Evoluzione
storico/economica/giuridica
DIRITTO
ECONOMIA
Le norme del tempo passato:
- Codice Hammurabi (XVIII a.C.)
- XII Tavole dei Romani del 451 a.C
- Corpus iuris civilis (sec.VI d.C)
- Edito di Rotari (643 d.C.)
- statuti del periodo feudale e dei Comuni
- Codice napoleonico del 1804
- i primi codici italiani nel 1865: civile, commercio, c.p.c., c.p.p.
Dal 476 d.C. al XI-XII sec.:
FEUDALESIMO
Sec. XIII-XIV: COMUNI (STATO PER CETI)
Mercantilismo
(sec.XV)
Colbertismo in Francia
Sec. XV: nasce lo Stato moderno
Monarchie nazionali in Europa
Stato regionale in Italia
Sec. XVI-XVII: monarchie assolute
Macchiavelli
Fisiocrazia
- rivoluzione agricola inglese
(1517: “Il principe”)
Hobbes e Boden, prima
(sovranità per grazia ricevuta, assoluta ed illimitata)
Scoperte scientifiche
da Locke in poi ILLUMINISMO
Grozio ed il giusnaturalismo, poi
Sec. XVIII: Stato liberale
Jhon Locke in Inghilterra, col principio di
1780: 1ªRivoluzione industriale
separazione dei poteri
Sec. XIX: 1848 - Statuto Albertino
Montesquieu in Francia
Liberismo (sec.XVIII):
Smith, Ricardo, Say,
Mill, Maltus
XIX sec: 2ª Rivoluzione industriale
Sec. XX: Stati dittatoriali
XX sec. in URSS: comunismo
1924: URSS, socialismo
1922: In Italia, fascismo
1948: Stato democratico italiano
1936: Politica fiscale: in Europa con
Keynes
- New Deal in America
Seconda parte del XX sec.:
Monetarismo
1970: 3ª Rivoluzione industriale
-1-
Riepilogo storico:
 476 d.C. fine dell’Impero Romano d’Occidente
 Alla fine del IV sec, però già era cominciata la crisi dell’impero romano. Ormai terminato il periodo
dell’espansionismo l’impero comincia a deteriorarsi e permise che gli Unni di Attila potessero spingere le
popolazioni germaniche (Visigoti, Ostrogoti, Vandali) verso sud. Per scampare ai barbari cominciano le fughe dalla
città verso le campagne: nasce il feudalesimo.
 Nel 568-9 invasioni dei Longobardi di Alboino dall’Ungheria.
 643: Editto di Rotari (re Longobardo) presso la certosa di Pavia: diritto scritto
 Nel 650 ad invasioni longobarde terminate in mani bizantine resta: Ravenna, Istria, Roma, Napoli, punta della
Calabria e la Sicilia. Inizia l’Alto MEDIOEVO.
 800: con Carlo Magno (figlio del re Gallo Pipino il breve) nasce il Sacro Romano Impero: si stabilizza il sistema
feudale ed è dato nuovo impulso ad agricoltura e cultura (emanuensi). Il diritto, invece, in virtù della grande
presenza di schiavitù del sistema feudale, declina.
 Nel XII-XIII sec., dopo la scoperta dell’aratro, la ripresa dell’agricoltura, demografica determina il riflusso verso le
città o determina la nascita di borghi (città fortificate), determinando la crisi del feudalesimo ed il rifiorire del
diritto e degli scambi commerciali. Nasce un nuovo ceto sociale: i borghesi.

LO STATO MODERNO - Tra il XIII e XIV sec., lo Stato si organizzava per ceti sociali: clero, nobiltà e borghesia (è il
periodo dei Comuni). Tali gruppi sociali economicamente più influenti costituivano un potere autonomo, in rapporto
di collaborazione, ma anche scontro, con il sovrano. I ceti tutelavano i propri interessi riuniti in istituzioni, alle quali
il sovrano doveva appellarsi, in caso di patrimonio insufficiente, per poter imporre tasse. Ciò si traduceva in
un’enorme ingerenza dei ceti, quindi il sovrano per potersi pian piano sganciare dagli aiuti militari forniti
all’occorrenza dai signorotti locali, crearono eserciti professionali, perfezionarono gi apparati fiscali introducendo
imposte su beni di consumo e sulla persona, in modo da rendere certo e costante l’apporto di denaro alle casse della
Corona. Infine, si organizzò un sistema amministrativo stabile composto di “burocrati”, ossia da funzioni che
prestavano i propri servigi al sovrano non per un rapporto personale, ma dietro stipendio.
 Nascono, quindi, dalla fine del feudalesimo, le monarchie nazionali con un accentramento di potere nelle mani
del sovrano e non più centri di potere frammentati e gerarchicamente ordinati tra loro e subordinati all’Impero
ed al Papato.
 Dopo la Guerra dei cent’anni (1337-1453) tra Inghilterra (che voleva conservare ed ampliare i feudi francesi) e
Francia (che voleva scacciare l’invasore) e vinta da quest’ultima, nasce dopo quello di sovranità il concetto di
territorio definito e stabile, in contrapposizione alla frammentazione politica e territoriale del periodo feudale,
e il sentimento di coscienza nazionale.
 In Italia nel XV sec. (e fino al XVIII) si formavano gli Stati regionali (o principati), nati dall’espansione delle
Signorie (forme di governo assunte dai Comuni, col potere accentrato in una sola persona, eletta dal popolo a
vita e con un potere spesso trasmissibile agli eredi).
In seguito alla pace di Lodi del1454, il territorio italiano era così ripartito:
 Ducato di Milano, retto dai Visconti
 Lo Stato Sabaudo, retto dai Savoia
 La Repubblica di Venezia, col doge
 Il Granducato di Toscana, coi Medici
 Lo Stato Pontificio, retto dal Papa
 Regno di Napoli, retto da Angioini
ed Aragonesi
Tale assetto restò immutato fino al XVIII sec., grazie al sostegno della borghesia cittadina. Infatti, essa era in
grado di imporre l’ascesa al potere di quel principe che avesse garantito loro una politica favorevole ai loro
interessi economici. Per il resto, anche gli Stati regionali, si basavano sul modello delle monarchie nazionali, ossia
sul potenziamento del potere del principe.
Gli Stati regionali italiani, per difendersi dalle monarchie europee, strinsero patti di pacifica convivenza che
ressero fino alla morte di Lorenzo dei Medici (il Magnifico), che fu grande mediatore. Dopodiché l’Italia divenne
oggetto delle mire espansionistiche delle maggiori potenze europee ed iniziarono le Guerre d’Italia.

1
Il crescente accentramento di poteri nella persona del sovrano condusse alla definitiva dissoluzione dello stato per
ceti ed alla trasformazione delle grandi monarchie nazionali in monarchie assolute1 (XVI-XVIII) in buona parte
dell’Europa il sovrano assoluto era l’unico titolare del potere politico, conferitogli direttamente da Dio, e sommo
legislatore e giudice (Bodin2, Hobbes3).
Caratteristiche fondamentali dei regimi assolutistici furono:
 l’avvento di un apparato burocratico-amministrativo accentrato ed unitario, che riducesse al minimo l’autonomia degli
organi locali;
 l’esercizio esclusivo dell’attività legislativa da parte dello Stato;
 la sostituzione della vecchia nobiltà feudale con la borghesia;
 il primato dello Stato nei confronti della Chiesa.
2
Jean Bodin (1530-1596, funzionario della Corona francese): nella sua opera I sei libri della Repubblica la sovranità ha una posizione
centrale; essa si caratterizza per due elementi: è perpetua (in quanto è illimitata nel tempo) ed assoluta (poiché non è subordinata a
nessun altro potere, se non a Dio ed il sovrano è svincolato dalle leggi ed agisce per il fine pubblico).
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- L’assolutismo monarchico si sviluppò in forme diverse da Stato a Stato.
- Francia: Luigi IV afferma “L’Etat c’è moi” (1638-1715)
- Inghilterra: Tudor (1485-1603) e poi gli Stuart (1603-1714) e poi il costituzionalismo
- Spagna: 1519: Carlo I col nome di Carlo V diviene imperatore del ricostituito Sacro Romano Impero. Il sogno di un
impero universale che difenda la crisitianità si infrange con la Guerra dei Trent’anni (1618-1648) che permise alle
province autonome la riscossa ed ostacolato per molto tempo l’attuazione della politica assolutistica spagnola.
 XVI sec. è ricordato come il secolo delle scoperte scientifiche, degli imperi coloniali, delle
innovazioni commerciali, della nascita del capitalismo moderno, della Riforma Protestante (di Lutero
e Giovanni Calvino in Francia) e della Controriforma della Chiesa col Concilio di Trento.
 1513: affermazione della laicità dello stato nel Principe di Macchiavelli, contro la corruzione papale
 1517: riforma luterana contro la Chiesa Cattolica (95 tavole teologiche appese davanti alla cattedrale e
all’Università di Wittemberg)
 1563: Controriforma della Chiesa e rinascita con diversi ordini: cappuccini… col Concilio di Trento.
 Ed il XVII per le lotte religiose ed il predominio dei mari, la Guerra dei Trent’anni e la pace di
Westfalia, che decretò il declino dell’Impero Asburgico ed un nuovo assetto europeo che durerà fino
alla Rivoluzione francese (1789): essa pose fine alle guerre di religione e l’inizio di rapporti tra Stati
che reciprocamente si riconoscevano uguali ed in posizione di giuridica parità; ed infine, per il
potere assoluto dei sovrani.
 In questo contesto di lotte, nasce il concetto di diritto naturale (Grozio4 ed Hobbes).
 Con Locke5 si giunge alla piena formulazione della concezione liberale dello Stato, in virtù della
quale a quest’ultimo è affidato il compito di permettere agli individui di esercitare liberamente in
società di propri diritti naturali.Si diffuse in Europa un movimento culturale fondato sulla fede
incondizionata nelle potenzialità della ragione e prese il nome di Illuminismo6.
3
Per il filosofo inglese Thomas Hobbes il potere sovrano e l’obbligo di obbedienza devono scaturire (non da Dio con il Bodin) dal
consenso degli individui, espresso idealmente in un patto. La necessità di ciò nasce dall’analisi secondo la quale Homo homini lupus,
perciò il bisogno di ricercare condizioni di sicurezza attraverso la scelta radicale di cedere tutti i diritti e tutto il potere allo Stato
(uomo o assemblea che siano). I principi fondamentali dell’assolutismo di Hobbes sono:
indivisibilità del potere, perciò esso non può essere distribuito tra poteri diversi che si limitano a vicenda (come sosterranno Loke e
Montescquieu col principio di separazione dei poteri) e l’obbligo politico di obbedire alle leggi emanate dal sovrano.
4
In un periodo pervaso da gravissimi conflitti ed ostilità marittime diventano indispensabili regole di diritto internazionale che
disciplinassero in maniera vincolante i tumultuosi rapporti tra Stati. Secondo il pensiero filosofico e scientifico, esistono un
complesso di regole autoevidenti di giustizia ed un insieme di diritti e valori morali universali, che hanno il loro fondamento nella
natura razionale dell’uomo e di cui quest’ultimo non si priva nel momento in cui si organizza una società civile. Questo diritto
naturale, in quanto conforme alla ragione ed alle tendenze sociali dell’uomo, è di per sé razionale ed universalmente valido. Secondo
Ugo Grozio (giurista olandese), il diritto naturale non trova la sua giustificazione nella volontà di Dio o nell’ordine divino delle
cose, ma esiste indipendentemente dall’esistenza di Dio. Per cui, lo Stato civile nascerebbe nel momento in cui gli uomini decidono
di tutelare meglio i propri interessi, trasferendo ad un sovrano (mediante contratto, patto sociale) il potere di garantire e di fare
rispettare con la forza la propria situazione patrimoniale e personale. Lo stato fonda così il proprio potere su tale contratto.
5
Contrapposto al pensiero di Hobbes è quello dell’inglese John Locke (1632-1704) il quale pur condividendo la natura
contrattualistica dello Stato, non crede che la natura umana sia violenta, ed afferma che la libertà di ciascun individuo deve arrestarsi
laddove arrechi danno alla libertà altrui ed il contratto ha lo scopo di meglio garantire e tutelari i diritti. Egli ribadisce il principio
della separazione dei poteri: sancisce la divisione del potere legislativo del Parlamento da quello esecutivo del Governo ed affermò la
superiorità del parlamento sul re. Con Locke si giunge alla piena formulazione della concezione liberale dello Stato, in virtù della
quale a quest’ultimo è affidato il compito di permettere agli individui di esercitare liberamente in società di propri diritti naturali.
Locke sostenne l’idea della revocabilità della delega popolare in casi di inadempienza dei regnanti ai patti e teorizzò il diritto di
resistenza e di insurrezione da parte della cittadinanza. Con Locke si apre la strada a tutte le idee di libertà.
6
Esponenti illustri nell’illuminismo italiano furono Pietro Verri (“… il dolore domina la vita dell’uomo, mentre il piacere consiste nella
cessazione o sospensione del dolore.”.: accrescere il piacere pubblico e scemare il dolore deve essere lo scopo di ogni società) e Cesare
Beccarla che pubblicò nel 1764 la maggiore opera illuminista: Dei delitti e delle pene. L’opera è divisa in 42 brevi capitoli, ognuno dei
quali tratta un aspetto specifico della questione. Scopo dell’opera è dimostrare l’assurdità e l’infondatezza del sistema giuridico
vigente. Esso è smascherato quel sistema puramente repressivo e rappresentato nei suoi ingiustificati rituali di violenza. Anziché
essere a servizio della giustizia, il sistema giudiziario si rivela adibito ad un mostruoso meccanismo di potere e di soprusi. Non il
benessere ma la sofferenza della maggior parte dei cittadini è, infine, il risultato di una struttura così irrazionale. In particolare
l’operetta si scaglia contro la pena di morte e contro le pratiche di tortura. Oltre a criticare lo stato di cose, Beccarla avanza una
proposta per una nuova dimensione giudiziaria e ribadisce la distinzione tra reato e peccato. Il reato risponde ad un sistema di leggi
liberamente concordate tra gli uomini e, quindi, inquadrabile in un’ottica laica e terrena. Egli definì la pena di morte una guerra della
nazione con il cittadino. Ciò gli valse l’opposizione della Chiesa.
-3-
 4 marzo 1848 Statuto Albertino
 17 marzo 1861: Unità d’Italia (Regno d’Italia: 1861- 2 giugno 1946)
 XX secolo: nascita degli Stati dittatoriali7 e totalitari
- in Italia, 28 ottobre 1922 : Mussolini, capo del Governo e nel 1924 nascita del Fascimo
- in Russia, nasce nel 1922 l’Unione delle Repubbliche Sovietiche Socialiste (l’URSS), iniziando una
dittatura autoritaria con Lenin, poi trasformatasi in autocratica8 con Stalin nel 1929.
- In Germania, nel 1920 nasce il partito nazista e nel 1932 Hitler è nominato capo del Governo ed in
pochi mesi la Rep.Tedesca si trasforma in dittatura.
- In Spagna, intanto, c’è la dittatura fascista di Franco.
 Dopo la fine della seconda guerra mondiale (Germania, Italia e Giappone, da una parte, e
Inghilterra, Stati Uniti ed Unione Sovietica, dall’altra), ripristino dello Stato democratico.
7
Regime dittatoriale: potere ottenuto col consenso popolare. Totalitario: potere ottenuto con la forza
8
Dittatura autoritaria, tracciata da Lenin, si proponeva di conquistare il consenso di larghi strati sociali al nuovo regime, che in
un primo momento fu fortemente nazionalizzante delle banche e delle aziende e poi concesse proprietà privata ed iniziativa
economica privata, proprio per mantenere il consenso popolare dopo delle rivolte.
Dittatura autocratica di Stalin mira allo schiacciamento totale della società, realizzando una “rivoluzione dell’alto”, come lui
stesso la definiva.
-4-
ECONOMIA
L’economia politica prende in considerazione gli uomini come membri di una società e studia il complesso
degli atti dell’uomo aventi come fine ultimo il soddisfacimento dei propri bisogni, ossia analizza il
comportamento umano di fronte al problema della soddisfazione dei bisogni.
Oikos=casa + nomos=legge + polis=stato
La nascita dell’economia politica come scienza autonoma è piuttosto recente. In precedenza, era fatta
rientrare nell’ambito della filosofica morale e nella filosofia del diritto. Il problema che interessava i
filosofi, non era quello di capire il funzionamento del sistema economico, ma di dare prescrizioni su come
l’uomo retto doveva comportarsi.
Con l’intensificarsi dei traffici nel XV sec. nasce la scienza economica.
Il primo periodo è usualmente indicato come mercantilismo (in Francia detto colbertismo) (dalla fine del
feudalesimo alla prima rivoluzione industriale).
Elementi fondamentali sono per i mercantilisti (ossia i borghesi):
- lo scambio ed il relativo profitto, nella convinzione che la potenza di uno stato dipenda da una
bilancia commerciale favorevole, ossia da esportazioni prevalenti sulle importazioni (se aumenta
l’oro aumenta la ricchezza di un paese) e dall’abbondanza di metalli preziosi;
- l’espansione coloniale al fine di procurare le materie prime a basso costo per la produzione delle
industrie.
Ma l’adozione delle politiche mercantilistiche da parte dei diversi Paesi condusse inevitabilmente ad un
crescente protezionismo (chiusura del mercato delle importazioni), con conseguente stallo nei rapporti
economici internazionali ed un relativo innalzamento del livello dei prezzi interni.
Soltanto con la diffusione nel XIX sec. delle idee liberiste molti Paesi, ed in primo luogo l’Inghilterra,
abbandonarono le politiche protezionistiche e favorirono la ripresa delle relazioni economiche
internazionali.
Nel XVIII secolo si verificò una profonda trasformazione nel modo di intendere la produzione: nel medioevo
e nell’età classica, infatti, la produzione era affidata ai servi della gleba ed agli schiavi ed era considerata
solo un mezzo per soddisfare i consumi del feudatario e del latifondista, i quali, invece, ponevano al centro
dei propri interessi le uniche attività ritenute degne degli uomini liberi (attività militare, politica e
culturale), che niente avevano a che fare con l’economia.
Con l’avvento della borghesia al potere ed il definitivo imporsi del capitalismo9, l’attività economica fu
posta, invece, al centro delle attività della classe dirigente e non fu più intesa come il mezzo per assicurare
i consumi, ma come lo strumento per moltiplicare all’infinito il capitale ed incrementare la ricchezza.
L’economia divenne così oggetto di studio specifico, in quanto le teorie mercantilistiche non si erano
preoccupate di dimostrare il perché accadessero alcuni fatti e quali legami funzionali collegassero tra loro i
fenomeni economici.
Negli altri sistemi economici, il denaro è un mezzo di scambio ed un equivalente universale dei valori. Ad esempio, se
un calzolaio vende le sue scarpe ed il denaro che ottiene lo utilizza per comprare due camicie, le camicie hanno lo
stesso valore delle scarpe: è uno scambio equo. Così funzionano tutte le economie definite “con mercato”.
Ma il capitalismo non è un’economia con mercato, bensì “un’economia di mercato”: ossia, l’attività economica non
comincia con due persone che realizzano un lavoro produttivo e vendono i prodotti sul mercato per riuscire a
migliorare il proprio livello di consumo (M-D-M’ dove M=M’). Il circuito economico comincia, invece, col denaro (D), il
quale non è più il mezzo per organizzare il mercato e facilitare gli scambi, ma diventa, invece, il principio e la fine
dell’attività economica. Il denaro serve per comprare forza-lavoro e mezzi di produzione per realizzare un processo
produttivo al fine di fabbricare una merce (M) che si possa vendere, per ottenere una quantità di denaro che
necessariamente deve essere maggiore del valore che aveva all’inizio (D’).
D-M-D’ dove D<D’ (circuito capitalista)
Solo coloro che controllano il denaro controllano la loro vita, perché controllano la propria economia. Per questo
motivo, nel capitalismo il denaro è uguale a potere. Per cui si intuisce perché la popolazione non determina la propria
attività economica, essendo per lo più forza lavoro.
9
-5-
Scuola fisiocratica (physis, natura e krátos, potere). La scienza economica settecentesca si sviluppò in
Francia per merito della scuola fisiocratica, i cui economisti, estremamente fiduciosi nel potere della
natura, ritenevano che l’unico settore economico capace di generare un sovrappiù fosse l’agricoltura,
mentre le altre attività fossero sterili.
A dare omogeneità scientifica a queste teorie fu un gruppo di riformatori francesi con a capo F.Quesnay,
con l’opera Tableau Economique. Egli fa derivare la ricchezza, intesa come flusso (e non stock come per i
mercantilisti), da quei settori in cui il lavoro è in grado di generare sovrappiù rispetto agli input impiegati,
ossia solo dal settore agricolo: in agricoltura la produzione rinasce ad ogni ciclo di coltivazione ed è l’unica
che fornisce un prodotto netto, sicché seminando 100 kg di grano se ne ricavano anche 1000 kg, mentre il
lavoratore dell’industria, del commercio e dell’artigianato pareggiava i fattori impiegati.
Benché ben presto anche queste teorie furono abbandonate, esse aprirono, con loro esempio di liberismo
agrario, la strada al liberismo economico generale propugnato alla fine del XVIII sec. dalla scuola classica.
Il liberismo della scuola classica (sistema economico capitalista: la maggior parte della produzione è svolta da
imprese private che la orientano al mercato; le decisioni dei singoli sono coordinate e rese compatibili dal meccanismo
di mercato).
Le prime trattazioni economiche svolte con equilibrio e coerenza tra analisi deduttiva e riferimenti empirici
si fanno risalire alle opere degli economisti classici (1723-1873) (liberisti)10
SMITH (1723-1790) – Nella sua opera Indagine sulla natura e sulle cause della ricchezza delle nazioni vi era l’idea che
l’individuo se lasciato libero di agire in conformità ai propri istinti naturali è in grado di realizzare il massimo vantaggio
personale e l’ordine morale, nella convinzione che il massimo vantaggio personale finisce sempre per coincidere con il
maggior vantaggio sociale, considerando la società come somma di individui ("mano invisibile"). Quindi, ogni uomo
deve essere lasciato libero di agire nel perseguimento del proprio interesse (di cui è l’unico giudice) senza che lo Stato
intervenga a regolarne le azioni. Nel sistema economico di Smith, ciascuna impresa utilizza le scorte iniziali dei fattori
produttivi per ottenere, alla fine di un ciclo, un sovrappiù, che sarà utilizzato per accrescere le scorte di fattori
produttivi e salari, oppure per accrescere il numero dei lavoratori impiegati o per consumi. Contemporaneamente, i
lavoratori impiegano il salario che ricevono per procurarsi i mezzi necessari alla sussistenza. In una società capitalista,
quindi, secondo Smith le forze spontanee della concorrenza fanno in modo che le merci prodotte dalle imprese
corrispondano alle merci domandate dai consumatori (c.d. equilibrio del mercato).
SAY – Il ruolo non interventista dello Stato venne affermato anche nella cosiddetta “Teoria degli sbocchi”
dell’economista Jean Baptiste Say (1767-1832), in base alla quale la domanda di beni si adeguava sempre all’offerta ed
il sistema economico, di conseguenza, risultava spontaneamente in equilibrio; le situazioni di crisi erano momentanee
e venivano superate automaticamente, senza necessità di interventi esterni. La legge non nega ovviamente che si
possa verificare un'eccedenza del prodotto, ma presuppone che essa si limiti ad alcuni settori, mentre esclude una crisi
generale di sovrapproduzione.
Notevole sviluppo ebbe il pensiero classico con Ricardo e Malthus.
RICARDO (1772-1823) – Ha sottolineato il contributo del lavoro nella formazione del valore economico e ha approfondito lo studio
della rendita fondiaria e le ragioni determinanti gli scambi internazionali. Il sistema di Ricardo si basa sulla convinzione che la
crescita economica sia destinata prima o poi a esaurirsi, a causa dei costi crescenti associati alla produzione di alimenti in
un'estensione di terra limitata. La soluzione migliore consiste nell'importare grano a prezzi convenienti da altri paesi. Egli ipotizzò
che, al fine di ottenere la migliore remunerazione possibile, lavoro e capitale dovessero potersi muovere liberamente all'interno di
ogni paese, ma non fra un paese e l'altro. Partendo da questi presupposti, riuscì a dimostrare come i benefici derivanti dal
commercio risultino evidenti, comparando i costi all'interno di ciascun paese, anziché tra paesi diversi.
Secondo la legge dei costi comparati ogni paese dovrebbe specializzarsi nella produzione di quei beni che riesce a produrre in modo
relativamente più efficiente, importando gli altri. Il grande interesse di questa teoria consiste nel fatto che, se tutti i paesi
traggono pieno vantaggio dalla "divisione internazionale del lavoro", la produzione mondiale sarà superiore a quella che si
otterrebbe se tutti i paesi fossero autosufficienti.
MILL (1806-1873) – Ha approfondito il concetto di homo economicus: l’uomo obbedisce solo al proprio tornaconto, realizzando anche
l’interesse generale, in un mercato caratterizzato dalla libera concorrenza. Nel suo Saggio sulla libertà (1859), egli sostenne che
tutti i membri di una società dovessero essere liberi, soprattutto di esprimere le proprie opinioni.
MALTHUS (1766-1834) – Oppone una visione pessimistica a quella smithiana, sostenendo che l’accrescimento delle risorse produttive
non poteva tenere il passo con l’aumento della popolazione e si verificherebbe un eccesso di offerta. Occorreva, quindi, agire sulla
distribuzione del reddito fra le classi, abbassando i profitti ed aumentando i redditi dei proprietari terrieri.
10
LE 3 RIVOLUZIONI INDUSTRIALI:
 Tra il XVIII e XIX sec. (dal 1780 in Inghilterrra) scoppia la 1ª Rivoluzione Industriale. Consistette in innovazioni tecnologiche
nell’industria manifatturiera, che aumentarono la produttività. Si affermò il lavoro nelle fabbriche, sottraendolo al mondo agricolo.
Quindi, si ebbe una netta separazione tra CAPITALE e LAVORO e nacque il Proletariato moderno (operai possessori solo delle forze
delle loro braccia, ossia la forza-lavoro) . Lo sfruttamento degli operai, però, determinò scontri sociali che portarono a conquiste
fondamentali in campo giuridico, come la contrattazione collettiva e la legislazione sociale.
 All’inizio del Novecento, con la 2ª Rivoluzione Industriale si ebbe un ulteriore sviluppo dell’industria con l’organizzazione
scientifica del lavoro di Taylor, l’utilizzo dell’acciaio e del petrolio e l’evoluzione della chimica.
 Dal 1970 in poi si parla di 3ª Rivoluzione Industriale, con l’introduzione nei processi aziendali dell’informatica che via via darà
luogo alla rivoluzione dell’informazione.
-6-
In sintesi, il pensiero liberista è così riassumibile:
- che vi sia libera concorrenza (Smith)
- che i prezzi delle merci e del lavoro siano determinati unicamente dalla domanda e dall’offerta
- che lo Stato si astenga dall’intervenire nelle questioni economiche (Smith)
- che i salari possano scendere fino al livello di sussistenza per consentire una maggiore
accumulazione di capitali (Ricardo)
- che il risparmio sia incoraggiato (quindi aumentato in quantità disponibile per le banche), al fine di
far scendere l’interesse e favorire gli investimenti, giacché l’offerta genera domanda (Say).
Tra gli economisti classici, una posizione di rilievo ha Karl Marx.
Mentre in Europa occidentale venivano applicate le teorie liberiste, nasce una nuova scuola di pensiero
economico che critica il capitalismo ed è la Scuola marxista. Ad essa si ispiro’ la costituzione del sistema
economico collettivista dell’URSS, il quale esclude il mercato dei mezzi di produzione: imprese e materie
prime sono di proprietà dello Stato e la distribuzione è sempre curata da un organo statale che decideva
cosa e con quali tecniche produrre, sottraendo tali poteri alle famiglie ed alle imprese. Esso, nato dalla
dittatura del proletariato, avrebbe dovuto essere una tappa transitoria destinata a preparare l’avvento del
COMUNISMO propriamente detto, nella quale doveva esserci la messa in comune di tutti mezzi di
produzione ed anche di quelli di consumo ed assenza della proprietà privata11.
Fu utilizzato la prima volta in Unione Sovietica a seguito della rivoluzione bolscevica del 1917 e fino al 1985.
Utilizzato anche in Cina, Cuba e Vietnam.
Le teorie marxiste diedero impulso alle lotte sociali che si moltiplicarono nella seconda metà del XIX secolo e che
influenzarono profondamente ideologie e movimenti rivoluzionari nel XX secolo.
Il primo volume del suo Capitale è del 1867, mentre il secondo e il terzo furono pubblicati postumi, nel 1885 e nel
1895. Marx può essere considerato l'ultimo degli economisti classici, in quanto il suo pensiero trova fondamento, in
larga misura, negli insegnamenti di Adam Smith e Ricardo.
L'economia di Marx si sviluppa a partire dalla teoria del valore-lavoro: ciò che conferisce valore a un bene è
la quantità totale di lavoro mediamente impiegato per produrlo.
La differenza tra il valore del lavoro incorporato nei beni e quello pagato ai lavoratori sotto forma di salario
è il plusvalore12. A ciò è connessa la teoria dello sfruttamento della classe subordinata13.
Quindi, il plus-valore discende dal plus-lavoro effettuato dell’operaio e si identifica con l’insieme del valore
da lui gratuitamente offerto al capitalista.
Secondo Marx la caratteristica peculiare del capitalismo è il fatto che in esso la produzione non risulta finalizzata al
consumo, bensì all’accumulazione di denaro (denaro- merce- più denaro anziché merce-denaro-merce delle società
pre-borghese, vedi nota 8): il capitalista compra ed usa una merce particolare (la forza lavoro) che ha come
caratteristica di produrre valore, pagandola come una qualsiasi merce; tuttavia l’operaio ha la capacità di produrre più
di una normale merce e quindi lavora oltre il valore corrispondente alla quantità di lavoro socialmente necessario per
vivere, ossia più del suo salario. Questo più è il plus-valore dato al capitalista.
In un primo momento, il capitale cerca di accrescere il plus-valore aumentando la giornata lavorativa, ossia
sfruttando; ma anche ciò ha un limite invalicabile, ossia le ore di lavoro oltre le quali l’operaio diventerebbe
improduttivo, quindi si punta all’accrescimento della produttività del lavoro. Da ciò nasce la necessità per il
capitalismo di introdurre in continuazione nuovi e più efficienti metodi e strumenti di lavoro quali: la cooperazione, la
manifattura ed, infine, la grande svolta con l’industria meccanizzata. Quest’ultima introduce mezzi per
l’accrescimento enorme di quantità di merce prodotta nello stesso tempo con lo stesso numero di operai ed ore. Ma
tutto ciò comporta crisi cicliche di sovrapproduzione. Inoltre, per il capitalismo la necessità di un continuo
rinnovamento tecnologico genera anche la caduta tendenziale del saggio di profitto, a causa dei costi smisurati di
capitale costante (costituito da macchine e materie prime) rispetto al capitale variabile (salari).
11
Per Marx e Engels: “il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale cui la
realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”
12
Saggio del plus-valore = plus-valore/capitale variabile
13
Alienazione del lavoratore di Marx, a causa della proprietà privata dei mezzi di produzione:
1) il lavoratore è alienato rispetto al prodotto, in quanto produce un oggetto, il capitale, che non gli appartiene, ma si costituisce come
una potenza dominatrice nei suoi confronti
2) il lavoratore è alienato rispetto al prodotto della sua attività, in quanto effettua un lavoro forzato nel quale è strumento di fini
estranei, ossia il profitto del capitalista, sentendosi una bestia anziché un uomo
3) il lavoratore è alienato rispetto alla sua essenza perché nella società capitalistica è costretto ad un lavoro forzato, ripetitivo ed
unilaterale anziché libero, creativo ed universale
4) il lavoratore è alienato rispetto al prossimo perché l’altro per lui è il capitalista, ossia quello che lo tratta come un mezzo e lo
espropria del frutto della sua fatica, realizzando così un rapporto conflittuale.
-7-
Quindi, se da una parte, in forza del processo di accumulazione capitalistica, il controllo delle risorse
produttive tende a restringersi nella mani di un numero limitato di capitalisti, dell’altra determina un
proletariato sempre più povero e numeroso. La capacità produttiva cresce, dunque, ad un ritmo superiore
alla capacità d’acquisto della classe operaia, determinando crisi periodiche di sovrapproduzione, fino al
crollo del sistema capitalista ed all’instaurazione di un’economia socialista.
Secondo Marx la soluzione al capitalismo, pur non fornendo un progetto preciso per la realizzazione, è
l’eliminazione delle disuguaglianze fra gli uomini ed in particolare della proprietà privata, attraverso la
rivoluzione sociale da parte del proletario, vittima dello sfruttamento della classe borghese su quella
operaia, al fine di realizzare una democrazia vera, ossia la democrazia comunista14. Essa avrebbe dovuto
distruggere le disuguaglianze reali e porre le basi per un recupero dell’essenza sociale dell’uomo.
Si sarebbe così realizzata una società organica (secondo il pensiero del maestro di Marx, ossia Hegel), simile
a quella delle polis greche, in cui l’individuo si sarebbe trovato in un’unità sostanziale con la comunità,
senza antitesi tra ego pubblico e privato, tra sfera individuale e sociale, fra società e Stato. Contrariamente
nello Stato moderno era costretto a vivere come due vite:una in terra, come borghese, cioè nell’ambito di
egoismo ed interessi particolari della società civile e l’altra in cielo, come cittadino, ovvero nella sfera
superiore dello Stato e dell’interesse comune.
Secondo Marx, tra la società capitalistica e quella borghese era necessario un periodo di trasformazione
rivoluzionaria dell’una nell’altra, cui corrisponde anche un periodo politico di transizione (seppur il tutto a
lungo termine), il cui Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzione del proletariato. Ma Marx non
dice quali forme concrete dovrà avere questa dittatura transitoria. Quello che si evince è:
- la sostituzione dell’esercito permanente con l’organizzazione degli operai armati
- la soppressione del parlamentarismo, cioè della delega del potere ad un apparato politico specializzato,
sostituendolo con delegati eletti a suffragio universale, direttamente responsabili del loro operato,
revocabili in ogni momento e retribuiti con salari corrispondenti ad un normale salario operaio
- la soppressione del privilegio burocratico
- ed infine, l’abolizione della celebrata, ma per lui fittizia, separazione dei poteri: la Comune da realizzare
doveva essere un organismo non parlamentare, ma di lavoro, esecutivo e legislativo allo stesso tempo.
LA RIVOLUZIONE MARGINALISTA
Intorno al 1870 si verificò un profondo cambiamento nella storia del pensiero economico con la cosiddetta "rivoluzione
marginalista", essenzialmente opera dell'inglese William Stanley Jevons, dell'austriaco Carl Menger e del francese Léon Walras.
Questi economisti contrapposero alla teoria marxiana del valore-lavoro la teoria dell'utilità marginale, che assegnò, dunque, al
marginalismo un ruolo di spartiacque tra la teoria classica e quella economica moderna.
La scuola inglese, guidata da Alfred Marshall, cercò una sorta di riconciliazione con la dottrina classica: mentre gli economisti
classici si concentravano sullo studio delle variabili economiche dal lato dell'offerta, i marginalisti prendevano in considerazione
contemporaneamente anche quelle dal lato della domanda, poiché i prezzi sono determinati sia dall'offerta sia dalla domanda.
Léon Walras, leader della scuola francese, fu uno dei primi economisti ad applicare strumenti matematici alla descrizione del
sistema economico. Per ciascun prodotto è possibile tracciare una "funzione di domanda", che esprime le quantità di bene che i
consumatori sono disposti ad acquistare in funzione del prezzo di mercato, dei prezzi dei beni complementari, del proprio reddito e
dei propri gusti. Per ciascun prodotto esiste anche una "funzione d'offerta", che esprime la quantità che i produttori sono disposti a
produrre e, dunque, a offrire, in funzione dei costi di produzione e del livello di tecnologia disponibile. Sul mercato, per ogni
prodotto, esiste un punto di equilibrio, in corrispondenza del quale il prezzo di mercato soddisfa sia i consumatori sia i produttori.
L'equilibrio di un mercato dipende da quello esistente negli altri e, poiché in un'economia moderna esistono milioni di mercati, un
"equilibrio generale" è possibile solo se tutti si trovano simultaneamente in condizione di equilibrio.
Il sistema economico di Walras risulta innegabilmente astratto, ma fornisce un quadro analitico estremamente
interessante, in grado di comprendere tutti gli elementi di una teoria completa del sistema economico.
ECONOMIA NEOCLASSICA
Gli anni intercorsi tra la pubblicazione dell'opera di Marshall Principi di economia (1890) e il crollo di Wall Street (1929) possono
essere identificati come gli anni della conciliazione, del consolidamento e del perfezionamento. Le tre scuole, pur senza perdere la
loro identità, confluirono in un'unica corrente di pensiero. Si iniziò a impiegare la teoria dell'utilità nell'analisi del comportamento
dei consumatori in diverse circostanze, ad esempio alla presenza di variazioni del loro reddito o del prezzo del bene considerato. Il
concetto di margine finì per estendersi dal consumo all'attività produttiva, dando origine a una nuova teoria della distribuzione,
secondo cui la remunerazione di ciascun fattore produttivo (salari, profitti e interessi) dipendeva dalla produttività marginale del
fattore stesso. Il concetto di "economie e diseconomie esterne", introdotto da Marshall, fu approfondito dal suo allievo Arthur Cecil
Pigou, il quale operò una netta distinzione tra costi privati e costi sociali, gettando le basi dell'odierna teoria economica del
benessere. Vi fu inoltre un graduale sviluppo della teoria monetaria grazie ai contributi dell'economista svedese Knut Wicksell
(1851-1926) e dell'americano Irving Fisher, che analizzarono come si determina il livello generale dei prezzi.
CONCORRENZA MONOPOLISTICA O IMPERFETTA
14
Comunismo: forza che si ispira più strettamente a Marx ed alla rivoluzione d’ottobre
Socialismo: forza riconducibile a Lenin ed al modello sovietico (esso non esclude la proprietà privata totalmente)
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Negli anni Trenta la pubblicazione della Teoria della concorrenza monopolistica (1933) di Edward Chamberlin (1899-1967) e della
Economia della concorrenza imperfetta (1933) di Joan Robinson, seguita dalla Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e
della moneta (1936) di John Maynard Keynes, provocò una svolta nello studio dei processi economici. In precedenza gli economisti
avevano concentrato l'attenzione su due tipi di mercato: quello caratterizzato da un monopolio puro, in cui un solo produttore
controlla l'intero mercato, e quello caratterizzato dalla concorrenza perfetta, in cui sono presenti numerosi produttori, consumatori
perfettamente informati e un unico prodotto standardizzato.
La teoria della concorrenza monopolistica riconobbe l'esistenza di tipi di mercati, la cui struttura si trova a metà tra
questi due estremi; furono così presi in considerazione: 1) i mercati caratterizzati da numerosi produttori di "prodotti
differenziati" rispetto al marchio, alla garanzia di qualità e alla speciale confezione, tanto che i consumatori
considerano unico sul mercato il prodotto di ciascun produttore; 2) l'oligopolio, caratterizzato dalla presenza di un
ristretto numero di produttori; 3) il monopsonio, cioè un mercato in cui vi è un solo acquirente e numerosi produttori.
LA RIVOLUZIONE KEYNESIANA
(sistema economico misto: riconosce la libertà di iniziativa economica e prevede forme di intervento dello
Stato nell’economia).
Il pensiero economico più seguito del dopoguerra e tutt’oggi utilizzato per le decisioni macroeconomiche e’
quello di KEYNES (1883-1946). Keynes cercò di creare un modello che non era partito da uno stato di
equilibrio di piena occupazione.
Egli cercò di comprendere quali erano gli elementi che contribuiscono alla determinazione del livello di
reddito e di occupazione di un paese. Si trattava ancora di un problema legato all'incontro di offerta e
domanda, anche se in questo caso il termine "domanda" si riferisce all'intera economia e "offerta" indica la
capacità produttiva complessiva del paese considerato. Quando la domanda aggregata è inferiore all'offerta
aggregata, ne conseguono disoccupazione e depressione; mentre la situazione inversa genera inflazione.
L'essenza dell'economia keynesiana consiste nell'analisi delle variabili che influenzano la domanda
aggregata. Se non si considera il commercio internazionale, quest'ultima è composta essenzialmente dal
consumo, dagli investimenti e dalla spesa pubblica.
Keynes riteneva che l'equilibrio tra domanda e offerta potesse essere raggiunto soltanto attraverso
l'intervento dello stato: a suo avviso, infatti, nessun meccanismo automatico è in grado di portare allo
stesso risultato. Questa fondamentale implicazione keynesiana ebbe effetti sconvolgenti per la teoria
economica tradizionale, che postulava una tendenza automatica dei sistemi economici verso la condizione
di piena occupazione.
L'economia keynesiana è però "statica", ossia non considera il fattore tempo quale variabile determinante.
Toccò a un allievo di Keynes, Roy Harrod (1900-1978), sviluppare un semplice modello macroeconomico
relativo a un'economia in crescita; in “Verso un'economia dinamica” (1948) egli gettò le basi di una nuova
teoria legata alla crescita economica, che suscitò un interesse crescente fra gli economisti.
New Deal - Programma di provvedimenti interni realizzato dal presidente degli Stati Uniti Franklin Delano
Roosevelt tra il 1933 e il 1938 per fronteggiare gli effetti della Grande Depressione.
Fra le misure di rilancio dell’economia vi furono:
 riduzione dell’orario di lavoro, al fine di ridurre la disoccupazione
 legislazione contro la concorrenza sleale
 abbandono del gold standard (sistema monetario nel quale la moneta è in ogni momento scambiabile
con il suo equivalente in oro in qualsiasi banca che ha emesso i biglietti) e svalutazione del dollaro
del 40,9%
 contratti collettivi con garanzia del mantenimento del potere d’acquisto degli stipendi
 politica di grandi lavori pubblici su base regionale
GLI SVILUPPI POSTBELLICI
Nei cinquant'anni successivi alla seconda guerra mondiale la scienza economica subì ulteriori significativi cambiamenti.
In ogni branca della disciplina fu incrementato l'uso degli strumenti matematici. Inoltre, si verificò un crescente
affinamento dei metodi della ricerca empirica e, dunque, dell'econometria, cioè della combinazione tra teoria
economica, costruzione di modelli matematici e verifica statistica delle previsioni economiche. Nel corso degli ultimi
decenni del secolo la teoria economica tese a trasformarsi da puro esercizio accademico in una disciplina operativa in
grado di fornire orientamenti e indicazioni pratiche.
A partire dagli anni Settanta, tuttavia, la fiducia degli economisti nel proprio lavoro andò scemando, in primo luogo a
causa del verificarsi del fenomeno della stagflazione, ossia la contemporanea presenza di disoccupazione e inflazione,
che era in contraddizione con le implicazioni proprie dell'economia keynesiana, e in secondo luogo a causa della
proliferazione di scuole di pensiero in contrasto le une con le altre (tra le quali, per citarne alcune, l'economia
radicale, l'economia evolutiva, l'economia postkeynesiana, l'economia comportamentale, il neoistituzionalismo, il
monetarismo, la nuova macroeconomia classica e l'economia neokeynesiana).
-9-
IL NEOLIBERISMO
E’ in questi anni che viene in auge la teoria neoliberista basata sulle vecchie dottrine del liberismo
economico che si sono andate sviluppando a partire dagli anni ’50.
I neoliberisti disprezzano la teoria keynesiana, accusano lo Stato di essere il responsabile dell’inflazione
esistente e propongono un cambiamento nella forma d’intervento statale nell’economia, considerando come
suo unico fattore regolatore il mercato; infatti, promuovono:
- la diminuzione della spesa pubblica, argomentando che una spesa pubblica elevata è un fattore che non
incentiva il lavoro;
- la riduzione dell’indebitamento dello Stato, a causa del quale sono stati sottratti capitali agli investitori
privati, più efficienti e motivati e ridotto conseguentemente la domanda globale.
Lo Stato non deve adottare politiche di bilancio, fiscali o monetarie. Il suo unico ruolo è quello di garantire
la libera concorrenza e il libero formarsi di prezzi e salari.
All’interno di tale corrente si possono individuare diversi filoni teorici: monetarismo ed economia
dell’offerta (supply side economics)
Monetarismo – Teoria macroeconomica (con a capo Milton Friedaman ed i suoi allievi della scuola di
Chicago) basata sull'analisi dell'offerta di moneta e sul ruolo della moneta nell'influenzare i prezzi, la
produzione e l'occupazione. Il monetarismo sostiene da una parte che le variazioni nell'offerta di moneta
esercitano nel breve periodo solo un modesto impatto sul sistema economico; dall’altra che l'economia non
tende automaticamente verso la piena occupazione, il cui raggiungimento può essere favorito dalla politica
fiscale.
Ciò che accomuna le diverse scuole monetariste è la convinzione dell'importanza dell'offerta di moneta
nella determinazione dei prezzi e l'esistenza di una stretta relazione tra l'offerta di moneta e il livello dei
prezzi nel lungo periodo, a condizione che questo sia sufficientemente lungo e che alcune altre variabili,
come la natura delle istituzioni finanziarie, rimangano costanti.
Il monetarismo ha una lunga tradizione nella storia del pensiero economico; già dalla metà del XVIII secolo il francese
Richard Cantillon e lo scozzese David Hume avevano fornito dettagliate e sofisticate studi di come una crescita nella
quantità di moneta agisca sui prezzi e sulla produzione nel breve periodo. Nel XX secolo, la riflessione monetarista ha
avuto al suo centro la "teoria quantitativa della moneta 15". Secondo Irving Fisher, la quantità di moneta in circolazione
ha effetto a lungo termine solo sul livello generale dei prezzi, non esercitando alcuna influenza sull’economia reale.
Negli anni Cinquanta, in particolare con Milton Friedman, la domanda di moneta da parte degli individui è analizzata
come la domanda di qualsiasi altra merce e quindi funzione della ricchezza e dei prezzi. Più esattamente, per
Friedman la domanda di moneta è considerata dipendente dal “reddito permanente”, dove ha un ruolo fondamentale
il capitale umano (esperienza e educazione) di un individuo e quindi l'utilità che egli si aspetta di ottenere detenendo
moneta.
In sintesi: FRIEDMAN, assertore che l’inflazione è sempre un fenomeno monetario e può essere causata solo
da un incremento della quantità di moneta superiore a quello di crescita della produzione.
Supply side economics – Negli stessi anni, per FELDSTEIN, BOSKIN E LAFFER (amministrazione Reagan) la riduzione
delle imposte indurrebbe ad un rapido aumento, e non alla diminuzione, delle entrate fiscali.
Tali economisti danno grande importanza agli effetti-incentivo della tassazione nel determinare l’andamento del
sistema economico. Il gruppo principale sottolinea l’importanza degli incentivi fiscali nella promozione della crescita
attraverso l’influenza esercitata sul risparmio e sugli investimenti.
L’ala radicale, più pubblicizzata, ha sostenuto: a) che la riduzione del livello di tassazione avrebbe avuto effetti così
potenti sull’attitudine al lavoro da accrescere il totale delle entrate fiscali; b) che le ripercussioni sul lato dell’offerta
avrebbero avuto potenti effetti nella riduzione dell’inflazione, attraverso l’aumento del tasso di crescita della
produzione.
Nel 1981, l’amministrazione Reagan presentò un quadro ottimistico per il futuro, che prevedeva crescita positiva a
bassa inflazione, sulla base di queste teorie. La storia non fu però d’accordo. L’inflazione diminuì, ma solo a causa di
una politica monetaria restrittiva, e non di una politica fiscale espansiva; la produzione diminuì, pur riprendendo nel
1983-84.
15
TEORIA QUANTITATIVA DELLA MONETA : MV= PQ
P: livello generale dei prezzi
V: velocità di circolazione della moneta
prodotte
M: massa monetaria
Q: quantità
Analisi della relazione che lega il livello generale dei prezzi alla massa monetaria. Spiega le tendenze all’aumento dei prezzi
attraverso l’aumento delle unità monetarie in circolazione. Nel lungo periodo la velocità resta relativamente costante. Perché i
prezzi non aumentino, occorre che l’aumento della massa monetaria non superi quello del PIL. La teoria è controversa.
- 10 -
CONSEGUENZE DEL NEOLIBERISMO
Già nel 1970 la crescita economica e di espansione dei mercati era notevolmente rallentata e dal 1980 in
mondo era entrato in stagnazione. Da allora ad oggi i maggiori paesi capitalistici si sono preoccupati
esclusivamente di gestire la crisi nei due terzi del globo inventando nuovi sbocchi finanziari e dando una
forte spinta verso i processi di finanziarizzazione dell’economia. Il neoliberismo favorisce lo sviluppo
internazionale a scapito dei mercati locali e nazionali in nome dell’efficienza e le imprese internazionali
sostenuti dai governi neoliberisti hanno visto una crescita verticale della loro quotazione in borsa. Si va,
quindi, affermando in maniera sempre più spiccata una divaricazione tra andamento dell’economia reale e
le scelte di finanziarizzazione dell’economia, ossia decisioni che puntano su investimenti finanziari
scollegati dall’evoluzione dei processi produttivi reali, che seguono esclusivamente una logica speculativa e
che diventano una fonte di ricchezza facile per gli investitori e determinano elementi reddituali e
patrimoniali a bassa tassazione, ad evasione ed elusione.
In pratica, il neoliberismo si è dimostrato incapace di trovare un’uscita dalla crisi ed ho determinano una
nuova crisi economica mondiale a partire dal 2007 negli UsA e poi nel resto del mondo.
Le nuove forme di caos economico che ha generato a causa della deregolamentazione e della globalizzazione finanziaria va distinto
in tre tipi:
il liberismo dottrinario (Thatcherismo: privatizzazioni ingenti e rapide)
il social-liberismo (Germania e Svezia: liberismo temperato con un po’ di Stato Sociale.
In Germania, definita “economia sociale di mercato”, il mercato deve osservare minuziose regole del gioco, dando luogo ad
un’abbondante regolamentazione, flessibilità del mercato del lavoro ed assenza di inflazione ed una politica monetaria che
concede grande autonomia alla Bundesbank.
In Svezia, una forte apertura verso l’esterno, forte concentrazione industriale che assicura spiccato controllo dei mercati,
deregolamentazione dei tassi di interesse, forte protezione sociale e spesa pubblica ed entrate fiscali a livello elevato)
il liberismo di facciata (Giappone, USA reaganiana) perché dietro l’apparenza di grande economia liberale nasconde
un’economia perfettamente diretta e protetta. Sebbene l’economia finanziaria (i mercati di capitali) sia liberalizzata, in
Giappone, l’economia reale non lo è perché esiste un sistema gerarchizzato di riappalto che permette alle grandi imprese
di controllare con facilità tutta la produzione. In Usa, invece, una legge del 1988 permette al governo di adottare mezzi
protezionistici, quando un competitore minacci la sicurezza nazionale ed, inoltre, nessun provvedimento venne adottato
circa l’equilibrio fiscale (principio essenziale del liberismo).
La politica economica neoliberista, incentrata sui processi di privatizzazione, ha realizzato una quadro
macroeconomico che evidenzia tendenze recessive in molte aree, contrazione e precarizzazione
dell’occupazione, diminuzione dei salari reali, diminuzione dell’inflazione dovuta soprattutto al forte caldo
della domanda, aumento significativo delle fasce di povertà e di emarginazione, tassi di disoccupazione
ufficiale ed “invisibili” altissimi e l’emergere di nuove condizioni di disagio economico-sociale diffuso.
LIMITI DEL COMUNISMO E DEL CAPITALISMO
I limiti del comunismo marxista sono: lo stato ovviamente non è in grado di adeguarsi ai reali bisogni della
popolazione; impedisce l’iniziativa economica; soffoca le libertà personali degli individui. Ciò ha portato a
proporre il capitalismo come unica verità per l’umanità, sia nell’accademia, sia nella docenza che nei piani
di studio dei corsi di economia. Fino agli anni ’70 era tangibile la presenza di materia di critica al pensiero
marxista che permetteva la messa a fuoco globale dell’economia come scienza sociale. Negli ultimi anni, il
sistema imperante di dominazione ideologica ha portato anche molti studiosi a rinnegare il marxismo per
non esser accusati di antiscientificità: questo è stato il prezzo che molti hanno dovuto pagare per
affermarsi, far carriera ed impedendo il confronto diretto tra l’economia politica marxista e la micro e
macro economia neoclassica.
Oggi, nell’attuale fase della competizione globale capitalista, vi è la propensione ad assoggettare il mondo
completamente, sotto ogni dimensione, alla configurazione d’impresa e del profitto e chi ne subisce le
maggiori conseguenze è l’individuo singolo e sociale, che si lascia omologare senza opporsi, rinunciando alla
sua libertà e personalità: cosa forse ormai scontata, poiché quotidianamente si ricevono stimoli a farsi
massa omologata, ad assimilarsi all’impero del capitale. E, infatti, spazi e tempi diventano sempre più brevi
e funzionali alla diffusione delle idee dominante del capitale comunicazione. I mass-media, i computer, la
telefonia mobile hanno reso l’intero globo un piccolo paese, non solo per motivi informativi e culturali, ma
anche per far fronte alle esigenze di un mercato sempre più mondiale e per diffondere ed inculcare nella
lente ala mentalità della mercificazione: ogni cosa ha un prezzo, un preciso valore di scambio.
Nella fase attuale, si assiste ad una globalizzazione dei mercati, o meglio ad una sempre più aspra competizione globale, causa ed
effetto dell’aumento di competitività del sistema economico nel suo complesso e dei singoli operatori economici in particolare. Il
miglioramento dei trasporti e delle comunicazioni elettroniche, l’abbattimento progressivo delle barriere doganali, anche per i
rinnovati accordi internazionali politici ed economici apparentemente a carattere liberalizzante ma nei fatti a forte connotazione
protettiva e competitiva, hanno portato le imprese a confrontarsi più direttamente ed a comportarsi come se operassero in un
mercato senza alcun vincolo di confine territoriale. Il mercato, divenuto sempre più dinamico e competitivo, appare oggi con una
tendenza chiara ed irreversibile a divenire un mercato unico; si tratta, invece, di un mercato avente una dimensione di aspra
competizione mondiale, in cui si vanno definendo le aree di influenza di almeno tre poli imperialisti: USA, UE e Giappone.
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FORME DI CAPITALISMO
Nella pratica imprenditoriale moderna si è stabilito un sistema di valutazione dell’impresa che tiene conto
non solo del valore dei suoi impieghi (attività) ma anche della capacità organizzativa, del suo inserimento
nei mercati, della rete di relazioni o della valutazione del gruppo di lavoro che lavora in appalto o
commissione per l’impresa.
In ogni caso ed in ogni contesto capitalistico, l’impresa ha come obiettivo fondamentale quello di
massimizzare il profitto attraverso l’ottimizzazione degli indici di efficacia ed efficienza. In tal modo si
tende a soddisfare tutti i portatori di interessi (stakeholders) che a vario titolo partecipano alla vita ed alle
vicende dell’impresa stessa.
Le categorie di stakeholders sono tre: azionisti, manager e lavoratori (i quali hanno il reale controllo
gestionale). Ad essi vanno aggiunti anche fornitori, banche clienti, investitori finanziari e pubblica
amministrazione.
Tra gli oppositori, invece, vanno ricordati: concorrenti, azionisti di minoranza e d’opposizione, forze ostili
di natura politica, sociale e del mondo dell’informazione.
In base alla modalità di gestione, ai processi riallocativi tra proprietà e controllo, alle scelte di collocazione
nelle aree geografiche, molti studiosi sono giunti ad individuare 3 forme principali di capitalismo:
- capitalismo manageriale (di tipo anglossassone)
- capitalismo personale-individualistico, a conduzione familiare (di tipo britannico ed italiano)
- capitalismo renano-nipponico (di tipo tedesco e giapponese)
1. Capitalismo manageriale
Con questa forma, più caratterizzata da una forte competizione aziendale ed individuale, ci si riferisce al
capitalismo degli Stati Uniti che, sviluppatosi attraverso la nascita della grande impresa, si caratterizza per la
presenza di un efficiente apparato manageriale, dotato di imponenti mezzi finanziari che vedono la prevalenza di un
mercato borsistico dominato da un elevato azionariato imprenditoriale.
In questo sistema vi è stata l’ascesa e l’affermazione delle figure manageriali sugli stessi proprietari d’impresa,
determinata dalla naturale tendenza evolutiva del capitalismo nazionale dominato in misura sempre più ampia delle
grandi compagnies e poi dalla diffusione dell’azionariato. Infatti, l’introduzione di nuove e costose tecnologie ed i
regimi di concorrenza sempre più spietati avevano prodotto processi aggregativi e selettivi che consentivano la
sopravvivenza ed il successo solo a organismi in grado di affrontare le economie di scala. Poi, il capitale suddiviso in
una miriade di piccoli azionisti ha reso impossibile stabilire delle linee di comportamento da parte dei Consigli di
Amministrazione facendo emerger la figura del manager e garantendo, almeno in teoria, la separazione
dell’interesse del privato dall’interesse dell’azienda.
Gli obiettivi del top management tendono alla realizzazione di profitti immediati per meglio soddisfare le esigenze di
redditività degli azionisti, i quali sono chiamati a fine esercizio a valutare l’operato del manager, confermandolo o
meno alla guida dell’azienda. La conseguenza di tale impostazione è che gli esigui investimenti destinati allo
sviluppo futuro e all’espansione, caratterizzano queste imprese per un certo grado di immobilità e rigidità.
Infatti, le Public Companies per minimizzare i rischi tendono a detenere i pacchetti azionari per poco tempo. Il
carattere prevalentemente speculativo dell’investimento volto ad ottenere risultati nel breve periodo fa sì che gli
investimenti che non producono rendimenti immediati siano comunque poco apprezzati. E’ proprio su ciò che si
basano i processi della cosiddetta fase di globalizzazione, meglio detta competizione globale. In questa logica il
capitale viene spostato dove rende di più: profitto ad ogni costo e condizione. Si viene così a creare una realtà in cui
sempre più alta è la divaricazione e lo sdoppiamento tra economia reale e finanza, anzi una realtà nella quale la
finanza premia gli andamenti negativi dell’economia reali (quali ad esempio la flessibilità dei salari e la riduzione
dell’occupazione).
In tale sistema, globalizzazione significa dominazione del mondo attraverso l’uso del capitale speculativo,
l’espulsione dal mercato delle imprese deboli in termini di esclusiva corsa al profitto, la crescita della
disoccupazione e l’utilizzo di lavoro sempre più supersfruttato, allargando le sacche e le aree in cui è prevalente la
miseria assoluta.
2. Capitalismo renano-nipponico
La Germania, ed in modo simile il Giappone, la caratterizzato il proprio sviluppo capitalistico su dei caratteri
comunitari, nei quali l’impresa è costituita da diversi soggetti economici che lavorano ognuno secondi i propri ruoli
per il conseguimento di uno scopo comune: lo sviluppo di lungo periodo. Al profitto immediato richiesto dai
stakeholders americani viene sostituito da un incremento valoriale aziendale di lungo periodo, nel quale il profitto
immediato è minore ma più forte è la preoccupazione di una vita aziendale di lunga durata.
Si distingue il cosiddetto <nocciolo duro> costituito dagli azionisti stabili (banche, investitori finanziari, portatori di
interessi forti), i quali possiedono la maggiore quota di capitale, e da una moltitudine di azionisti minori che
possiedono la parte di capitale effettivamente trattabile sul mercato. Però non vi è la possibilità per nessun azionista
di raggiungere posizioni di maggioranza assoluta. Di conseguenza, nell’interesse dello sviluppo e della crescita
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dell’azienda stessa, assume un’importanza fondamentale la figura del manager, che ha come obiettivo prioritario la
massimizzazione del valore d’impresa nell’ottica dell’espansione, tentando di realizzare un mix ottimale tra crescita
aziendale, redditività del capitale investito e dinamiche dello sviluppo complessivo. C’è da sottolineare, però, che
negli ultimi trent’anni si è verificato un calo consistente nella presenza degli azionisti privati e del settore pubblico,
a favore di una crescente presenza delle assicurazione e delle banche.
In questo modello, fanno parte dei stakeholders anche i lavoratori, attraverso i loro rappresentanti sindacali presenti
nel Consiglio d’Azienda e dirigenti dell’Hausbank nei Consigli di Sorveglianza dell’impresa.
Si determina, in tal modo, una compressione forzata dei conflitti sociali ed una quasi mancanza di conflitti interni
d’azienda; il senso di appartenenza dei lavoratori e di cooperazione rende l’organizzazione d’impresa tedesca molto
stabile e forte. I lavoratori ricevono in contropartita di una concordata pace aziendale salari più elevati e meno ore
di lavoro rispetto alle medie anglosassoni e dimostrano un maggiore senso di fedeltà all’impresa che aumenta la
potenza del sistema economico tedesco.
A partire dagli anni ’80 negli USA ci si è resi conto della necessità di limitare il potere eccessivo dei manager e si è
cercato di rendere più stabile l’azionariato attraverso l’intervento di investitori stabili, in grado di garantire una
maggiore concentrazione della proprietà. In quest’ottica vi è stata una diminuzione degli investitori privati a favore
della nascita delle relationship investing (società finanziarie che ottengono un ruolo diretto nella gestione delle
imprese attraverso l’acquisto di elevate quote azionarie). Inoltre, si è pensato di trasformare i manager in azionisti
per coinvolgerli direttamente nelle sorti aziendali.
Ma anche nel modello renano-nipponico diminuisce l’incidenza degli incroci azionari e si tende ad allargare la
partecipazione e la dipendenza delle imprese direttamente dal mercato finanziario, assistendo ad un graduale
avvicinamento tra i due modelli.
3. Capitalismo personale-individualistico o familiare
Tale modello, riferito soprattutto al capitalismo britannico, pur essendo per molti versi simile a quello americano, è
di natura personale-familiare. La natura familiaristica e non manageriale della proprietà ha portato in Inghilterra allo
sviluppo di un sistema economico e sociale chiuso, che mira soprattutto alla conservazione dei privilegi acquisiti;
questa situazione non ha permesso la nascita di un efficiente e competitivo sistema manageriale in grado di
consentire uno sviluppo adeguato dell’economia britannica.
Simile il sistema italiano (detto di tipo padronale)
La struttura dell’industria italiana è composta da un numero di grandi imprese troppo piccolo rispetto alla reale
dimensione della nostra economia e da un pluralità di piccole e medie imprese con una dimensione mediamente
inferiore a quello dello stesso tipo di imprese di altri sistemi industriali. Ma al di là dell’aspetto dimensione, il
maggior elemento di debolezza strutturale del sistema industriale italiano è rappresentato dalla natura degli assetti
proprietari e dalla loro difficile adattabilità alle esigenze che oggi il sistema industriale manifesta ai fini del suo
rilancio.
In Italia, in realtà la situazione che si è venuta a creare è di sempre maggiore concentrazione gerarchica nella
gestione e nella proprietà delle imprese. Ma con l’avvicendarsi delle generazioni, le grandi famiglie vedono crescere
il numero dei propri membri interessati a vario titolo alla conduzione dell’azienda, rendendo più difficile una sintesi
di interessi, in assenza di deleghe ad un management autorevole.
Anche nel mondo delle piccole e medie imprese si è giunti al punto di svolta dal punto di vista degli assetti
proprietari, ma anche per l’organizzazione e la divisione del lavoro tra le imprese. In tali imprese soggetto
economico e giuridico spesso coincidono. Ciò non sarebbe un vincolo in sé, ma può diventarlo nel momento in cui, di
fronte al passaggio generazionale, il controllo familiare non trova più continuità e quindi anche la proprietà viene
messa in discussione.
Inoltre, il management deve tener conto delle risorse finanziarie già immediatamente disponibili prima di
effettuare gli investimenti, a meno di ricorrere a forti indebitamenti. Vi sono anche limiti economici, perché si
verifica un alto costo del capitale dovuto alle esigue possibilità degli azionisti di diversificare il proprio portafoglio di
investimenti. Gli obiettivi di redditività di breve periodo hanno portato a scarsi investimento nello sviluppo
tecnologico e quindi ad una limitata competitività delle imprese italiane nei confronti delle aziende europee.
Infine, al di là dei vincoli e degli elementi strutturali, la crescita del sistema industriale italiano è seriamente
minacciata dalla scarsa diffusione dei fattori indispensabili allo sviluppo equilibrato con connotati di compatibilità
socio-ambientale. Il primo ed il più importante è l’assenza delle stesse regole di concorrenza sul mercato, ancor oggi
falsate da legami di malaffare con strutture istituzionale e con il sistema politico-partitico, meglio conosciuto come
“sistema tangentopoli”.
Inoltre, la mancanza di concorrenza sul mercato non incentiva le imprese a ricercare innovazione e qualità nei
prodotti e nei servizi erogati. Questi ed altri problemi che minacciano la competitività italiana non si è voluto mai
risolverli attraverso un’azione di governo dell’industria.
In sintesi, per poter acquistare maggiore competitività l’industria italiana avrebbe bisogno: di un più elevato livello
di efficienza nei mercati dei fattori produttivi e dei servizi ed anche di uno sviluppo e di un regolamento-controllo
statale del mercato dei diritti di proprietà, fissando, nel contempo, nuove regole redistributive del valore, ma
soprattutto della ricchezza, del nuovo patrimonio d’impresa.
La rivoluzione tecnologica
La nuova tecnologia influenza in ogni modo la società che si sta formando, in un’ottica di controllo generalizzato;
società in cui saranno sempre più presenti il commercio elettronico, il telelavoro, la telemedicina, etc. Tali elementi
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1924:
Sec.
Sec.
Stato
URSS,
XVIXIIIXV:
socialismo
regionale
nasce
XVII:
XIV: loin
Italia
monarchie
COMUNI
Stato
sicuramente condizionano non solo il mercato del lavoro e dei consumi, ma lo stesso vivere sociale complessivo, il
moderno
assolute
(STATO
modo di essere soggetto nel territorio.
PERDa
CETI)
tutto ciò deriva che il modo più efficace per espandere e conquistare una rete è dato dalla possibilità di avere
informazioni nel modo più rapido possibile.
Indubbiamente, la rivoluzione dell’informazione ha anche influenzato la gestione della logica e dei bisogni aziendali
del capitale intellettuale16, sia umano che strutturale. Oggi si da prevalenza allo sviluppo del primo, in quanto più
redditizio.
16
Capitale intellettuale: insieme di tutte le conoscenze, le informazioni ed esperienze in grado di creare nuova
ricchezza.
Capitale umano intellettuale è rappresentato da tutte le capacità delle persone che agiscono in funzione delle
logiche d’impresa e che sono in grado di offrire soluzioni ai bisogni aziendali: ..”il denaro parla, ma non pensa; le
macchine eseguono, spesso meglio di quanto possa fare un essere umano, ma non inventano” (Strewart 1999).
Infatti, un operaio che lavora 8 ore ad una catena di montaggio non da niente di realmente utile all’azienda, in quanto
lo stesso lavoro può essere svolto più efficientemente da una macchina, mentre l’operaio in tal modo non esterne nulla
di ciò che conosce o potrebbe conoscere.
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