui la possibilità di uguaglianza per due caratteri fenotipici risulta evidente che i due individui debbano avere sia l’identità dei fattori genetici che l’uguaglianza degli ambienti nei quali questi fattori operano. Per necessità di sintesi nel teorema di Fisher VE rappresenta la varianza complessiva dovuta ai fattori ambientali, ma è logico pensare che la quantità rappresentata da VE è nella realtà la somma delle varianze dovute alla successione degli ambienti individuali. 28 L’uguaglianza della variabilità dovuta all’ambiente presuppone quindi l’uguaglianza della successione degli ambienti individuali. In altre parole la possibilità di un’identicità fenotipica presuppone oltre a una identicità dei genomi una altrettanto necessaria uguaglianza della successione degli ambienti individuali in cui il genoma ha operato ed opera. La improbabilità di una evenienza simile porta a pensare che l’esistenza dei vari sosia pur limitata ad una identità temporanea dei soli tratti somatici esterni sia altamente improbabile e soprattutto che sia impossibile a individui mononati mantenere questa rassomiglianza nel tempo. Un’eccezione a questa situazione di impossibilità è rappresentata dai gemelli monozigotici i quali proprio per il meccanismo che li produce hanno genomi identici. La divisione gemellogenetica MZ avviene infatti nell’intervallo di tempo che va dalla divisione dello zigote in due blastoneri alla divisione in due dell’abbozzo embrionale in settima giornata (discoblastula), ma sempre e comunque da una separazione tra cellule o gruppi di cellule originate da divisioni mitotiche che ripropongono nelle nuove cellule sempre genomi identici. In altre parole i gemelli MZ hanno necessariamente una delle due condizioni per avere fenotipi identici: i genomi uguali. Come abbiamo detto la seconda condizione per l’identicità fenotipica è quella di avere uguali oltre al genoma, la successione degli ambienti in cui il genoma stesso si sviluppa e opera. Questa seconda condizione è potenzialmente presente solo in una frazione dei gemelli MZ quella originata dalla divisione in due dello zigote o dell’abbozzo embrionale nei primi tre giorni quando la divisione comporta una separazione completa dei due abbozzi che poi si muovono autonomamente lungo le tube e si inseriscono indipendentemente in utero determinando la formazione di due placenta indipendenti e di due circoli materno-fetali indipendenti ed equivalenti. Non altrettanto avviene se la divisione si realizza dopo il terzo giorno quando la divisione riguarda solo le cellule destinate a formare i due embrioni mentre le altre cellule destinate a formare gli annessi restano indivise per conseguenza due abbozzi 29 embrionali andranno ad inserirsi in utero insieme con una sola placenta ed un unico chorion. In questo caso oltre al circolo materno fetale in molti casi si ha la formazione di anastomosi tra i vasi dei due abbozzi, anastomosi che determinano circoli feto-fetali i quali possono rendere i due embrioni competitivi tra loro. Nel gruppo dei gemelli monozigotici, monoplacentati, monocoriali monoamniotici e cioè in quei monozigotici che si duplicano dopo l’inserzione in utero della blastocisti oltre alla possibile competitività data da un eventuale circolo feto fetale a rendere diverso lo sviluppo dei due feti, si aggiungono, alcune volta fenomeni di simmetria speculare di norma funzionali e talvolta anche morfologici. Oltre al tempo di divisione embrionale (zigote, morula, blastocisti, discoblastula) possono influire sulla diversità fenotipiche tra co-gemelli monozigotici, divisioni atipiche dello zigote o dei blasti che attraverso selezioni differenti possono originare embrioni non equivalenti persino nel numero dei cromosomi2. L’identicità della successione degli ambienti nei gemelli monozigotici diplacentati dicoriali allevati nel medesimo ambiente familiare, è invece spesso resa evidente dal raggiungimento contestuale e contemporaneo dei traguardi ontogenetici da parte di cogemelli MZ di questo tipo. La isocronia dei tempi dello sviluppo in coppie gemellari MZ conduce ad una prima considerazione sui fattori causali della isocronia. Un caso particolare nel quale le divisioni atipiche originano due gemelli con cariotipo a mosaico 45x, 46x + marcatore è stato recentemente pubblicato (ottobre 1994) da Yukifumi Yokota et altri del dipartimento di Genetica Umana dell'Università di Tokio sull'American Journal of Medical Genetic vol. 53 (5255). Nella coppia di gemelli studiata la distribuzione non equivalente delle cellule di due cloni instauratosi prima della divisione gemellogenetica ha condotto i cogemelli ad avere cariotipi a mosaico diversi che determinano in un gemello un fenotipo maschile e nell'altro un fenotipo femminile. Questo nonostante la certezza della diagnosi di zigotismo fondata sul DNA satellitare che assegna al dizigotismo una probabilità inferiore a uno su 100.000.000 (p < .000001). 2 30 E’ in effetti immediata l’idea che l’isocronia dei tempi fenotipici sia dovuta da un lato all’uguale successione degli ambienti nei quali vivono cogemelli e dall’altro alla uguaglianza della sequenza dei complessi operativi legata alla isogenicità dei cogemelli MZ. L’identicità della successione ambientale e dei genotipi conduce ad una regolazione identica dei geni implicati e quindi a sintesi proteiche identiche per qualità, quantità e durata. Conseguenza dell’identità genomica è la identicità dei tempi operativi cui segue la comparsa contestuale e contemporanea dei caratteri fenotipici dipendenti. E’ interessante a questo livello notare che nei gemelli MZ dicoriali che godono di uguali ambienti vitali sono necessariamente identici anche i tempi ciclici o cronobiologici in quanto come sappiamo l’identità della successione ambientale e l’identità genotipica conducono anche ad un’identicità dei tempi operativi e quindi se a questi aggiungiamo l’unicità di azione del tempo fisico non si può non ottenere che un ulteriore identicità temporale fenotipica dei gemelli, quella cronobiologica. Una riflessione più profonda e diversa è resa necessaria dal rilievo dell’identicità dei profili di invecchiamento nei cogemelli. Un profilo di invecchiamento individuale è determinato da quali funzioni individuali diminuiscono di efficienza o vengono a mancare ed a quale età. Di norma il quadro fenotipico della scomparsa di una funzione corrisponde alla cessazione di un certo numero di attività geniche. L’identicità dei quadri fenotipici di senescenza da noi abitualmente rilevati3 in alcuni casi, come quello che riportiamo comporta la morte praticamente contemporanea per la stessa causa in gemelli MZ. Casi come questi depongono per limiti temporali ben precisi dei geni implicati nelle funzioni che vengono a mancare. Questi tempi non sono più tempi operativi ma tempi di durata dell’attività genica e quindi tempi che marcano la vita di ciascun gene. L’identicità di questi tempi in gemelli 3 Cfr. Gedda L., Brenci G., Twins living apart test A.Ge.Me.Ge. 32,17-22 (1983) 31 monozigotici suggerisce che i geni del nostro organismo hanno una durata di vita determinata dalla struttura stessa del gene. La durata di vita (esistenza) del gene evidenziato dal sincronismo delle estinzioni funzionali nei gemelli monozigotici anziani suggerisce che al di là dei tempi operativi esiste un tempo del gene che é la sua durata di vita tempo correlato alla struttura stessa del gene e la sua stabilità. LA STABILITÀ DEL GENE STABILITÀ PER SINONIMIA L’esplorazione della stabilità del gene può iniziare con l’analisi dello stesso codice genetico. Un primo fattore di stabilità è a questo livello identificabile nella esistenza delle cosiddette mutazioni silenti ossia dalle mutazioni puntuali4 che modificano un codon ma non si traducono nel cambio dell’amminoacido corrispondente e che quindi non hanno un effetto sulla struttura del polipeptide prodotto. Come abbiamo già detto sulla emi-molecola che viene trascritta o elica 5→3 del DNA i segnali del codice genetico che identificano un amminoacido sono formati dalla sequenza di tre delle quattro basi (timina, adenina, guanina e citosina). Le possibili combinazioni di tre a tre delle quattro basi (dette anticodoni o anche triplette) sono evidentemente 43 = 64. Ciascuna di queste triplette può codificare uno e uno solo dei venti amminoacidi che compongono le proteine dell’organismo umano, mentre un dato amminoacido può essere codificato da una o più delle 64 possibili combinazioni delle quattro basi. Le combinazioni che producono il medesimo amminoacido vengono chiamate sinonimi. La non corrispondenza biunivoca fra le triplette che sono 61 (escludendo le 3 triplette cosiddette di 4 Puntuali = di un solo nucleotide 32 intereunzione) e gli amminoacidi che sono 20, crea la possibilità che una mutazione puntuale di una base trasformi una tripletta in un suo sinonimo senza che quindi avvenga una modificazione dell’amminoacido corrispondente. Nel seguente prospetto gli amminoacidi vengono catalogati in 6 gruppi a seconda del numero di sinonimi che possono produrli e al numero di possibili mutazioni silenti per ciascun gruppo: A1 Leucina,Arginina A2 Serina A3 Valina, Prolina, Treonina, Cisteina, Lisina, Glutammina, Asparagina, Acido Glutammico, Acido Aspartico A4 Isoleucina A5 Fenilalanina, Istidina, Tirosina, Cisteina, Lisina, Glutammina, Asparagina, Acido Glutammico, Acido Aspartico Triptofano, Metionina Numero delleTriplette Sinonimi Mutazioni silenti 6 7/27 6 9/27 4 3/27 2 1/27 3 1 2/27 0 Calcolando il numero delle mutazioni silenti nei confronti del numero delle mutazioni possibili si può definire l’indice di mutabilità (per mutazione puntuale) dell’informazione riguardante un determinato amminoacido Im (x) e quindi anche il suo opposto (1 Im (x)) = Is (x) cioè l’indice di stabilità della sua informazione. 33 Accettando per ipotesi che le basi si associno a caso nella formazione delle triplette e considerando una proteina media composta di 250 amminoacidi è possibile calcolare la stabilità media della informazione riguardante una proteina ottenendo un valore: n P.E. (MS) = ∑ S / N i (1,2,3,4,5,6,) = .2374 ±.0068 j=1 j j e cioè → in percentuale ~ 24% Dove P.E. (MS) indica la stabilità media della proteina, j gli AA che la compongono, S/N il rapporto tra mutazioni silenti e mutazioni possibili per AA a seconda della sinonimia. In altre parole è d’attendersi che in media il 25% delle mutazioni puntuali di una informazione non si traduce in variazione della proteina, determinando così un aumento della stabilità dell’informazione. Livello dei legami idrogeno La “sinonimia” chiarisce l’esistenza di una variabilità di stabilità della informazione ereditaria correlata con l’esistenza di mutazioni puntuali silenti, ma l’esistenza de i codon sinonimi nel codice conduce a identificare anche un altro tipo di stabilità differenziale delle informazioni ereditarie. Questa diversa stabilità valutabile a livello fisico-chimico dipende dal numero di legami idrogeno presenti nella terza base di ciascuna tripletta utilizzata nella codifica. Uno sguardo al codice genetico permette di verificare che nella grande maggioranza dei casi (18 su 20 amminoacidi) è indifferente che la terza base della tripletta sia rappresentata da una AdeninaTimina oppure da una GuaninaCitosina. La possibilità che triplette diverse per la terza base codifichino un medesimo AA comporta la possibilità o della presenza di due legami idrogeno nel caso dell’utilizzo della 34 Adenina-Timina oppure di tre legami idrogeno nel caso dell’utilizzo della Guanina-Citosina per codificare il medesimo AA. Queste due eventualità fanno si che il medesimo messaggio genetico possa essere scritto utilizzando per ciascun codon in terza base due oppure tre legami idrogeno. Considerando che una proteina media è formata da circa 250 Amminoacidi e quindi è codificata da 250 triplette si può pensare che ai 1250 legami corrispondenti alle medie dei legami (2,5) delle prime due basi (2,5 x2 x 250), si possono aggiungere in terza base o 750 legami H nel caso di terze basi tutte del tipo Guanina o Citosina oppure 500 legami idrogeno nel caso di utilizzo di terze basi tutte del tipo (Adenina o Timina) e questo sempre codificando una medesima proteina. In altre parole la medesima proteina può essere codificata da un tratto di DNA contenente 1750 oppure 2000 legami idrogeno ossia da un tratto di DNA con il 12,5% di legami idrogeno in più o in meno. Questa diversità fisico-chimica del gene a livello DNA produce un’evidente maggiore o minore stabilità fisico-chimica del gene stesso come dimostra la relazione di Marmur e Doty (2) nella quale si afferma che l’energia necessaria per la denaturazione di un tratto di DNA (separazione dei filamenti della doppia elica per rottura dei legami idrogeno) aumenta proporzionalmente al numero delle basi GuaninaCitosina in esso contenute. Si pone a questo punto l’interrogativo se la maggior stabilità chimico-fisica determinata dal numero di legami idrogeno si traduca in una variabilità della stabilità informatica. Che il fenomeno abbia notevole importanza a livello informatico è dimostrato dalle tavole dei “codons usage” dove si rileva che l’uso delle terze basi di tipo Adenina-Timina va decrescendo quando si passa dal DNA dei procarioti a quello dei mammiferi. In altre parole ad un aumento della complessità dell’organismo corrisponde necessariamente un aumento dell’affidabilità del sistema ottenuta attraverso l’aumento della stabilità relativa. 35 STABILITÀ PER RIDONDANZA Geni multicopie Le esperienze di Morgan, Bridge e Sturtevant hanno permesso attraverso lo studio del gene Bar in drosophila melanogaster l’identificazione dei “tandem repeats” e cioè la presenza di segnali genetici ripetuti nel cromosoma uno della drosophila. Gli esperimenti della scuola di Morgan hanno chiarito anche il meccanismo di produzione delle duplicazioni identificato negli scambi intercromatidici non equivalenti (Crossing over anequalis) nella gametogenesi. Oggi è possibile affermare che i genomi dei mammiferi contengono due distinte classi di geni ripetuti o multicopie: una classe di geni ripetuti deve generare funzionalità diverse mentre l’altra esiste per produrre una quantità maggiore dello stesso prodotto genico. Qualche centinaio di geni che specificano la regione variabile delle immunoglobuline rappresentano per ora il solo esempio noto della prima classe. Appartengono invece alla seconda classe e cioè ai geni ripetuti che codificano una medesima informazione alcuni geni fondamentali per la fisiologia della informazione ereditaria come quelli per le frazioni 18 S, 28 S e 5 S dell’RNA ribosomiale, quelli per gli RNA di transfert e i geni per i 5 diversi tipi di istoni. Se ora ci si interroga sul significato dei geni multicopie ci si rende conto che oltre all’ovvio significato di una correlazione tra numero di ripetizioni della informazione e quantità del prodotto genico disponibile dobbiamo prendere in considerazione almeno due altri significati. Un primo significato è collegato con l’affidabilità della informazione stessa. In informatica l’affidabilità è definita come la capacità di una informazione di non originare errori cosa questa che viene normalmente ottenuta attraverso la ridondanza intesa come la ripetizione dell’intera informazione o di una parte di essa, in modo di avere un termine di confronto per stabilire la correttezza della informazione stessa. Quantità di informazione e ridondanza sono in informatica variabili definite e misurabili. 36 Un secondo significato dei geni multicopie si ottiene riflettendo sul fatto che la richiesta organismica di una determinata informazione non è costante nel tempo e nei diversi tipi di cellule. E’ evidente che il genoma essendo identico in tutte le cellule deve contenere un numero di geni multicopie congruo con il momento di massima richiesta, dell’informazione in determinate cellule dell’organismo, richiesta massima che di solito si realizza nell’embriogenesi. Poichè la richiesta organismica può variare nel tempo e di norma diminuisce nella vita adulta per assestarsi su un determinato valore nel periodo dell’omeostasi, il numero di ripetizioni approntato per affrontare la massima richiesta durante l’ontogenesi permette all’organismo di disporre nell’omeostasi e nella senescenza di riserve di stabilità dell’informazione. Probabilmente é il tempo impiegato nell’esaurimento di questa riserva di stabilità che determina il periodo della sopravvivenza individuale. Uno sguardo panoramico complessivo a questi tre aspetti della ridondanza consente di coglierne il denominatore comune che è l’aumento dell’affidabilità dell’informazione nel tempo e cioè un aumento della stabilità dell’informazione. La ridondanza per ripetizione dell’intera informazione come avviene nei geni multicopie, non esaurisce le forme di ridondanza presenti nel DNA. Esistono infatti ridondanze di segnale che senza influire sulla quantità di informazione disponibile agiscono a livello della affidabilità dell’informazione registrata. Un esempio può chiarire le modalità d’azione di questo tipo di ridondanza. Supponiamo che l’informazione da registrare sia il numero di pagine (147) di un prezioso manoscritto e che quindi questo numero debba essere sempre registrato e trascritto in un modo particolarmente esatto. Come metodo di controllo dell’esattezza si può per esempio ripetere più volte l’informazione (almeno tre) e considerare come esatto il messaggio ripetuto identico per il maggior numero di volte, e questo è probabilmente il meccanismo che agisce nei geni multicopie; ma è anche possibile e più economico utilizzare per il 37 controllo dell’esattezza algoritmi come quello di aggiungere al messaggio iniziale l’ultima cifra della somma dei numeri che compaiono nell’informazione: 1 + 4 + 7 = 12 con 2 cifra aggiunta. Registrando l’informazione non con 1 4 7 ma con 1 4 7 2 si ottiene un elevato controllo dell’attendibilità dell’informazione. La nuova cifra aggiunta non comporta aumento della quantità dell’informazione ma solo un aumento della sua attendibilità e quindi un controllo della stabilità dell’informazione stessa. Ovviamente gli algoritmi utilizzabili sono molti; ad esempio l’identità dell’ultimo segnale con un segnale registrato in una data posizione. Un ulteriore tipo di ridondanza che agisca a livello dell’informazione ereditaria può essere identificato attraverso la distribuzione non equiprobabile delle basi in un tratto di DNA. Se si considera infatti un tratto di DNA sufficientemente lungo la probabilità casuali di presenza delle singole basi dovrebbero essere 1/4, ma nella realtà il rapporto tra basi che si rileva sperimentalmente in un tratto di DNA diverge da quello atteso nell’ipotesi di equiprobabilità poichè uno o più basi sono ripetute un maggior (o minore) numero di volte rispetto allo 0,25% atteso teoricamente. In altre parole uno o più segnali sono “ridondanti” rispetto al numero atteso teoricamente nell’ipotesi di equiprobabilità. Chiamata con H(max) la quantità di informazione massima di un tratto di DNA e cioè quella corrispondente alla equiprobabilità dei segnali, e con H(obs) il rapporto di composizione in basi sperimentalmente rilevato, è possibile definire la divergenza D1 = H(ma) - H(obs). H(obs) però rappresenta anch’esso un massimo dal punto di vista delle correlazioni possibili tra simboli perchè presuppone l’indipendenza tra basi contigue. E’ quindi necessario misurare come ciascuna base condizioni le basi contigue. Questo si ottiene approssimando il DNA a catene di Markov del primo ordine. Si ottiene così una nuova divergenza D2 = H(obs) - Hr dove Hr misura la ridondanza da condizionamento. Utilizzando D1 e D2 si può ora definire la quantità di informazione registrata in un tratto di DNA IR = D1 + D2= H(max) -H(obs) +H(obs) - Hr e cioè semplificando IR = Hmax -Hr. L’importanza biologica dell’identificazione della ridondanza nella 38 quantità di informazione registrata in un tratto di DNA, ha un valore notevole in quanto se si classificano i DNA estratti da diversa specie di viventi a seconda dei valori delle due divergenze (ridondanze) D1 e D2 si ottiene una classificazione delle forme viventi che va dal virus al metozoo così come è illustrata nella tabella che riportiamo da H. Atlan dove è evidente che più le forme sono complesse e più è necessario un valore elevato della ridondanza ed in particolare di quella di tipo D2. Vogliamo infine ricordare che nei genomi della specie a riproduzione sessuata esiste una speciale forma di ridondanza, determinata dalla presenza contestuale in un genotipo specifico del gene paterno e del gene materno. Lo studio dell’effetto fenotipico di questi genotipi a seconda che siano presenti: 2 mutazioni, 1 mutazione; nessuna mutazione, porta attraverso l’azione e l’interazione tra geni alla comparsa della varianza genetica nelle sue due componenti fondamentali: quella additiva e quella dovuta alla dominanza per interazione tra i geni che compongono il genotipo specifico. Il nostro interesse per questa forma minimale di ridondanza non è però rivolto al solo effetto fenotipico ma alla stabilità del genotipo in funzione della stabilità dei geni che lo compongono. L’esempio che può meglio illustrare questo tipo di stabilità è quello del retinoblastoma. Questa malattia è determinata da due eventi mutazionali successivi che possono essere sia una mutazione gametica alla quale si aggiunge una mutazione somatica che due mutazioni somatiche successive. Nei casi familiari del retinoblastoma ad un gene mutato trasmesso come tale da un genitore presente sin dalla formazione dello zigote e quindi per conseguenza in tutte le cellule dell’organismo si somma una mutazione somatica del gene trasmesso come sano nelle cellule della retina. Si realizza così un particolare omozigosi che produce il retinoblastoma. L’insorgenza della malattia nel caso di una mutazione somatica che si somma ad una gametica è 39 relativamente precoce perchè dipende dal realizzarsi della sola mutazione somatica ed è quindi proporzionale alla frequenza delle mutazioni di questo tipo. Nelle forme cosiddette sporadiche dove i due eventi mutazionali sono entrambi somatici e si realizzano in tempi successivi nei due geni. L’insorgenza è relativamente tarda in quanto la realizzazione dell’evento mutazionale indipendentemente nei due geni rende l’età di insorgenza non più proporzionale alla frequenza di mutazione bensì al suo quadrato. Il modello del retinoblastoma illustra bene la stabilità per ridondanza nei due geni di un genotipo specifico e chiarisce come l’azione mutagena dell’ambiente può agire sulla stabilità (o meglio sul suo inverso la mutabilità) sia a livello gametico che a livello somatico; e dimostra come alle mutazioni trasmesse a livello gametico si possano sommare durante la vita individuale, mutazioni somatiche. STABILITÀ PER REPAIR L’efficienza dei sistemi di riparazione degli errori rappresenta un terzo gruppo di fattori che sono alla base della stabilità genica. Per non eccedere, ricordiamo qui le modalità di azione di un solo sistema di repair quello per escissione. Uno dei danni più comuni che viene eliminato da un meccanismo di riparazione è il dimero pirimidinico (TT o CC CT). Che viene rimosso mediante repair per escissione. Il dimero consiste nella formazione di un legame covalente tra due piramidine successive su di una medesima elica del DNA. Causa della formazione del dimero è di norma la radiazione ultravioletta componente normale della luce solare. La probabilità di formazione dei dimeri è una funzione sia delle modalità della radiazione ultravioletta, ma anche della struttura stessa del DNA considerato e cioè del numero di pirimidine che si succedono nel tratto informatico. E’evidente che se in un tratto informatico è contenuta una sola coppia di pirimidine contigue la probabilità di formazione di dimeri sarà molto diversa dalla probabilità di formazione di 40 dimeri di un tratto di DNA formato da una sequenza per esempio di AT (poli AT). L’equilibrio tra probabilità di formazione dei dimeri e capacità del sistema di repair di eliminarli, determina la stabilità della informazione genica rispetto a questo errore che se non corretto può essere causa di mutazioni cosiddette “back bone mutation”. Il rapporto produzione/eliminazione errori può dare logicamente origine a tre diverse situazioni: 1) Il meccanismo di repair elimina sempre e tutti i possibili dimeri e quindi l’informazione resta stabile nel tempo; 2) Produzione ed eliminazione dei dimeri sono in equilibrio instabile e casualmente alcuni dimeri non vengono corretti e si accumulano causando una instabilità lenta e progressiva dell’informazione; 3) La frequenza di produzione degli errori è, per eccesso della azione mutagena o per struttura dell’informazione o per deficienza dei sistemi di repair, maggiore della capacità di riparazione con un veloce accumulo di errori nel tempo che rendono definitivamente inattiva l’informazione. SISTEMI PREVENTIVI DELL’AZIONE DEI MUTAGENI Ai fattori di stabilità descritti è necessario aggiungere come ulteriore fattore di stabilità delle informazioni ereditarie i sistemi enzimatici in grado di ridurre o comunque condizionare alcune tra le più frequenti cause di errori e mutazioni. I più noti tra questi sistemi sono quelli che agiscono eliminando o condizionando la formazione di ossigeno attivo nei vari composti chimici. L’ossigeno attivo costituisce o direttamente o attraverso gli agenti ossidanti a cui dà luogo, la causa più probabile di errore, in quanto, è originato, sia pure in frequenza minima, da una funzione essenziale nel vivente: la respirazione. Due sono i maggiori sistemi di eliminazione degli agenti ossidanti. Un primo sistema è articolato su due successivi passaggi metabolici e utilizza la superoxidismutasi per trasformare l’ossigeno attivo O2 in perossido di idrogeno H2O2 e O2 (molecola non attiva), poi due molecole di perossido per azione 41 della catalisi si trasformano in due molecole di acqua più una molecola di ossigeno inerte. Il secondo sistema di difesa contro gli agenti ossidanti è realizzato dagli enzimi del sistema glutationemico. Anche questo sistema utilizza due passaggi metabolici, nel primo la glutationperossidasi trasforma con l’aiuto di due molecole di glutatione ridotto (GSH) una molecola di perossido di idrogeno in una molecola di acqua più una molecola di glutatione ossidato (GSSG). Nella seconda reazione la glutation-reductasi è in grado con l’aiuto di altri sistemi (NADP e NADPH) di produrre il glutatione ridotto da glutatione ossidato. L’eliminazione dell’ossigeno attivo e degli altri agenti ossidanti da parte di questi sistemi impedisce la formazione dei radicali liberi, una delle maggiori cause di mutazione. I RAPPORTI TRA STABILITÀ E DURATA DI VITA DEL GENE (IL DECADIMENTO) La stabilità di un gene che abbiamo descritto nel capitolo precedente è una caratteristica che varia durante la vita esaurendosi nel tempo per l’accumulo degli errori e delle mutazioni. Il decadimento conduce all’estinzione della informazione genica. L’intervallo tra la costituzione dell’informazione e la sua estinzione rappresenta la durata di vita del gene. La speranza di vita di un gene, cioè la sua capacità “a priori” di mantenere nel tempo, in un dato ambiente, la propria funzione informatica è determinata dalla stabilità iniziale, la quale oltre a essere variabile da individuo a individuo può essere diminuita o annullata da mutazioni trasmesse ereditariamente o acquisite. In ogni caso la vita di tutti i geni ha un decorso a termine caratterizzato dal decadimento della sua stabilità che conduce all’estinzione dell’informazione genica e all’insorgere della malattia corrispondente alla carenza del prodotto genico. Lo studio del decadimento genico stabilisce così rapporti di interdipendenza fra la stabilità del gene e la durata della sua informazione. L’esistenza di questi rapporti permette anzitutto di considerare la stabilità potenziale (speranza di vita) di un gene come 42 responsabile del tempo biologico ereditario individuale. Considerando poi l’ambiente come una costante, è possibile stabilire l’esistenza del fenomeno che lega la stabilità al tempo di vita di una informazione ereditaria e cioè la funzione di decadimento della stabilità della informazione ereditaria per esempio utilizzando come modello quello del decadimento degli elementi radioattivi. In questo modello se si indica con N il numero delle particelle dello stesso tipo costituenti l’elemento al tempo zero è possibile calcolare il numero di tali particelle dopo il tempo T attraverso la relazione N=N e - 1T dove D è una costante caratteristica per ciascun tipo di particelle. Come conseguenza è possibile definire “la vita media” come il tempo T necessario perchè decadano le N informazioni iniziali. La determinazione della “vita media” e cioè il problema che più ci interessa può per la sua analogia con la vita media dell’informazione essere praticata nel caso delle particelle o misurando il tempo compreso tra il tempo di produzione e quello di decadimento di un campione di particelle identiche, oppure calcolando in un elemento contenente inizialmente un certo numero di particelle del tipo considerato quante ne restano dopo un certo percorso. In teoria se si determinano i valore iniziali dei parametri di stabilità è possibile descrivere matematicamente il processo di decadimento attraverso una funzione aleatoria M (T) che permette di prevedere il tempo T occorrente perchè M (T) raggiunga un limite inferiore (quello che rende inattivo il gene), e quindi calcolare Ti la durata di vita della informazione. Questo modello presuppone come abbiamo detto la quantificazione della stabilità mediante la determinazione dei valori di parametri e quindi di giungere per via indiretta alla determinazione della durata di vita potenziale di un gene. La pratica impossibilità della determinazione dei valori iniziali dei parametri, conduce a due vie alternative per la stima della speranza di vita di un gene. Una prima, suggerita ancora dalla fisica, consiste nel valutare la diminuzione di stabilità di una informazione 43 attraverso la diminuzione del prodotto genico corrispondente misurato in tempi successivi. La seconda consiste nel determinare statisticamente l’inverso della stabilità e cioè la frequenza di mutazione somatica per un dato ambiente di una data informazione. Ovviamente in questo secondo caso la stima della frequenza di mutazione per una data unità di tempo rappresenta una stima per difetto in quanto prende in considerazione solo gli errori irreversibili (mutazioni) e non gli errori reversibili che pure hanno un valore notevole nel limitare il potenziale informatico del gene. CONCLUSIONI Creato con il cosmo lo spazio tempo è la dimensione necessaria per comprendere l’evoluzione dell’universo e all’interno di questa il nascere delle galassie, del sistema solare e della terra. La storia di quest’ultima, circa 3.5 miliardi di anni fa, cessa di essere solo astrofisica e geologia per far posto allo studio dell’insorgere e del divenire di quel particolare fenomeno che noi chiamiamo vita. Alla osservazione il fenomeno vita si mostra altamente polimorfico e per ciascuna delle forme osservabili mostra una molteplicità di tempi di sviluppo, riproduttivi, ecc.. In particolare una osservazione mirata mostra che la vita degli individui appartenenti alle diverse forme ha una durata media caratteristica per ogni forma. Se dall’osservazione dei viventi in generale spostiamo la nostra attenzione alla specie umana osserviamo che i tempi di vita individuale sono distribuiti intorno ad una media e si differenziano a seconda delle etnie e degli ambienti nei quali le etnie vivono. Per tempo di vita individuale (lifespan) intendiamo il tempo della successione di eventi che porta allo sviluppo del programma genetico che ciascun individuo riceve dai gameti parentali (ontogenesi), a cui si somma il tempo della successione di eventi che rappresentano il periodo di equilibrio tra ambiente e individuo (omeostasi), ed il tempo della successione di eventi che rappresenta 44 il periodo di decadimento delle funzioni (senescenza) che si conclude con la morte individuale. Tralasciando l’analisi dei tempi operativi puntuali dei quali è noto il meccanismo (Operon) è opportuno fermare la nostra attenzione sul meccanismo che determina i tempi di durata della informazione genica in quanto tempi necessari e previ a qualsiasi altro tipo di tempo del vivente. Il nostro modello si fonda sul presupposto che i tempi di vita dei geni sono una funzione della stabilità della informazione genica nei confronti della induzione e dell’accumulo di errori e di mutazioni. La stabilità genica può essere diversa oltre che tra informazioni diverse anche tra codifiche diverse di una medesima informazione. La diversità può derivare dall’uso nella codifica di sinonimi diversi (sinonimia o codon usage), dal diverso numero di ripetizioni efficienti della informazione (ridondanza) e dalla interazione dei sistemi di repair e di prevenzione degli errori rispetto alla struttura della informazione. La stabilità dell’informazione essendo una caratteristica del gene è naturalmente ereditaria. Dato che le azioni mutagene dell’ambiente sono continue nel tempo, e, non esistendo stabilità assolute dei geni, l’induzione e l’accumulodegli errori e/o mutazioni annulla progressivamente la capacità informatica del gene determinandone l’esaurimento. Con la durata della vita del gene, intesa come l’intervallo del tempo che intercorre tra la sua costituzione e l’esaurimento della sua capacità informatica, abbiamo dato il nome di Chronon. Con questo abbiamo voluto sottolineare una ulteriore caratteristica del gene a nostro avviso essenziale per una corretta interpretazione dei fenomeni fisiologici e patologici. BREVI CENNI SULLA STRUTTURA DEL GENE STRUTTURA DEL DNA Ricordato che risale ad Avery (1944) l’identificazione del materiale ereditario negli acidi nucleici, precisiamo che l’acido deossiribonucleico 45 (DNA) è formato da tre gruppi di sostanze: uno zucchero, un gruppo fosfatico, e quattro basi azotate. Lo zucchero è sempre il deossiribosio, così come il gruppo fosfatico che è sempre il diesterofosfato. Zucchero e fosfato formano l’ossatura della molecola di DNA dove una molecola di zucchero si alterna regolarmente con una molecola di fosfato e sono tra loro legate da legami C-O-P. Sulle molecole di zucchero si legano come catene laterali le basi azotate per mezzo di un legame C-N. Le basi azotate sono due purina, l’Adenina e la Guanina e due pirimidine la Timina e la Citosina. Dal 1953 il modello del DNA proposto da Watson e Crick e verificato con metodi radiologici e cristallografici da Wilkins è stato assunto come interpretazione corretta della struttura del DNA. In questo modello la molecola è formata da due catene di zucchero fosfato antiparallele che si arrotolano come due spirali intorno ad un asse immaginario. Le due catene sono unite tra loro da coppie di basi ciascuna delle quali appartenente ad una spirale disposte in un piano che interessa l’asse delle spirali. Le coppie di basi rappresentano un aspetto molto interessante della struttura in quanto il diametro delle spirali (22-25º A) rende impossibile l’utilizzazione di due grandi basi (purine) per unire le due catene in quanto lo spazio tra le due spirali è troppo piccolo così come è impossibile usare due piccole basi (pirimidine) in quanto in questo caso lo spazio tra le catene è troppo grande. E’ quindi necessario appaiare una purina ad una pirimidina, in più a causa dei legami idrogeno che permettono l’appaiamento delle basi risultano appaiabili solo l’Adenina con la Timina e la Guanina con la Citosina. Una dimostrazione di quanto detto è nel fatto che in tutti i DNA isolati il rapporto tra Basi A:T e G:C è sempre uguale a 1 mentre gli altri rapporti sono variabili nelle diverse specie anche se simili in specie affini. Il modello di Watson e Crick comporta che su di una spirale di DNA può essere presente una qualsiasi sequenza di basi, ma una volta che questa sia data risulta automaticamente determinata la sequenza dell’altra spirale. Il modello di Watson e Crick impone che le due spirali debbano essere destrogire in quanto spirali levogire violerebbero la legge di Van der Waals sulle distanze interatomiche. Considerazioni analoghe impongono che le due spirali siano antiparallele, nel senso che la successione degli atomi scorre in un senso in una spirale e nel senso opposto nell’altra. In particolare gli atomi di carbonio 46 5’ e 3’ dello zucchero (pentosio) utilizzati per i legami con il fosforo e la molecola contigua di zucchero determinano la direzione delle spirali che proprio da questi atomi prendono il nome di spirali 5→3 o 3→5. Cromosomi, DNA i basiazotate L’INFORMAZIONE GENICA Il DNA è quindi un polinucleotide formato da 4 tipi di nucleotidi i quali differiscono tra di loro per la base azotata presente. Le quattro basi sono come si è detto nella struttura del DNA: l’Adenina (A), la Timina (T), la Guanina (G) e la Citosina (C). Una molecola di DNA contiene da migliaia a milioni di nucleotidi a seconda delle diversa specie, mentre praticamente non differiscono per numero di nucleotidi una dall’altra le molecole di DNA di individui della medesima specie. Il DNA è dunque il messaggio genetico scritto con un alfabeto di quattro simboli: A,T,G e C. Anche le proteine come l’ADN sono dei polimeri costituiti da decine, centinaia e talvolta migliaia di monomeri gli Amminoacidi. Gli amminoacidi sono solo 20 e la specificità di una proteina dipende dal numero e dalla sequenza degli amminoacidi. Si può quindi considerare anche la proteina come un messaggio scritto però con un alfabeto di 20 simboli. 47 Problema fondamentale diviene quindi la corrispondenza tra la sequenza dei nucleotidi (basi) del DNA e la sequenza di amminoacidi (AA) nelle proteine. Dalla struttura stessa del segnale genetico (ATGC) risulta evidente che per codificare un amminoacido non sono sufficienti nè le basi (4) nè la successione di due basi in quanto queste originano solo 16 (4x4) segnali diversi. Risulta quindi che per codificare ciascuno dei 20 amminoacidi sono necessarie successioni di tre basi o triplette. Si apre a questo punto il problema dell’eccesso del numero di terne di basi (4x4x4=64) per codificare 6 venti amminoacidi. Si poteva pensare che solo 20 segnali di 3 basi codificassero i 20 amminoacidi mentre le altre 44 combinazioni non venissero mai usate, nella realtà è stato accertato che più triplette possono codificare un solo amminoacido. In altre parole la corrispondenza tra triplette di basi (codogeni) e amminoacidi (AA) non è biunivoca in quanto ad una terna di basi corrisponde sempre uno ed un solo amminoacido (AA), mentre, ad un medesimo amminoacido possono corrispondere 1,2,3,4,6, triplette, come indicato dal prospetto seguente: II codice genetico 48 LA DUPLICAZIONE DELLA INFORMAZIONE Il meccanismo della formazione di una nuova molecola di DNA e stato descritto da Watson nel modo seguente: “Se è nota la serie di basi di una delle due eliche è possibile stabilire esattamente quali sono le basi presenti nell’elica omologa. Supponendo ora, che le due eliche si siano separate per la rottura dei legami idrogeno che uniscono le basi di ciascuna coppia, ognuna delle due eliche è pronta per la sintesi di una nuova elica complementare e la struttura di quest’ultima non potrà che essere identica alle eliche omologhe della struttura originale. Così, le due molecole di DNA risultanti dalla duplicazione sono identiche alla molecola madre. La duplicazione è resa possibile dalla presenza, allo stato libero nell’ambiente del nucleo, durante il periodo di sintesi del DNA di tutti i nucleotidi necessari”. Un nucleotide si fisserà sulla emimolecola originale solo se complementare a un nucleotide di questa. Le nuove molecole si formeranno così per tratti successivi dove la sintesi è resa possibile dalla rottura dei legami idrogeno nel tratto interessato alla duplicazione (denaturazione). Il modo particolare di duplicazione del DNA viene chiamato “semiconservativo” in quanto ogni molecola figlia possiede un’elica della molecola madre che servendo da stampo per la sintesi della molecola complementare la obbliga all’identicità con la molecola originale. LA MUTABILITÀ DELLA INFORMAZIONE Il termine “mutazione” è stato introdotto nel 1901 dal de Vries uno dei tre riscopritori delle leggi Mendeliane. Come mutazione de Vries definisce la variazione improvvisa e discontinua di un carattere che una volta comparsa diviene ereditaria e viene trasmessa alle generazioni successive. L’identificazione del gene in un tratto di molecola ADN permette di stabilire che il messaggio genico può mutare in quanto possono cambiare il numero, il tipo e la disposizione dei nucleotidi che lo compongono. E’ quindi possibile stabilire che la molecola di ADN possiede tutte le caratteristiche necessarie al materiale vettore della eredità e cioè la capacità di registrare l’informazione genica, la capacità di duplicare l’informazione, la possibilità di mutare (variare adattativamente). 49 DALL’INFORMAZIONE ALLA PROTEINA Il DNA nucleare è dunque la sede dove è registrata l’informazione genica. L’informazione essendo copiata (trascritta) su RNAm subisce i processi di maturazione e quindi viene trasportata nel citoplasma. Il nucleotide Timina (T) presente nel DNA viene sostituito nell’RNA con l’Uracil (U). La successione di tre basi nell’RNA messaggero è stata scelta convenzionalmente per definire il Codice Genetico (vedi Talx). Nella trascrizione l’RNAm si modella sullo stampo di una sola delle catene formate dalla doppia elica del DNA (la catena 5→3). L’RNAm o RNA messaggero maturo si trasferisce poi nel citoplasma e si segnali verso le sedi della sintesi proteica dove si associa con l’RNAr (ribosomiale) formando i polisomi. Sul sistema RNAm + RNAr vengono a disporsi nell’ordine preciso indicato dall’RNAm complessi formati da RNAt (RNA di transfer) e amminoacidi. L’RNAt ha una doppia specificità: da un lato presenta una sequenza di segnali che si adatta in modo complementare ad un codon definito dell’RNAm, dall’altro si lega con uno specifico amminoacido. I ribosomi consentono la lettura del messaggio contenuto nell’ARNm scorrendo sul nastro di questa molecola e, attivandone la sequenza dei codon non definito dell’RNAm, permettono l’inserzione ordinata delle molecole di RNAt legate ai relativi amminoacidi. Gli AA così collocati si uniscono tra loro con legami peptidici e si forma un polipeptide che staccandosi dagli RNAt dà origine a una proteina realizzando così la “traduzione” in proteine del messaggio contenuto nell’RNAm. I geni che vengono trascritti in RNAm e determinano poi la sintesi di una data proteina sono stati denominati geni strutturali. Questi geni non lavorano ovviamente tutti insieme e nello stesso tempo, ma secondo il fabbisogno metabolico cellulare e organismico, è quindi necessario supporre l’esistenza di meccanismi regolatori che controllano e regolano le diverse sintesi proteiche. 50 La sintesi proteica Il meccanismo regolatore di cui fu per primo dimostrata l’esistenza fu quello del gene della galattosidosi nella Escherichia Coli. Il modello ideato da Jacob e Monod e da loro denominato Operon è formato da due diversi tipi di geni non strutturali. Uno dei due geni chiamato “operatore” dà inizio alla trascrizione/traduzione dei geni di struttura. L’operatore è bloccato nella sua azione da un repressore prodotto da un gene chiamato “regolatore”. Il repressore a sua volta può essere inibito da metaboliti e quando il repressore è bloccato il gene operatore da inizio all’attività di trascrizione del o dei geni di struttura collegati. Negli eucarioti il problema della regolazione è più complesso perchè oltre ai tempi di attivazione dei diversi gruppi di geni strutturali esiste il problema della attivazione dei gruppi di geni diversi nei differenti gruppi di cellule che costituiscono i singoli apparati. Il problema è stato risolto dimostrando l’esistenza di “operatori complessi” formati dai promotori che 51 promuovono la trascrizione da modulatori che regolano l’intensità della trascrizione e da altri fattori tessutospecifici che permettono ai geni di uno stesso operon di essere espressi in modo diverso nei vari tessuti e nei differenti stadi di sviluppo. La struttura e le funzioni di un vivente come è stato già detto sono determinate dalle sue specifiche proteine. A loro volta le proteine sono determinate dal numero e dal tipo degli amminoacidi che le compongono. Vogliamo qui ricordare che è sufficiente che nella memoria genetica sia registrata la sola successione degli amminoacidi in quanto l’ordine degli amminoacidi lungo il polipeptide determina la struttura primaria della proteina la quale consegue la stabilità molecolare, ripiegandosi a formare un avvolgimento elicoidale e viene resa più stabile da ponti di solfuro tra legami peptidici superiori ed inferiori dell’elica. L’avvolgimento a spirale e i legami di solfuro, costituiscono la struttura secondaria della proteina. L’andamento nello spazio della spirale costituisce la struttura terziaria. Nelle proteine complesse (polimeri), formate da più catene proteiche identiche o diverse, l’associazione specifica di sub-unità in una macromolecola complessa rappresenta la struttura quaternaria. Da quanto detto consegue che tutte le caratteristiche strutturali e funzionali di una proteina sono implicite nella sequenza degli amminoacidi nel polipeptide. Unica condizione necessaria e sufficiente per la registrazione di una proteina nella memoria genetica è quindi che sul DNA siano registrati i segnali corrispondenti alla successione degli Amminoacidi nel polipeptide. 52 Bibliografía G. BERTONI SJ., Il tempo, ed. Università Lateranense, Roma, 1972. P. DAVIES, Dio e la Nuova Fisica, Oscar Saggi Mondadori, Milano, 1994. P. A. M. DIRAC, “The evolution of the Physicist’s Picture of Nature”, Scientific American, May, 1963. F. J. DYSON, “Energy in the Universe”, Scientific American, September, 1971. J. T. FRASER, The Genesis in the Evolution of Time, University of Massachusset Press, Amherst, 1982. L. GEDDA, Studio dei Gemelli, Orizzonte Medico, Roma, 1951. I. Mc GILLIVRAY, P. P. S. NYLANDER, G. CORNEY, Human Multiple Reproduction Ed. Saunders, Edimburg, 1976. J. WATSON, M. GILMAN, J. 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