Lucrezio De rerum natura Il De rerum natura di Lucrezio è un poema

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Lucrezio
De rerum natura
Il De rerum natura di Lucrezio è un poema didascalico in esametri (con una componente epica
legata all'esaltazione della figura di Epicuro). Composto da sei libri, forse incompleto, e, in ogni
caso, mancante dell'ultima revisione, è dedicato all'aristocratico Gaio Memmio, amico e patrono di
Catullo. Girolamo asserisce che il De rerum natura, dopo la morte del poeta, fu rivisto e pubblicato
per opera di Cicerone. Per quanto paradossale la cosa possa sembrare (Cicerone detestava gli
epicurei), probabilmente risponde a verità. Seri dubbi invece gravano sul resto delle indicazioni
biografiche che ci provengono dal Chronicon di san Gerolamo, che a proposito dell'anno 94 a.C.
riporta:
Titus Lucretius poeta nascitur: qui postea amatorio poculo in furorem versus, cum aliquot libros per
intervalla insaniae conscripsisset, quos postea Cicero emendavit, propria se manu interfecit anno aetatis
XLIV.
Nasce il poeta Tito Lucrezio: il quale, diventato pazzo a causa di un filtro d'amore, dopo avere
scritto alcuni libri nei momenti di lucidità, (libri) che in seguito Cicerone pubblicò, si suicidò all'età
di 43 anni.
Secondo san Gerolamo, quindi, Lucrezio sarebbe morto nel 51 a.C.; numerosi studi, tuttavia,
concordano oggi nell'affermare che molto probabilmente le date di nascita e di morte del poeta
sono da far coincidere rispettivamente con il 98 a.C. e il 55 a.C.
Un'altra questione assai dibattuta riguarda la presunta pazzia del poeta: non potendo avere
conferma della veridicità delle testimonianze contenute nel Chronicon, si è addirittura supposto che
la follia di Lucrezio sia in realtà una leggenda cristiana volta a denigrare l'opera del poeta.
Il testo del De rerum natura è riportato integralmente da due codici del IX secolo (conservati a
Leida). Un certo numero di codici umanistici riproduce il testo tratto dal codice che Poggio
Bracciolini riscoprì nel 1418 durante un viaggio in Germania. La prima edizione a stampa fu
eseguita nel 1473 da Ferrando da Brescia.
Il titolo del poema traduce fedelmente quello dell'opera più importante di Epicuro, il Perì fuésewv.
Da essa erano state tratte una Piccola Epitome, che corrisponde probabilmente alla Lettera ad
Erodoto (conservata), e una Grande Epitome (perduta), probabilmente la traccia principale seguita
da Lucrezio, che però dovette avere presenti anche altri testi di Epicuro. Il 59 a.C. è la probabile
data di composizione.
Piano dell'opera
Il De rerum natura è articolato in tre dìadi (gruppi di due libri).
Prima diade (libri I e II): la fisica epicurea
Nel I libro, dopo l'esordio del poema con l'inno a Venere, probabile personificazione della forza
generatrice della natura, sono esposti i principi della fisica epicurea: gli atomi (particelle minime di
materia, indistruttibili, immutabili e infinite), muovendosi nel vuoto, si aggregano e si disgregano
in modi diversi dando origine alla realtà. Nascita e morte dipendono da tale processo di continua
aggregazione e disgregazione. Alla fine del I libro Lucrezio passa in rassegna, criticandole, le
dottrine degli altri naturalisti.
Nel II libro Lucrezio illustrata la celebre e criticatissima teoria del clinamen: nel moto di caduta
degli atomi interviene una «inclinazione» minima che permette una grande varietà di aggregazioni
e giustifica la libertà del volere umano. I mondi possibili sono molteplici ed ognuno è soggetto al
ciclo della nascita e della morte.
Seconda diade (libri III e IV): l'antropologia epicurea
Il III libro è dedicato al corpo e all'anima. Entrambi sono costituiti da aggregati di atomi, con la
differenza che gli atomi di cui è composta l'anima sono più leggeri e lisci. L'anima non può perciò
sottrarsi al processo di disgregazione che investe tutte le cose: essa muore assieme al corpo e non
l'aspetta un destino ultraterreno di premio o di punizione.
Nel IV libro Lucrezio affronta il problema della conoscenza ed espone la teoria dei simulacra, sottili
membrane composte da atomi, che si staccano dai corpi, mantenendone la forma, e colpiscono gli
organi di senso. La testimonianza dei sensi è sempre veritiera e l'errore può derivare solo da
un’errata interpretazione di quanto testimoniato dai sensi. I simulacra vaganti spiegano anche le
immagini dei sogni. Qui Lucrezio, collegandosi ai sogni erotici, introduce una digressione sulla
passione d'amore e, in versi carichi di dissacrante sarcasmo, indica la causa unica della passione
nell’attrazione fisica e sommerge nel ridicolo l'idealismo degli innamorati.
Terza diade (libri V e VI): la cosmologia
Nel V libro Lucrezio dimostra la mortalità di questo mondo, che è solo uno degli innumerevoli
esistenti, analizzandone il processo di formazione; quindi parla del moto degli astri e delle sue
cause. La seconda metà del libro V tratta dell'origine della vita sulla Terra e della storia dell'uomo.
Né gli animali né gli esseri umani sono stati creati da un dio, ma si sono formati grazie a particolari
circostanze: il terreno umido e il calore hanno spontaneamente generato i primi esseri viventi.
Notevole attenzione è riservata alla confutazione delle tradizioni sugli esseri mitici. Fra le tappe
del progresso umano Lucrezio alterna quelle positive (scoperta del linguaggio, del fuoco, dei
metalli, della tessitura, dell'agricoltura), ad altre negative (attività bellica, timore religioso): non c'è
dunque una concezione "lineare" del progresso umano, che non procede affatto semper ad maiora. Il
poeta confuta poi le visioni teleologiche del progresso umano, affermando che la natura segue le
sue leggi e che nessun dio la piega ai bisogni dell'uomo. Il progresso materiale è valutato
positivamente se è ispirato al soddisfacimento dei bisogni primari, ma il sorgere di bisogni
innaturali, della guerra, delle ambizioni e dell’avidità ha corrotto la vita dell'uomo. Lucrezio non
ha, però, una visione sconsolata e pessimistica dell’esistenza, poiché «di poche cose ha davvero
bisogno la natura del corpo»: questo è pienamente in linea con la concezione del piacere di
Epicuro, che aveva prescritto di evitare i desideri non naturali e non necessari e di badare al
soddisfacimento di quelli naturali e necessari, lasciando al giudizio individuale la valutazione di
quelli naturali e non necessari.
Il VI libro contiene spiegazioni naturali dei fenomeni fisici, che escludono l'intervento della volontà
divina. Nella descrizione di vari eventi catastrofici s’inserisce la narrazione della terribile peste di
Atene del 430 a.C., già narrata da Tucidide e successivamente ripesa dal Boccaccio). Con la
descrizione della peste, l'opera si chiude piuttosto bruscamente.
L'incognita delle revisioni
Probabilmente, il poema non ha ricevuto l'ultima revisione a causa della morte improvvisa del suo
autore. Nel testo compaiono infatti alcune ripetizioni e qualche incongruenza.
Il finale del poema è problematico. Poiché nel libro V Lucrezio annuncia la descrizione delle sedi
beate degli dei (intermundia), ma non mantiene fede alla promessa, è possibile che tale descrizione,
e non quella della peste di Atene, fosse la chiusa progettata dell'opera. Il poema, in tal caso, si
sarebbe concluso con una nota serena, simmetrica al gioioso inno a Venere col quale si apre.
Ma è anche possibile che la fine progettata del poema fosse veramente la peste di Atene: infatti,
Lucrezio potrebbe aver voluto contrapporre l’esordio ed il finale come una sorta di «trionfo della
vita» e di «trionfo della morte».
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