L.B. Archideo, G. Brenci, R. Ferro, F. García Bazán, F.T. Gratton,
A, Masani, G.M. Prosperi, H. Puyau
EPISTEMOLOGÍA DE LAS CIENCIAS
EL TIEMPO
Primera parte
Lila Blanca Archideo
(Coordinadora)
Il Tempo in biologia
Gianni Brenci
CIAFIC
ediciones
Centro de Investigaciones en Antropología Filosófica y Cultural
de la Asociación Argentina de Cultura
© 1997 CIAFIC Ediciones
Centro de Investigaciones en Antropología Filosófica y Cultural
Federico Lacroze 2100 - (1426) Buenos Aires
e-mail: [email protected]
Dirección: Lila Blanca Archideo
Hecho el depósito que marca la ley 11.723
Impreso en Argentina
Printed in Argentina
ISBN 950-9010-13-8
Il Tempo in biologia
IL TEMPO
Gianni Brenci*
Istituto di Genetica Medica
“G. Mendel” di Roma
IL TEMPO FISICO
Il nostro senso di identità è legato al perdurare della esperienza.
Non basta dire “io sono in questo momento” in quanto per essere
occorre la continuità della esperienza e quindi un fattore di raccordo
che la garantisca come ad esempio la memoria. Eppure la necessità
di un tempo “oggettivo” informa di se ogni nostra esperienza del reale
a tal punto che ogni tentativo di definire questo concetto
scientificamente incontra difficoltà, resistenza e scetticismo in
particolare dopo le due rivoluzioni della fisica moderna: la teoria dei
quanti e la teoria della relatività.
La teoria della relatività in particolare ha modificato il concetto
scientifico di tempo obbligando al confronto con questa teoria
chiunque voglia tentarne una definizione soddisfacente. Fino alla
pubblicazione del lavoro di Einstein il tempo della scienza era figlio
* Gianni Brenci è nato a Roma il 6 Agosto 1931 ed ha frequentato nella locale
Università il corso di Scienze Biologiche. Nel 1958 è entrato come ricercatore
nell'Istituto G. Mendel di Genetica Medica e Gemellologia dove nel 1962 ha
assunto la responsabilità dei Laboratori di Citogenetica e Biochimica. È stato
docente di Biologia, Genetica e Genetica di Popolazione presso le scuole di
perfezionamento di Statistica Sanitaria, di Medicina Forense, e di Genetica
Medica della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università La Sapienza di
Roma. Ha pubblicato su riviste internazionali oltre 70 lavori di genetica di
popolazione e di gemellologia. Dal 1982 insegna Biologia e Genetica presso la
Pontificia Università Urbaniana in Roma. Partecipa dalla fondazione agli incontri
di epistemologia e filosofia della scienza organizzati dal CIAFIC a S. Maria
dell'Armonia. Argomenti principali della sua ricerca sono: la vita media
dell'informazione ereditaria, i modelli per lo studio delle popolazioni gemellari
e la genetica degli anaerobici facoltativi.
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della ricerca filosofica ed era considerato assoluto, costante, universale
e indipendente delle altre grandezze fisiche e dall’osservatore.
La prima vittima della relatività è stata proprio questa concezione in quanto Einstein ha dimostrato che il tempo è elastico e che
il moto ne provoca l’allungamento o la contrazione. In altre parole
ciascun osservatore ha una propria scala temporale che normalmente
è solo sua e non coincide necessariamente con quella degli altri. Dal
nostro punto di vista il tempo non sembra mai deformarsi, ma relativamente valutato a un altro osservatore in moto rispetto a noi, il nostro tempo appare sfasato. Nella relatività anche lo spazio è elastico
come il tempo e subisce distorsioni correlate con quelle del tempo
nel senso che quando il tempo si allunga lo spazio si contrae. La distorsione reciproca tra spazio e tempo si può anche interpretare come
una conversione dello spazio che si contrae in un tempo che si allunga. Nella relatività generale Einstein identifica nella gravità la
causa della distorsione. In un certo senso tutti noi viaggiamo nel
tempo diretti verso il futuro ma essendo il tempo elastico alcuni arrivano prima di altri e, se siamo in moto a velocità prossime a quella
della luce, rallentiamo la nostra scala temporale. Ne consegue che arriva prima ad un istante lontano nel tempo chi si sposta più velocemente nello spazio, si ha cioè una distorsione temporale, fenomeno
molto utilizzato nella fantascienza benché non abbia nulla di fantastico. Uno degli esempi più usati per rappresentare gli effetti della
elasticità dello spazio/tempo ci fa incontrare i gemelli. L’incontro è
dovuto al cosiddetto paradosso dei gemelli di Langevin, nel quale si
considera una coppia di gemelli identici dei quali uno parte per una
stella vicina viaggiando su di una astronave ad una velocità prossima
a quella della luce, mentre il cogemello rimane a casa sulla terra e ne
attende il ritorno. Il viaggio dura complessivamente dieci anni. Finalmente il gemello astronauta torna sulla terra e si incontra con il suo
gemello. Il gemello rimasto a casa è invecchiato di 10 anni mentre
l’astronauta soltanto di uno in quanto la elevata velocità gli ha fatto
vivere sull’astronave un solo anno mentre sulla terra ne sono trascorsi
dieci. L’esempio anche se ipotetico conferma che il concetto attuale
di tempo è dinamico e relativo.
16
Nella relatività il tempo può contrarsi, allungarsi o anche
tendere ad azzerarsi come nel caso dello spazio prossimo a singolarità
fisiche come i cosiddetti “buchi neri” 1.
Il tempo “dinamico” impone quindi che la velocità degli
“orologi” non è assoluta ma relativa allo stato di moto, alla situazione
gravitazionale e all’osservatore. In mancanza di un orologio assoluto
per una misura di riferimento del tempo si ricorre al divenire di
fenomeni cosmologici possibilmente costanti ed ai concetti di
“prima” e “poi” che permette di ordinare una successione di eventi.
IL TEMPO COSMICO
Il tempo inteso come successione ordinata di “prima” e di “poi”
permette di studiare cronologicamente l’universo che, dalla sua
origine a oggi ha segnato e segna una catena di fenomeni, descritti e
studiati dalla cosmologia che sono in prima approssimazione databili
sulla base del decadimento energetico, fenomeno relativamente
costante dell’inizio dell’universo ad oggi.
Le relazioni osservabili tra la distanza dei corpi celesti e le loro
velocità relative conducono a pensare l’universo come il frutto della
espansione di uno stato iniziale ad altissima densità ed altissima
temperatura (Big Bang). L’algoritmo che collega la variazione della
temperatura al trascorrere del tempo è del tipo: T = K/t, in cui T
rappresenta l’energia termica, t il tempo in secondi e K una costante
di proporzionalità dovuta alle unità di misura adottate. I calcoli
condotti sui dati sperimentali situano l’inizio della fase di espansione
intorno ai 15 miliardi di anni fa.
Una stella di massa superiore ad una volta e mezzo la massa del sole, una volta
esaurito il combustibile (idrogeno), si contrae. Durante la contrazione passa per
un momento di instabilità dal quale esce "sparando" al'esterno la massa in eccesso
producendo così una "Supernova" che esplodendo si rende visibile. Il residuo
della supernova diventa una stella composta da soli neutroni con una densità tale
che la massa di un asteroide di 180 km di diametro può essere concentrata in una
sfera di 5 cm di diametro. Anche una stella di soli neutroni può avere istanti di
instabilità e collassare verso una densità infinita diventando invisibile e capace
di attrarre al suo interno la materia circostante. Questo particolare corpo celeste
invisibile viene chiamato "buco nero".
1
17
La approssimazione delle misure sperimentali più che una data
media, consigliano di indicare un intervallo in cui collocare l’inizio
dell’universo intervallo che va da 5 miliardi a 50 miliardi di anni fa.
La limitazione dell’universo nel tempo e nello spazio è un
concetto accettato dalla maggioranza dei cosmologi. In termini di
probabilità, questo concetto può essere formulato mediante le parole
di Einstein: “Un universo infinito è possibile soltanto nel caso che la
densità media della materia in esso contenuta sia zero e per quanto
tale ipotesi sia logicamente possibile, essa è meno probabile
dell’ipotesi che vi sia nell’universo una densità media finita”.
Tab 1 Evoluzione dell’Universo
EVOLUZIONE DELL’UNIVERSO SECONDO IL MODELLO DI GAMOW1
Tempo
Temperatura o
energia termica
Densità
Periodo
0
∞
∞
adronico
10-4 s
100 MeV
5000 K
stellare
1010 anni
1
18
3K
γ, υ
e+, e-
gli elettroni e positoni
scompaiono
1 Me V
radiativo
5000 anni
γ, υ
e+, e]+, ]-, ]º
p, n, p , ñ
particelle strane
i ] sono gli ultimi
adroni che scompaiono
leptonico
1s
Particelle presenti
nell’irraggiamento
termico
10-31 g/cm3
Da R. Omnès, in La Recherche, III, 23, 462 (1972).
γ, υ
fine dell’equilibrio termico; i fotoni dell’arraggiamento si
raffreddano per
l’espansione
situazione attuale
I dati sperimentali rilevabili rendono possibile non solo la
stima del tempo di origine del cosmo, ma anche la valutazione della
quantità di energia termica iniziale, che è calcolabile in 15 miliardi
di Kº1. Tale energia, nel suo processo di decadimento ha dato
origine a livello di una temperatura di 5 miliardi di Kº a particelle
elementari come gli elettroni, i neutroni e i protoni. A livello di una
temperatura di 300 milioni di Kº, per aggregazione delle particelle,
ai primi nuclei mentre, a livello di 40 milioni di Kº, hanno potuto
organizzarsi strutture più complesse.
Per un intervallo di tempo che è durato milioni di anni l’energia
radiante ha dunque rappresentato la maggior parte della realtà fisica.
Mentre la densità dell’energia diventava progressivamente minore,
l’universo passava attraverso i periodi a cui G. Gamow ha dato il
nome di “adronico”, “leptonico”, “radiante” e “stellare”.
Raggiunto l’equilibrio energia-massa, si sono formate per
condensazione nubi composte da energia e particelle: le galassie che,
per un’ulteriore condensazione, hanno determinato la formazione
delle singole stelle. Le galassie hanno continuato il processo di
espansione dell’universo e di decadimento dell’energia,
raffreddandosi progressivamente dando, in qualche caso, origine a
sistemi planetari come il nostro sistema solare.
Dal tempo della fase stellare in poi, lo studio del tempo
cosmico può continuare con lo studio del tempo del sistema solare ed
in particolare con lo studio del tempo del pianeta che abitiamo, studio
che diventa quindi, più propriamente lo studio del tempo geologico.
L’origine del nostro pianeta è databile a 4.5 - 4.6 miliardi di
anni fa.
La data è molto meno approssimata di quanto non lo sia quella
dell’origine dell’universo, in quanto il momento esatto della nascita
della Terra può essere ottenuto sulla basa della velocità di
trasformazione degli elementi radioattivi delle sue rocce. Il tempo
geologico, continua con il consolidamento della cresta terrestre circa
3,5 miliardi di anni fa, mentre la separazione delle masse oceaniche
è databile a 3,2 miliardi di anni fa.
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Tab 2 Storia della Terra
Dalla formazione degli oceani in poi, la storia della Terra e le
sue trasformazioni possono essere seguite mediante lo studio delle
rocce sedimentarie, frutto del ciclo dell’acqua che, con la
successione di evaporazioni e condensazioni, livella le rocce
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emerse. Dalla formazione della prima crosta terrestre della quale il
più antico campione conosciuto è costituito dal granito della
penisola di Kola, (3.5 - 3.6 miliardi di anni fa), fino alla comparsa
dei primi reperti fossili (570 milioni di anni fa) si svolge il periodo
precambriano. Nell’ambito del quale, da un’atmosfera riducente si
è gradualmente passati ad un’atmosfera ossidante, si sono formati
i primi bacini oceanici e in questi si sono depositati i più antichi
sedimenti conosciuti come le formazioni di Onverwacht, si sono
avuti numerosi e imponenti cicli orogenetici ed è infine comparsa
la vita.
IL TEMPO BIOLOGICO
La storia della vita si apre intorno ai 3.5 miliardi di anni fa nel
Precambriano con forme inferiori di vita acquatica, che non siamo
in grado di ricostruire perché essendo senza parti scheletriche non
hanno originato fossili. L’esistenza di queste forme di vita è però
provata dall’esistenza di rocce ferrose e carboniose risalenti a quel
periodo la cui origine non è magmatica, ma è necessariamente
organica.
Al Precambriano succede il Cambriano, periodo nel quale
compaiono Alghe, Artropodi, Molluschi, con esso inizia, 570
milioni di anni fa l’era primaria o Paleozoico, che comprende in
quei periodi l’Ordoviciano, periodo nel quale compaiono i
Vertebrati agnati, il Siluriano nel quale compaiono i Pesci. Seguono,
sempre nell’era primaria il Devoniano con i primi campioni di flora
e fauna terrestri e il Carbonifero, poi il Permiano con gli
Echinodermi. L’era secondaria, o Metazoico, si apre 225 milioni di
anni fa con il Triassico, nel quale la vita si arricchisce per la
comparsa dei primi Mammiferi. Gli Uccelli compaiono nel
successivo Giurassico, mentre nel Cretaceo si affermano e
diffondono sulle terre emerse i Sauri. E’ sempre di questo periodo
la specializzazione dei grandi Rettili nelle varie nicchie ecologiche.
Sono stati infatti ritrovati fossili sia di Ittiosauri che di Dinosauri e
Pterosauri, adattati rispettivamente alla vita nelle acque, sulla terra
ferma ed al volo.
21
Le modificazioni ambientali verificatesi alla fine del Cretaceo
e delle quali non conosciamo bene le cause hanno modificato
fortemente la fauna e la flora determinando per esempio la
scomparsa dei Sauri. Geologi e paleontologi sono concordi nel
considerare questi avvenimenti come i marcatori della fine dell’era
secondaria. Altre forme di vita vegetale e animale compaiono
nell’era terziaria, o Cenozoico, la quale inizia 65 milioni di anni fa
e viene di norma suddivisa nei periodi Paleocene, Eocene,
Oligocene, Miocene e Pliocene, periodi che marcano soprattutto
l’affermarsi dei Mammiferi.
Nel Quaternario, il cui inizio è da porsi tra 1,8 e 3 milioni di
anni fa, e precisamente nel periodo chiamato Pleistocene, la storia
della vita presenta i primi reperti fossili di Homo. Da allora il tempo
biologico continua a fare storia attraverso le variazioni delle forme
di vita esistenti e si concludono con la comparsa dell’uomo attuale
o Neantropo (Homo sapienssapiens) tra i 30 000 e i 60 000 anni fa.
I TEMPI DEGLI INDIVIDUI
I tempi sin qui descritti riguardano il cosmo, il sistema solare,
la terra, e la vita con la sua successione di forme e la storia della
specie uomo ma non riguardano i tempi fondamentali per ciascun
uomo: i tempi di vita individuali. Ciascun uomo sa che per ogni
singolo individuo esiste un tempo per nascere o meglio un tempo
per essere concepito, ed un tempo per morire e che tra questi due
estremi si collocano traguardi temporali intermedi sia normali,
come l’infanzia, l’adolescenza, la maturità e la conoscenza, sia
patologica come l’insorgenza, il decorso e l’esito delle malattie, ma
non si sofferma a riflettere sui meccanismi che li determinano e su
cosa rende diversi questi tempi nei differenti individui. I tempi della
vita individuale possono essere paragonati a quelli di una partitura
musicale nella quale ogni nota prende il suo posto e dura per un
tempo definito. Come sul rigo musicale però in modo assai più
complesso per numero di note e di voci contemporanee, si
comportano i tempi delle funzioni e delle strutture in un organismo.
22
Il quadro degli accordi sincronici delle diverse attività vitali
può essere paragonato all’armonia prodotta da una suonata a più
mani per pianoforte dove la qualità dell’esecuzione dello spartito è
condizionata oltre che dall’interprete, dalla bontà dello strumento a
disposizione ed in particolare dalla sua accordatura. E’ sufficiente
pensare al meccanismo che sottostà all’esecuzione delle note in un
pianoforte per rendersi conto che al variare della tensione di una
corda corrisponde nell’esecuzione una nota stonata e che alla rottura
di una corda corrisponde l’impossibilità dell’esecuzione della nota
stessa.
Uscendo dal paragone osserviamo che la presenza di strutture
e funzioni differenti nelle cellule dei differenti tessuti di un
organismo superiore, comportano che oltre ai meccanismi deputati
alle diverse funzioni, esistono meccanismi operativi che attivano o
reprimono nei tempi opportuni i meccanismi funzionali.
Questa regolazione sincopale di apertura e di chiusura di
attività conduce alla identificazione di un primo particolare modo
di essere del tempo biologico e cioè il tempo biologico operativo.
Tre diversi tipi di tempi operativi sono alla base dei diversi
aspetti temporali della vita individuale e cioè i tempi di:
a) Attivazione e disattivazione delle sequenze di sintesi che
conducono alla trasformazione dell’uovo fecondato in un
organismo (ontogenesi).
b) Attivazione e disattivazione delle funzioni omeostatiche e
cioè i tempi dei meccanismi necessari per l’interazione e
l’equilibrio dell’individuo con l’ambiente in cui opera (omeostasi).
c) Sincronizzazione delle funzioni con i tempi ambientali
(cronobiologia).
I tempi operativi non esauriscono però i tempi individuali di
un organismo. Essi stessi anzi suggeriscono l’esistenza di un tempo
durata dell’organismo e delle informazioni sia funzionali che
operative, tempo durata che sottostà e rende possibile l’esistenza di
tutti gli altri tempi.
23
Ritorniamo per un attimo al paragone musicale nella suonata
a quattro mani.
Il tempo durata di vita dell’individuo e delle informazioni è
rappresentato dall’esistenza e dall’efficienza del pianoforte e
all’interno dello strumento dall’esistenza e dall’efficienza delle
singole corde. Come abbiamo detto la rottura di una corda rende
l’esecuzione o carente di quella nota o se quella nota è
indispensabile, in passaggi chiave rende l’esecuzione del brano
musicale impossibile.
Qualcosa di analogo avviene nella vita organismica dove le
possibilità operative dipendono della durata delle strutture e dei
meccanismi che a queste sottostanno e che quindi determinano
attraverso la loro durata la durata di vita dell’organismo. La durata
di vita è quindi una caratteristica di ogni individuo all’interno di un
intervallo di tempo determinato per ogni singola specie.
La caratteristica differenza della durata di vita nelle diverse
specie porta a riflettere sulla natura dei meccanismi che la
determinano. Infatti dato che molte specie diverse sono adattate ad
ambienti simili è logico supporre che le durate di vita siano
correlate alla struttura del genoma delle differenti specie.
E’ possibile verificare nella specie umana l’ipotesi di un
determinismo organico dei tempi individuali per la presenza nella
specie di una disposizione sperimentale naturale rappresentata da
gemelli.
I GEMELLI
La vita di alcuni gemelli identici segna una caratteristica
contemporaneità durante il periodo dell’accrescimento, la quale
contemporaneità non solo è attestata dal susseguirsi sincrono della
prima e della seconda dentizione nonchè della pubertà maschile e
femminile (menarca talora nella medesima notte), ma soprattutto
dalla identicità corporea e funzionale di questi gemelli che talvolta
impedisce di distinguere l’uno dall’altro.
24
Questa identicità si mantiene fino a quando i gemelli vivono
si alimentano e operano nel medesimo ambiente anche raggiunta l’
omeostasi. Si attenua poi quando per vicende lavorative,
matrimoniali o altrimenti i gemelli vivono in ambienti diversi, ma
ritorna a manifestarsi nel periodo della senilità sotto forma di una
contemporanea diminuita efficienza delle medesime funzioni
organiche e nella subentrante scomparsa di alcune di esse, secondo
un quadro di decadimento identico nei cogemelli monozigotici.
Questa medesima evoluzione sincrona dei fenotipi di gemelli
identici è un prezioso test dell’esistenza di una dimensione
temporale del genoma. Lo studio di questa dimensione temporale
comporta una analisi più approfondita del fenomeno gemellare.
La gemellazione è una variante della funzione riproduttiva
umana normale e può essere prodotta sia da poliovulazione
(gemellazione dizigotica o gemelli fraterni) che da poliembrionia
(gemellazione monozigotica o gemelli identici).
Per comprendere i meccanismi che sono alla base della
gemellazione è necessario premettere una descrizione, anche se
sommaria, del fenomeno riproduttivo nella specie umana.
La storia della linea germinale sia maschile che femminile
inizia al terzo mese della vita endo-uterina quando si formano
gruppi specializzati di cellule che daranno origine negli uomini agli
spermatogoni precursori dei gameti maschili (spermatozoi) o nelle
femmine agli oogoni precursori dei gameti femminili (ovuli). Gli
spermatogoni sviluppano gli spermatociti questi gli spermatidi i
quali producono gli spermatozoi. Gli oogoni sviluppano a loro volta
gli oociti e questi gli ovuli.
A livello degli spermatociti nel sesso maschile e degli oociti
nel sesso femminile ha luogo la riduzione a metà del numero dei
cromosomi e quindi anche delle coppie di geni che essi contengono,
attraverso la divisione meiotica (meiosi).
Entro il quarto mese della vita endouterina nei soggetti
femminili si completano le ovaie che contengono circa 400 oociti
bloccati in uno stadio della divisione meiotica (diacinesi) e che si
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sbloccano solo dopo il menarca uno sotto l’azione di un ormone
ipofisario chiamato FSH. Questo ormone induce la formazione del
follicolo di Van der Graaf. L’induzione ormonale si ripete circa ogni
mese ed è seguita dall’azione di un secondo ormone ipofisario
l’ormone Luteinico (LH) che provoca tra l’altro la rottura del
follicolo e il completamento della meiosi e la caduta dell’uovo nella
cavità addominale dove le salpingi lo raccolgono.
E’ a questo punto dell’itinerario dell’uovo che può avvenire
l’incontro con i gameti maschili e quindi la fecondazione.
Sia fecondato che non fecondato l’uovo inizia un proprio
cammino lungo le tube. Nel primo caso formata la membrana
pellucida e quindi, fusi i pronuclei maschile e femminile, si forma
lo zigote che poi si trasforma in morula quindi in blastocisti e si
inserisce in utero quando l’embrione è allo stadio di discoblastula.
La storia del gamete maschile comincia anch’essa al terzo
mese della vita endouterina con la migrazione sulle creste
gonadiche di un gruppo di cellule che daranno origine alle gonadi
maschili. Alcune cellule (i protogoni) saranno sottoposte in tempi
successivi a meiosi e dopo un complesso periodo di maturazione
daranno origine agli spermi, cellule altamente specializzate con
nucleo condensato privo di RNA e con un flagello che conferisce la
necessaria motilità ed un acrosoma che permette allo spermio di
raggiungere la superficie dell’uovo. Non esiste per gli spermatozoi
una periodicità maturativa come nel gamete femminile. Il numero
di spermatozoi che vengono approntati per una eiaculazione è di
circa un milione e mezzo (1,5 x 106).
Accennata così la storia dei gameti femminili e maschili
focalizziamo i meccanismi che producono i due tipi di gemelli. Per
quanto riguarda la gemellazione dizigotica oggi è dimostrato che
le variazioni dell’FSH e degli ormoni correlati come il luteinico
(LH), l’ormone di accrescimento (GH) e la prostaglandina E2 sono
in grado di indurre poliovulazioni, come è provato dalle terapie
della sterilità ormonale che possono produrre attraverso l’induzione
della maturazione contestuale di due o più follicoli gemelli Dz.
26
Per quanto riguarda la gemellazione monozigotica ricordiamo
che il meccanismo gemellogenetico consiste o in una divisione
completa dei due blastomeri originati dalla divisione dello zigote o
in una separazione (clivaggio) delle cellule dell’embrione allo
stadio di morula o di blastocisti o di discoblastula.
Quando i gemelli monozigotici si dividono allo stadio di
blastocisti o di discoblastula si possono formare anastomosi tra i
circoli sanguigni fetali con scambio del sangue fra i due feti cosa
che talvolta conduce a situazioni emodinamiche molto diverse e
difficili perchè spesso competitive per i gemelli.
Il fenomeno della gemellogenesi naturale è un carattere
ereditario e questo è dimostrato in primo luogo dalla familiarità del
fenomeno stesso. E’ usuale, infatti nella stesura degli alberi
genealogici dei gemelli il rilievo di altre coppie gemellari nello
spazio familiare.
Particolare valore assume il fatto che se si parte come
candidati da gemelli MZ si rilevano nello spazio familiare sia
gemelli MZ che gemelli DZ ed altrettanto accade se si parte da una
coppia di gemelli DZ. Il reperto genealogico suggerisce l’unicità del
fenomeno della gemellogenesi. Una conferma dell’ereditarietà della
gemellogenesi è data dalle diverse frequenze dei parti gemellari nelle
diverse etnie. In Nigeria il tasso dei parti gemellari si attesta intorno
al 20%, in Europa è in media del 10% ed infine in Estremo Oriente
(Cinesi e Giapponesi) é intorno al 5%. Se dai rilievi statistici si passa
all’analisi dei possibili modelli biochimici questi confermano che il
meccanismo ereditario deve essere correlato ai genotipi che
controllano gli ormoni FSH- LH- GH e PE2 per entrambe i tipi di
gemellazione in quanto i parti gemellari indotti dalle cure ormonali
della sterilità femminile mediante somministrazione degli ormoni
anzidetti sono sia Dz che Mz e questi ultimi in proporzione maggiore
di quelli rilevati nella popolazione.
La nostra ipotesi è che la variazione dei rapporti tra ormoni ed
in particolare tra l’FSH ed LH produca la gemellazione DZ e MZ
a seconda del momento in cui questa variazione si esprime e cioè
se si esprime a livello ovarico o a livello tubarico. Nel primo caso
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si ha la induzione di una gemellogenesi DZ (eccesso di FSH / LH
a livello ovarico) mentre nel secondo caso si determina una
gemellogenesi MZ.
La nostra ipotesi è ulteriormente confermata dal fatto che le
gravidanze multiple, più che gemellari indotte da cure ormonali
della sterilità femminile sono determinate da entrambi i meccanismi
di gemellazione e originano un numero di gemelli MZ che è in
frequenza superiore a quello atteso.
La interscambiabilità e quindi l’identicità di cogemelli
monozigotici è un dato di conoscenza letteraria e popolare che
assume il grado di conoscenza scientifica quando se ne conoscano
il significato ed i limiti.
Quanto al significato bisogna distinguere la identicità dei
monozigotici dalla rassomiglianza dei sosia. La identicità dei
monozigoti ha un fondamento genetico globale, ossia genomico e
permanente, fondato sulla eguaglianza, per duplicazione, del
materiale ereditario, quella dei sosia è invece una uguaglianza di
un limitato numero di caratteri fenotipici che dura per un
determinato e limitato periodo di tempo.
I fondamenti scientifici del fenomeno “identicità” sono da
ricercare nella uguaglianza della variabilità individuale fenotipica
che in tutti i viventi è determinata da fattori genetici, da fattori
ambientali e dalla loro interazione. Il teorema di Fisher in genetica
di popolazione formalizza questo concetto nel modo seguente:
VPh=VG + VE + VGxE dove V di Ph G ed E indicano rispettivamente
V la varianza Ph quella fenotipica G quella genetica ed E quella
ambientale. Se ora consideriamo in due individui la possibilità di
uguaglianza per due caratteri fenotipici risulta evidente che i due
individui debbano avere sia l’identità dei fattori genetici che
l’uguaglianza degli ambienti nei quali questi fattori operano. Per
necessità di sintesi nel teorema di Fisher VE rappresenta la varianza
complessiva dovuta ai fattori ambientali, ma è logico pensare che
la quantità rappresentata da VE è nella realtà la somma delle
varianze dovute alla successione degli ambienti individuali.
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L’uguaglianza della variabilità dovuta all’ambiente presuppone
quindi l’uguaglianza della successione degli ambienti individuali.
In altre parole la possibilità di un’identicità fenotipica
presuppone oltre a una identicità dei genomi una altrettanto
necessaria uguaglianza della successione degli ambienti individuali
in cui il genoma ha operato ed opera.
La improbabilità di una evenienza simile porta a pensare che
l’esistenza dei vari sosia pur limitata ad una identità temporanea
dei soli tratti somatici esterni sia altamente improbabile e soprattutto
che sia impossibile a individui mononati mantenere questa
rassomiglianza nel tempo. Un’eccezione a questa situazione di
impossibilità è rappresentata dai gemelli monozigotici i quali
proprio per il meccanismo che li produce hanno genomi identici.
La divisione gemellogenetica MZ avviene infatti nell’intervallo di
tempo che va dalla divisione dello zigote in due blastoneri alla
divisione in due dell’abbozzo embrionale in settima giornata
(discoblastula), ma sempre e comunque da una separazione tra
cellule o gruppi di cellule originate da divisioni mitotiche che
ripropongono nelle nuove cellule sempre genomi identici. In altre
parole i gemelli MZ hanno necessariamente una delle due
condizioni per avere fenotipi identici: i genomi uguali.
Come abbiamo detto la seconda condizione per l’identicità
fenotipica è quella di avere uguali oltre al genoma, la successione
degli ambienti in cui il genoma stesso si sviluppa e opera. Questa
seconda condizione è potenzialmente presente solo in una frazione
dei gemelli MZ quella originata dalla divisione in due dello zigote
o dell’abbozzo embrionale nei primi tre giorni quando la divisione
comporta una separazione completa dei due abbozzi che poi si
muovono autonomamente lungo le tube e si inseriscono
indipendentemente in utero determinando la formazione di due
placenta indipendenti e di due circoli materno-fetali indipendenti
ed equivalenti. Non altrettanto avviene se la divisione si realizza
dopo il terzo giorno quando la divisione riguarda solo le cellule
destinate a formare i due embrioni mentre le altre cellule destinate
a formare gli annessi restano indivise per conseguenza due abbozzi
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embrionali andranno ad inserirsi in utero insieme con una sola
placenta ed un unico chorion.
In questo caso oltre al circolo materno fetale in molti casi si
ha la formazione di anastomosi tra i vasi dei due abbozzi,
anastomosi che determinano circoli feto-fetali i quali possono
rendere i due embrioni competitivi tra loro.
Nel gruppo dei gemelli monozigotici, monoplacentati,
monocoriali monoamniotici e cioè in quei monozigotici che si
duplicano dopo l’inserzione in utero della blastocisti oltre alla
possibile competitività data da un eventuale circolo feto fetale a
rendere diverso lo sviluppo dei due feti, si aggiungono, alcune volta
fenomeni di simmetria speculare di norma funzionali e talvolta
anche morfologici.
Oltre al tempo di divisione embrionale (zigote, morula,
blastocisti, discoblastula) possono influire sulla diversità fenotipiche tra co-gemelli monozigotici, divisioni atipiche dello zigote o
dei blasti che attraverso selezioni differenti possono originare
embrioni non equivalenti persino nel numero dei cromosomi2.
L’identicità della successione degli ambienti nei gemelli
monozigotici diplacentati dicoriali allevati nel medesimo ambiente
familiare, è invece spesso resa evidente dal raggiungimento
contestuale e contemporaneo dei traguardi ontogenetici da parte di
cogemelli MZ di questo tipo.
La isocronia dei tempi dello sviluppo in coppie gemellari MZ
conduce ad una prima considerazione sui fattori causali della
isocronia.
Un caso particolare nel quale le divisioni atipiche originano due gemelli con
cariotipo a mosaico 45x, 46x + marcatore è stato recentemente pubblicato
(ottobre 1994) da Yukifumi Yokota et altri del dipartimento di Genetica Umana
dell'Università di Tokio sull'American Journal of Medical Genetic vol. 53 (5255). Nella coppia di gemelli studiata la distribuzione non equivalente delle cellule
di due cloni instauratosi prima della divisione gemellogenetica ha condotto i cogemelli ad avere cariotipi a mosaico diversi che determinano in un gemello un
fenotipo maschile e nell'altro un fenotipo femminile. Questo nonostante la
certezza della diagnosi di zigotismo fondata sul DNA satellitare che assegna al
dizigotismo una probabilità inferiore a uno su 100.000.000 (p < .000001).
2
30
E’ in effetti immediata l’idea che l’isocronia dei tempi fenotipici sia dovuta da un lato all’uguale successione degli ambienti nei
quali vivono cogemelli e dall’altro alla uguaglianza della sequenza
dei complessi operativi legata alla isogenicità dei cogemelli MZ.
L’identicità della successione ambientale e dei genotipi
conduce ad una regolazione identica dei geni implicati e quindi a
sintesi proteiche identiche per qualità, quantità e durata.
Conseguenza dell’identità genomica è la identicità dei tempi
operativi cui segue la comparsa contestuale e contemporanea dei
caratteri fenotipici dipendenti.
E’ interessante a questo livello notare che nei gemelli MZ
dicoriali che godono di uguali ambienti vitali sono necessariamente
identici anche i tempi ciclici o cronobiologici in quanto come
sappiamo l’identità della successione ambientale e l’identità
genotipica conducono anche ad un’identicità dei tempi operativi e
quindi se a questi aggiungiamo l’unicità di azione del tempo fisico
non si può non ottenere che un ulteriore identicità temporale
fenotipica dei gemelli, quella cronobiologica.
Una riflessione più profonda e diversa è resa necessaria dal
rilievo dell’identicità dei profili di invecchiamento nei cogemelli.
Un profilo di invecchiamento individuale è determinato da
quali funzioni individuali diminuiscono di efficienza o vengono a
mancare ed a quale età. Di norma il quadro fenotipico della
scomparsa di una funzione corrisponde alla cessazione di un certo
numero di attività geniche. L’identicità dei quadri fenotipici di
senescenza da noi abitualmente rilevati3 in alcuni casi, come quello
che riportiamo comporta la morte praticamente contemporanea per
la stessa causa in gemelli MZ. Casi come questi depongono per
limiti temporali ben precisi dei geni implicati nelle funzioni che
vengono a mancare. Questi tempi non sono più tempi operativi ma
tempi di durata dell’attività genica e quindi tempi che marcano la
vita di ciascun gene. L’identicità di questi tempi in gemelli
3
Cfr. Gedda L., Brenci G., Twins living apart test A.Ge.Me.Ge. 32,17-22 (1983)
31
monozigotici suggerisce che i geni del nostro organismo hanno una
durata di vita determinata dalla struttura stessa del gene.
La durata di vita (esistenza) del gene evidenziato dal
sincronismo delle estinzioni funzionali nei gemelli monozigotici
anziani suggerisce che al di là dei tempi operativi esiste un tempo
del gene che é la sua durata di vita tempo correlato alla struttura
stessa del gene e la sua stabilità.
LA STABILITÀ DEL GENE
STABILITÀ PER SINONIMIA
L’esplorazione della stabilità del gene può iniziare con
l’analisi dello stesso codice genetico. Un primo fattore di stabilità
è a questo livello identificabile nella esistenza delle cosiddette
mutazioni silenti ossia dalle mutazioni puntuali4 che modificano un
codon ma non si traducono nel cambio dell’amminoacido
corrispondente e che quindi non hanno un effetto sulla struttura del
polipeptide prodotto.
Come abbiamo già detto sulla emi-molecola che viene
trascritta o elica 5→3 del DNA i segnali del codice genetico che
identificano un amminoacido sono formati dalla sequenza di tre
delle quattro basi (timina, adenina, guanina e citosina). Le possibili
combinazioni di tre a tre delle quattro basi (dette anticodoni o anche
triplette) sono evidentemente 43 = 64. Ciascuna di queste triplette
può codificare uno e uno solo dei venti amminoacidi che
compongono le proteine dell’organismo umano, mentre un dato
amminoacido può essere codificato da una o più delle 64 possibili
combinazioni delle quattro basi.
Le combinazioni che producono il medesimo amminoacido
vengono chiamate sinonimi. La non corrispondenza biunivoca fra
le triplette che sono 61 (escludendo le 3 triplette cosiddette di
4
Puntuali = di un solo nucleotide
32
intereunzione) e gli amminoacidi che sono 20, crea la possibilità
che una mutazione puntuale di una base trasformi una tripletta in un
suo sinonimo senza che quindi avvenga una modificazione
dell’amminoacido corrispondente.
Nel seguente prospetto gli amminoacidi vengono catalogati in
6 gruppi a seconda del numero di sinonimi che possono produrli e
al numero di possibili mutazioni silenti per ciascun gruppo:
A1 Leucina,Arginina
A2 Serina
A3 Valina, Prolina, Treonina, Cisteina,
Lisina, Glutammina, Asparagina, Acido Glutammico, Acido Aspartico
A4 Isoleucina
A5 Fenilalanina, Istidina, Tirosina,
Cisteina,
Lisina,
Glutammina,
Asparagina, Acido Glutammico,
Acido Aspartico
Triptofano, Metionina
Numero
delleTriplette
Sinonimi
Mutazioni
silenti
6
7/27
6
9/27
4
3/27
2
1/27
3
1
2/27
0
Calcolando il numero delle mutazioni silenti nei confronti del
numero delle mutazioni possibili si può definire l’indice di
mutabilità (per mutazione puntuale) dell’informazione riguardante
un determinato amminoacido Im (x) e quindi anche il suo opposto
(1 Im (x)) = Is (x) cioè l’indice di stabilità della sua informazione.
33
Accettando per ipotesi che le basi si associno a caso nella
formazione delle triplette e considerando una proteina media
composta di 250 amminoacidi è possibile calcolare la stabilità
media della informazione riguardante una proteina ottenendo un
valore:
n
P.E. (MS) = ∑ S / N i (1,2,3,4,5,6,) = .2374 ±.0068
j=1 j j
e cioè → in percentuale ~ 24%
Dove P.E. (MS) indica la stabilità media della proteina, j gli
AA che la compongono, S/N il rapporto tra mutazioni silenti e
mutazioni possibili per AA a seconda della sinonimia.
In altre parole è d’attendersi che in media il 25% delle
mutazioni puntuali di una informazione non si traduce in variazione
della proteina, determinando così un aumento della stabilità
dell’informazione.
Livello dei legami idrogeno
La “sinonimia” chiarisce l’esistenza di una variabilità di
stabilità della informazione ereditaria correlata con l’esistenza di
mutazioni puntuali silenti, ma l’esistenza de i codon sinonimi nel
codice conduce a identificare anche un altro tipo di stabilità
differenziale delle informazioni ereditarie. Questa diversa stabilità
valutabile a livello fisico-chimico dipende dal numero di legami
idrogeno presenti nella terza base di ciascuna tripletta utilizzata
nella codifica. Uno sguardo al codice genetico permette di verificare
che nella grande maggioranza dei casi (18 su 20 amminoacidi) è
indifferente che la terza base della tripletta sia rappresentata da una
AdeninaTimina oppure da una GuaninaCitosina.
La possibilità che triplette diverse per la terza base
codifichino un medesimo AA comporta la possibilità o della
presenza di due legami idrogeno nel caso dell’utilizzo della
34
Adenina-Timina oppure di tre legami idrogeno nel caso dell’utilizzo
della Guanina-Citosina per codificare il medesimo AA. Queste due
eventualità fanno si che il medesimo messaggio genetico possa
essere scritto utilizzando per ciascun codon in terza base due oppure
tre legami idrogeno.
Considerando che una proteina media è formata da circa 250
Amminoacidi e quindi è codificata da 250 triplette si può pensare
che ai 1250 legami corrispondenti alle medie dei legami (2,5) delle
prime due basi (2,5 x2 x 250), si possono aggiungere in terza base
o 750 legami H nel caso di terze basi tutte del tipo Guanina o
Citosina oppure 500 legami idrogeno nel caso di utilizzo di terze
basi tutte del tipo (Adenina o Timina) e questo sempre codificando
una medesima proteina.
In altre parole la medesima proteina può essere codificata da
un tratto di DNA contenente 1750 oppure 2000 legami idrogeno
ossia da un tratto di DNA con il 12,5% di legami idrogeno in più o
in meno. Questa diversità fisico-chimica del gene a livello DNA
produce un’evidente maggiore o minore stabilità fisico-chimica del
gene stesso come dimostra la relazione di Marmur e Doty (2) nella
quale si afferma che l’energia necessaria per la denaturazione di un
tratto di DNA (separazione dei filamenti della doppia elica per
rottura dei legami idrogeno) aumenta proporzionalmente al numero
delle basi GuaninaCitosina in esso contenute.
Si pone a questo punto l’interrogativo se la maggior stabilità
chimico-fisica determinata dal numero di legami idrogeno si
traduca in una variabilità della stabilità informatica. Che il
fenomeno abbia notevole importanza a livello informatico è
dimostrato dalle tavole dei “codons usage” dove si rileva che l’uso
delle terze basi di tipo Adenina-Timina va decrescendo quando si
passa dal DNA dei procarioti a quello dei mammiferi.
In altre parole ad un aumento della complessità dell’organismo
corrisponde necessariamente un aumento dell’affidabilità del
sistema ottenuta attraverso l’aumento della stabilità relativa.
35
STABILITÀ PER RIDONDANZA
Geni multicopie
Le esperienze di Morgan, Bridge e Sturtevant hanno permesso
attraverso lo studio del gene Bar in drosophila melanogaster
l’identificazione dei “tandem repeats” e cioè la presenza di segnali
genetici ripetuti nel cromosoma uno della drosophila.
Gli esperimenti della scuola di Morgan hanno chiarito anche il
meccanismo di produzione delle duplicazioni identificato negli
scambi intercromatidici non equivalenti (Crossing over anequalis)
nella gametogenesi. Oggi è possibile affermare che i genomi dei
mammiferi contengono due distinte classi di geni ripetuti o
multicopie: una classe di geni ripetuti deve generare funzionalità
diverse mentre l’altra esiste per produrre una quantità maggiore dello
stesso prodotto genico. Qualche centinaio di geni che specificano la
regione variabile delle immunoglobuline rappresentano per ora il solo
esempio noto della prima classe. Appartengono invece alla seconda
classe e cioè ai geni ripetuti che codificano una medesima
informazione alcuni geni fondamentali per la fisiologia della
informazione ereditaria come quelli per le frazioni 18 S, 28 S e 5 S
dell’RNA ribosomiale, quelli per gli RNA di transfert e i geni per i 5
diversi tipi di istoni.
Se ora ci si interroga sul significato dei geni multicopie ci si
rende conto che oltre all’ovvio significato di una correlazione tra
numero di ripetizioni della informazione e quantità del prodotto
genico disponibile dobbiamo prendere in considerazione almeno due
altri significati. Un primo significato è collegato con l’affidabilità
della informazione stessa. In informatica l’affidabilità è definita come
la capacità di una informazione di non originare errori cosa questa
che viene normalmente ottenuta attraverso la ridondanza intesa come
la ripetizione dell’intera informazione o di una parte di essa, in modo
di avere un termine di confronto per stabilire la correttezza della
informazione stessa. Quantità di informazione e ridondanza sono in
informatica variabili definite e misurabili.
36
Un secondo significato dei geni multicopie si ottiene riflettendo
sul fatto che la richiesta organismica di una determinata informazione
non è costante nel tempo e nei diversi tipi di cellule.
E’ evidente che il genoma essendo identico in tutte le cellule
deve contenere un numero di geni multicopie congruo con il
momento di massima richiesta, dell’informazione in determinate
cellule dell’organismo, richiesta massima che di solito si realizza
nell’embriogenesi.
Poichè la richiesta organismica può variare nel tempo e di
norma diminuisce nella vita adulta per assestarsi su un determinato
valore nel periodo dell’omeostasi, il numero di ripetizioni approntato
per affrontare la massima richiesta durante l’ontogenesi permette
all’organismo di disporre nell’omeostasi e nella senescenza di riserve
di stabilità dell’informazione. Probabilmente é il tempo impiegato
nell’esaurimento di questa riserva di stabilità che determina il periodo
della sopravvivenza individuale.
Uno sguardo panoramico complessivo a questi tre aspetti della
ridondanza consente di coglierne il denominatore comune che è
l’aumento dell’affidabilità dell’informazione nel tempo e cioè un
aumento della stabilità dell’informazione.
La ridondanza per ripetizione dell’intera informazione come
avviene nei geni multicopie, non esaurisce le forme di ridondanza
presenti nel DNA. Esistono infatti ridondanze di segnale che senza
influire sulla quantità di informazione disponibile agiscono a livello
della affidabilità dell’informazione registrata. Un esempio può
chiarire le modalità d’azione di questo tipo di ridondanza.
Supponiamo che l’informazione da registrare sia il numero di
pagine (147) di un prezioso manoscritto e che quindi questo numero
debba essere sempre registrato e trascritto in un modo particolarmente
esatto. Come metodo di controllo dell’esattezza si può per esempio
ripetere più volte l’informazione (almeno tre) e considerare come
esatto il messaggio ripetuto identico per il maggior numero di volte,
e questo è probabilmente il meccanismo che agisce nei geni
multicopie; ma è anche possibile e più economico utilizzare per il
37
controllo dell’esattezza algoritmi come quello di aggiungere al
messaggio iniziale l’ultima cifra della somma dei numeri che
compaiono nell’informazione: 1 + 4 + 7 = 12 con 2 cifra aggiunta.
Registrando l’informazione non con 1 4 7 ma con 1 4 7 2 si ottiene
un elevato controllo dell’attendibilità dell’informazione. La nuova
cifra aggiunta non comporta aumento della quantità
dell’informazione ma solo un aumento della sua attendibilità e quindi
un controllo della stabilità dell’informazione stessa. Ovviamente gli
algoritmi utilizzabili sono molti; ad esempio l’identità dell’ultimo
segnale con un segnale registrato in una data posizione.
Un ulteriore tipo di ridondanza che agisca a livello
dell’informazione ereditaria può essere identificato attraverso la
distribuzione non equiprobabile delle basi in un tratto di DNA. Se si
considera infatti un tratto di DNA sufficientemente lungo la
probabilità casuali di presenza delle singole basi dovrebbero essere
1/4, ma nella realtà il rapporto tra basi che si rileva sperimentalmente
in un tratto di DNA diverge da quello atteso nell’ipotesi di
equiprobabilità poichè uno o più basi sono ripetute un maggior (o
minore) numero di volte rispetto allo 0,25% atteso teoricamente.
In altre parole uno o più segnali sono “ridondanti” rispetto al
numero atteso teoricamente nell’ipotesi di equiprobabilità. Chiamata
con H(max) la quantità di informazione massima di un tratto di DNA
e cioè quella corrispondente alla equiprobabilità dei segnali, e con
H(obs) il rapporto di composizione in basi sperimentalmente rilevato,
è possibile definire la divergenza D1 = H(ma) - H(obs). H(obs) però
rappresenta anch’esso un massimo dal punto di vista delle
correlazioni possibili tra simboli perchè presuppone l’indipendenza
tra basi contigue. E’ quindi necessario misurare come ciascuna base
condizioni le basi contigue. Questo si ottiene approssimando il DNA
a catene di Markov del primo ordine. Si ottiene così una nuova
divergenza D2 = H(obs) - Hr dove Hr misura la ridondanza da
condizionamento. Utilizzando D1 e D2 si può ora definire la quantità
di informazione registrata in un tratto di DNA IR = D1 + D2= H(max)
-H(obs) +H(obs) - Hr e cioè semplificando IR = Hmax -Hr.
L’importanza biologica dell’identificazione della ridondanza nella
38
quantità di informazione registrata in un tratto di DNA, ha un valore
notevole in quanto se si classificano i DNA estratti da diversa specie
di viventi a seconda dei valori delle due divergenze (ridondanze) D1
e D2 si ottiene una classificazione delle forme viventi che va dal virus
al metozoo così come è illustrata nella tabella che riportiamo da H.
Atlan dove è evidente che più le forme sono complesse e più è
necessario un valore elevato della ridondanza ed in particolare di
quella di tipo D2.
Vogliamo infine ricordare che nei genomi della specie a
riproduzione sessuata esiste una speciale forma di ridondanza,
determinata dalla presenza contestuale in un genotipo specifico del
gene paterno e del gene materno.
Lo studio dell’effetto fenotipico di questi genotipi a seconda
che siano presenti: 2 mutazioni, 1 mutazione; nessuna mutazione,
porta attraverso l’azione e l’interazione tra geni alla comparsa della
varianza genetica nelle sue due componenti fondamentali: quella
additiva e quella dovuta alla dominanza per interazione tra i geni che
compongono il genotipo specifico.
Il nostro interesse per questa forma minimale di ridondanza
non è però rivolto al solo effetto fenotipico ma alla stabilità del
genotipo in funzione della stabilità dei geni che lo compongono.
L’esempio che può meglio illustrare questo tipo di stabilità è quello
del retinoblastoma.
Questa malattia è determinata da due eventi mutazionali
successivi che possono essere sia una mutazione gametica alla quale
si aggiunge una mutazione somatica che due mutazioni somatiche
successive.
Nei casi familiari del retinoblastoma ad un gene mutato
trasmesso come tale da un genitore presente sin dalla formazione
dello zigote e quindi per conseguenza in tutte le cellule
dell’organismo si somma una mutazione somatica del gene trasmesso
come sano nelle cellule della retina. Si realizza così un particolare
omozigosi che produce il retinoblastoma. L’insorgenza della malattia
nel caso di una mutazione somatica che si somma ad una gametica è
39
relativamente precoce perchè dipende dal realizzarsi della sola
mutazione somatica ed è quindi proporzionale alla frequenza delle
mutazioni di questo tipo. Nelle forme cosiddette sporadiche dove i
due eventi mutazionali sono entrambi somatici e si realizzano in
tempi successivi nei due geni. L’insorgenza è relativamente tarda in
quanto la realizzazione dell’evento mutazionale indipendentemente
nei due geni rende l’età di insorgenza non più proporzionale alla
frequenza di mutazione bensì al suo quadrato.
Il modello del retinoblastoma illustra bene la stabilità per
ridondanza nei due geni di un genotipo specifico e chiarisce come
l’azione mutagena dell’ambiente può agire sulla stabilità (o meglio
sul suo inverso la mutabilità) sia a livello gametico che a livello
somatico; e dimostra come alle mutazioni trasmesse a livello
gametico si possano sommare durante la vita individuale, mutazioni
somatiche.
STABILITÀ PER REPAIR
L’efficienza dei sistemi di riparazione degli errori rappresenta
un terzo gruppo di fattori che sono alla base della stabilità genica.
Per non eccedere, ricordiamo qui le modalità di azione di un solo
sistema di repair quello per escissione.
Uno dei danni più comuni che viene eliminato da un
meccanismo di riparazione è il dimero pirimidinico (TT o CC CT).
Che viene rimosso mediante repair per escissione. Il dimero
consiste nella formazione di un legame covalente tra due piramidine
successive su di una medesima elica del DNA. Causa della
formazione del dimero è di norma la radiazione ultravioletta
componente normale della luce solare. La probabilità di formazione
dei dimeri è una funzione sia delle modalità della radiazione
ultravioletta, ma anche della struttura stessa del DNA considerato
e cioè del numero di pirimidine che si succedono nel tratto
informatico. E’evidente che se in un tratto informatico è contenuta
una sola coppia di pirimidine contigue la probabilità di formazione
di dimeri sarà molto diversa dalla probabilità di formazione di
40
dimeri di un tratto di DNA formato da una sequenza per esempio di
AT (poli AT). L’equilibrio tra probabilità di formazione dei dimeri
e capacità del sistema di repair di eliminarli, determina la stabilità
della informazione genica rispetto a questo errore che se non
corretto può essere causa di mutazioni cosiddette “back bone
mutation”. Il rapporto produzione/eliminazione errori può dare
logicamente origine a tre diverse situazioni:
1) Il meccanismo di repair elimina sempre e tutti i possibili
dimeri e quindi l’informazione resta stabile nel tempo;
2) Produzione ed eliminazione dei dimeri sono in equilibrio
instabile e casualmente alcuni dimeri non vengono corretti e si
accumulano causando una instabilità lenta e progressiva
dell’informazione;
3) La frequenza di produzione degli errori è, per eccesso della
azione mutagena o per struttura dell’informazione o per deficienza
dei sistemi di repair, maggiore della capacità di riparazione con un
veloce accumulo di errori nel tempo che rendono definitivamente
inattiva l’informazione.
SISTEMI PREVENTIVI DELL’AZIONE DEI MUTAGENI
Ai fattori di stabilità descritti è necessario aggiungere come
ulteriore fattore di stabilità delle informazioni ereditarie i sistemi
enzimatici in grado di ridurre o comunque condizionare alcune tra le
più frequenti cause di errori e mutazioni.
I più noti tra questi sistemi sono quelli che agiscono eliminando
o condizionando la formazione di ossigeno attivo nei vari composti
chimici. L’ossigeno attivo costituisce o direttamente o attraverso gli
agenti ossidanti a cui dà luogo, la causa più probabile di errore, in
quanto, è originato, sia pure in frequenza minima, da una funzione
essenziale nel vivente: la respirazione. Due sono i maggiori sistemi
di eliminazione degli agenti ossidanti. Un primo sistema è articolato
su due successivi passaggi metabolici e utilizza la superoxidismutasi
per trasformare l’ossigeno attivo O2 in perossido di idrogeno H2O2
e O2 (molecola non attiva), poi due molecole di perossido per azione
41
della catalisi si trasformano in due molecole di acqua più una
molecola di ossigeno inerte.
Il secondo sistema di difesa contro gli agenti ossidanti è
realizzato dagli enzimi del sistema glutationemico. Anche questo
sistema utilizza due passaggi metabolici, nel primo la
glutationperossidasi trasforma con l’aiuto di due molecole di
glutatione ridotto (GSH) una molecola di perossido di idrogeno in
una molecola di acqua più una molecola di glutatione ossidato
(GSSG). Nella seconda reazione la glutation-reductasi è in grado con
l’aiuto di altri sistemi (NADP e NADPH) di produrre il glutatione
ridotto da glutatione ossidato. L’eliminazione dell’ossigeno attivo e
degli altri agenti ossidanti da parte di questi sistemi impedisce la
formazione dei radicali liberi, una delle maggiori cause di mutazione.
I RAPPORTI TRA STABILITÀ E DURATA DI VITA DEL GENE
(IL DECADIMENTO)
La stabilità di un gene che abbiamo descritto nel capitolo
precedente è una caratteristica che varia durante la vita esaurendosi
nel tempo per l’accumulo degli errori e delle mutazioni. Il
decadimento conduce all’estinzione della informazione genica.
L’intervallo tra la costituzione dell’informazione e la sua estinzione
rappresenta la durata di vita del gene.
La speranza di vita di un gene, cioè la sua capacità “a priori”
di mantenere nel tempo, in un dato ambiente, la propria funzione
informatica è determinata dalla stabilità iniziale, la quale oltre a essere
variabile da individuo a individuo può essere diminuita o annullata da
mutazioni trasmesse ereditariamente o acquisite. In ogni caso la vita
di tutti i geni ha un decorso a termine caratterizzato dal decadimento
della sua stabilità che conduce all’estinzione dell’informazione
genica e all’insorgere della malattia corrispondente alla carenza del
prodotto genico. Lo studio del decadimento genico stabilisce così
rapporti di interdipendenza fra la stabilità del gene e la durata della
sua informazione. L’esistenza di questi rapporti permette anzitutto di
considerare la stabilità potenziale (speranza di vita) di un gene come
42
responsabile del tempo biologico ereditario individuale.
Considerando poi l’ambiente come una costante, è possibile
stabilire l’esistenza del fenomeno che lega la stabilità al tempo di
vita di una informazione ereditaria e cioè la funzione di
decadimento della stabilità della informazione ereditaria per
esempio utilizzando come modello quello del decadimento degli
elementi radioattivi.
In questo modello se si indica con N il numero delle particelle
dello stesso tipo costituenti l’elemento al tempo zero è possibile
calcolare il numero di tali particelle dopo il tempo T attraverso la
relazione N=N e - 1T dove D è una costante caratteristica per ciascun
tipo di particelle. Come conseguenza è possibile definire “la vita
media” come il tempo T necessario perchè decadano le N
informazioni iniziali.
La determinazione della “vita media” e cioè il problema che
più ci interessa può per la sua analogia con la vita media dell’informazione essere praticata nel caso delle particelle o misurando il
tempo compreso tra il tempo di produzione e quello di decadimento
di un campione di particelle identiche, oppure calcolando in un
elemento contenente inizialmente un certo numero di particelle del
tipo considerato quante ne restano dopo un certo percorso.
In teoria se si determinano i valore iniziali dei parametri di
stabilità è possibile descrivere matematicamente il processo di
decadimento attraverso una funzione aleatoria M (T) che permette di
prevedere il tempo T occorrente perchè M (T) raggiunga un limite
inferiore (quello che rende inattivo il gene), e quindi calcolare Ti la
durata di vita della informazione. Questo modello presuppone come
abbiamo detto la quantificazione della stabilità mediante la
determinazione dei valori di parametri e quindi di giungere per via
indiretta alla determinazione della durata di vita potenziale di un
gene. La pratica impossibilità della determinazione dei valori iniziali
dei parametri, conduce a due vie alternative per la stima della
speranza di vita di un gene. Una prima, suggerita ancora dalla fisica,
consiste nel valutare la diminuzione di stabilità di una informazione
43
attraverso la diminuzione del prodotto genico corrispondente
misurato in tempi successivi.
La seconda consiste nel determinare statisticamente l’inverso
della stabilità e cioè la frequenza di mutazione somatica per un dato
ambiente di una data informazione. Ovviamente in questo secondo
caso la stima della frequenza di mutazione per una data unità di tempo
rappresenta una stima per difetto in quanto prende in considerazione
solo gli errori irreversibili (mutazioni) e non gli errori reversibili che
pure hanno un valore notevole nel limitare il potenziale informatico
del gene.
CONCLUSIONI
Creato con il cosmo lo spazio tempo è la dimensione
necessaria per comprendere l’evoluzione dell’universo e all’interno
di questa il nascere delle galassie, del sistema solare e della terra.
La storia di quest’ultima, circa 3.5 miliardi di anni fa, cessa di
essere solo astrofisica e geologia per far posto allo studio
dell’insorgere e del divenire di quel particolare fenomeno che noi
chiamiamo vita. Alla osservazione il fenomeno vita si mostra
altamente polimorfico e per ciascuna delle forme osservabili mostra
una molteplicità di tempi di sviluppo, riproduttivi, ecc.. In
particolare una osservazione mirata mostra che la vita degli
individui appartenenti alle diverse forme ha una durata media
caratteristica per ogni forma.
Se dall’osservazione dei viventi in generale spostiamo la
nostra attenzione alla specie umana osserviamo che i tempi di vita
individuale sono distribuiti intorno ad una media e si differenziano
a seconda delle etnie e degli ambienti nei quali le etnie vivono. Per
tempo di vita individuale (lifespan) intendiamo il tempo della
successione di eventi che porta allo sviluppo del programma
genetico che ciascun individuo riceve dai gameti parentali
(ontogenesi), a cui si somma il tempo della successione di eventi
che rappresentano il periodo di equilibrio tra ambiente e individuo
(omeostasi), ed il tempo della successione di eventi che rappresenta
44
il periodo di decadimento delle funzioni (senescenza) che si
conclude con la morte individuale.
Tralasciando l’analisi dei tempi operativi puntuali dei quali è
noto il meccanismo (Operon) è opportuno fermare la nostra
attenzione sul meccanismo che determina i tempi di durata della
informazione genica in quanto tempi necessari e previ a qualsiasi
altro tipo di tempo del vivente.
Il nostro modello si fonda sul presupposto che i tempi di vita
dei geni sono una funzione della stabilità della informazione genica
nei confronti della induzione e dell’accumulo di errori e di
mutazioni. La stabilità genica può essere diversa oltre che tra
informazioni diverse anche tra codifiche diverse di una medesima
informazione. La diversità può derivare dall’uso nella codifica di
sinonimi diversi (sinonimia o codon usage), dal diverso numero di
ripetizioni efficienti della informazione (ridondanza) e dalla
interazione dei sistemi di repair e di prevenzione degli errori rispetto
alla struttura della informazione.
La stabilità dell’informazione essendo una caratteristica del
gene è naturalmente ereditaria. Dato che le azioni mutagene
dell’ambiente sono continue nel tempo, e, non esistendo stabilità
assolute dei geni, l’induzione e l’accumulodegli errori e/o mutazioni
annulla progressivamente la capacità informatica del gene
determinandone l’esaurimento. Con la durata della vita del gene,
intesa come l’intervallo del tempo che intercorre tra la sua
costituzione e l’esaurimento della sua capacità informatica,
abbiamo dato il nome di Chronon. Con questo abbiamo voluto
sottolineare una ulteriore caratteristica del gene a nostro avviso
essenziale per una corretta interpretazione dei fenomeni fisiologici
e patologici.
BREVI CENNI SULLA STRUTTURA DEL GENE
STRUTTURA DEL DNA
Ricordato che risale ad Avery (1944) l’identificazione del materiale
ereditario negli acidi nucleici, precisiamo che l’acido deossiribonucleico
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(DNA) è formato da tre gruppi di sostanze: uno zucchero, un gruppo
fosfatico, e quattro basi azotate.
Lo zucchero è sempre il deossiribosio, così come il gruppo fosfatico
che è sempre il diesterofosfato. Zucchero e fosfato formano l’ossatura della
molecola di DNA dove una molecola di zucchero si alterna regolarmente con
una molecola di fosfato e sono tra loro legate da legami C-O-P. Sulle
molecole di zucchero si legano come catene laterali le basi azotate per mezzo
di un legame C-N. Le basi azotate sono due purina, l’Adenina e la Guanina
e due pirimidine la Timina e la Citosina.
Dal 1953 il modello del DNA proposto da Watson e Crick e verificato
con metodi radiologici e cristallografici da Wilkins è stato assunto come
interpretazione corretta della struttura del DNA. In questo modello la
molecola è formata da due catene di zucchero fosfato antiparallele che si
arrotolano come due spirali intorno ad un asse immaginario. Le due catene
sono unite tra loro da coppie di basi ciascuna delle quali appartenente ad una
spirale disposte in un piano che interessa l’asse delle spirali.
Le coppie di basi rappresentano un aspetto molto interessante della
struttura in quanto il diametro delle spirali (22-25º A) rende impossibile
l’utilizzazione di due grandi basi (purine) per unire le due catene in quanto
lo spazio tra le due spirali è troppo piccolo così come è impossibile usare due
piccole basi (pirimidine) in quanto in questo caso lo spazio tra le catene è
troppo grande.
E’ quindi necessario appaiare una purina ad una pirimidina, in più a
causa dei legami idrogeno che permettono l’appaiamento delle basi risultano
appaiabili solo l’Adenina con la Timina e la Guanina con la Citosina.
Una dimostrazione di quanto detto è nel fatto che in tutti i DNA isolati
il rapporto tra Basi A:T e G:C è sempre uguale a 1 mentre gli altri rapporti
sono variabili nelle diverse specie anche se simili in specie affini.
Il modello di Watson e Crick comporta che su di una spirale di DNA
può essere presente una qualsiasi sequenza di basi, ma una volta che questa
sia data risulta automaticamente determinata la sequenza dell’altra spirale. Il
modello di Watson e Crick impone che le due spirali debbano essere
destrogire in quanto spirali levogire violerebbero la legge di Van der Waals
sulle distanze interatomiche.
Considerazioni analoghe impongono che le due spirali siano
antiparallele, nel senso che la successione degli atomi scorre in un senso in
una spirale e nel senso opposto nell’altra. In particolare gli atomi di carbonio
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5’ e 3’ dello zucchero (pentosio) utilizzati per i legami con il fosforo e la
molecola contigua di zucchero determinano la direzione delle spirali che
proprio da questi atomi prendono il nome di spirali 5→3 o 3→5.
Cromosomi, DNA i basiazotate
L’INFORMAZIONE GENICA
Il DNA è quindi un polinucleotide formato da 4 tipi di nucleotidi i
quali differiscono tra di loro per la base azotata presente. Le quattro basi sono
come si è detto nella struttura del DNA: l’Adenina (A), la Timina (T), la
Guanina (G) e la Citosina (C). Una molecola di DNA contiene da migliaia a
milioni di nucleotidi a seconda delle diversa specie, mentre praticamente non
differiscono per numero di nucleotidi una dall’altra le molecole di DNA di
individui della medesima specie.
Il DNA è dunque il messaggio genetico scritto con un alfabeto di
quattro simboli: A,T,G e C. Anche le proteine come l’ADN sono dei polimeri
costituiti da decine, centinaia e talvolta migliaia di monomeri gli
Amminoacidi. Gli amminoacidi sono solo 20 e la specificità di una proteina
dipende dal numero e dalla sequenza degli amminoacidi.
Si può quindi considerare anche la proteina come un messaggio scritto
però con un alfabeto di 20 simboli.
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Problema fondamentale diviene quindi la corrispondenza tra la
sequenza dei nucleotidi (basi) del DNA e la sequenza di amminoacidi (AA)
nelle proteine.
Dalla struttura stessa del segnale genetico (ATGC) risulta evidente che
per codificare un amminoacido non sono sufficienti nè le basi (4) nè la
successione di due basi in quanto queste originano solo 16 (4x4) segnali
diversi. Risulta quindi che per codificare ciascuno dei 20 amminoacidi sono
necessarie successioni di tre basi o triplette.
Si apre a questo punto il problema dell’eccesso del numero di terne di
basi (4x4x4=64) per codificare 6 venti amminoacidi. Si poteva pensare che
solo 20 segnali di 3 basi codificassero i 20 amminoacidi mentre le altre 44
combinazioni non venissero mai usate, nella realtà è stato accertato che più
triplette possono codificare un solo amminoacido.
In altre parole la corrispondenza tra triplette di basi (codogeni) e
amminoacidi (AA) non è biunivoca in quanto ad una terna di basi corrisponde
sempre uno ed un solo amminoacido (AA), mentre, ad un medesimo
amminoacido possono corrispondere 1,2,3,4,6, triplette, come indicato dal
prospetto seguente:
II codice genetico
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LA DUPLICAZIONE DELLA INFORMAZIONE
Il meccanismo della formazione di una nuova molecola di DNA e stato
descritto da Watson nel modo seguente: “Se è nota la serie di basi di una delle
due eliche è possibile stabilire esattamente quali sono le basi presenti
nell’elica omologa.
Supponendo ora, che le due eliche si siano separate per la rottura dei
legami idrogeno che uniscono le basi di ciascuna coppia, ognuna delle due
eliche è pronta per la sintesi di una nuova elica complementare e la struttura
di quest’ultima non potrà che essere identica alle eliche omologhe della
struttura originale. Così, le due molecole di DNA risultanti dalla duplicazione
sono identiche alla molecola madre. La duplicazione è resa possibile dalla
presenza, allo stato libero nell’ambiente del nucleo, durante il periodo di
sintesi del DNA di tutti i nucleotidi necessari”.
Un nucleotide si fisserà sulla emimolecola originale solo se
complementare a un nucleotide di questa. Le nuove molecole si formeranno
così per tratti successivi dove la sintesi è resa possibile dalla rottura dei
legami idrogeno nel tratto interessato alla duplicazione (denaturazione). Il
modo particolare di duplicazione del DNA viene chiamato
“semiconservativo” in quanto ogni molecola figlia possiede un’elica della
molecola madre che servendo da stampo per la sintesi della molecola
complementare la obbliga all’identicità con la molecola originale.
LA MUTABILITÀ DELLA INFORMAZIONE
Il termine “mutazione” è stato introdotto nel 1901 dal de Vries uno
dei tre riscopritori delle leggi Mendeliane. Come mutazione de Vries
definisce la variazione improvvisa e discontinua di un carattere che una volta
comparsa diviene ereditaria e viene trasmessa alle generazioni successive.
L’identificazione del gene in un tratto di molecola ADN permette di
stabilire che il messaggio genico può mutare in quanto possono cambiare il
numero, il tipo e la disposizione dei nucleotidi che lo compongono. E’ quindi
possibile stabilire che la molecola di ADN possiede tutte le caratteristiche
necessarie al materiale vettore della eredità e cioè la capacità di registrare
l’informazione genica, la capacità di duplicare l’informazione, la possibilità
di mutare (variare adattativamente).
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DALL’INFORMAZIONE ALLA PROTEINA
Il DNA nucleare è dunque la sede dove è registrata l’informazione
genica.
L’informazione essendo copiata (trascritta) su RNAm subisce i
processi di maturazione e quindi viene trasportata nel citoplasma. Il
nucleotide Timina (T) presente nel DNA viene sostituito nell’RNA con
l’Uracil (U). La successione di tre basi nell’RNA messaggero è stata scelta
convenzionalmente per definire il Codice Genetico (vedi Talx).
Nella trascrizione l’RNAm si modella sullo stampo di una sola delle
catene formate dalla doppia elica del DNA (la catena 5→3).
L’RNAm o RNA messaggero maturo si trasferisce poi nel citoplasma
e si segnali verso le sedi della sintesi proteica dove si associa con l’RNAr
(ribosomiale) formando i polisomi. Sul sistema RNAm + RNAr vengono a
disporsi nell’ordine preciso indicato dall’RNAm complessi formati da RNAt
(RNA di transfer) e amminoacidi.
L’RNAt ha una doppia specificità: da un lato presenta una sequenza di
segnali che si adatta in modo complementare ad un codon definito
dell’RNAm, dall’altro si lega con uno specifico amminoacido.
I ribosomi consentono la lettura del messaggio contenuto nell’ARNm
scorrendo sul nastro di questa molecola e, attivandone la sequenza dei codon
non definito dell’RNAm, permettono l’inserzione ordinata delle molecole di
RNAt legate ai relativi amminoacidi. Gli AA così collocati si uniscono tra
loro con legami peptidici e si forma un polipeptide che staccandosi dagli
RNAt dà origine a una proteina realizzando così la “traduzione” in proteine
del messaggio contenuto nell’RNAm.
I geni che vengono trascritti in RNAm e determinano poi la sintesi di
una data proteina sono stati denominati geni strutturali. Questi geni non
lavorano ovviamente tutti insieme e nello stesso tempo, ma secondo il
fabbisogno metabolico cellulare e organismico, è quindi necessario supporre
l’esistenza di meccanismi regolatori che controllano e regolano le diverse
sintesi proteiche.
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La sintesi proteica
Il meccanismo regolatore di cui fu per primo dimostrata l’esistenza fu
quello del gene della galattosidosi nella Escherichia Coli. Il modello ideato
da Jacob e Monod e da loro denominato Operon è formato da due diversi tipi
di geni non strutturali. Uno dei due geni chiamato “operatore” dà inizio alla
trascrizione/traduzione dei geni di struttura. L’operatore è bloccato nella sua
azione da un repressore prodotto da un gene chiamato “regolatore”. Il
repressore a sua volta può essere inibito da metaboliti e quando il repressore
è bloccato il gene operatore da inizio all’attività di trascrizione del o dei geni
di struttura collegati.
Negli eucarioti il problema della regolazione è più complesso perchè
oltre ai tempi di attivazione dei diversi gruppi di geni strutturali esiste il
problema della attivazione dei gruppi di geni diversi nei differenti gruppi di
cellule che costituiscono i singoli apparati. Il problema è stato risolto
dimostrando l’esistenza di “operatori complessi” formati dai promotori che
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promuovono la trascrizione da modulatori che regolano l’intensità della
trascrizione e da altri fattori tessutospecifici che permettono ai geni di uno
stesso operon di essere espressi in modo diverso nei vari tessuti e nei
differenti stadi di sviluppo.
La struttura e le funzioni di un vivente come è stato già detto sono
determinate dalle sue specifiche proteine. A loro volta le proteine sono
determinate dal numero e dal tipo degli amminoacidi che le compongono.
Vogliamo qui ricordare che è sufficiente che nella memoria genetica sia
registrata la sola successione degli amminoacidi in quanto l’ordine degli
amminoacidi lungo il polipeptide determina la struttura primaria della
proteina la quale consegue la stabilità molecolare, ripiegandosi a formare un
avvolgimento elicoidale e viene resa più stabile da ponti di solfuro tra legami
peptidici superiori ed inferiori dell’elica. L’avvolgimento a spirale e i legami
di solfuro, costituiscono la struttura secondaria della proteina.
L’andamento nello spazio della spirale costituisce la struttura terziaria.
Nelle proteine complesse (polimeri), formate da più catene proteiche
identiche o diverse, l’associazione specifica di sub-unità in una
macromolecola complessa rappresenta la struttura quaternaria.
Da quanto detto consegue che tutte le caratteristiche strutturali e
funzionali di una proteina sono implicite nella sequenza degli amminoacidi
nel polipeptide. Unica condizione necessaria e sufficiente per la registrazione
di una proteina nella memoria genetica è quindi che sul DNA siano registrati
i segnali corrispondenti alla successione degli Amminoacidi nel polipeptide.
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Bibliografía
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