FISIOLOGIA Sbobinature A.A. 2008/2009 Prima Parte 1 Lezione del 17/11/2008 Introduzione. La fisiologia è la disciplina che si occupa di studiare il funzionamento di organi ed apparati. Occorre gettare un ponte tra le conoscenze di tipo morfologico e di tipo fisico, perché non dobbiamo dimenticarci che tutto ciò che accade nell’organismo umano dipende da fenomeni chimico-fisici. Se noi dovessimo parlare di muscolo, ci configuriamo una struttura che come già sapete ha la capacità di produrre lavoro meccanico. L’attività dei muscoli sposta delle masse. E’ chiaro che questo prevede l’esistenza di forze, e quando noi applichiamo una forza ad una massa abbiamo un lavoro, (forza x spostamento). Sul piano ecologico ed evoluzionistico questo è fondamentale, perché consente, alle specie dotate di questa organizzazione anatomo – funzionale di muoversi nello spazio. Questo significa che sono in grado, a differenza di altre specie (vegetali) di andarsi a scegliere la nicchia ecologica su cui operare, oppure di spostarsi da luoghi dove non è più conveniente per competizioni eccessive di altre specie. Quindi potersi muovere diventa un vantaggio evoluzionistico notevole. Inoltre, l’evoluzione ha provveduto a costruire un sistema di attuazione del movimento, o di trasferimento della forza:mi riferisco al sistema scheletrico, delle strutture rigide, connesse tra di loro in sistemi di giunzione articolare, dei punti di snodo con gradi di libertà differenti a seconda del tipo di articolazione. In altre parole, la integrazione di attività tra sistema muscolare e apparato scheletrico ci consente di muoverci, sia ai fini di compiere quello che noi chiamiamo lavoro esterno, spostare la massa del corpo nello spazio, sia al fine di compiere movimenti che non sono attinenti a quanto detto ma che consentono di fare altre attività, pur mantenendo il corpo in equilibrio stazionario. Il motore muscolare, possiamo chiamarlo cosi, perché di fatto si tratta di una macchina a combustione interna, che per poter produrre forza, si serve di trasformazioni energetiche, da chimico a meccanico. Tuttavia, per avere la possibilità di compiere attività motorie cosi perfette cosi come noi siamo abituati ad osservare, è necessario un sistema di controllo, in grado di inviare informazioni coerenti al motore muscolare, in funzione di ciò che si decide di fare, ma anche di ciò che si recepisce dall’esterno. Quindi esiste un altro organo o apparato, che si chiama sistema nervoso che, in termini evoluzionistici, possiamo dire abbia la funzione di generare i pattern di movimento. Informa l’apparato muscolare attraverso modulazioni di frequenza e comunicazioni elettriche tramite i nervi, ma è anche in grado di recepire, tramite sensori che sono in contatto con l’esterno, capaci di recepire variazioni di energia provenienti dall’esterno e tradurre le informazioni sempre in modulazione di frequenza che dai recettori viene captato. Si ha cosi una comparazione tra ciò che sta avvenendo e ciò che si vuol fare, in modo da ottimizzare lo schema motorio. Si tratta di generare, attraverso l’attivazione differenziata di diversi gruppi muscolari, delle situazioni che possano sia consentire il movimento, sia impedire il movimento, perché se voi ci pensate bene il fatto che io stia in piedi non è normale, perché ci sono delle cerniere come le ginocchia, l’anca, che si dovrebbero flettere e dovrebbero farmi cadere, poiché la massa del mio corpo agisce su queste strutture che dovrebbero piegarsi. Non avviene perché produco una forza nei gruppi muscolari detti “antigravitari” che attivati consentono al ginocchio di non piegarsi, ma come al ginocchio anche all’anca e al collo ad esempio. Tutto questo nasce da caratteristiche “biofisiche”delle cellule eccitabili, cioè quelle cellule del nostro organismo capaci di modulare la differenza di potenziale elettrico che esiste a cavallo della loro membrana plasmatica. Tutte le cellule dell’organismo sono caratterizzate dalla separazione di cariche elettriche, all’interno e all’esterno, a cavallo della membrana, con un accumulo di cariche positive all’esterno e di tipo negativo all’interno. Elettricamente parlando stiamo parlando di una capacità, con il dielettrico che è la membrana. Tra le cellule dell’organismo, tra i tipi di tessuto, due tipi vengono definiti eccitabili: si tratta delle cellule nervose e delle cellule muscolari, che sotto questo punto di vista si comportano esattamente allo stesso modo. 2 Biofisica e Biochimica della membrana cellulare. Partiamo da alcune esperienze classiche che possono interessarci. E’ possibile, in laboratorio, fare delle esperienze in vitro; con particolari tecniche di tipo istologico, è possibile isolare dall’organismo delle cellule. Questa che vedete qui schematizzata vorrebbe essere una cellula muscolare scheletrica o striata. Io riesco ad isolare questa cellula e la inserisco in un liquido nutritivo, cioè un bagno, una soluzione acquosa, che contiene dei soluti che sono simili ai liquidi extracellulari. Praticamente c’è una certa quantità di sodio, un pH neutro, più o meno, e anche del glucosio. Come potete osservare da questo schema, io utilizzo un voltmetro , e ai due capi del voltmetro pongo in uno una piastrina che immetto semplicemente nella soluzione, e nell’altro collego una pippetta. Questo consentiva di impalare la cellula, permetteva di penetrare nella membrana della cellula, senza ucciderla. In questo modo si può mettere in relazione l’ambiente interno della cellula con l’ambiente esterno, e in questo modo posso misurare, , se esiste, col voltmetro, la differenza di potenziale elettrico, tra l’interno e l’esterno della membrana. Condizione 1: inizialmente i due elettrodi sono entrambi nella soluzione neutra, e infatti il voltmetro è a zero, nell’istante t1. Se poi io impalo la cellula, succede quello che vedete qui. Se si tratta di una cellula muscolare scheletrica umana o comunque di un mammifero primate, leggo una differenza di potenziale che ha valore assoluto di circa 90 mV, ma che ha segno negativo, ed è appunto -90 mV, che significa che all’interno c’è una densità di cariche negative e all’esterno di cariche positive. Quindi ho una struttura interno/esterno schematizzata più o meno come nella figura sopra. E’ anche evidente che c’è qualcosa che consente di mantenere questa situazione di non equilibrio elettrico, che se fosse possibile si neutralizzerebbe. Alla base dell’esistenza c’è questa separazione di cariche a cavallo della membrana. Uso un banalissimo parallelismo elettrico: quello che ho appena rappresentato lo posso paragonare ad una pila. Evidentemente se io connetto questa pila con un voltmetro misurerò una ddp ad esempio di 12 V. Se io chiudo il circuito di questa pila essa si scaricherà. Quindi dopo aver cortocircuitato la batteria passo da una condizione di equilibrio ad un’altra. Quello che può succedere in una cellula come quella che vi ho mostrato è più o meno la stessa cosa: io misuro la ddp e leggo -90 mV. Se qualcuno o qualcosa dall’esterno, anche semplicemente un’azione meccanica, genera un corto circuito nella membrana, si vede che molto velocemente la cellula si scarica, e noi diciamo si depolarizza. Da una condizione di polarizzazione 3 che chiamiamo potenziale di membrana di riposo, che è uguale a -90 mV, si passa ad una condizione di depolarizzazione, poiché cariche elettriche di segno diverso si muovono attraverso la membrana. Più esattamente si ha ingresso di cariche positive sottoforma di ioni sodio Na+. E’ evidente che se entrano delle cariche positive esse neutralizzeranno le negative e quindi la quantità di cariche di segno opposto diminuisce. Questo processo di depolarizzazione è rapido sul piano dei tempi biologici, lunghissimo sul piano di altri tempi, perché può durare qualche millisecondo. Quindi mi ritrovo, all’istante t2 una condizione analoga a quella della pila dopo il cortocircuito. Però poi succede una cosa diversa, a questo punto: se io voglio ripetere l’esperienza su questo apparato elettrico devo ricaricare la pila, quindi devo staccare il sistema e farle riprendere potenziale, con un caricabatterie ad esempio, quindi fornendo energia dall’esterno. Avviene anche nella cellula, però avviene automaticamente: dopo i primi secondi di depolarizzazione, si ottiene una ripolarizzazione. La cosa interessante è che il fenomeno si ripete nel tempo, e se le condizioni di partenza sono costanti, anche gli intervalli di ampiezza della ripetizione sono costanti. Quindi noi abbiamo generato una variazione di potenziale elettrico che in valore assoluto è di 100 mV, visto che in depolarizzazione la ddp non era andata a 0 mV ma a +10 mV. La depolarizzazione e la successiva ripolarizzazione si chiama potenziale d’azione. Quindi noi partiamo da una condizione di riposo, di stabilità, ad una condizione di perturbazione di questa stabilità che si caratterizza con una rapida depolarizzazione e una rapida ripolarizzazione, chiamata potenziale d’azione. Quello che viene fuori però è che a seconda delle informazioni che il sistema nervoso invia al terminale cellula muscolare, quest’evento si può ripetere con frequenza crescente. In altre parole, il sistema è in grado di operare una modulazione di frequenza su questo evento potenziale d’azione. Questa modulazione di frequenza rappresenta il codice di informazione del sistema nervoso per la attività muscolare. La struttura nervo – muscolo finale opera una trasduzione da modulazione di frequenza a modulazione di ampiezza. Allora se il muscolo deve generare forza, possiamo osservare un’ampiezza, un’ampiezza ancora maggiore e cosi via sino alla massima ampiezza possibile. Per ottenere questo tipo di output meccanico, il sistema si serve di una modulazione di frequenza, ovvero di una depolarizzazione nella membrana cellulare che aumenta di frequenza. Si badi bene che lo stesso processo vale per la trasmissione di informazioni alle terminazioni nervose: si ha una frequenza di scarica della membrana del nervo, che si traduce in una quantità crescente di emissione di una sostanza chimica, un neuromediatore , che nel caso specifico di questa giunzione sinaptica è l’acetilcolina. Viene generata nella terminazione nervosa del muscolo, quando questa membrana si depolarizza, viene diffusa in maniera proporzionale alla frequenza di scarica del nervo, in termini quadrici, con pacchetti di quantità costante. Questo si traduce in una frequenza di scarica della membrana del muscolo e dà luogo alla forza. Questa è quindi la catena di eventi che, dal sistema di controllo nervoso, porta alla produzione di forza. Quindi 4 è molto importante che si abbia la condizione di partenza di separazione della carica a cavallo della membrana, che non è però una cosa così ovvia. Questa dovrebbe essere una rappresentazione schematica della membrana cellulare. Come si può vedere è composta fondamentalmente da una struttura lipidica: fosfolipidi doppio strato, la parte idrofoba verso l’interno e la parte idrofila verso l’esterno. Sarebbe una barriera insormontabile per le sostanze in circolo nell’organismo, potrebbe essere attraversata solo da sostanze liposolubili, come ad esempio certi ormoni steroidei, ma proteine e ioni normalmente non passerebbero. Esistono delle soluzioni di continuità nella membrana, i cosiddetti canali ionici, di tipo proteico, che si aprono e si chiudono solo in determinate condizioni voltaggio – dipendenti. La possibilità di aprirsi è legata alla ddp transmembranale. Quello che risulta è che noi, osservando questa struttura, leggiamo, come abbiamo visto, una ddp transmembranale che, se trattiamo un muscolo scheletrico è -90 mV. Questo significa che esiste una potenzialità di generare lavoro, che scomparirà quando la ddp andrà a zero. Per ora però le cariche sono impossibilitate a muoversi, quindi abbiamo l’esistenza di una We, energia elettrica. In realtà, se guardiamo bene, notiamo che, sul piano della concentrazione chimica, nel recipiente interno ed esterno alla cellula vi sono delle importanti differenze: per il sodio la concentrazione è notevolmente più elevata all’esterno, abbiamo infatti 145 mmol/l contro12 mmol/l; per il potassio è il contrario, per il cloro è come per il sodio. Poi esistono, all’interno della cellula, una quantità di cosiddetti “anioni non diffusibili”, che sono residui del metabolismo cellulare, grosse compagini molecolari, che normalmente sono caricate negativamente, e che contribuiscono elettricamente a quello che vediamo. Ho usato il termine non diffusibile perché le precedenti specie ioniche possono diffondere ovvero attraversare la membrana, mentre queste no, ma ci interessa relativamente. Quello che io osservo è che esiste un altro gradiente energetico nel sistema, che è un gradiente di tipo chimico, di concentrazione; sapete benissimo che quando in un sistema esiste una differenza di concentrazione di sostanze, questa tende ad annullarsi: se si tratta di una soluzione, le parti dove c’è maggior concentrazione si spostano dove c’è minor concentrazione, e questo può avvenire più o meno rapidamente a seconda della resistenza al passaggio che può essere presente tra comparto A e comparto B. 5 Come potete vedere abbiamo una resistenza al passaggio nell’immagine B. Quindi, tornando al discorso generale, abbiamo la presenza di un altro tipo di energia, Wc , che è l’energia chimica di concentrazione, che, se gli è permesso, consente di compiere lavoro, portare particelle da una parte all’altra del sistema, perché c’è gradiente. Certamente, se fosse permesso, il sodio si sposterebbe dall’esterno all’interno. Quindi questo sistema è caratterizzato dall’esistenza di due gradienti energetici, uno di tipo chimico e uno di tipo elettrico. Ora, se esistono questi gradienti vuol dire che c’è qualcosa che impedisce di compiere questo lavoro. L’ipotesi che io faccio è che questo sistema sia equilibrio, ed è in equilibrio perché il flusso netto di ioni che attraversano la membrana è pari a zero, a causa di questa uguaglianza: [Wc]=[We] Ammettiamo che ci siano soltanto delle particelle neutre, ma che ci sia una separazione, una differenza di concentrazione. Facciamo un esempio: io ho un recipiente con acqua, abbiamo condizione A e condizione B. A un certo tempo t0 immetto una manciata di cloruro di sodio (le palline rosse), e al tempo ti vedrò che queste si sono diffuse in modo omogeneo in tutta la soluzione. Il sistema ha spostato da un punto all’altro ioni. Ovviamente se io metto una barriera, una membrana che riduce la diffusibilità dal primo al secondo comparto, il tempo tx sarà più lungo, fino a diventare infinito quando non c’è proprio permeabilità. Io voglio sapere la quantità di lavoro necessaria a spostare una quantità nota di solvente dal comparto 1 al comparto 2 di questo sistema. Siccome dobbiamo riportare tutto a condizioni di tipo fisico, ci serviamo delle leggi dei gas perfetti, considerando la soluzione interna alla cellula una soluzione diluita, che può essere assimilata, per quanto noi sappiamo dalla fisica, ad un gas perfetto. Allora io posso considerare la condizione chiamata A, cioè una concentrazione elevata del soluto nel comparto 1 rispetto al comparto 2, che determina un gradiente energetico, come un sistema, come quello qui rappresentato, un cilindro con un gas compresso, ovvero la concentrazione delle particelle di gas nel volume è più elevata rispetto a quella esterna. Quindi il risultato sarà che all’interno del cilindro io avrò una pressione, chiamata PC , che è maggiore di quella atmosferica, PATM. Abbiamo un fermo che tiene lo stantuffo in posizione, e abbiamo una situazione di energia potenziale. Cosa succede se togliamo il fermo allo stantuffo?Accade che questo si muove, il gas all’interno si espande, si riduce la concentrazione delle particelle di gas perché sta aumentando il volume del cilindro stesso, fino a che la concentrazione diventa uguale a quella atmosferica. Abbiamo ottenuto lavoro meccanico, spostando il pistone nello spazio, esattamente della distanza ∆l. Questo lavoro lo definisco come F×∆l. Questa forza interessa una superficie, quindi io posso scrivere P×V=P×S×∆l. Si ha quindi P×∆V, che è il lavoro che ho compiuto. L’equazione di stato dei gas mi dice che P×V=RT, semplifico ancora, sostituisco nell’espressione del lavoro e viene fuori che il lavoro è = ×∆ = × ∆ . Sto così misurando la quantità di lavoro che è stata necessaria per eliminare questo gradiente energetico sotto forma di 6 ∆ pressione. Integrando si ha che spostare il pistone sarà = ln ( ) − ln ( ). Quindi in definitiva il lavoro necessario a × ln ( ). Se io traslo questa relazione alla soluzione di partenza so = come definire il lavoro necessario a portare la soluzione dalla condizione A alla condizione B, che sarà, per simiglianza, = × ln = . Quindi io so sia la concentrazione esterna che quella interna, e quindi sono in grado di risolvere il problema, cioè sono sia in grado di stabilire il lavoro necessario a eliminare il gradiente, sia in grado di stabilire che energia esterna è necessaria affinché non avvenga la neutralizzazione di concentrazione. Tutto sommato questa è la situazione che ho nella cellula, dove ho un gradiente di concentrazione che non dovrebbe esserci, in quanto parliamo di ioni diffusibili che dovrebbero poter attraversare la membrana, mentre c’è qualcosa che lo impedisce, generando un lavoro che è uguale e contrario a questo di concentrazione. L’altra forza a cui mi posso riferire è l’energia elettrica, quindi se vogliamo abbiamo già risolto una parte di quest’equazione. Adesso dobbiamo risalire a We.Ci riportiamo quindi l’equazione generale che abbiamo ottenuto: − = × ln [ ] [ , dove [ ] è la concentrazione interna dello ione generico D, mentre ] [ ] è la concentrazione esterna. Consideriamo che si tratta di un sistema polarizzato, ci sono degli addensamenti di cariche di segno diverso che generano un campo elettrico in qui, se si immette una carica q=+1C, essa viene spostata in direzione delle cariche negative. Facendo ciò si compie un lavoro di tipo elettrico sulla particella che si sposta dal punto A al punto B. Questo lavoro è pari al prodotto della carica elettrica per la ddp ai capi del campo elettrico, avremo cioè: = × ( − ) = × ∆ . Se poi usiamo una Mole, abbiamo = × × × ∆ , dove Z è la valenza. Ma M×q=F=96.500C=Faraday, cioè la carica di una mole, quindi avremo, infine: = × × ∆ . Abbiamo cosi ottenuto l’espressione della quantità di lavoro necessaria a spostare una certa quantità di cariche da un punto all’altro del campo o, facciamo attenzione, necessaria a mantenere la situazione di differenza di potenziale. Allora io posso, a questo punto, prendere quest’elemento e trasferirlo nell’equazione: + = 0, quindi Nernst, da cui giungiamo alla relazione ∆ = − × ln [ × ln ([ [ [ ] ] ] ] + ∆ = 0, che è l’equazione di ) Volt, che è la ddp ai capi della membrana, nonché potenziale di equilibrio del sistema misurato prima, cioè -90 V, che è l’energia elettrica che non permette agli ioni di attraversare la membrana e che si oppone al gradiente di concentrazione. Sulla base di quanto detto, mi dovrei aspettare che, ritornando a quell’esperienza di misura in vitro sulla differenza di potenziale elettrico a cavallo della membrana, troviamo quel valore di ∆V. Allora vado a calcolare, con l’equazione appena trovata, i valori di ∆ , visto che sono tutti valori noti e che le concentrazioni interne ed esterne le posso calcolare. Sorge un problema: quale di 7 questi ioni diffusibili tra K, Na e Cl è il responsabile di quest’evento ∆ ?Sarà solo uno, saranno due o tutti e tre ad esserne la causa?E’ molto importante saperlo, quindi faccio delle prove, di tipo puramente matematico, considerando l’equazione di ∆ trovata in precedenza, e sostituendo i valori rispettivamente dei tre ioni in esame. Se = −61 × log = −61 × log = 61 × log =− [ × ln ([ = −90 ] ), allora avremo = +1 [ ] = 155 [ ] =4 = −96.8 = +66 ] [ [ [ [ / / = +1 ] = 12 ] = 145 = −1 ] =4 ] = 120 / / / / Stando a ciò che abbiamo osservato, potremmo affermare che è il cloro il responsabile del potenziale di equilibrio, però io non mi fido e faccio una controprova. Se ciò che osservo fosse vero, cambiando le concentrazioni interna ed esterna al cloro, dovrebbe cambiare anche il valore della ddp. Allora aggiungiamo del cloro, e riandiamo a misurare, sia la ddp che la concentrazione: notiamo che la ddp è rimasta a -90 mV e che anche il rapporto delle concentrazioni non è variato, mentre sarebbe dovuto variare. Ciò significa che gli ioni si sono mossi attraverso la membrana, per fare in modo che il potenziale non cambiasse; quindi adatta le sue concentrazioni interna ed esterna in funzione di una ddp di membrana che è gestita da qualcos’altro. Allora escludendo il cloro per quanto detto, escludendo il sodio perché genera un valore troppo distante da quello cercato, non ci resta che esaminare il potassio. Faccio quindi variare la concentrazione di potassio e vedo che il potenziale d’equilibrio cambia, ma cambia anche il potenziale di equilibrio del cloro, però non diventa uguale a quello che io mi aspettavo. Diciamo che esiste una relazione diretta tra il potenziale d’equilibrio dello ione K+ e il potenziale che misuro, che però rimane un po’ più basso. Se io aumento (in valore assoluto) il potenziale del potassio, aumenta anche quello della membrana. Facciamo quindi un grafico con la concentrazione esterna del potassio e il potenziale di membrana, scoprendo che per valori elevati della concentrazione esterna del potassio, il valore teorico e il valore misurato del potenziale di membrana coincidono. E coincidono solo per valori superiori a 10: man mano che io abbasso la concentrazione del potassio, e che quindi aumento il potenziale d’equilibrio del potassio stesso, i valori teorici e quelli misurati si discostano sempre più, poiché il potenziale calcolato è maggiore di quello che vado a misurare. Come mai avviene questo? Ho dimostrato che è il potassio che pilota il sistema, vedo con quest’altro esperimento che c’è una coincidenza perfetta tra valore teorico calcolato e valore misurato, entro certi limiti di variazione della concentrazione esterna di K+ e a un certo punto si perde questa coincidenza. Succede che, lo ione Na+, che in prima approssimazione si pensa che non abbia permeabilità attraverso la membrana 8 e quindi non passi, invece passa, per valori di concentrazione del potassio bassi. In questo modo la membrana è attraversata dall’esterno all’interno da cariche positive. Questo passaggio è voltaggio – dipendente: man mano che io aumento la elettronegatività interna, aumento la conduttanza del sodio dall’esterno verso l’interno e questo è un evento depolarizzante. Infatti se da un lato l’ingresso del potassio tenderebbe a iperpolarizzare l’interno, dall’altro l’ingresso del sodio riduce questa iperpolarizzazione, e da qui deriva appunto la differenza tra ddp teorica e ddp misurata. La corrente di ioni sodio può essere dunque espressa tramite la legge di Ohm: INa=GNa(Em-ENa), dove INa è la corrente di ioni sodio, GNa è la conduttanza del sodio, ed Em ed ENa sono rispettivamente il potenziale di membrana e il potenziale di equilibrio del sodio. Più ioni sodio riescono ad entrare, più il potenziale di membrana si abbassa, più la cellula si depolarizza. Però questa depolarizzazione non va avanti a lungo, ma si ferma ad un valore abbastanza vicino al nostro -90 mV. Questo perché esiste in membrana un sistema biochimico vicario che lavora contro gradiente di concentrazione, che fa in modo di espellere gli ioni sodio entrati. Inoltre questo sistema, essendo una pompa elettroneutra, fa entrare il potassio. In questo modo si riesce a mantenere in modo dinamico quest’equilibrio; diversamente la cellula si estinguerebbe, poiché il potenziale di membrana scomparirebbe. Questi fenomeni appena descritti sono autogestiti, non hanno cioè bisogno di energia esterna, poiché assecondano il gradiente. Se io invece voglio andare contro gradiente, cioè voglio buttar fuori il sodio, il sistema non ha quest’energia, che infatti viene fornita tramite adenosintrifosfato (pompa ATP dipendente), che è il combustibile di queste pompe ioniche, e che proviene dalla possibilità che l’organismo ha di nutrirsi. Sempre l’ATP è il responsabile della contrazione muscolare, grazie all’interazione con actina e miosina. Vedremo comunque meglio l’ATP la prossima lezione, quando ci occuperemo della contrazione muscolare. Abbiamo quindi osservato più o meno qual è la genesi di quest’evento, il potenziale di membrana -90 mV. Tutto questo è molto bello ma non servirebbe a niente, in quanto è una situazione di potenzialità:quello che ci interessa è disturbare questa situazione di equilibrio squilibrandola, depolarizzando la cellula, in modo da generare quegli eventi rapidi che sono depolarizzazione e ripolarizzazione che hanno la caratteristica di trasmettersi lungo le membrane biologiche, creano una corrente, che non è esattamente una corrente ohmica, ma è pur sempre un trasferimento di energia sotto forma elettrica nello spazio; lo spazio sono i conduttori, cioè fibre nervose e membrane muscolari. Quindi è necessario creare questa situazione quando io voglio inviare informazioni, ma devo partire da quel -90, che abbiamo visto come si genera. Ammettiamo di avere la nostra membrana, come sempre carica positivamente all’esterno e negativamente all’interno. Posso fare due esperienze in vitro, sempre con delle pippette. Nel caso 1 prendo una pila e collego il morsetto negativo con l’interno della membrana, poi tramite l’interruttore lascio che la corrente fluisca: abbiamo un’iniezione di una carica negativa all’interno della membrana. Se vado a misurare col voltmetro quello che sta succedendo noto che sto iperpolarizzando e quindi il potenziale, da -90, va verso picchi più bassi. Questa situazione non dura molto in realtà, perché stiamo iperpolarizzando, e ricordiamo che in seguito a iperpolarizzazione si ha anche ingresso di sodio, per cui il sistema tende a riequilibrarsi al solito potenziale di membrana di -90 mV. Ovviamente se io scambio le polarità della pila e attivo l’interruttore sto iniettando una carica positiva, e questo è il caso 2: in questo caso succede l’opposto, poiché ho depolarizzato, e si avrà un andamento esattamente simmetrico rispetto a quello osservato nel caso 1 (vedi figura seguente). 9 Ripeto le esperienze 1 e 2 eseguendo le esperienze 3 e 4, dove, rispettivamente, inietto due cariche negative e due cariche positive, e notiamo come i grafici crescano. Se continuo a iniettare cariche negative e positive avrò, per la parte negativa, un certo valore, e invece che il valore positivo, di depolarizzazione, è più ampio di quello che mi aspetto, cioè, nonostante continui ad iniettare la stessa quantità di cariche negative e positive, la ddp del caso 4 risulta amplificata rispetto alla sua simmetrica negativa del caso 3. Evidentemente si sta innescando un nuovo processo. Succede che la depolarizzazione innesca quello che è chiamato Ciclo di Hodgking. Il Ciclo di Hodgking. Il sistema inizia ad autoalimentarsi, in modo voltaggio – dipendente, depolarizzazione – dipendente, ed iniziano ad aprirsi quei canali proteici nella membrana, che sono adatti al sodio: in questo caso GNa (conduttanza del sodio) aumenta. In pratica passiamo da una condizione elettrica ad una condizione ionica. Questo aumento della conduttanza aumenta la corrente di ioni sodio, quindi io sto depolarizzando la membrana, e a sua volta la depolarizzazione aumenta la conduttanza al sodio. Il risultato di tutto ciò è una rapida depolarizzazione, nel giro di qualche millisecondo, a seconda del tipo di cellula. Il sistema quindi si sgancia dall’evento che lo ha 10 generato (l’emissione di cariche positive) e va da sé, per questo aumento di conduttanza. Esiste un valore di potenziale di membrana, che si chiama soglia, oltre il quale l’evento va da sé; quindi ci vuole qualcosa che faccia entrare cariche positive, inizialmente, in quantità sufficiente da poter superare il valore soglia oltre il quale il fenomeno si autoalimenta e va da sé seguendo le sue leggi,generando il potenziale d’azione,cioè una rapida depolarizzazione da -90 mV a circa + 10 mV. Ma in realtà dovrebbe portarsi a +66 mV, che è il potenziale d’equilibrio del sodio non ci arriva perché la membrana, ad un valore di potenziale di circa 0 mV, inizia a ridurre la conduttanza al sodio e a +10 mV tale conduttanza è azzerata: i canali ionici sono di nuovo chiusi, e quindi gli ioni Na + non entrano più. Ma se non entrano più, io mi dovrei aspettare un sistema instabile, ma in realtà non avviene perché, se da un lato la depolarizzazione ha azzerato la conduttanza al sodio, essa ha anche aumentato la conduttanza al potassio. Il potassio è uno ione positivo, ed è concentrato più all’interno che all’esterno, e quindi tende ad uscire, per gradiente di concentrazione. Elettricamente alla cellula poco importa di cosa entra o cosa esce, l’importante è che si ripolarizzi.Quindi la parte di depolarizzazione del potenziale è sodio-dipendente, mentre la parte di ripolarizzazione è potassio dipendente. Se io sottopongo la cellula ad un ciclo di varie depolarizzazioni-ripolarizzazioni, essa avrà una perdita di potassio e un arricchimento di sodio, poiché la pompa Na-K non ha tempo di intervenire ad annullare questi scompensi. E’ come dire che noi possiamo contrarre un muscolo quante volte vogliamo, ma dopo dobbiamo fermarci a riposarlo, per ragioni che vedremo, di fatica. Quando il sistema si ferma quelle pompe rimettono dentro il potassio e ributtano fuori il sodio, ristabilendo cosi le concentrazioni ioniche, sia all’interno che all’esterno. Com’è che si ferma la conduttanza al sodio?Immaginando la cellula come un contenitore, la teoria che è stata formulata è quella dei cancelli: le frecce nere rappresentano il potenziale del sodio, mentre le frecce bianche rappresentano le varie fasi della depolarizzazione, con m che è il cancello del sodio ed h che è il cancello del potassio; i due cancelli hanno evidentemente due velocità di apertura/chiusura che sono sfasate, differenti, altrimenti non si avrebbe alcuno squilibrio ionico ed entrerebbe e uscirebbe la stessa quantità di ioni positivi. Nelle cellule muscolari e nervose avviene un fenomeno detto iperpolarizzazione postuma: anziché riportarsi a -90 mV (o -70 mV se si tratta di una cellula nervosa), si porta a valori più elevati, e tende a portarsi al valore del potenziale d’equilibrio del potassio, questo perché la chiusura del passaggio al sodio impedisce l’ingresso voltaggio-dipendente di sodio che avverrebbe normalmente. Quando poi i canali del sodio si liberano e quindi si ha la ripolarizzazione tutti i processi precedenti (pompa Na-K ed ingresso del sodio voltaggio dipendente) ripristinano la situazione di partenza. 11 Rappresentazione schematica di un ciclo depolarizzazione-ripolarizzazione. Lezione del 04/12/2008 Riepilogo della lezione precedente. Nell’ultima lezione avevamo iniziato il discorso della fisiologia e biofisica della membrana delle cellule eccitabili. Siamo arrivati a cogliere gli elementi che influenzano il potenziale elettrico transmembranale delle cellule nervose e muscolari. Abbiamo anche colto che questa differenza transmembranale ha ragion d’essere in quanto rappresenta una condizione di energia potenziale che, quando opportuno, si traduce in energia elettrica, sottoforma di rapidi spike di variazione di differenza di potenziale, lungo la membrana della cellula. Abbiamo detto anche che la frequenza con cui si hanno queste depolarizzazioni e ripolarizzazioni rappresenta il codice di trasmissione tra una cellula e l’altra. Quindi le informazioni che si trasmettono tra cellule eccitabili sono governate da una logica di modulazione di frequenza. Abbiamo anche visto che, questa differenza di potenziale elettrico transmembranale dipende, o quantomeno è legata ad una particolare distribuzione, ai due lati della membrana, di ioni. Ma ho detto particolare distribuzione nel senso di relativa concentrazione tra l’una e l’altra parte della membrana. Se consideriamo lo ione Na+ , questo è particolarmente concentrato all’esterno della membrana: nello specifico, in una cellula muscolare scheletrica umana, abbiamo mediamente 145 mmol/l che, si badi bene, è la stessa concentrazione immessa nel sangue: c’è equilibrio tra tutti i liquidi corporei extracellulari; all’interno della cellula la concentrazione è di 12 mmol/l. Questo implica una nuova condizione di potenzialità di tipo chimico di concentrazione, che tende ad annullarsi qualora sia consentito il flusso di ioni: ovviamente se questo è possibile, dalla zona a maggior concentrazione ci sarà una migrazione verso la zona a minor concentrazione, ma tutto questo non avviene, e si mantiene questa potenzialità. Il discorso vale, in modo reciproco, per lo ione K+. La potassemia, e quindi la concentrazione nel liquido extracellulare, 12 è pari a 4 mmol/l, mentre all’interno della cellula si riscontrano 155 mmol/l: la situazione è praticamente contraria rispetto a quella del sodio. Entrambi gli ioni sono però positivi, e allora c’è una differenza di potenziale chimico, in termini di concentrazione tra interno ed esterno che tende a generare un flusso in modo da riequilibrare le concentrazioni, ma abbiamo detto che ciò non avviene. Per quanto riguarda il cloro, Cl-, abbiamo una concentrazione assimilabile a quella del sodio, nel senso che è concentrata molto maggiormente all’esterno della membrana che all’interno. Questa particolare condizione dà luogo all’esistenza di energia potenziale di tipo chimico. Se null’altro intervenisse, tutto ciò si annullerebbe. Com’è possibile mantenere questa differenza di concentrazione? Semplicemente mettendo un muro tra i due comparti: in questo modo non ci sarebbe possibilità di diffusione, ma le cose non vanno così, perché esiste una diffusività di questi ioni attraverso la membrana, diversa e specifica per ognuno di questi ioni. Quindi a questo punto, se non accadesse nient’altro, la situazione si equilibrerebbe; evidentemente c’è un altro tipo di energia che lo impedisce: in questo modo si ha una situazione di equilibrio. Se ci sono diverse componenti energetiche che agiscono su un sistema, e questo sistema mantiene una certa condizione, significa che c’è equilibrio; in questo caso le componenti energetiche in gioco sono l’energia elettrica, che noi riteniamo esista data l’osservazione della ddp di membrana di -90 mV, che dà quindi luogo ad un gradiente chimico, ed il gradiente elettrico. Allora la coesistenza di questi due gradienti fa si che questi squilibri (elettrico e chimico), continuino ad esistere. Naturalmente parliamo di un equilibrio dinamico, in quanto il flusso netto di ogni specie ionica è pari a zero. Tutto questo serve a generare quella condizione potenziale che se necessario si trasforma in spike, che si trasmettono e danno l’informazione (che si può tradurre in contrazione muscolare, o in altre attività coordinate dal sistema nervoso). Abbiamo quindi una interazione tra fenomeni di tipo chimico e fenomeni di tipo fisico che danno luogo al fenomeno di separazione di cariche elettriche a cavallo della membrana. E’ evidente, osservando l’equazione di Nernst, che nel sistema c’è una relazione tra la variabile di tipo elettrico e di tipo chimico, ossia l’equazione lega queste due variabili, a meno di una costante. E’ altresì evidente che il variare del rapporto tra le concentrazioni ioniche va ad influire su tale relazione: ad esempio, esistono delle patologie che portano alla mancata escrezione per via renale del potassio in eccesso, che inevitabilmente, non potendo essere espulso, torna nel liquido extracellulare; si va così incontro ad una situazione di iperpotassemia. ∆ =− × ln ( [ ] ) [ ] Osservando la relazione ricavata dall’equazione di Nernst, inevitabilmente si giunge alla conclusione che alla mancata espulsione del potassio in eccesso corrisponde un aumento del denominatore dell’argomento del logaritmo, dunque si riduce il rapporto, e quindi possiamo avere una situazione in cui il potenziale di membrana non è -90mV, ma ad esempio -80 mV; tutto ciò crea problemi fisiologici al funzionamento dei muscoli, ma soprattutto del cuore: si può andare incontro a tachicardia parossistica o altri problemi, anche legati al pompaggio di sangue. Tutto questo discorso mostra quanto sia importante mantenere la situazione di equilibrio. Avevamo visto inoltre, ragionando ione per ione al fine di trovare il responsabile di quel -90mV che si misura a livello transmembranale, che potevamo escludere il sodio, dato che stando alle sue concentrazioni, il potenziale del campo dovrebbe essere +66mV; facendo una prima prova col cloro, si trovava un valore di ddp esattamente uguale a quello misurato: era lecito dunque pensare che in quel processo fosse coinvolto esclusivamente il cloro; in realtà, aumentando in vitro la concentrazione esterna del cloro, abbiamo successivamente visto che il valore di ddp misurato non cambia, poiché anche la concentrazione esterna di tale ione si rimetteva nella situazione di partenza: da tutto ciò, è lecito pensare che anche il potenziale d’equilibrio del cloro è pilotato da qualcos’altro. Infine, andando a misurare il valore legato al potassio, troviamo un riscontro lievemente più elevato di quello 13 misurato: ci si chiede quindi come mai, se è il potassio il responsabile del potenziale di membrana, il valore non sia uguale a -90mV; andiamo quindi a manovrare la concentrazione esterna dello ione, troviamo che il potenziale d’equilibrio si muove, in maniera direttamente proporzionale con la variazione del rapporto di concentrazione. Si notava che andando a misurare il valore del potenziale di membrana per una concentrazione esterna di potassio pari a 20 mmol/l, la ddp riscontrata era effettivamente corrispondente a quella calcolata con l’equazione di Nernst, ma che diminuendo la concentrazione esterna, il valore misurato e quello stimato coincidono sino ad un certo punto. E’ evidente che per valori di concentrazione esterna del potassio inferiori ai 10 mmol/l, in cui il potenziale di membrana e quello dello ione è di circa -60/65 mV, interviene un altro ione a rallentare la depolarizzazione, e il sospetto cade sullo ione sodio. Ci si aspetta dunque che il potenziale del sistema vada a +66 mV, ma ciò non accade. Man mano che la concentrazione esterna del potassio diminuisce, aumenta la conduttanza al sodio, e quindi la relativa corrente, che rallenta la depolarizzazione e causa quella differenza tra valori misurati e valori calcolati che si vede nel grafico. La depolarizzazione si ferma quindi intorno a -90 mV, poiché esistono dei fenomeni metabolici di membrana che, sotto spesa energetica esterna a questo sistema biofisico di membrana, prendono gli ioni sodio e li portano fuori, contro gradiente. Nel frattempo il potassio era uscito per equilibrare l’ingresso del sodio. Questa pompa ATPasica è detta pompa sodio-potassio, e si basa sulla possibilità di trasformare substrati energetici derivati dall’alimentazione da parte dell’organismo. Tale pompa fa parte del metabolismo basilare dell’organismo, ossia quell’insieme di processi minimi necessari per sopravvivere, ossia atti a mantenere la termoregolazione e all’attuazione di altri processi che vedremo. Tutto questo ci costa mediamente, tra le 1500 e le 2000 kcal al giorno, solo per mantenere un corpo fermo e permettergli di respirare. Un altro aspetto che abbiamo osservato è che iniettando attraverso la membrana delle cariche elettriche , si ha una modulazione del potenziale di membrana: a seconda del segno di tali cariche elettriche si ha un aumento o una diminuzione della ddp transmembranale, ossia si va incontro a iperpolarizzazione (iniettando cariche negative) o depolarizzazione (iniettando cariche positive). In entrambi i casi, se si interrompe l’immissione di cariche, dopo un certo tempo il sistema ristabilisce il potenziale standard. Aumentando man mano il numero delle cariche immesse (negative o positive) i rispettivi fenomeni crescono sino a che, per un certo valore di depolarizzazione, il fenomeno non è più lineare rispetto a quello di iperpolarizzazione, ma si amplifica (vedere grafici e spiegazioni alle pagine 9-10). Quello che succede è un aumento della conduttanza al sodio voltaggio – dipendente. La depolarizzazione quindi aumenta con l’ingresso di ioni sodio, e non si ferma se non al cosiddetto valore soglia per lo scatenamento del potenziale d’azione e non si ha più bisogno di iniezione di cariche positive per aumentare la depolarizzazione, poiché abbiamo innescato il ciclo di Hodgking, dove la conduttanza al sodio aumenta spontaneamente, fino a che, teoricamente, la cellula raggiunge un nuovo punto di stabilità che sarebbe il potenziale d’equilibrio del sodio, cioè +66 mV. Questo valore non viene però raggiunto: la depolarizzazione si ferma a +10 mV a causa 14 dell’innescamento di un altro fenomeno voltaggio – dipendente. Man mano che la cellula si depolarizza, i canali al sodio, che prima si erano aperti, tendono a chiudersi. Tutto questo viene spiegato con la teoria dei cancelli (pagine 10-11). Dopo la depolarizzazione si ha una ripolarizzazione, e qui il sodio non è responsabile, perché non entra ne esce. Non consideriamo il discorso delle pompe, perché sono troppo lente per intervenire e ripristinare tutto, ma intervengono dopo che il fenomeno di eccitazione è finito. La ripolarizzazione è dunque dovuta ad un altro fatto: consideriamo lo ione potassio. La corrente potassio è uguale a: IK=GK(Em-EK) Dove GK,Em ed EK sono, rispettivamente, la conduttanza al potassio, il potenziale di membrana e il potenziale d’equilibrio del potassio. In condizioni di riposo, l’espressione (Em-EK) vale(-90-(-96)), ossia +6 mV, che è una spinta debole. Quando invece ritrovo il potenziale di membrana a +30 mV, quell’espressione assume il valore di +126 mV, che è una spinta molto maggiore della precedente. Si consideri inoltre che in quelle condizioni si ha un aumento della conduttanza al potassio. Sotto l’effetto di questa spinta, cariche positive abbandonano l’interno della cellula, con la conseguente ripolarizzazione, alla quale segue la cosiddetta condizione di ripolarizzazione postuma. Questo ciclo continua a ripetersi, come mostrato nel seguente grafico: Si vede chiaramente come il potenziale d’azione si propaghi come una corrente, ma senza decremento di ampiezza; si ricordi inoltre che il PdA è un transiente, che ha durata minima di 1ms (nel sistema nervoso), fino a 15-20 ms a livello muscolare. La cellula può rieccitarsi, quindi produrre un nuovo potenziale d’azione, non prima che sia passato un tempo pari al tempo della depolarizzazione più 1/3, ½ del tempo di ripolarizzazione. Questo periodo è detto periodo refrattario assoluto, oltre il quale è possibile rieccitare la cellula, ma è necessaria stavolta molta più energia di stimolo di quanta ce ne voglia quando la cellula si trova a riposo; inoltre il potenziale che viene generato è più lento e più basso. Man mano che i nuovi stimoli si allontanano dal periodo refrattario diventano più ampi e rapidi. Come avviene la trasmissione di informazione senza decremento di ampiezza? Se noi andiamo a vedere cosa succede in una struttura eccitabile, con una morfologia allungata, come ad esempio il nervo, e in un punto del nervo si ha una depolarizzazione, si scatena il potenziale d’azione, e notiamo che il segnale si propaga senza alcuna variazione di ampiezza. 15 Consideriamo quest’immagine come un tratto di assone, o se si preferisce anche di membrana muscolare. Abbiamo la parte esterna (le sezioni B) con un addensamento di cariche positive, e la parte interna A con un addensamento di cariche negative: questa è una struttura polarizzata. Nella sezione A è avvenuta una depolarizzazione, c’è stato cioè uno stimolo che ha ridotto le cariche negative interne, ha ridotto la ddp che ha raggiunto la soglia, è aumentata la conduttanza al sodio, si è innescato il ciclo di Hodgking, è entrato sodio, si è avuta l’inversione del potenziale e la generazione del potenziale d’azione. Nelle sezioni adiacenti tutto questo non è avvenuto, quindi sono polarizzate normalmente; tuttavia, la presenza di ioni positivi in questa sezione A provoca i cosiddetti rigetti di corrente, esterni e anche interni, ma noi vedremo quelli interni. Queste cariche positive che sono entrate, gli ioni sodio, si spostano verso cariche negative adiacenti da una parte e dall’altra, e vanno a neutralizzare parte delle cariche negative (Figura 1): non è altro che una depolarizzazione. Quindi le aree B, depolarizzate, raggiungono la soglia e producono a loro volta potenziale d’azione, identico a quello precedente; il periodo refrattario assoluto impedisce una depolarizzazione immediata della zona A, che si era appena depolarizzata e che ora si sta ripolarizzando: in questo modo è evidente che parliamo di un fenomeno bilaterale centrifugo, che si innesca nella zona A e si propaga via via (Figura 2). Figura 1: Gli ioni sodio neutralizzano parzialmente le aree B e innescano la depolarizzazione Figura 2: Il potenziale d'azione si propaga. Questo spiega perché non vi è decremento di ampiezza, poiché ogni volta si genera un nuovo potenziale d’azione. Un altro aspetto importante del fenomeno è la velocità di conduzione del potenziale d’azione: infatti questo aspetto è un indice dell’efficacia nella trasmissione dell’informazione. In linea di massima dipende dalla legge di Ohm, poiché le variabili in gioco sono sezione e lunghezza del conduttore, ma bisogna anche considerare l’istologia della struttura che 16 andiamo a considerare. Ci riferiremo a cellule nervose, quindi agli assoni, che costituiscono la stragrande maggioranza dei nostri tessuti di conduzione. Dall’istologia è noto che esistono due tipi di assone, ossia dotati o meno di guaina mielinica. La guaina mielinica è una struttura di tipo lipidico, fortemente isolante per quanto riguarda la trasmissione transmembranale di qualunque informazione; risulta però che lungo l‘assone mielinico esistano delle soluzioni di continuità, dette Nodi di Ranvier, dove invece è possibile la migrazione di ioni. Negli altri tipi di cellule nervose, che sono più sottili, non esiste la guaina mielinica, ed infatti sono dette cellule mieliniche, e in queste la trasmissione è possibile sezione per sezione. Abbiamo che la velocità di trasmissione nelle cellule nervose mieliniche è maggiore rispetto a quella delle cellule amieliniche, poiché in queste ultime la trasmissione dell’informazione deve avvenire per tutta la lunghezza del conduttore, mentre nelle cellule mieliniche, la trasmissione del sodio avviene solo a livello dei nodi di Ranvier, che si sposta in modo rapidissimo da un nodo all’altro senza dover depolarizzare tutta la cellula nella sua lunghezza, come mostra la seguente schematizzazione Figura 3: Propagazione del potenziale d'azione nelle cellule amieliniche. Figura 4: Propagazione del potenziale d'azione nelle cellule mieliniche. Matematicamente, abbiamo che VM>VA, poiché VM è legato in maniera lineare al diametro della cellula dalla seguente relazione lineare: VM=ø [µ]×6 [m/s] Si hanno quindi 6 metri al secondo per ogni micron di diametro di sezione, per cui se consideriamo il caso di un nervo grosso come quello che manda le informazioni dai recettori muscolari del tricipite della sura, che ha una fibra afferente a livello del midollo spinale di 20µ, si ha una velocità di 120 m/s. Al contrario le cellule mieliniche hanno invece una relazione del tipo; VA=√ø [m/s] La velocità di trasmissione nelle cellule mieliniche è quindi pari alla radice quadrata del diametro della sezione, e non hanno dunque la funzione di rapida trasmissione, come vedremo. Come facciamo a misurare la velocità di trasmissione? Prendiamo come esempio una gamba: attraverso uno strumento chiamato stimolatore, che produce correnti elettriche adatte e non dannose, iniettiamo le famose cariche elettriche che abbiamo visto prima in vitro, e posizioniamo un voltmetro in un altro punto della gamba. Si misura la distanza tra il punto d’applicazione dello 17 stimolatore e il voltmetro, si fa partire lo stimolo, che dopo un certo periodo arriva e viene rilevato sul voltmetro. Allora sapendo spazio e tempo, conosciamo la velocità. Questa procedura è detta elettroneurografia. Fisiologia del sistema nervoso. Abbiamo acquisito le basi del funzionamento dei sistemi di trasmissione del nostro organismo, ora vedremo più nello specifico le strutture e le varie funzioni. Dall’anatomia è ben nota la distinzione tra sistema nervoso centrale e periferico: il primo è costituito dal cervello e dal midollo spinale, il secondo da tutte le altre terminazioni nervose. Si può anche parlare di sistema nervoso afferente e sistema nervoso efferente: abbiamo informazioni che escono e si diramano tramite effettori, e informazioni che da sensori o recettori, dalla periferia, entrano nel midollo spinale. Tutto questo sistema si basa sia sulla modulazione di frequenza che abbiamo appena introdotto, sia sulla possibilità di poter modulare ulteriormente questa frequenza tramite filtri di tipo chimico. Si parla delle sinapsi neurone - neurone. Dall’anatomia si è appreso che il neurone ha una dimensione finita che, per quanto lunga, termina con un bottone, il bottone o membrana presinaptica. Ogni neurone è connesso con altri neuroni, ma c’è una soluzione di continuità tra un neurone e l’altro, una fessura, il cosiddetto spazio sinaptico. I neuroni non sono quindi anatomicamente attaccati, ma si ha una continuità di funzionamento. Se si ha lo scatenamento del potenziale d’azione in un neurone, come fa a propagarsi agli altri neuroni ad esso connessi? Accade che nel neurone si ha la sintetizzazione di un certo tipo di sostanza, genericamente detto mediatore chimico. Nel nostro caso specifico, ad esempio, ci stiamo riferendo al mediatore chimico acetilcolina, che viene sintetizzato in un certo tipo di neuroni in zona presinaptica: ci sono sistemi enzimatici, mitocondri, che sintetizzano questa molecola, che una volta prodotta viene conservata in vescicole. Quando il potenziale d’azione giunge alla membrana presinaptica, si nota un avvicinamento di queste vescicole alla membrana, seguita da una fusione delle vescicole stesse con la membrana, dall’apertura della membrana e dall’estrusione, nello spazio intersinaptico, dell’acetilcolina. Tutto questo può avvenire solo con la presenza dello ione calcio Ca++, il quale, in condizione di depolarizzazione entra nella membrana presinaptica ed è il responsabile dell’apertura della membrana. La quantità di mediatore chimico che viene estrusa è di tipo quantico, ossia non vengono liberate una o due molecole, ma una o due vescicole, e dipende dall’ampiezza e dalla frequenza del potenziale d’azione. Abbiamo quindi una trasduzione di energia, dal tipo elettrico al tipo chimico, a livello presinaptico. Questa acetilcolina va a disperdersi un po’ dappertutto, ma una certa quantità va a finire sulla membrana postsinaptica, cioè sull’altro neurone: su questa membrana ci sono delle formazioni chimiche, detti recettori di membrana per l’acetilcolina, che sono delle molecole con un’altissima affinità con l’acetilcolina. Se una molecola di acetilcolina si avvicina ad un recettore, viene catturata, e si forma un complesso chimico recettoremediatore, che ha la funzione di aprire i famosi cancelli al sodio e quindi di innescare il ciclo di Hodgking nella membrana postsinaptica. In questo modo si ripete questa serie di operazioni che portano alla propagazione del potenziale d’azione. Applicando tutto questo alla generazione di movimento muscolare, c’è bisogno di un meccanismo che permetta di scaricare subito la struttura dall’acetilcolina, e che quindi permetta la ripolarizzazione per consentire una nuova depolarizzazione, in modo che si sommino gli effetti di contrazione uno dietro l’altro. Ci sono delle sostanze, nello spazio intersinaptico, dette colinesterasi, che sono enzimi che attaccano l’acetilcolina non permettendone il riconoscimento da parte dei recettori, ed in questo modo avviene la ripolarizzazione e si ripete il ciclo, sino ad avere una serie di contrazioni muscolari. Esistono sostanze dette inibitori delle colinesterasi: in questo modo l’acetilcolina non viene mai inibita e si ha la paralisi spastica (mentre in caso di inibizione totale dell’acetilcolina, come col curaro, si ha paralisi flaccida), 18 ossia il muscolo rimane contratto. Gran parte degli insetticidi, ad esempio, sono inibitori delle colinesterasi, ed ecco perché sono molto pericolosi. La giunzione neuro-muscolare. Possiamo ora vedere un tipo di sinapsi che ci interessa in particolare, che è la sinapsi neuro – muscolare, la giunzione nervo – muscolo. Nella prima immagine vediamo, in maniera molto schematizzata, tutto ciò che va a collegarsi alla terminazione nervosa amielinica che si interfaccia con la membrana muscolare; nell’immagine a destra si vedono chiaramente le vescicole contenenti l’acetilcolina, la fessura sinaptica, i recettori postsinaptici e tutto il resto della struttura. All’interno della terminazione presinaptica colinergica si attua la sintesi dell’acetilcolina. Il potenziale d’azione presinaptico induce la migrazione delle vescicole contenenti acetilcolina verso la membrana presinaptica. La depolarizzazione della membrana presinaptica, in presenza di Ca++, induce l’estrusione del mediatore. L’acetilcolina dà luogo ad una depolarizzazione chiamato potenziale di placca. Il legame mediatore-recettore postsinaptico è antagonizzato dalle colinesterasi, per consentire la ripetitività dell’evento potenziale d’azione. I motoneuroni. Ci stiamo avvicinando, pian piano, a parlare di quel meccanismo chiamato riflesso spinale. I riflessi rappresentano dei fenomeni o dei meccanismi per cui si ha lo scatenamento di un potenziale d’azione, che percorrendo il nervo afferente giunge ai muscoli, per poi tornare per vie efferenti direttamente al midollo spinale, senza passare per l’encefalo: si ha quindi un fenomeno totalmente spinale. La caratteristica dei riflessi è l’avere un comportamento stereotipato. Sono molto importanti i riflessi spinali legati al movimento e alla locomozione: il vantaggio di questo sistema è che ci consente di effettuare diverse azioni senza il bisogno di doverle pensare. Ad esempio, io sto in piedi, e non è un evento così immediato come si potrebbe pensare, poiché va contro la legge di gravità, che imporrebbe il piegamento delle ginocchia e la caduta. Non cado perché ci sono delle strutture, i muscoli antigravitari (quadricipite femorale, glutei), che vengono attivati, producono forza, che stende l’articolazione del ginocchio. Per quanto il midollo spinale sia organizzato come detto, molti movimenti sono influenzati dalla cosiddetta encefalizzazione, ossia, per quanto la loro realizzazione sia del tutto autonoma dall’encefalo, sono coordinati da un “progetto” che noi abbiamo in mente, come il mantenimento della postura, che ha origine riflessa, come abbiamo appena visto. 19 Il riflesso da stiramento viene evocato dall'allungamento del muscolo e provoca una risposta contrattile che tende e a ridurre la lunghezza del muscolo stesso. La risposta presenta due componenti, una fasica di breve durata evocata dal rapido cambiamento di lunghezza ed una tonica indotta anche da lente variazioni del muscolo. L'attività riflessa non riguarda solo il muscolo stirato che si contrae ma anche il muscolo antagonista che si rilascia (fenomeno detto innervazione reciproca). Questa risposta avviene con una latenza molto bassa che è spiegabile solo attraverso la presenza di una sinapsi diretta tra fibra afferente e neurone motore (riflesso monosinaptico) ed è proporzionale all'intensità dello stiramento ed alla velocità con cui viene provocata. I riflessi spinali, che costituiscono il primo livello dell'organizzazione motoria, si basano sulla risposta diretta a stimoli recettoriali. I recettori specializzati del muscolo sono i fusi neuromuscolari e gli organi muscolo tendinei del Golgi. Figura 5 : ll riflesso monosinaptico Il riflesso monosinaptico. Riferendoci alla figura 5, parliamo ora di questo riflesso, che sul piano anatomico è il più semplice, consta di pochi elementi: midollo spinale, muscolo scheletrico, fuso neuromuscolare, fibra afferente Ia e motoneurone α. Le fibre Ia hanno diametro di circa 16-20 µ. Proviamo a fare un ragionamento: consideriamo il quadricipite, che ha lunghezza di circa mezzo metro: quanto tempo impiega il riflesso per attivarsi?Facciamo qualche calcolo: se avessimo un metro di una struttura che viene attraversata da un informazione a 120 m/s, questa informazione percorrerebbe la struttura in 10 ms; aggiungiamo i tempi sinaptici, ossia il tempo che il mediatore impiega a trasferirsi dalla membrana presinaptica alla postsinaptica (parliamo di 1, massimo 2 ms); c’è poi il tempo di trasferimento dalla giunzione neuromuscolare alla membrana, anch’esso della durata di pochi millisecondi, e soprattutto c’è il tempo di eccitazione e contrazione del muscolo, che può richiedere anche 50, 100 ms. Quindi in totale parliamo di circa 100, 150 ms: sono dei tempi che noi, con la volontà, non riusciremmo ad attuare. Abbiamo qui uno schema, sul posizionamento dei recettori: abbiamo le fibrille muscolari, dette anche fibre extrafusali, e abbiamo il recettore (intrafusal fiber), messo in parallelo con le fibre: notiamo come sia più affusolato sulle estremità e come la sua struttura sia di diametro maggiore nella parte centrale. La caratteristica istologica del recettore è che esso è costituito strutturalmente in maniera analoga alle fibre muscolari: è anch’esso formato da sarcomeri, al suo interno ha delle sottilissime fibre muscolari, ed è quindi capace di contrarsi. Un esempio tipico del funzionamento dei riflessi è l’evocazione del riflesso patellare: si cerca la nicchia sotto la rotula, dove c’è un tendine, e si dà un colpetto secco e veloce. Tramite questo colpetto, non si fa altro che modificare la lunghezza del tendine del quadricipite, il quadricipite si allunga, stira i fusi neuromuscolari, si innesca la risposta riflessa, si ha la contrazione del muscolo estensore, e si ha l’estensione dell’articolazione del 20 ginocchio. Chiaramente il colpetto dura poco, la contrazione finisce e la gravità riporta l’articolazione nella posizione precedente. Tutto questo serve al neurologo per sapere se il sistema sta funzionando bene, ma anche a stabilire se si hanno dei danni muscolari. In sequenza si ha: Abbiamo la struttura formata da tendine, rotula e quadricipite, midollo spinale,motoneurone α, fibra Ia, che nasce dai fusi neuromuscolari, entra e chiude il riflesso monosinaptico. 21 Ammettiamo che l0 sia la lunghezza di riposo del muscolo quadricipite e dei suoi fusi neuromuscolari. Se vado ad osservare l’attività di scarica dei nervi afferenti Ia ed efferenti α motoneuroni, vedo che c’è un certo tono: il nervo Ia trasferisce continuamente potenziale d’azione. Significa che il fuso neuro muscolare è continuamente disteso rispetto alla sua posizione di riposo meccanico. Per via riflessa, se c’è attività nella fibra Ia, ce n’è anche nel motoneurone α, nella condizione di preeccitazione. Opero la deformazione del tendine col martelletto: ho prodotto un allungamento del sistema e del suo fuso neuro muscolare. Si osserva una aumento della frequenza di scarica del potenziale d’azione a livello di fibra afferente e, con un certo delay, o ritardo, si trasmette al motoneurone α: il risultato è che il sistema si accorcia; successivamente, finito lo stimolo di stiramento, il muscolo si inflaccidisce perché non arrivano più impulsi al motoneurone α e la gamba torna in posizione di riposo. La prossima volta vedremo che questo sistema di meccanismi ci consente di stare in piedi. Figura 6: Schema del fuso neuromuscolare Il fuso neuromuscolare è composto, al suo interno, da 5, 6 fibrille, ed è circondato da guaina connettivale. Queste fibre muscolari sono di due tipi: quelle disegnate in rosso dette a borsa di nuclei, dove i nuclei sono concentrati al centro, e quelle blu dette a catene di nuclei, dove i nuclei sono appunto disposti uno dietro l’altro, e sono un po’ più corte; questi due tipi di fibre hanno funzioni diverse. Sia le fibre a borsa di nucleo che quelle a catena di nucleo sono innervate in maniera complessa: Figura 7 C’è un innervazione afferente al midollo spinale, rappresentata dalle due terminazioni anulo-spirali in figura, che nasce da queste fibre e va verso il midollo spinale, ma ci sono anche delle innervazioni motorie: come tutte le fibre muscolari, anche i fusi sono innervati da motoneuroni efferenti dal midollo spinale (β e γ), e quindi se questi motoneuroni vengono attivati, i loro sarcomeri tendono a contrarsi, e questo è importantissimo perché ci consente di effettuare movimenti precisi: sono alla 22 base del fatto che noi decidiamo di prendere un determinato oggetto, come una penna, pilotando semplicemente il movimento della punta delle dita, senza pensare a dover muovere tutte le altre articolazioni. Lezione del 05/12/2008 Riepilogo della lezione precedente. Facendo riferimento alla figura 7, riprendiamo il discorso relativo ai fusi neuromuscolari, strutture che contengono strutture muscolari connesse a terminazioni nervose: le fibre del gruppo Ia, che escono, cioè afferenti al midollo spinale, che nascono dalle terminazioni anulo-spirali , strutture situate a livello equatoriale del fuso neuromuscolare; le Ia possono avere diametro sino a 20 µ. Ci sono poi le fibre del gruppo II , posizionate in modo più polare,più sottili delle precedenti (circà metà del diametro) e quindi più lente. Abbiamo detto che questi sono i due tipi di fibre afferenti, che portano informazioni al midollo spinale che nascono dall’eventuale deformazione meccanica delle fibre intrafusali, che possono essere o stirate da forze esterne, o contratte perché il muscolo si sta contraendo. L’informazione nasce in caso di stiramento, ed infatti questi recettori sono detti recettori da stiramento. Dinamica dello stiramento del fuso neuromuscolare. Figura 8: Modello di fuso neuromuscolare Tutto questo, sul piano meccanico, ha un senso ben preciso: se prendiamo un muscolo scheletrico, ad esempio un bicipite, col relativo fuso neuromuscolare, ogni variazione di lunghezza che il muscolo subisce, si riscontra anche sul fuso neuromuscolare, data la loro connessione in parallelo meccanico. Questo significa che se si applica una forza F a questo sistema, sottoponendolo a deformazione di lunghezza, dalla terminazione anulo-spirale arriva un’informazione sottoforma di frequenza di potenziali d’azione al midollo spinale, attraverso le corna dorsali o posteriori, informazione che è legata linearmente o proporzionalmente alla variazione di lunghezza subita dal muscolo. Abbiamo quindi un sensore di lunghezza del muscolo. Questa informazione, una volta che entra nel midollo spinale, attiva un riflesso che torna indietro tramite il motoneurone α, situato nelle corna ventrali del midollo spinale: parliamo di sostanza grigia. Il motoneurone α esce dal midollo spinale, e l’assone va ad innestarsi col fuso neuromuscolare corrispondente . In questo modo abbiamo un circuito chiuso, il cosiddetto arco riflesso monosinaptico. Il significato funzionale di questo riflesso è che se io stiro il muscolo, si allunga la terminazione anulo-spirale, in questo modo aumenta la frequenza della scarica di potenziali d’azione della fibra afferente Ia, entra nel midollo spinale, passa nel motoneurone α, ne aumenta la depolarizzazione e genera una scarica di potenziali d’azione che arriva alla placca o giunzione neuromuscolare; si ha poi emissione di acetilcolina, col conseguente legame mediatore-recettore, aumento della conduttanza al sodio, depolarizzazione della membrana muscolare, estrusione di calcio dal reticolo sarco-plasmatico verso il sarcomero, attivazione della contrazione, quindi accorciamento del muscolo. Questo meccanismo è alla base del controllo della postura, che altro non è se non la posizione relativa delle articolazioni istante per istante. Se qualcuno o qualcosa che non sia la nostra volontà tenta di distogliere l’articolazione da quella 23 postura programmata, questo riflesso lo impedisce. Naturalmente questa sembrerebbe una cosa inutile, perché altrimenti noi non potremmo muoverci ne compiere nessuna azione; evidentemente il sistema nervoso è molto articolato e plastico, per cui ci sono dei meccanismi che modulano le informazioni di periferia sulla base di ulteriori comandi centrali, per cui può essere inibita parzialmente o totalmente questa situazione appena descritta, attraverso interferenze nello spazio sinaptico. Si tenga conto che su ogni motoneurone ci sono tra le 1000 e le 3000 terminazioni sinaptiche di altri neuroni il risultato è un’integrazione spazio temporale di tutte queste informazioni, convergenti sul motoneurone. Abbiamo già detto che possiamo adottare un modello meccanico analogo al fuso neuromuscolare, sul piano delle caratteristiche materiali e di deformazione all’applicazione di forze. Sappiamo benissimo che i corpi solidi possiedono o meno caratteristiche di deformazione elastica, o di viscoelasticità. Possiamo ragionevolmente pensare, perché ce lo dimostra l’evidenza sperimentale, che la parte equatoriale o centrale della fibra intrafusale abbia caratteristiche assimilabili ad un corpo elastico: questo significa che se applico una forza di trazione al corpo centrale, il sistema si deforma, si allunga, istantaneamente, in maniera proporzionale alla forza applicata ed alla sua rigidità, ma se la forza viene tolta il sistema recupera istantaneamente la posizione originale. Le zone polari, le estremità, dove non c’è la terminazione anulo-spirale ma ci sono i sarcomeri, si comportano come corpi con caratteristiche di viscosità, per cui noi le assimiliamo ad un sistema come un cilindro, contenente un fluido, a cui è applicato uno stantuffo. Sappiamo che una struttura viscosa, sottoposta a forza, si deforma in direzione della forza, ma tale deformazione non è istantanea, e al cessare della forza non recupera la posizione originale. Allora noi mettiamo insieme queste due caratteristiche strutturali, e abbiamo un corpo elastico al centro e due strutture viscose ai lati. Ammettiamo di stirare il muscolo, e quindi il fuso neuromuscolare: succede che quando applico un gradino di forza (in nero in figura 9) al sistema, esso si allunga. Figura 9 Vediamo bene dal grafico che la parte centrale (in rosso) si deforma istantaneamente con l’applicazione della forza. Per ciò che interessa a noi, accade che la terminazione anulo-spirale viene meccanicamente deformata, temporalmente in maniera coerente con la forza applicata; questa deformazione implica un aumento della conduttanza al sodio nella terminazione nervosa, si innesca un ciclo di Hodgking e quindi partono potenziali d’azione, che attivano il riflesso. Se io però applico 24 una forza e la mantengo nel tempo, succede che l’energia elastica accumulata viene recuperata a spese delle strutture viscose, che vengono stirate. C’è quindi una fase successiva in cui si ha l’annullamento della deformazione della parte centrale, compensata da un progressivo allungamento delle parti polari, perché la deformazione totale deve essere mantenuta. Ma allora l’informazione che arriva non è costante: si ha un picco di deformazione, e quindi di depolarizzazione, e poi una riduzione; questo picco è tanto alto quanto è veloce l’applicazione della forza, e questo è molto importante per il tipo di informazione che dà questo recettore. Si considera a questo punto un esperimento di tanti anni fa, condotto su preparati animali. E’ possibile isolare, con delle tecniche di microchirurgia, dei fusi muscolari animali, esattamente presi dal dito lungo della zampa posteriore della rana, si estrae il muscolo estensore, lo si spella e si ottiene il fuso neuromuscolare con le sue terminazioni nervose. Questo si fa all’interno di una micro vaschetta contenente un liquido nutritizio; si fissa un capo del fuso ad una parete della vaschetta, e l’altro capo viene fissato ad un asse, in questo caso si tratta di un pezzetto di lenza di nylon, a sua volta legato ad un motorino con un asse che può oscillare; questo motore è controllato elettronicamente in modo da poter monitorare l’andamento della velocità angolare nel tempo. Abbiamo inoltre collegato un troncone della terminazione Ia ad un filino di platino, collegato ad un oscilloscopio, mentre con un altro oscilloscopio controllo il troncone di terminazione di tipo II. Figura 10 25 Si farà ora riferimento alla figura 10. Si genera un impulso meccanico, che ha generato la variazione di 1 mm della lunghezza del sistema, e lo ha fatto il 40 ms. Si sostiene questo allungamento per un certo periodo e poi lo si fa cessare. Andiamo a valutare l’andamento della scarica del potenziale d’azione nelle due terminazioni collegate agli oscilloscopi: si nota chiaramente che all’inizio dell’allungamento, la frequenza di scarica nella terminazione Ia è aumentata moltissimo rispetto alla condizione di riposo. Una volta raggiunto il nuovo valore di lunghezza e la mantengo tale, questa frequenza di scarica si riduce: è sempre superiore alla frequenza a riposo, ma è scemata rispetto alla precedente, che era conseguente all’aumento dinamico della lunghezza del fuso. Abbiamo quindi due informazioni, una relativa alla fase dinamica, ossia che riguarda la fase di allungamento, e una relativa alla fase statica, in cui la lunghezza del fuso non varia, ma resta costante. Se vado a guardare le fibre del gruppo II c’è, rispetto alla condizione precedente, un aumento della frequenza che però non è distinguibile tra fase dinamica e fase statica. Rimettiamo a riposo la fibra e ripetiamo l’esperimento, stavolta raddoppiando l’allungamento (figura 10, colonna 2), mantenendo la stessa velocità di allungamento: arriveremo a 2 mm in 80 ms. Andando a valutare l’andamento della frequenza di scarica, la fibra Ia aumenta la sua frequenza di scarica durante l’allungamento, e anche la frequenza di scarica in fase statica ha subito un raddoppiamento, proporzionalmente al raddoppiamento dell’allungamento che abbiamo imposto al fuso; lo stesso si può dire per la fibra del gruppo II, che aumenta la frequenza ma che, come nel caso precedente, non permette una distinzione tra fase dinamica e fase statica. Possiamo quindi dire che, facendo un diagramma della relazione tra la variazione di lunghezza e la variazione di frequenza, troviamo una retta. Rimettiamo a riposo il fuso e, come mostrato nella colonna 3, ripetiamo l’allungamento di 1 mm, stavolta dimezzando il tempo di allungamento, ossia raddoppiando la velocità di stiramento: notiamo, nel diagramma delle frequenze, che la variazione della frequenza di scarica nella fibra Ia è aumentata notevolmente rispetto alla condizione di riposo, mentre nelle fibre del gruppo II si ha lo stesso comportamento che si è osservato nel primo caso. Quest’ultima osservazione ci dà un’informazione di tipo meccanico: la parte anulo-spirale ci dice la velocità con cui il muscolo è stato stirato, mentre dalla parte statica stabiliamo a che allungamento ci siamo fermati. A cosa serve quest’informazione? Torniamo al riflesso: ricordiamo che il riflesso ci deve impedire di cadere, ad esempio; se un peso grava sulle mie spalle, maggiore è il peso, maggiore sarà la velocità del riflesso e maggiore sarà l’allungamento. La risposta dinamica del sistema è proporzionale, e quindi avremo un aumento della frequenza di scarica di rientro del riflesso tanto alto quanto sarà maggiore la velocità di stiramento, avendo in questo modo una risposta abbastanza rapida per il recupero della posizione. Andiamo ora a valutare in modo più completo il sistema, considerando, oltre alle fibre Ia e II, le fibre efferenti, gli assoni dei motoneuroni. Figura 11 26 Arriva dell’informazione nei motoneuroni, si stimola la produzione di acetilcolina e si ha la generazione di forze di contrazione, che dovrebbe consentire l’avvicinamento dei capi tendinei, ma ciò non accade, perché chiaramente non può generare forza sufficiente. Allora è arrivata un’informazione dai motoneuroni γ, si è avuta una contrazione dei sarcomeri, e questa forza si è scaricata tramite lo stiramento della parte equatoriale: stiamo ugualmente deformando la terminazione anulo-spirale. Ecco cosi spiegato il controllo riflesso dei nostri movimenti, in cui noi focalizziamo l’attenzione solo sul movimento finale, sull’obiettivo. Per provare tutto ciò, ci si riferisce all’esperimento precedente e alla figura 11. Abbiamo la stessa situazione precedente, con un motorino, le fibre Ia e II, e stavolta abbiamo anche le fibre efferenti γ, che sono di due tipi: γS e γD, gamma statico e gamma dinamico. Ripetiamo l’esperimento di prima, produco un allungamento del fuso neuromuscolare a velocità costante, mantengo lo stiramento per un certo periodo e poi faccio recuperare alla struttura la sua lunghezza originale. Accadrà ciò che abbiamo già visto: nella fibra Ia ci sarà un aumento della frequenza di scarica in fase dinamica, un aumento in fase statica ma più basso della fase dinamica, mentre nella fibra del gruppo II ci sarà un aumento generale, ma senza distinzione tra fase dinamica e fase statica. Nella seconda riga della figura 11 è evidenziata la novità dell’esperimento: simulo, sul motoneurone γS, l’attività del midollo spinale, stimolandolo, e generando un potenziale d’azione che si trasmette. Tutto questo si realizza con i soliti stimolatori elettrici, in grado di simulare l’attività nervosa, producendo degli spike, con frequenze ed ampiezze regolabili. Noto che la frequenza di scarica della fibra II in fase statica raggiunge la frequenza della fibra Ia in fase dinamica: abbiamo quindi di fronte un amplificatore di frequenza. Intuitivamente quindi, se si va a stimolare la γD accade che si ha un aumento della frequenza di scarica della fibra Ia. Tutto questo va a raffinare ulteriormente la sensibilità dei nostri movimenti e riflessi. 27 Il riflesso miotatico. In questo schema vediamo l’articolazione del gomito: B= muscolo bicipite, flessore del gomito, T= muscolo tricipite, estensore del gomito. Questi muscoli sono detti muscoli antagonisti: a seconda della risultante delle forze di questi due muscoli, il gomito assume posizioni differenti. Nello schema abbiamo inoltre una sezione del midollo spinale, da cui si dipartono assoni di motoneuroni α, schematicamente definiti come MB ed MT. Ognuno di questi motoneuroni, oltre a differenziarsi anatomicamente dall’altro, ha anche dei rientri riflessi differenti, a seconda di ciò che la fibra intramuscolare trasmette. Abbiamo inoltre schematizzato la fibra afferente IaB, che dal bicipite esce e va a chiudere il circuito direttamente su MB, consentendo la depolarizzazione, la produzione di acetilcolina e la contrazione del bicipite; c’è inoltre una divergenza da cui si diparte un’altra fibra afferente parallela, che va a fare sinapsi con un piccolo interruttore spinale: quest’interruttore, se stimolato, è inibitorio, cioè produce un mediatore chimico chiamato acido gamma-aminobutirrico (GA-BA) che è iperpolarizzante, cioè riduce la sensibilità della membrana postsinaptica, e quindi tende a “spegnere”. Naturalmente tutto questo esiste in modo speculare per il tricipite, anche se nello schema non è riportato. Abbiamo quindi un aumento della frequenza di scarica nel bicipite e una relativa generazione di forza nel muscolo, e parallelamente un’inibizione del motoneurone del tricipite in modo che, ad esempio, mentre io sollevo l’avambraccio, il tricipite non me lo impedisca. Questo meccanismo, chiamato innervazione reciproca, è in grado non solo di gestire due muscoli, ma come si è visto, un intero sistema. L’organo tendineo del Golgi. L’organo tendineo del Golgi (OTG) è un altro recettore da stiramento, ma dà delle risposte diverse a causa della sua posizione anatomica. Anziché essere messo in parallelo ad un muscolo, è in serie: Figura 12 Esso è situato tra la fine della struttura muscolare e l’inizio della struttura tendinea, ma fondamentalmente è situato più sul tendine che sul muscolo. Quindi, perché esso si deformi, si deve 28 deformare la struttura su cui è poggiato, cioè il tendine. Normalmente, sul piano della rigidità meccanica, il tendine è ben più rigido del muscolo: ebbene, se applichiamo un carico, ci rendiamo conto che questo è un recettore della forza generata dal muscolo a cui esso è collegato. Ricapitolando, il fuso neuromuscolare è un recettore di lunghezza, mentre l’OTG di forza. E’ un recettore estremamente sensibile, e la frequenza di scarica che manda al midollo spinale è linearmente collegata alla quantità di forza generata dal muscolo. Come si può vedere dalla figura, dall’OTG si diparte un’altra fibra afferente detta Ib, più sottile della Ia ma la cui velocità di trasferimento delle informazioni si attesta sempre intorno ai 100 m/s. Entra nel midollo spinale dalle corna dorsali, arriva al motoneurone α del muscolo omologo non per connessione diretta, ma tramite un altro motoneuroncino inibitore (disegnato in blu). In altre parole: il muscolo genera forza, l’OTG viene deformato, manda una frequenza di scarica proporzionale all’allungamento subito e quindi alla forza del muscolo, entra nel midollo spinale, arriva all’interneurone, che viene eccitato e produce GA-BA, che iperpolarizza la membrana del motoneurone omologo, e quindi riduce la forza: abbiamo quindi un feedback negativo, opposto a quello dei fusi neuromuscolari, e ha la funzione di preservare da rotture muscolari generate da un eccesso di forza prodotta dal muscolo stesso. Questo è un riflesso protettivo, perché è possibile che in certi soggetti la forza prodotta da un muscolo sia superiore alla soglia di resistenza meccanica del muscolo stesso, con conseguenti distaccamenti tendinei. Dall’immagine sopra è evidente come sul motoneurone α ci sia una sommazione spazio temporale di informazioni, per cui si ha un “contrasto” di informazioni, in modo tale da impedire al muscolo di potersi danneggiare. 29 Questo meccanismo di protezione può non funzionare correttamente a seconda della velocità con cui la forza agisce sul sistema o ad esempio in caso di tendinosi o altre patologie che non rendono ottimale il funzionamento del sistema, oltre ad alterarne le caratteristiche strutturali di resistenza meccanica. Infine parliamo del riflesso a serramanico, riferendoci ad un organismo decerebrato, poiché i controlli centralizzati attenuano di molto gli effetti di tale riflesso. Applico una forza all’articolazione del gomito, inizia lo stiramento del bicipite, partono i riflessi dei fusi neuromuscolari che tendono ad impedire tale stiramento, e quindi aumenta la forza del bicipite. Questo aumento di forza però, si traduce in un aumento di deformazione dell’OTG, che in via riflessa tende ad inibire il muscolo stesso, man mano che la forza aumenta. C’è una specie di battaglia tra le scariche dei potenziali d’azione (Ia e Ib) del fuso neuro-muscolare e dell’OTG, come mostra la figura seguente: Alla fine a prevalere è proprio l’OTG, che fa rilasciare il muscolo inibendone il motoneurone α, e così l’articolazione si apre. Lezione dell’11/12/2008 Riepilogo della lezione precedente. L’organizzazione anatomica che fa capo al riflesso monosinaptico ci consente, sul piano clinico, e quindi sul piano della possibilità di indagare su possibili alterazioni del sistema stesso, di fare delle verifiche. Consideriamo lo schema in figura 12 (pagina 29) come esempio di riferimento: abbiamo l’assone del motoneurone α che va ad innervare le fibre muscolari di un certo muscolo: esso, attivandosi, provoca verosimilmente contrazione muscolare. Gli stessi muscoli, come abbiamo visto, possiedono dei recettori, i fusi neuromuscolari, messi meccanicamente in parallelo e quindi sensibili agli allungamenti del muscolo stesso: quando questo allungamento ha luogo, dalla terminazione anulo – spirale parte un’informazione in termini di frequenza di scarica di potenziali d’azione che entra nel midollo spinale, alla stessa altezza a cui si trovano i motoneuroni α del muscolo omologo, e determina un rinforzo della attività di scarica del motoneurone α verso il muscolo. Questo, in breve, è il riflesso monosinaptico. Naturalmente sul motoneurone α interagiscono altre informazioni (abbiamo detto che sul corpo cellulare del motoneurone α ci sono migliaia di sinapsi): per esempio delle informazioni che provengono dal cosiddetto tratto piramidale, ossia quella via nervosa che senza interruzione anatomica, parte dalle cellule piramidali della corteccia motoria e arriva sino al motoneurone α. Si tratta di un sistema anatomico per il controllo del movimento volontario: noi decidiamo di muovere un certo gruppo di muscoli, questo avviene grazie all’attivazione di una determinata area della corteccia motoria (o area 4) che poi vedremo meglio, e da qui l’informazione va direttamente al motoneurone di quel gruppo muscolare. Possiamo quindi vedere che sul motoneurone α possono intervenire due tipi di informazione: una diretta, volontaria, proveniente dal tratto piramidale, che fa contrarre il muscolo, e un’altra, riflessa, che deriva dalla deformazione meccanica del sistema muscolo-fuso neuromuscolare per via di eventuali stiramenti. Quando questo 30 avviene, a prescindere dal fatto che ci sia o meno attività volontaria (che non è continua, è ovviamente periodica), si determina un ripristino, tramite meccanismo riflesso, di una posizione predeterminata da altre afferenze che agiscono sempre sul motoneurone α, e che vedremo in seguito, chiamate afferenze extrapiramidali. Importanza clinica dei riflessi da stiramento In questa immagine vediamo, schematicamente, l’attivazione volontaria e riflessa del movimento: nell’attivazione volontaria, parte un’informazione dal tratto piramidale, arriva al motoneurone α, e si ha la contrazione del muscolo; nell’attivazione riflessa si applica un carico al sistema muscolo-fuso neuromuscolare, si ha un allungamento che determina scarica di potenziali d’azione sulla fibra Ia, aumento dell’attività del motoneurone α, e quindi si ha una contrazione riflessa dello stesso muscolo. Otteniamo quindi un risultato analogo seguendo Figura 14 Movimento volontario e riflesso due strategie differenti. Possiamo avere tre situazioni differenti tali da rendere il sistema ipofunzionale o addirittura di interromperne il funzionamento. Ammettiamo che ci sia una lesione del tratto Ia, ad esempio un’interruzione, un’infiammazione, un’intossicazione, insomma, parliamo di una situazione di ipofunzionalità. Per diagnosticare una lesione di questo tipo, si sottopone il paziente ad un test banale, chiedendogli ad esempio di contrarre il bicipite. Se si ha la contrazione volontaria, e poi successivamente si evoca il riflesso con un martelletto, senza successo, è evidente che c’è una lesione del sistema che non è nel tratto piramidale, non è nel Figura 13 : Lesione della fibra Ia motoneurone α (altrimenti non si avrebbe nemmeno movimento volontario), ma è nel sistema riflesso. Ammettiamo invece che la lesione sia nel tratto spinale: tutte le informazioni, in uscita e in entrata dall’encefalo, oltre la lesione sono interrotte, e quindi viene interrotta anche l’informazione che dal tratto piramidale si propaga verso i motoneuroni a valle della lesione. Ci si rende conto di un danno di questo genere dal fatto che il comando volontario del movimento non funziona. Per capire se il danno è limitato alla sezione spinale si evoca il riflesso, e ovviamente, se allo stimolo corrisponde l’attuazione riflessa del movimento, possiamo dire che il danno sta a monte del motoneurone, che è ancora in grado di trasmettere il movimento per via riflessa, e non ha quindi subito danni. 31 Figura 15: Lesione spinale Possiamo avere infine la lesione dello stesso motoneurone α, ossia della via efferente dal midollo spinale ai muscoli stessi: tutto questo chiaramente causa l’impossibilità dell’attivazione del movimento sia volontario che riflesso. L’insieme dei test che si effettuano per determinare il tipo di lesione da cui è colpito un soggetto con dei problemi di movimento è un esempio di diagnosi differenziale. Figura 16 : Lesione del MN-alfa I riflessi polisinaptici Parliamo ora di un’altra categoria di riflessi spinali, definiti come riflessi polisinaptici, che sono la maggior parte dei meccanismi riflessi. Ricordiamo la definizione di sistema riflesso: si ha uno schema di questo tipo, con recettore, via afferente, centro sinaptico, via efferente ed effettore. Nel caso che abbiamo studiato, il recettore del fuso neuromuscolare entra nel midollo spinale attraverso la fibra Ia per inviare l’informazione, c’è una sola 32 sinapsi col motoneurone α del muscolo omologo e, se il riflesso viene attivato, il muscolo omologo, ossia l’effettore, si contrae. Quantitativamente, il numero dei riflessi che si avvale di questo meccanismo estremamente, troppo semplice, è trascurabile rispetto alla totalità dei riflessi spinali, che si avvalgono di più di una sinapsi, e quindi hanno una sorta di divergenza verso più possibili effettori: ci sono delle reti di neuroni all’interno del midollo spinale che possono essere interessate da un’informazione afferente da un recettore, e che poi possono divergere spazialmente in direzioni differenti, e quindi dare l’attivazione di diversi effettori. Questo è il meccanismo della stragrande maggioranza dei riflessi, in particolare ci riferiamo ai riflessi legati al movimento. La risposta tipica di un riflesso polisinaptico è detto riflesso di fuga del cane, definizione storica che risale all’Ottocento, che prende il suo nome dall’esperimento che venne effettuato su cani anestetizzati, messi in una certa posizione sul piano e stimolati in maniera nocicettiva: si notò che tale stimolo innescava l’attivazione di movimento riflesso. Consideriamo lo schema in figura 17: abbiamo un circuito composto da 4 motoneuroni, A,B,C,D, e su questi motoneuroni arrivano due vie nervose, che portano informazioni, in modo da avere la Figura 18 : Riflesso a fuga di cane possibilità di innescare delle depolarizzazioni. La prima via, in rosso, ha tre sinapsi sul motoneurone A, due sul B, una sul C e nessuna sul D. La seconda via, rappresentata in azzurro, si comporta in modo simmetrico. Il risultato è che su ogni motoneurone ci sono tre sinapsi, a prescindere dalla provenienza. Diciamo che per raggiungere la soglia di eccitabilità, cioè necessaria a scatenare il potenziale d’azione, serve la contemporaneità di tre sinapsi su ogni corpo cellulare. Se viene attivata solo la via 1, che ha Figura 17 tre sinapsi sul motoneurone A, accade che esso passa da un potenziale di riposo di -70 mV al potenziale soglia di -55 mV, in modo che si scateni il potenziale d’azione e si inneschi il ciclo di Hodgking. Nel motoneurone B invece, solo due delle tre sinapsi necessarie sono effettivamente attive: il risultato sarà una depolarizzazione cosiddetta sub-soglia, e come tale rimane un evento 33 locale che nasce e muore, ma non produce potenziale d’azione. Un evento analogo si ripete sul motoneurone C, dove la sinapsi della via 1 è una sola, mentre sul motoneurone D non accade nulla. Ovviamente se ripeto l’esperimento stimolando la sola terminazione 2 si ha un risultato simmetrico dal motoneurone D, scalando sino al motoneurone A. Se invece si vanno a stimolare sia la via 1 che la via 2 contemporaneamente, su ognuno dei 4 motoneuroni si hanno 3 sinapsi attive, situazione che porta ad un’uscita come quella mostrata nella seconda rappresentazione in figura 19. Questo meccanismo si chiama facilitazione, mentre l’organizzazione/condizione elettrofisiologica appena descritta fa capo al sistema detto frangia subliminare della famiglia di motoneuroni (dove per famiglie si intendono gruppi di neuroni che nel loro insieme innervano un gruppo muscolare), localizzati vicino al midollo spinale. Quindi diciamo che c’è la possibilità di ottenere una sorta di amplificazione, dosando il numero di fibre che afferiscono ai gruppi io posso modificare la risposta del sistema, che in definitiva è il movimento: ad esempio, se “spegniamo” una fibra è possibile bloccare il sistema. Figura 19 Tutto questo significa che il fenomeno che abbiamo osservato è il risultato di una sommazione di eventi di membrana in termini di contemporaneità o successione: quando si parla di contemporaneità ci riferiamo ad una sommazione spaziale: in membrana abbiamo infatti una sommazione di eventi di depolarizzazione; quando invece si parla di sommazione temporale significa che si ha una frequenza di ripetizioni sullo stesso punto , per cui si sommano gli effetti. Ammettiamo di avere un motoneurone con afferenze dalla via 1 e dalla via 2, e di andare a misurare l’attività di depolarizzazione nell’assone: stimolo la terminazione s1, vado a vedere e nel grafico trovo che si ha una depolarizzazione, ma non viene raggiunta la soglia per il potenziale d’azione. Abbiamo quindi un fenomeno subsoglia, che non dà luogo a trasmissione di informazioni. Non appena la stimolazione viene interrotta, dopo un certo arco di tempo il potenziale torna in una condizione di riposo. Figura 20 : Sommazione spaziale e temporale Tale potenziale è detto potenziale postsinaptico eccitatorio (PPSE), ed ha una durata stereotipata di circa 15 ms a prescindere dall’ampiezza dello stimolo. Analogo risultato si ottiene dalla stimolazione della sola terminazione s2 . Ma se i tempi di 34 stimolazione di s2 rispetto ad s1 iniziano ad avvicinarsi, si ha un effetto tale da creare una depolarizzazione che è la risultante delle singole depolarizzazioni causate dalle singole terminazioni, sino a quando non si ha una depolarizzazione tale da poter raggiungere la soglia per il potenziale d’azione. Questa è la sommazione spaziale: con questo sistema è possibile modulare l’accensione o lo spegnimento del motoneurone e quindi è possibile modificare gli effetti che la sua attivazione ha sugli effettori muscolari, giocherellando con i tempi di stimolazione delle terminazioni presinaptiche. Possiamo avere un fenomeno analogo anche con una sola sinapsi che, come abbiamo visto, dà luogo ad un potenziale postsinaptico eccitatorio (PPSE), che abbiamo visto essere un fenomeno subsoglia. Se però si stimola la sinapsi stringendo la frequenza, gli effetti di queste stimolazioni vanno a sovrapporsi, in una sommazione chiamata sommazione temporale, che permette di raggiungere la soglia per il potenziale d’azione. Dobbiamo quindi immaginare quanto sia complesso questo meccanismo, poiché sul corpo cellulare del motoneurone vanno ad agire dalle 2000 alle 3000 terminazioni nervose. Abbiamo già accennato il fatto che gli effetti postsinaptici dell’eccitazione di una terminazione presinaptica dipendono dal tipo di neuromediatore che la terminazione presinaptica stessa sintetizza, in quanto esistono neuromediatori eccitanti e inibitori. I neuro mediatori eccitatori fondamentalmente agiscono aumentando la conduttanza al sodio, e quindi, sulla base dell’equazione di Ohm si ha: INa=GNa (Em-ENa) Aumentando quindi la conduttanza al sodio, è chiaro che aumenterà la corrente sodio, e più si innescherà più facilmente il ciclo di Hodgking. I neuro mediatori inibitori invece agiscono aumentando la conduttanza al potassio: IK=GK (Em-EK) Siccome il potenziale di membrana non è uguale al potenziale d’equilibrio del potassio, ma è ridotto a causa dell’ingresso di sodio, se io aumento la conduttanza al potassio, a parità di differenza di potenziale passa più potassio dall’interno all’esterno, e quindi aumenta l’elettronegatività del sistema; questo significa che si passa da -90 mV a -95 mV, e naturalmente non si potrà mai andare oltre -96 mV perché è il valore del potenziale d’equilibrio del potassio. Analizziamo lo schema in figura 21. Abbiamo il potenziale postsinaptico eccitatorio mentre in basso, sull’asse delle ascisse, col simbolo è indicato lo stimolo eccitatorio, che fa raggiungere la soglia ed innesca il potenziale d’azione. Se prima di questo evento eccitatorio si fa partire uno stimolo inibitorio Figura 21 (rappresentato come ) è chiaro che non si riesce a raggiungere la soglia, nonostante l’ampiezza dello stimolo eccitatorio sia rimasta la stessa. Quindi il fenomeno scema e non si innesca il potenziale d’azione. In questo modo è chiaro come il sistema sia in grado di modulare le informazioni dosando stimoli eccitatori ed inibitori, regolando cosi il 35 tipo di uscita. Normalmente, nel sistema nervoso, il neuromediatore adibito alla funzione inibitoria è l’acido gamma-amminobutirrico (GA-BA), mentre il neuromediatore eccitatore per eccellenza, come già detto, è l’acetilcolina. Dal grafico si vede bene che man mano che si stringe l’intervallo tra stimolo inibitorio ed eccitatorio il potenziale postsinaptico scema. Quindi, ricapitolando, la frangia subliminare è costituita da quei neuroni che, nell’ambito di una popolazione di motoneuroni spinali, risulta essere in condizione di facilitazione, ovvero la membrana di questi neuroni si trova in uno stato di depolarizzazione sub-soglia. Quando sulla membrana dei neuroni facilitati si attua una sommazione di tipo spaziale o temporale , tale da portare sopra-soglia la loro depolarizzazione, allora anche queste cellule si eccitano. Altro meccanismo simile alla facilitazione è l’occlusione. Per descrivere questo fenomeno facciamo riferimento ad un esempio pratico: si consideri il gruppo muscolare del tricipite della sura, composto da tre muscoli sinergici, il ventre mediale (o gemello mediale), il ventre laterale (o gemello laterale) e il ventre anteriore (o muscolo soleo). I due gemelli nel loro insieme sono detti gastrocnemio, e ci riferiremo ad essi proprio coi nomi di gastrocnemio mediale e laterale. Tutti e tre i muscoli convergono sul tendine achilleo, e tutti e tre hanno la funzione di sollevamento del calcagno, meccanismo importantissimo dal punto di vista evoluzionistico. Potremmo dire quindi di avere tre muscoli che fanno la stessa cosa: ci troviamo così di fronte ad una situazione di ridondanza. Consideriamo il circuito in figura 22, che rappresenta appunto i tre muscoli del tricipite della sura, coi relativi motoneuroni α su cui arrivano i nervi spinali (che fanno capo al nervo sciatico) che trasmettono le informazioni. Osserviamo attentamente lo schema di innervazione: il gastrocnemio laterale è innervato due volte, il soleo tre volte e il gastrocnemio mediale ancora due volte. In realtà per arrivare a ciascun gruppo di questi motoneuroni basta una sola sinapsi attiva. Procedo con la stimolazione nervosa del gastrocnemio laterale, e vedo che vado ad agire su due dei tre muscoli che convergono nel tendine achilleo, ottenendo un certo effetto; stimolo successivamente il nervo del soleo e in realtà stimolo tutti e tre i muscoli; infine, stimolando il gastrocnemio mediale attivo sia il soleo che il gastrocnemio stesso. Allora se andiamo a fare due conti, scopriamo di avere informazioni per l’attivazione di ben sette gruppi muscolari, mentre Figura 22 in realtà ne abbiamo solo tre. Ecco quindi che torna il concetto di ridondanza, e questa ridondanza di informazioni è chiamata occlusione. Questo eccesso di informazioni non è da considerarsi un errore, ma un meccanismo di garanzia, perché quando noi dobbiamo sollevare il calcagno contro gravità, c’è bisogno di forza muscolare, e se si dovesse avere ad esempio una lesione del nervo del gastrocnemio laterale, i muscoli devono poter essere comunque eccitati; analogamente, se ci fosse una lesione del nervo del soleo, i muscoli verrebbero ugualmente eccitati, e così via. Ecco quindi spiegato il perché l’occlusione sia un meccanismo di garanzia; tecnicamente non è altro che un eccesso di informazioni in entrata rispetto a quelle in uscita. 36 La scarica postuma e i circuiti riverberanti. Andiamo ora su circuiti un po’ più complessi: parliamo del meccanismo della cosiddetta scarica postuma (figura 23). Da un recettore, entra nel midollo spinale un’informazione (IN), che diverge su tre vie: quella nella via 1 va direttamente al motoneurone in uscita, quella nella via 2 ci arriva con un certo ritardo, perché ci sono di mezzo due interruttori, mentre l’informazione che passa per la via 3 sarà l’ultima a giungere al motoneurone. Questo è un sistema di amplificazione, non soltanto di informazione, ma anche di durata. Allora un evento Figura 23 IN che dura qualche millisecondo, darà in uscita tre eventi della durata complessiva di 1.5 ms: abbiamo quindi amplificato la risposta, nonostante lo stimolo sia già cessato. La scarica postuma sostanzialmente consiste in questo, ed è molto importante nel caso in cui ad esempio lo stimolo iniziale sia nocicettivo: se ad esempio siamo distratti ed andiamo ad urtare una mano contro un oggetto appuntito, immediatamente parte il riflesso polisinaptico che, a differenza del monosinaptico, raggiunge la coscienza. Allora questo stimolo nocicettivo si diramerà in tre vie: attraverso la prima noi ci accorgiamo immediatamente del pericolo e ritraiamo la mano, mentre l’informazione veicolata dalle altre due vie servirà a non far ricadere la mano sull’oggetto appuntito, proprio perché lo stimolo viene amplificato in durata e si ha il tempo di pensare a quale azione compiere, cioè a bloccare il braccio in una posizione di sicurezza. Un altro tipo di circuito complesso è il cosiddetto circuito riverberante (figura 24): abbiamo uno stimolo di input che viene “riciclato” e che durerebbe in eterno, se non ci fossero progressive perdite di energia. Questo tipo di organizzazione in genere è a capo ad esempio dei ritmi circadiani, come il ritmo sonno-veglia, che è organizzato sulla base di questo tipo di attivazione. Sui neuroni che fanno capo al sistema riflesso riverberante si può interferire dall’esterno con modalità di modulazione, con afferenze che provengono ad esempio dall’encefalo, Figura 24 in termini di facilitazione (tramite sinapsi eccitatoria ed aumentando la frangia subliminare), ma anche in termini di inibizione. Per concludere il discorso sui riflessi, torniamo al quadrupede rappresentato in figura 18 (pagina 33), e lo supponiamo spinalizzato, ossia il quadrupede è sopravissuto ma il midollo spinale ha subito dei danni e non è più in collegamento con l’encefalo. Se nella terminazione dell’arto inferiore sinistro si applica uno stimolo nocicettivo, il quadrupede ha una tendenza ad allontanare il corpo dal punto di stimolazione, ma il movimento non è pensato: significa che il midollo ha una sua organizzazione anatomo funzionale che consente questo tipo di risposta, necessaria alla salvezza dell’organismo. Noi con la nostra cultura, attraverso l’encefalizzazione del midollo spinale, possiamo rimodulare questo principio, annullandolo, modificandolo o in ogni caso decidendo in maniera assolutamente personale cosa fare. Quindi all’applicazione dello stimolo segue una flessione dell’arto stimolato (questo riflesso è infatti detto flessorio), e se lo stimolo prosegue, il riflesso interesserà anche gli arti 37 superiori, con un comportamento reciproco, dove ad una flessione dell’arto inferiore segue un’estensione dell’arto superiore omolaterale, come a voler cercare un nuovo punto d’appoggio. Consideriamo lo schema di organizzazione neuronale in figura 25: in basso vediamo il recettore stimolato, che è un recettore diverso dai recettori che abbiamo fin ora studiato (recettori muscolari), ma fa parte degli esterocettori, cioè in contatto meccanico con l’ambiente esterno (recettori sottocutanei). Solitamente questi recettori sono delle terminazioni nervose istologicamente specializzate, dove alla terminazione mielinica si aggiungono delle membrane particolari che caratterizzano questi recettori nella possibilità di poter recepire informazioni su un certo tipo di energia piuttosto che Figura 25 un’altra. Lo stimolo agisce dunque sul recettore che è collegato ad una fibra nervosa che entra, come al solito, nelle corna dorsali del midollo spinale: è una fibra più sottile di quelle connesse ai muscoli o all’organo tendineo del Golgi (circa la metà, 10 µ di diametro e 60 m/s di velocità di conduzione). L’informazione entra dunque nel midollo spinale, e troviamo subito una divergenza, prima di arrivare ai motoneuroni interessati, che certamente dà luogo ad una scarica postuma. Quindi , se vengono attivati degli effettori muscolari, essi mantengono la loro nuova posizione per un tempo prolungato rispetto alla cessazione dello stimolo. Si possono poi avere dei fenomeni di amplificazione, ma ad un certo punto, l’informazione si dirige verso gli output: si ha una divergenza notevole che non interessa solo un gruppo muscolare come nel caso del fuso neuromuscolare, ma tale divergenza interessa ad esempio i motoneuroni dei muscoli flessori ed estensori del muscolo omologo, sempre della stessa parte, o anche i motoneuroni dei muscoli contro laterali; osserviamo che però quando l’informazione raggiunge il motoneurone del muscolo omologo, sul flessore si ha un rinforzo con n neuroni eccitatori, cioè tramite sinapsi colinergiche che aumentano la conduttanza al sodio, innescano il ciclo di Hodgking che fa aumentare il potenziale d’azione nei motoneuroni α dei flessori, provocando la tendenza ad allontanare l’arto. Questo effetto viene potenziato dall’inibizione contemporanea dei muscoli estensori. L’informazione può divergere ulteriormente verso i motoneuroni del muscolo antagonista (dell’arto opposto) dove l’innervazione è reciproca: vengono eccitati gli estensori e inibiti i flessori. Questo è detto riflesso estensorio crociato. Se poi l’informazione prosegue il suo cammino nel midollo spinale e arriva ai motoneuroni degli arti del tratto superiore, sul muscolo omolaterale si avrà un potenziamento degli estensori e sul contro laterale un potenziamento dei flessori, con il conseguente spostamento della massa. Su questo sistema, rigidamente organizzato dal punto di vista anatomico, possono interferire, in termini di modulazione eccitatoria o inibitoria, delle informazioni provenienti dai centri superiori tronco 38 encefalici e corticali, agendo in termini di facilitazione o inibizione su tutte le stazioni sinaitiche e quindi producendo una possibilità di risposte molto ampia. Principio del segno locale e della posizione finale. Queste risposte sono interessanti perché danno ragione dell’organizzazione anatomica estremamente rigorosa e precisa. Una di queste risposte è detta “Principio del segno locale”. Figura 26 Faremo riferimento alla figura 26, scorrendo le sequenze da sinistra verso destra. Abbiamo una posizione di partenza, dove si va a stimolare il braccio come mostrato nella prima immagine: allora l’arto tenderà ad avvicinarsi al resto del corpo. Se poi si stimola lo stesso punto da un’altra posizione si nota che l’arto compie lo stesso gesto riflesso: è evidente che la stimolazione di quella zona eccita delle vie nervose che sono sempre le stesse dà luogo all’informazione sui motoneuroni responsabili di quel movimento, a prescindere dal punto di partenza dello stimolo. Il “Principio della posizione finale” è un tipo di risposta molto simile. Analisi clinica dei riflessi spinali. Sul piano clinico questo tipo di conoscenze può dar luogo alla possibilità di fare delle diagnosi non invasive interessanti su possibili danni o lesioni del midollo spinale. Tutto questo è possibile servendoci delle conoscenze dei riflessi monosinaptici, e quindi quelli tendinei, dove battendo sul tendine si ha l’estensione dell’articolazione, e dei riflessi polisinaptici, strisciando semplicemente delle zone del corpo, e quindi eccitando gruppi di recettori cutanei. Ad esempio, possiamo avere informazioni sulle lesioni che interessano il tratto cervicale del midollo spinale, eccitando il riflesso tendineo monosinaptico del gomito: se evocando il riflesso, esso non si manifesta o si manifesta in maniera Figura 27 incompleta, è possibile che ci siano 39 delle lesioni del tratto 6-7 cervicale. Andando sul tratto toracico, facendo una stimolazione a livello epigastrico (si individua la fine delle coste, e si effettua uno strisciamento con un martelletto arrotondato), si deve assistere ad una contrazione della parte alta della muscolatura addominale; se ciò non avviene ci possono essere delle lesioni del tratto 6-7-8 toracico; facendo la stessa stimolazione a livello mesogastrico ed ipogastrico è possibile che ci siano delle lesioni, rispettivamente, del tratto 9-10 e 12 toracico. E’ possibile avere informazioni riguardanti possibili lesioni del tratto lombare evocando il riflesso patellare, che, se non si manifesta correttamente, è indice di possibili lesioni del tratto 2-3-4 lombare. Infine, se l’evocazione del riflesso plantare (strisciare la pianta del piede) non dà esito positivo, significa che si possono avere lesioni del tratto 1-2 sacrale, mentre se ad avere esito negativo è l’evocazione del riflesso achilleo, le zone che possono essere lesionate sono il tratto 5 lombare e l’1-2 sacrale Lesione spinale nell’uomo. Quando si parla di lesioni spinali, un conto è parlare delle rane su cui si effettuano gli esperimenti, che possono vivere senza testa per un certo periodo di tempo, e un conto è parlare dell’essere umano, dove la lesione spinale comporta una condizione di completa disattivazione del midollo spinale stesso, a causa del controllo che l’encefalo ha del midollo spinale, processo denominato encefalizzazione. Infatti, più si va avanti nella scala evoluzionistica, più midollo spinale ed encefalo diventano un tuttuno, tanto è vero che quando si verifica una sezione spinale nell’uomo, si assiste alla nascita della grave condizione clinica esposta di seguito. Settimane 0 1 2-3 5 Situazione -Shock spinale -Perdita di coscienza -Flaccidità della muscolatura liscia e striata -Areflessia Totale -Recupero tono muscolatura liscia (sfinteri e vasi) -Recupero parziale dei riflessi flessori nocicettivi -Comparsa di un debole riflesso rotuleo Come possiamo osservare, durante la prima settimana successiva all’evento si ha il vero e proprio shock spinale, con perdita di coscienza, flaccidità muscolare, con conseguente assenza di riflessi, sia della muscolatura liscia che della striata: abbiamo quindi tutti gli sfinteri rilasciati, i vasi sanguigni fortemente dilatati, con conseguente caduta della pressione arteriosa. Si ha inoltre areflessia totale. Se il soggetto sopravvive, nella seconda settimana possiamo osservare un recupero del tono della muscolatura liscia, con interessamento dunque di sfinteri e vasi: il paziente non è più incontinente dal punto di vista di urine e feci, o almeno questa condizione si riduce, ma soprattutto, questo recupero del tono della muscolatura liscia significa che il sistema vascolare non è più così vasodilatato da far ristagnare il sangue, e quindi, con la ripresa seppur minima della contrazione dei vasi, si ha un miglioramento del pompaggio del sangue al cuore. Dalla seconda alla terza settimana si può assistere ad un recupero della sensibilità dei riflessi flessori nocicettivi, che abbiamo visto in precedenza. Infine, alla quinta settimana, è possibile avere la comparsa di un debole riflesso rotuleo. In questo quadro di recupero, difficilmente si va oltre questi miglioramenti senza ricorrere a terapie riabilitative piuttosto importanti, ma certamente non si recupera la situazione precedente la lesione. Quello che rimane in genere, quando il paziente sopravvive e supera questa fase critica, è un’ipotonia muscolare generale, accompagnata da iporeflessia, incapacità posturale e insensibilità. Ammettiamo che la lesione sia lombare, per cui il soggetto è paraplegico, ossia impossibilitato al 40 controllo degli arti inferiori: il risultato sarà un’incapacità posturale, in particolare nel mantenere la posizione eretta, chiaramente impossibile. Da quegli arti inoltre non giunge alcuna informazione sensoriale (se la lesione è totale). Accenniamo ad un problema, poiché vi si sta lavorando in questo periodo facendo della sperimentazione su paraplegici che fanno attività sportiva, di carattere cardiovascolare, poiché manca, in questi soggetti, la possibilità di far tornare il sangue al cuore attraverso il meccanismo della pompa muscolare dei muscoli inguinali, che muovendosi tendono a schiacciare le nostre vene, facendo aumentare la pressione interna. La mancanza di questo meccanismo riduce cronicamente il volume di riempimento del cuore, e di conseguenza la possibilità di generare pressione da parte del cuore stesso viene ridotta. Questi pazienti vanno quindi incontro ad insufficienza miocardica della portata cardiaca, che può portare anche all’impossibilità di movimento. Abbiamo quindi visto, per grandi linee, il funzionamento e l’importanza dei riflessi del midollo spinale, e la loro funzione. Passiamo quindi all’osservazione di uno schema a blocchi dell’intero sistema di controllo del movimento. Abbiamo una divisione per blocchi logici, sia per funzioni che per gerarchia, dove l’importanza gerarchica decresce dall’alto verso il basso. Possiamo riconoscere, nell’attuazione dei movimenti, dei momenti: il momento della strategia, della programmazione e dell’esecuzione o attuazione. La strategia è quella condizione per cui si decide il movimento da attuare: tale decisione ha luogo nell’encefalo, più precisamente nella corteccia, che è la parte più sofisticata e che ci caratterizza rispetto alle altre specie, nonché la meno importante per la sopravvivenza; non a caso i centri di controllo della respirazione e del battito cardiaco stanno al di sotto della corteccia, mentre le lesioni in genere arrivano a livello corticale, per cui si possono avere emiplegie o comunque problemi motori, ma non mortali. La corteccia cerebrale può essere Figura 28 distinta in due categorie, sul piano funzionale: una categoria è costituita da zone di corteccia cosiddette a proiezione specifica: significa che c’è una relazione anatomica (e quindi funzionale) individuabile, tra quelle aree corticali e determinate parti del corpo, ossia con una proiezione di vie nervose tra le due parti (ad esempio la corteccia motoria), e quindi si ha proiezione di informazioni. Ma come si fa a sapere che c’è proiezione reciproca? La risposta a questa domanda ci viene fornita attraverso due possibilità sperimentali: è possibile monitorare l’attività cerebrale durante dei movimenti specifici che vengono fatti compiere al paziente, oppure è possibile stimolare elettricamente le aree corticali sopra citate provocando il movimento di una certa articolazione, e quindi si stabilisce la corrispondenza. Ma esiste anche la corteccia visiva, ad esempio: stimolando zone specifiche della retina si osserva attività elettrica in particolari zone della corteccia occipitale: tali aree saranno appunto la corteccia visiva. Abbiamo inoltre la corteccia uditiva, che è nella zona temporale, che quando vengono percepiti dei suoni attiva delle cellule specifiche. Stimolando altre zone del corpo, ad esempio esercitando una pressione sul polpastrello del dito indice, non si attiva solo la corrispondente area di corteccia motoria, ma anche un’area della cosiddetta corteccia 41 sensitiva, che ci permette appunto di sentire questa pressione. Tutto il resto della corteccia non ha un utilizzo specifico, serve a fare massa. Abbiamo una sezione sul piano sagittale dell’encefalo, dove è evidenziata la corteccia motoria; decidiamo di muovere l’indice. Supponiamo che in quell’area ci siano le cellule piramidali che escono e vanno nel midollo spinale per controllare il movimento di quell’area: allora vedremo eccitarsi quest’area, ma prima che ciò avvenga, si vedranno vaste aree della corteccia ai lati dell’area interessata, percorse da potenziale, e tutto questo avverrà esattamente 800 ms prima dell’attivazione delle cellule piramidali. Questo fenomeno è detto promovimento, e sta a significare che la corteccia motoria è pilotata da eventi precedenti che Figura 29 fanno nascere l’informazione a livello della corteccia associativa, che è quindi la sede della strategia del movimento. Le stesse informazioni generate dalla corteccia associativa vanno verso due strutture subcorticali, ossia il cervelletto e i gangli della base. Queste due strutture, che sono una sorta di interfaccia tra la strategia e l’attuazione, e che ricevono quest’informazione, la trasmettono alla corteccia motoria tramite un’altra struttura subcorticale, il talamo. La corteccia motoria verrà attivata localmente, a seconda del tipo di movimento che si è pensato, e darà informazione esecutiva attraverso la via corticospinale diretta, o via piramidale. Questa, come abbiamo già detto prima, va a fare sinapsi direttamente coi motoneuroni α e γ, ma ciò che ci interessa è proprio il collegamento coi motoneuroni α e quindi coi muscoli che ci interessano: anatomicamente, questa connessione nasce da cellule grosse del quarto strato della corteccia motoria, si dirama attraverso vie mieliniche di diametro piuttosto spesso e quindi veloci che decussano a livello del ponte, cambiano quindi direzione e diventano contro laterali (anche se una piccola parte di queste fibre rimane omolaterale), per cui la corteccia motoria sinistra controlla la parte destra del corpo e viceversa. Questo tipo di controllo è molto veloce, ed è quello che viene utilizzato quando decidiamo di compiere un’azione, ad esempio afferrare un oggetto, controllando volontariamente il movimento delle dita nello spazio, attraverso l’azione coordinata degli occhi. Come abbiamo già detto però, per compiere questo movimento si deve cambiare la posizione di molte articolazioni, a cui non pensiamo volontariamente, essendo l’ attenzione focalizzata sulla punta delle dita: a coordinare tutto il movimento ci pensa l’informazione stessa, che si dirama dalla corteccia verso altre strutture. A livello tronco-encefalico, quindi subcorticale, ci sono delle zone che acquisiscono l’informazione e la mandano al midollo spinale, per controllare, in maniera involontaria gruppi muscolari che sono sinergici per ottenere una buona qualità del movimento che abbiamo deciso di attuare: questo sistema, che è un po’ più complesso e che rivedremo, si chiama sistema extrapiramidale. Abbiamo quindi visto questo sistema di strategia, programmazione ed esecuzione; all’interno di questo stesso sistema ci sono dei loop: attraverso il sistema recettoriale, il sistema riflesso, arrivano informazioni, come ben sappiamo, ai motoneuroni α, nel noto meccanismo dei riflessi, ma queste informazioni possono proseguire attraverso neuroni interspinali, possono risalire al tronco dell’encefalo, al talamo e si pensa che possano raggiungere anche la corteccia associativa. Quindi ci 42 sono le uscite motorie ma anche gli ingressi sensoriali che continuamente contribuiscono ad ottimizzare il movimento. Se vogliamo capire quali sono le strutture encefaliche che hanno una qualche azione sul movimento, e come queste relazioni si collocano nel sistema di controllo del movimento, la via più semplice è “tagliare”, ossia escludere dal sistema varie sezioni encefaliche e vedere quali capacità rimangono. Procedendo dal basso verso l’alto della figura 30, abbiamo varie possibilità di sezionamento: si ottengono in questo modo vari preparati, come quello spinale, o il bulbare, mentre se si lascia il ponte il preparato è detto decerebrato. Quando parliamo di preparato si intende un modello animale, ma parliamo anche di un vasto campionario di lesioni che sono facilmente reperibili in un qualunque reparto di rianimazione o di traumatologia Figura 30 della strada. Più schematicamente(figura 31), quando si attua una sezione spinale si esclude praticamente tutto l’encefalo: non arrivano informazioni di rientro ne alte ne basse. Se invece viene praticata una lesione bulbare, rimane il midollo allungato, al quale arriva informazione dal sistema vestibolare, che è il sistema deputato al mantenimento dell’equilibrio (verrà trattato in seguito). Se la lesione viene praticata più in alto, mantenendo una parte maggiore integra, sotto il mesencefalo ad esempio, si ha un individuo cosiddetto decerebrato: allora abbiamo sia informazioni dalla sostanza reticolare attivatrice, che è una zona molto importante dell’encefalo, rimangono ovviamente le informazioni labirintiche, ma Figura 31 arrivano anche le informazioni provenienti dal cervelletto, che possono andare verso il midollo spinale e quindi verso i muscoli. Con una lesione mesencefalica praticamente non cambia niente, mentre con una lesione corticale salta il controllo volontario di tutte le strutture, perché vengono a mancare, ad esempio, le zone di corteccia motoria. Quando parliamo di lesione parliamo anche di ictus, emorragie localizzate, che sono ormai delle patologie estremamente comuni, che distruggono parti dell’encefalo. Vediamo ora nello specifico una tabella di raffronto tra il tipo di lesione e il quadro motorio del paziente. 43 Tipo di sezione SPINALE BULBARE PONTINA MESENCEFALICA CORTICALE Quadro motorio -Flaccidità muscolare -Se stimolato capace di movimenti deambulatori -Leggero tono muscolare -Non si raddrizza -Se messo in piedi e se stimolato, cammina -Ipertono muscolare antigravitario -Riflesso di raddrizzamento -Tono muscolare quasi normale -Se stimolato, capace di movimenti coordinati -Movimenti spontanei -Assenza di memoria dei movimenti In caso di lesione spinale, si ha flaccidità muscolare e sotto stimolazione si ha la capacità di eseguire movimenti deambulatori; naturalmente parliamo di un gatto, poiché nell’uomo il discorso è più complesso ed è meno facile ottenere questi risultati. Se all’animale viene praticata una lesione bulbare, troviamo un leggero tono muscolare, se viene capovolto non riesce a rimettersi in piedi, ma se lo si mette in piedi, sostenendolo e stimolando una zampa, abbozza dei movimenti, tende insomma a camminare. Questo significa che il midollo spinale si è liberato dall’interferenza dell’encefalo, cioè è meno encefalizzato, e questo mostra che esistono dei controlli crociati che consentono di dare informazioni a partire da un arto verso gli altri arti, seguendo degli schemi anatomici che sono quelli necessari a determinare la locomozione. In caso di lesione pontina troviamo una situazione di ipertono muscolare antigravitario, ossia una rigidità della muscolatura antigravitaria: articolazione del ginocchio distesa, rigidità dei glutei, estensione del collo; l’individuo è insomma una specie di statua. Questo stato è determinato dal fatto che viene liberata la capacità della sostanza reticolare attivatrice di interferire sul midollo spinale. Alla fine degli anni ’50 una ricerca condotta dall’italiano Maurizio Maurizi mostrò che da questa fitta rete di neuroni (mostrata in figura 31 e ripresa in figura 32) partono delle informazioni che seguono delle vie tronco-spinali ben definite chiamate vie reticolo-spinali, che seguono il midollo spinale, una parte a livello Figura 32 dorsale e una parte a livello mediale: queste vie sono responsabili del controllo della sensibilità dei muscoli antigravitari. In questo caso avviene una stimolazione eccessiva dei motoneuroni γ (che ricordiamo, innervano le fibre intrafusali di questi muscoli), e viene cosi amplificato fortemente il riflesso da stiramento dei muscoli antigravitari. Sappiamo cosi che la funzione di queste vie è garantire la postura antigravitaria; ovviamente, se, come nel caso di questa lesione non ci sono altre informazioni afferenti, la sostanza reticolare ha il predominio nel controllo del movimento, con il conseguente ipertono muscolare. Il fatto che su un individuo integro ciò non si verifichi è perché su questo gruppo di neuroni tronco-encefalici, agiscono delle vie superiori e quindi vengono attivati solo quando necessario. Un altro aspetto della lesione pontina è il riflesso di raddrizzamento, che è legato all’informazione che proviene dal sistema vestibolare: è noto dall’anatomia che dietro l’orecchio esiste un sistema detto labirinto uditivo (che però non ha niente a che fare con l’udito), formato da recettori sensibili alla posizione, alla velocità e all’accelerazione della testa nello spazio: tutte queste informazioni, una volta raccolte, vengono trasmesse ai muscoli antigravitari, che tendono a posizionare il corpo in una posizione eretta di equilibrio. Ebbene se il sistema vestibolare non è sottoposto ad alcun controllo, l’individuo tenderà sempre a raddrizzarsi, non riuscirà a coricarsi. L’apparato vestibolare fa parte del sistema extrapiramidale. 44 Parliamo ora della lesione mesencefalica: troviamo una situazione di tono muscolare quasi normale; inoltre l’individuo, se stimolato, è in grado di compiere movimenti coordinati, ma non è capace di compiere un movimento basato su un progetto motorio. Infine, in caso di lesione corticale, abbiamo dei movimenti spontanei, come ad esempio una deambulazione normale, però, se ad esempio durante il cammino l’individuo incontra un muro, torna indietro e va a sbatterci nuovamente, proprio a causa della mancanza di memoria dei movimenti. Non riesce cioè a cogliere questa informazione e ad utilizzarla in termini di strategia motoria. E’ quindi evidente la funzione di carattere comportamentale della corteccia. Riassumendo, attraverso degli esperimenti in cui venivano escluse alcune parti del sistema nervoso si è potuto capire la funzione di queste parti, ma soprattutto, oltre a determinarne la singola utilità, si è capito che è necessario un loro funzionamento contemporaneo ed integrato. Il sistema vestibolare. Il sistema vestibolare è situato in profondità nell’osso temporale, dietro l’orecchio interno. Le informazioni che arrivano ai recettori del labirinto si riuniscono in un fascio nervoso che fa capo all’ottavo nervo cranico, passano per il ganglo dello Scarpa, entrano nel tronco dell’encefalo e nei nuclei vestibolari. Figura 33 : Il sistema vestibolare Da qui l’informazione diverge, per un verso in direzione della sostanza reticolare attivatrice, per un altro verso va in direzione dei muscoli estrinseci dell’occhio (esiste quindi una stretta relazione tra i movimenti oculari e l’attività vestibolare), e infine va pure verso il midollo spinale, attraverso le vie vestibolo-spinali. Esistono due tipi di recettori vestibolari: i canali semicircolari e il sistema utricolosacculo. I canali semicircolari sono dei tubicini, delle sorta di spiraline, e ne abbiamo tre per ogni orecchio, posizionati nei piani ideali dello spazio anatomico: piano orizzontale, frontale e sagittale (figura 34). Per poter avere informazioni da questo sistema bisogna fare in modo che i canali ruotino intorno al loro asse di rotazione. Ogni volta che compiamo un movimento del capo, qualunque esso sia, eccitiamo tutti o parte di questi recettori in modo differenziato a seconda della direzione del movimento ciò che succede in un orecchio è reciproco nell’altro. Vediamo ora nello specifico com’è strutturato questo sistema. Figura 34 45 Ci stiamo allontanando dal tronco: utricolo e sacculo sono più vicine al tronco e poi la via prosegue con il canale semicircolare. Nel canale si individua una zona, chiamata ampolla, dove si trova il recettore vero e proprio del canale semicircolare: nell’ampolla troviamo un “pavimento” di cellule nervose, che hanno dei villi, o ciglia, riuniti insieme da una sostanza gelatinosa, un po’ come immaginare un pennello da barba con la schiuma. Sono quindi vincolati l’uno all’altro dal punto di vista del Figura 35 movimento. Quando qualcosa sposta questa barbetta, le cellule del pavimento si deformano, come al solito aumenta la conduttanza al sodio e partono i potenziali d’azione, che entrano nel nervo vestibolare. La stimolazione avviene tramite una sostanza liquida contenuta nel canale semicircolare, l’endolinfa, nella cui produzione è coinvolto il fegato: problematiche epatiche possono dar luogo a fastidi vestibolari. L’endolinfa ha una certa viscosità, quindi i movimenti non sono immediati: succede che se si fa ruotare il canale semicircolare intorno ad un asse trasversale(figura 36), il canale si sposta, mentre l’endolinfa rimane ferma, per inerzia, e trascina l’ampolla che, deformandosi, fa muovere i villi e cosi si generano le scariche di potenziali d’azione. L’aumento della frequenza di scarica è proporzionale alla velocità angolare della rotazione. Se si compie la rotazione opposta, il fenomeno non ha luogo: la stimolazione dei villi è quindi unidirezionale, per ogni canale Figura 36 semicircolare, quindi durante questa seconda rotazione sarà il secondo orecchio a sentire la deformazione. E’ quindi chiaro che per avere un’informazione sensoriale completa sono contemporaneamente necessarie le informazioni provenienti da entrambe le orecchie, informazioni che ci danno dei dati sulla rotazione che stiamo compiendo: infatti, la frequenza di scarica è un indice della velocità angolare della rotazione. 46 Questa scarica di potenziali naturalmente si mantiene fino a quando c’è variazione di velocità. Quando la velocità diventa costante l’informazione cessa. Vediamo gli altri recettori. A sinistra della figura 37 è situata l’ampolla, mentre nella parte centrale troviamo l’utricolo: anche qui ci sono delle cellule nervose e delle terminazioni nervose che vanno verso i nuclei vestibolari e il tronco dell’encefalo. Sotto l’utricolo troviamo il sacculo, all’interno del quale troviamo dei villi, che in questo caso però sono protetti da una “tettoia”, dove troviamo delle micro formazioni minerali, calcaree, chiamate otoliti. Figura 37 Il sistema funziona in modo analogo al caso precedente, ma ha sensibilità solo per le accelerazioni lineari, cioè quando ci muoviamo rettilineamente. In figura è mostrato come, muovendosi in direzione M, la forza d’inerzia agisce sulla massa degli otoliti, che determinano la deformazione dei villi, tanto più intensa quanto maggiore è l’accelerazione. Anche in questo sistema, il fenomeno cessa quando la velocità diventa costante. In più, questi recettori danno un’informazione della posizione della testa (e quindi del corpo), nello spazio. Come mostrato in figura 38, se inizialmente ci troviamo in posizione eretta, e stiamo misurando l’attività di scarica, notiamo un’attività di base e costante; appena iniziamo a ruotare, ci sottoponiamo ad una variazione dell’accelerazione di gravità, in quanto è cambiata la nostra inclinazione: col variare dell’inclinazione si nota un aumento della attività di scarica, che si traduce in un aumento dell’informazione che tende a farci rimettere in posizione eretta. Questo meccanismo fa parte del riflesso da Figura 38 raddrizzamento di cui abbiamo parlato. L’intensità di scarica massima si ha quando ci troviamo con la testa rivolta verso il basso: non a caso è una sensazione gradevole, che viene anche dal sistema utricolo-sacculo e dagli otoliti. Si stanno iniziando a studiare gli effetti che la diminuzione o la mancanza di gravità hanno su questo sistema. Abbiamo già accennato al fatto che c’è una relazione con la muscolatura oculomotrice: questo è fondamentale per avere una buona visione dello spazio che ci circonda quando ruotiamo. Il tempo necessario per impressionare la retina da parte di un ambiente illuminato è di qualche centinaio di millisecondi. Se la velocità di rotazione è molto alta infatti non riusciamo a distinguere niente, poiché la retina non viene impressionata abbastanza rapidamente. Il sistema è organizzato in modo tale che nonostante si ruoti la testa, l’occhio mantiene fissa l’immagine sull’oggetto fino a che non lo 47 acquisisce, poi passa al fotogramma successivo. Possiamo quindi dire che questo tipo di acquisizione è digitale. Figura 39 Nella prima delle tre immagini in sequenza in figura 39 vediamo il capo fermo e gli occhi fissi su un punto; non appena inizia la rotazione del capo (senso antiorario), gli occhi restano fissi sul punto, ruotando in senso contrario rispetto alla testa, fino a quando non viene impressionato quel punto. Una volta fatto questo si riportano in linea con l’asse perpendicolare al naso, e inquadrano il nuovo punto. In altre parole, noi riusciamo a recepire un numero di punti non continuo, che viene poi elaborato nella corteccia visiva e ci ritorna come immagine totale. Questo evento è detto nistagmo, che viene evocato proprio per accertare di non avere danni al sistema vestibolare, in un test piuttosto fastidioso dove si fa ruotare una persona in una sedia particolare, e se si hanno malfunzionamenti si possono manifestare capogiri e nausea. Fenomeni quali mal d’auto, mal di nave e simili sono dati tutti da scompensi di questo meccanismo. Vediamo infine una panoramica di tutti i recettori che adesso conosciamo: ci mettiamo in movimento, diciamo che stiamo correndo. Se la velocità è costante non succede nulla; durante la nostra corsa, nel nostro percorso intravvediamo una curva: a questo punto ruotiamo la testa per osservare. Questo movimento è un’eccitazione dei canali Figura 40 semicircolari che, a seconda del movimento che abbiamo fatto danno luogo ad informazioni differenziali ai muscoli posturali, che ci fanno cambiare posizione: in particolare, nell’affrontare una curva, tendiamo ad inclinarci lateralmente, in modo da dislocare il baricentro per non andare fuori traiettoria e 48 mantenere una velocità elevata. Questa è una funzione automatica dei canali semicircolari, grazie anche all’informazione visiva. Questa integrazione di informazioni produce una correzione anticipata della postura, come mostrato in figura. Le macule del sistema utricolo-sacculo vengono attivate da brusche variazioni nell’orientamento spaziale, ma sono importanti anche nel decubito, e servono ad una rapida correzione della postura. I fusi neuromuscolari, che si trovano nei recettori articolari dei muscoli del collo, quando vengono deformati perché sono intervenute delle informazioni provenienti dai canali semicircolari o dal sistema vestibolare, si attivano e contribuiscono al raddrizzamento dell’individuo. Gli esterocettori, ossia quei recettori che abbiamo citato parlando del riflesso flessorio, sono sensibili alle pressioni, e quindi in questo esempio, tramite la pianta del piede, contribuiscono alla correzione dell’asse del corpo, oppure nel torace, rilevano la pressione dell’aria mentre corriamo, e quindi fanno in modo di aumentare la nostra inclinazione in avanti, tutto questo senza che noi ce ne possiamo accorgere, poiché parliamo di meccanismi riflessi. Lezione del 12/12/2008 Riepilogo della lezione precedente. Abbiamo concluso l’ultima lezione parlando dell’apparato vestibolare, uno di quei sistemi che concorrono all’ottimizzazione dei movimenti o del mantenimento della postura. La logica generale che è stata scelta nell’evoluzione è stata di avere una ripartizione nell’ambito del controllo dei movimenti, nelle due grandi categorie di movimenti volontari e movimenti riflessi. Quest’ultima parte è probabilmente più complessa; abbiamo visto che l’apparato vestibolare è molto importante in questo, in quanto consente di stabilizzare la posizione del corpo in funzione della gravità, contribuisce insomma al mantenimento della posizione eretta, oltre alle funzioni che ricopre nel mantenimento dell’equilibrio dinamico quando si percorrono traiettorie che cambiano, contribuendo a distribuire bene le masse e non andare fuori strada, soprattutto se si è in velocità. Effetti omolaterali di lesioni cerebellari. Un’altra importante struttura del sistema di controllo del movimento è il cervelletto. Il cervelletto prende il suo nome proprio dal fatto che sembra una “miniatura” del cervello; se lo si guarda esternamente, esso presenta una corteccia con delle rigature che formano dei solchi un po’ più profondi rispetto a quelli del cervello. In effetti potremmo anche dire di avere due cervelli; il cervelletto ha però una vocazione particolare: si interessa infatti solamente alla funzione motoria, è quindi un organo specializzato al controllo del movimento. E’ possibile fare questa affermazione prima di tutto tramite l’osservazione di soggetti che presentano lesioni in quest’area: ad esempio, la emidecerebellazione, può insorgere per motivi traumatici o motivi chirurgici (a volte i tumori cerebellari, pur essendo spesso benigni, richiedono una lobotomia, quindi la asportazione di metà cervelletto). Questo significa che la metà del corpo omolaterale con la parte di cervelletto fuori uso è senza controllo: si osserva, in questa metà del corpo, un’esecuzione lenta e scorretta del movimento, che non è più automatico e preciso come siamo abituati a conoscerlo. Un’altra caratteristica che si osserva è la decomposizione del movimento, che è ancora più caratteristica: i movimenti che vengono compiuti da questa parte devono essere completamente pensati, manca l’automatismo nel compierli. Un altro effetto delle lesioni emicerebellari è la perdita di equilibrio statico e dinamico, ossia difficoltà a mantenere la posizione eretta sia da fermi che durante la deambulazione. Infine, un segno interessante in quanto è differenziale rispetto ad un’altra patologia (morbo di Parkinson) è il tremore intenzionale, ossia il tremore che si presenta durante l’esecuzione dei movimenti (al contrario dei parkinsoniani che invece presentano tremore da fermi). Questi elementi che si rilevano sulla base dell’osservazione clinica ci dicono che il cervelletto presiede 49 questa funzione primaria. Dal punto di vista dell’organizzazione anatomica, il cervelletto presenta una struttura corticale e delle strutture sottocorticali che fondamentalmente sono dei nuclei di cellule nervose, i cosiddetti nuclei cerebellari. Ci occupiamo, poiché è interessante dal punto di vista circuitale, della corteccia cerebellare. La corteccia cerebellare. La corteccia cerebellare è una struttura molto semplice: è un’organizzazione stereotipata che si ripete per migliaia di unità costituita da 4-5 cellule nervose. La corteccia comunica coi nuclei cerebellari, i quali poi comunicano con tutte le altre strutture del sistema nervoso. La comunicazione tra corteccia cerebellare e nuclei avviene attraverso quella che è l’unica uscita del sistema cerebellare verso i nuclei, ossia la cellula del Purkinje. Nella figura 41 osserviamo il corpo cellulare della cellula del Purkinje, il cui assone va a fare sinapsi col nucleo cerebellare, e si tratta di una sinapsi di tipo inibitorio: quando la cellula del Purkinje viene eccitata dall’attività della Figura 41 corteccia cerebellare, essa inibisce il nucleo cerebellare col quale fa sinapsi, in qualche modo modula le uscite del cervelletto. Questo fenomeno nasce dalle fibre parallele: se osservassimo la corteccia cerebellare dall’alto, vedremmo una sorta di struttura a binari come quella mostrata in figura 42. Periodicamente, da queste fibre parallele, viene fuori una divergenza sinaptica che si attacca alla cellula del Purkinje, in una sinapsi che, come accennato prima, è eccitatoria. In realtà la fibra parallela non è altro che l’assone (assone a T) di una cellula chiamata cellula granulare, come mostrato in figura 41. La cellula granulare è la porta d’ingresso di un certo tipo di informazioni che afferiscono dalle altre parti del sistema nervoso centrale alla corteccia cerebellare. Riassumendo brevemente, abbiamo l’ingresso più importante (c’è anche un’altra modalità di ingresso) che è la cellula granulare, e un’uscita che è la cellula del Purkinje. Figura 42 La cellula granulare, se viene eccitata, produce un’informazione che diverge nei due rami della T lungo la fibra parallela, ed ovviamente interessa tutte le uscite Figura 43 : Cellula granulare e diramazione a T che ci sono lungo la fibra: l’informazione diventerà una funzione della lunghezza della fibra stessa. Le uscite della fibra 50 parallela, per un verso interessano le cellule del Purkinje, per l’altro interessano altri due tipi di cellule: le cellule a canestro e le cellule del Golgi. Le cellule del Golgi hanno una funzione di inibizione in retroazione della stessa cellula granulare: accade che se un segnale arriva alla cellula granulare, esso si diparte nella fibra parallela ed immediatamente, vista la conformazione del circuito, il segnale stesso inibisce la cellula (vedi schema in figura 41). Il segnale continua quindi il suo percorso, ma non si ripete, proprio grazie a questo rapidissimo meccanismo di reset, che immediatamente dopo il passaggio dell’informazione nella cellula granulare, la rende disponibile per un’informazione successiva (e diversa). Questo sistema di controllo è quello che ci consente di effettuare azioni rapide nel tempo: il cervelletto infatti controlla in particolare i movimenti balistici che si ripetono rapidamente, perché può reperire velocemente informazioni in successione, proprio in virtù di questo meccanismo di reset appena esposto. L’altra cellula, la cellula a canestro, se viene eccitata inibisce la cellula del Purkinje della fibra parallela adiacente, come mostrato in figura 44. Vediamo che le due fibre parallele hanno in opposizione reciproca un’uscita per le cellule del Purkinje e un’uscita Figura 44 per le cellule a canestro: si nota come le cellule a canestro, eccitate dalla loro fibra parallela, vadano ad inibire tramite sinapsi inibitoria la cellula del Purkinje ad esse opposte. Questo meccanismo è noto come inibizione laterale. Accade che se nell’istante t0 parte l’attività della prima fibra parallela e all’istante t1 l’attività della seconda (con t0<t1) , nella prima fibra si attivano sia la cellula del Purkinje che la cellula a canestro, che va ad inibire la cellula del Purkinje della fibra che sta di fronte. Questa pulizia del segnale dà ragione della assoluta focalizzazione dell’attività del cervelletto sulla funzione motoria. Sul piano neuronale abbiamo quindi identificato due funzioni: la veloce ripetitività e la focalizzazione dell’informazione. Figura 45 Le informazioni passano e arrivano alla corteccia cerebellare seguendo due possibili vie: la prima è quella delle fibre muscoidi, che danno luogo alla cascata di azioni legate all’attivazione della cellula granulare. Il potenziale d’azione di queste fibre, come mostrato, è molto rapido. La seconda via è quella che si segue attraverso il circuito delle fibre rampicanti le quali, contrariamente a ciò che fanno le fibre muscoidi, agiscono su una singola cellula del Purkinje e, come mostrato, danno luogo ad un potenziale piuttosto prolungato, attraverso un’informazione che proviene da altre zone dell’encefalo. Questa serie di semplici meccanismi si ripete continuamente nella corteccia cerebellare. Andiamo ad analizzare ora una visione di questo circuito un po’ più ampia. 51 Vediamo appunto, nella figura 46, uno schema circuitale più ampio: abbiamo la corteccia cerebellare,e la corteccia motoria (area IV della corteccia cerebrale). C’è una relazione ovvia tra queste due parti perché, come abbiamo detto la volta scorsa, dalla corteccia motoria parte l’informazione volontaria per controllare i muscoli, ma la corteccia non è in grado di sapere se il movimento viene effettuato in maniera corretta: invia dunque le informazioni sia alla periferia che alla corteccia cerebellare. Contemporaneamente, dalla periferia (recettori, OTG, etc.), attraverso le fibre Figura 46 spino cerebellari, vengono inviate delle informazioni su ciò che sta succedendo esternamente alla corteccia cerebellare. In questa sede avviene un confronto tra i dati forniti dalla corteccia motoria e dalla periferia e, se c’è, viene estratto un segnale di errore (nel caso il confronto non dia esito positivo), e questo segnale viene inviato alla corteccia motoria, che in questo modo aggiusta l’informazione in uscita verso la periferia. In termini circuitali, in figura 46 si vede la corteccia motoria, che si connette con le periferie tramite le cellule piramidali. Esse scendono, decussano a livello del ponte, andando sino al midollo spinale senza interruzioni ma diramandosi: abbiamo un’uscita a livello dei nuclei del ponte (tronco dell’encefalo), in cui troviamo dei neuroni che danno luogo alle fibre muscoidi, che vanno ad agire sulle cellule granulari e quindi sulla corteccia cerebellare. Un’altra uscita si ha a livello del nucleo reticolare laterale, da cui ancora si dipartono fibre muscoidi. Infine abbiamo un’uscita verso l’oliva inferiore, che è un altro nucleo tronco encefalico da cui si dipartono fibre rampicanti che vanno ad agire sulle cellule del Purkinje. Il circuito si attiva e da luogo ad informazioni che poi convergono sulle cellule del Purkinje, le quali a loro volta proiettano sui nuclei cerebellari (che non sono uguali, interessano diverse parti del sistema nervoso centrale in termini di trasferimento di questa informazione elaborata dalla corteccia cerebellare). A noi interessa proprio questo loop: cellule del Purkinje, nucleo cerebellare e rientro, attraverso i nuclei del talamo ventrolaterale. L’informazione va dunque in periferia e torna indietro corretta, e l’operatività di questo circuito, in termini biologici, è rapidissima. Ci si chiede su che base il cervelletto effettui delle correzioni delle informazioni inviate dalla corteccia motoria: l’essere umano, oltre ad avere un progetto genetico che gli consente di migliorare la forma e il funzionamento degli organi dall’atto della nascita, ha anche una potenzialità di ottimizzazione di questi organi, per cui, per un certo periodo della vita chiamato età evolutiva, dall’inizio dell’esistenza si accumulano esperienze motorie che in buona parte si traducono in sorta di “schede” nella memoria del cervelletto. Quindi in realtà il cervelletto non fa altro che ricevere l’informazione dalla corteccia motoria e dalla periferia, fa un confronto con queste “schede” e controlla se l’input è corretto o meno, rimandando, nel caso sia necessario, l’informazione corretta alla corteccia motoria. Nell’immagine che segue (figura 47) vediamo gli accessi dalla periferia al cervelletto: dai fusi neuromuscolari e dagli organi tendinei del Golgi si dipartono le fibre Ia e II. Osserviamo inoltre la connessione tra cervelletto e corteccia motoria; a noi interessano anche delle strutture subcorticali di tipo extrapiramidale legate alla postura, che interferiscono coi nuclei vestibolari, adibiti al raddrizzamento e che danno il tono alla muscolatura antigravitaria. Questi due sistemi agiscono sul motoneurone α in modo differente: l’informazione vestibolare, sia che venga mediata dal 52 cervelletto, sia che provenga direttamentte dal sistema vestibolare, agisce direttamente sul motoneurone α; l’informazione che invece scende dalla sostanza reticolare attivatrice attraverso le via reticolo-spinale (mediale e laterale), agisce sui motoneuroni γ dei fusi neuromuscolari, modulandone l’eccitabilità e quindi andando ad agire sulla sensibilità dei fusi stessi . Abbiamo quindi questa situazione: la corteccia motoria manda informazioni al cervelletto, il cervelletto che riceve informazioni dalla periferia, e tramite i suoi schemi rimanda indietro l’informazione corretta sia alla corteccia motoria, che al sistema vestibolare e a quello reticolare, in modo da farci mantenere la postura più corretta per il movimento che stiamo compiendo. Il sistema cerebellare controlla dunque sia il sistema piramidale che l’extrapiramidale. Figura 47 I gangli della base. Tornando un attimo alla figura 28, vediamo che l’altra struttura fondamentale nel controllo del movimento sono i gangli della base. Essi ricevono l’informazione dalla struttura di decisione che è la corteccia associativa e la convogliano, attraverso il talamo, verso la corteccia motoria. Per quanto riguarda il discorso anatomico, essi sono delle strutture subcorticali, dei nuclei, che comprendono il corpo striato, il globo pallido e la sostanza nera. All’interno del corpo striato si riconoscono il nucleo caudato e il putamen, che formano un circuito un po’ intricato. Quello che interessa è che dalla corteccia cerebrale ci sono delle uscite che vanno verso il corpo striato, e in questo modo avviene il passaggio di informazioni, che da qui vanno al globo pallido, l’uscita del globo Figura 48 pallido va ai nuclei talamici, e da qui l’informazione va sia al midollo spinale, sia alla corteccia (ritorna indietro chiudendo il circuito). 53 Quindi i gangli svolgono più o meno un’attività simile a quella del cervelletto: ricevono un’informazione dalla corteccia motoria e, sulla basi di informazioni che possono giungere anche dalla periferia, controllano lo svolgimento dei movimenti lenti e precisi: i gangli della base svolgono una funzione complementare a quella del cervelletto. Osservando l’andamento temporale dell’intervento che queste due strutture operano sul movimento, possiamo dire che il tempo di intervento del cervelletto è rapido, e quindi assimilabile alla funzione gradino, mentre per quanto riguarda i gangli della base, poiché ci troviamo di fronte al coordinamento di movimenti lenti e precisi, tale andamento sarà come Figura 49 quello di una funzione rampa, come mostrato in figura. Entrambi gli andamenti sono necessari, in quanto l’essere umano si serve distintamente sia di movimenti rapidi (pensiamo alla battuta di un tennista) che precisi (pensiamo ad un chirurgo). Come al solito, per stabilire che questa struttura ha queste funzioni, è stata condotta un’analisi differenziale su pazienti affetti da lesioni o malfunzionamenti dei gangli della base. Esistono delle patologie tipiche dei gangli della base, che si dividono in tre categorie: 1) Discinesie: sono generalmente dei deficit o delle difficoltà motorie, e ce ne sono diverse: a) Tremore a riposo: contrario al tremore tipico delle disfunzioni cerebellari, che si presenta durante il movimento, il tremore a riposo è, tra gli altri, uno dei sintomi del morbo di Parkinson; b) Atetosi: questa patologia causa dei movimenti involontari e lenti di torsione delle estremità distali (braccia e gambe); c) Corea di Huntington: si hanno delle scosse involontarie della muscolatura del volto; d) Ballismo: può essere totale o parziale (emiballismo), ed è una patologia caratterizzata da movimenti violenti, ampi e involontari della muscolatura prossimale degli arti. 2) Ipertono muscolare: si tratta di una contrattura eccessiva dei muscoli, e anche questo è, insieme al tremore a riposo, uno dei sintomi del morbo di Parkinson; 3) Bradicinesia: lentezza nel compiere i movimenti, anch’esso sintomo di Parkinson. Quindi, come abbiamo potuto appena vedere, le strutture dei gangli della base sono molto importanti, e possono danneggiarsi o a causa di traumi, anche se sono abbastanza protette essendo nella zona corticale, o per alterazioni, problemi genetici o anche intossicazioni. Per esempio, sono abbastanza note le basi della degenerazione parkinsoniana: si tratta di un’alterazione dei neuroni dopaminergici, che hanno come mediatore chimico la dopamina. Tutti i neuroni hanno un mediatore chimico che ne consente la funzione sinaptica: abbiamo visto gli eccitatori, con l’acetilcolina, ma ci sono altri tipi di mediatori chimici chiamati catecolamine, come l’adrenalina e la noradrenalina, e in questa categoria è compresa anche la dopamina, che si trova in certi neuroni situati nei gangli della base; più precisamente, nella sostanza nera, di cui si è accennato brevemente, ci sono i corpi cellulari di questi neuroni dopaminergici che proiettano i loro assoni nel corpo striato, le cellule del corpo striato poi proiettano sul globo pallido, queste a loro volta sul talamo e poi indietro verso la corteccia. 54 Essendo un circuito un po’ complesso è importante osservare i segni indicati nelle sinapsi: ad esempio, l’assone che si proietta dal corpo strato alla sostanza nera (disegnato in blu scuro) attiva una sinapsi inibitrice con il neurone dopaminergico (azzurro), reazione che va ad inibire a sua volta il neurone disegnato in rosso nel corpo striato, che invece è colinergico e libera acetilcolina. In altre parole, se si attiva il dopaminergico, viene inibito l’inibitore. E’ stato appurato che la lesione che provoca il Parkinson è proprio nel neurone dopaminergico (azzurro), che quindi non può inibire il neurone in rosso, ed essendo quest’ultimo colinergico, si avrà un effetto finale di forte inibizione colinergica che è la causa di tutte le Figura 50 lentezze tipiche dei parkinsoniani. Il parkinsonismo ormai viene curato molto bene, poiché sul piano farmacologico e chimico sono stati fatti dei progressi notevoli. E’ possibile oggi sintetizzare delle sostanze che hanno un effetto simile alla dopamina (generalmente sono dei precursori della dopamina che si iniettano, ad esempio il Levodopa). L’effetto collaterale di questo genere di farmaco è che non va ad agire solo nelle cellule della sostanza nera, ma anche in tutti gli altri recettori sparsi per il corpo, ed essendo la dopamina un mediatore eccitante, è possibile osservare un’eccitazione complessiva del paziente. Abbiamo cosi concluso una carrellata abbastanza rapida del sistema di controllo del movimento. Sappiamo che c’è anche un sistema afferente, lo abbiamo visto quando abbiamo parlato dei propriocettori muscolari, che è il sistema che dalla periferia, attraverso il midollo spinale, porta le informazioni all’encefalo. Quindi la funzione cerebrale si può dire che sia una funzione di comparazione tra i dati in ingresso e le informazioni in uscita. Diciamo che il sistema nervoso motorio ha un reciproco in termini di direzione di informazioni, Figura 51 che chiamiamo sistema sensoriale (o sensitivo). Stiamo quindi introducendo il concetto di sensazione, che non è altro che l’acquisizione cosciente di qualcosa, che proviene o dall’esterno o dalla mediazione di strutture dell’organismo. Ci sono azioni del sistema nervoso che non danno luogo a sensazione cosciente: abbiamo visto ad esempio i riflessi spinali, che devono agire comunque autonomamente. Infatti quando è coinvolta la 55 sensazione cosciente, sull’azione nervosa che si sta attuando vi è la mediazione di carattere culturale, e questa mediazione non è detto che sia sempre e comunque adatta. Ci sono dei meccanismi che devono andare avanti a prescindere dalla nostra volontarietà, come ad esempio il battito cardiaco o il mantenersi in piedi. La maggior parte però delle informazioni che arrivano al sistema nervoso, legate a variazioni dell’ambiente esterno o anche interno all’organismo, raggiungono la coscienza e vengono quindi acquisite: è possibile in questo modo elaborare delle risposte strategiche e non più stereotipate. Se ci riferiamo all’ambiente esterno, possiamo individuare un sistema generale di recezione sensoriale: questo prevede delle strutture specializzate in grado di trasferire in termini di frequenza di potenziali d’azione variazioni di energia (in figura 51 abbiamo infatti ∆E). La fibra afferente primaria, dalla periferia porta l’informazione al midollo spinale; successivamente abbiamo una serie di neuroni intramidollari che chiameremo centro di integrazione dell’informazione. Proseguendo verso l’alto troviamo le fibre ascendenti (fibre spino-cerebellari, spino-talamiche, spino-corticali). Fondamentalmente la maggior parte delle informazioni che dall’esterno entrano nel midollo spinale hanno una prima stazione, a livello subcorticale, nelle strutture che compongono il talamo, che sono una serie di nuclei di cellule nervose, dislocate sotto la corteccia, che recepiscono informazioni da varie zone e, invece di elaborarle, le smistano. Le informazioni che arrivano al talamo tramite le vie ascendenti del midollo spinale, quindi, vengono proiettate attraverso proiezioni talamo corticali, sulla corteccia sensitiva primaria, che è affacciata alla corteccia motoria (tra le due cortecce vi è un solco). La corteccia sensitiva primaria è prganizzata allo stesso modo della corteccia motoria, in modo tonotopico, cioè ci sono strutture della corteccia sensitiva i cui neuroni sono attivati da particolari zone del corpo. E’ possibile quindi disegnare la figura di un corpo dal punto di vista della sensibilità: la sensibilità della testa sarà da una parte, quella delle braccia da un’altra e così via. Tale rappresentazione è chiamata homunculus sensorialis (riproduce il rapporto topografico fra l'ampiezza delle aree corticali dedicate e gli organi o le funzioni – figura 52), che è il contrario dell’homunculus motorio, che è quello che riguarda il movimento (link). Figura 52 : Homunculus sensorialis Si parla di homunculus perché in realtà è deforme; infatti se andiamo a guardare le aree di pertinenza delle varie parti del corpo, non corrispondono alle dimensioni delle stesse parti del corpo: vediamo ad esempio che il tronco è piccolissimo, la lingua è enorme e anche il pollice è enorme. Questo perché l’estensione relativa di zone di corteccia sensoriale è legata alla densità di recettori della parte del corpo che trasmette l’informazione. Maggiore è il numero di recettore, maggiore è la dimensione dell’area corticale, perché devono arrivare le informazioni. Questo è un altro indice di come sia graduata la sensibilità del nostro corpo: la sensibilità del tronco è molto inferiore rispetto a quella che si rileva sulla mano o nella zona buccale, le labbra e la lingua sono infatti zone molto sensibili. I recettori sensoriali. Giusto per conoscenza, vediamo alcune definizioni importanti di questo sistema. Noi abbiamo diversi tipi di recettori sensoriali, ossia di strutture nervose adatte all’acquisizione di informazione derivante dalla variazione di energia (che può essere recepita dal nostro organismo in varie forme, meccanica, termica e chimica ad esempio). 56 I recettori più diffusi sono le cosiddette terminazioni sensoriali libere: il loro corpo cellulare si trova adiacente al corno dorsale del midollo spinale. Parliamo di cellule a T, dove dal corpo cellulare l’assone si prolunga in due diramazioni: una parte recepisce l’informazione dalla periferia, e l’altra entra nel midollo spinale e distribuisce l’informazione con varie sinapsi ad altri neuroni. Questo meccanismo riguarda un po’ tutte le cellule sensoriali, ma in particolare riguarda lo sfiocca mento di fibre sottilissime amieliniche, che abbiamo dappertutto: nei muscoli, sotto la cute. Sono terminazioni nervose che consentono di acquisire informazioni in modo abbastanza aspecifico, al contrario di altre informazioni che siamo in grado di discriminare in maniera molto precisa, ma che non provengono da questo tipo di neuroni. Parliamo di aspecificità perché, basta che un qualsiasi evento depolarizzi la membrana di queste terminazioni nervose per generare la scarica di potenziali d’azione: ad esempio, quest’effetto può essere dato da una compressione, o un’infiammazione locale, che sono due fenomeni ben diversi. Non a caso queste fibre sono in maggioranza deputate alla percezione del dolore, il quale di per sé non è una forma di energia, ma una sensazione. Esistono però altre terminazioni nervose che invece sono specializzate: sono in grado di percepire solo variazioni di determinati tipi di energia. In linea di massima si tratta sempre della solita terminazione nervosa amielinica, che però è circondata da altro, delle capsule di forma e sostanza particolare. Parliamo ad esempio di recettori come quelli mostrati in figura 53, che sono incapsulati, magari terminano con delle sostanze chimiche per cui gli effetti che abbiamo visto prima qui non agiscono. Sono però costruiti per monitorare una forza che agisce su di essi, e quindi una pressione. La sensazione del tatto fisicamente è pressione: agiamo ad esempio con una forza su Figura 53 un polpastrello. La pressione è una sensazione molto discriminabile, in quanto noi siamo in grado di percepire due punti molto vicini o di dosare quantità. Questa precisione dell’informazione è garantita dal tipo di costruzione del recettore, oltre che dalla sua collocazione. Parliamo di sensibilità somatica, ossia presente in tutto il corpo. Esistono però informazioni che nascono da zone localizzate in modo preciso, dai cosiddetti organi di senso. Se ad esempio ci riferiamo all’organo dell’udito, vicino al vestibolo c’è l’organo del Corti, che è proprio l’organo dell’udito, oppure nel caso della vista, abbiamo la retina, mentre per olfatto e gusto abbiamo rispettivamente l’epitelio nasale e le papille gustative: sono appunto zone localizzate e organi molto precisi. Questa era una panoramica degli “agenti” che ci consentono di acquisire le informazioni. Abbiamo dei recettori di questo genere anche dentro il nostro corpo, che ci consentono di far arrivare in maniera meno cosciente sensazioni quali il mal di pancia. A titolo esemplificativo, citiamo i meccanorecettori dell’aorta, che leggono in maniera molto precisa la pressione arteriosa, che viene trasmessa ai sistemi di controllo cardiovascolare che in questo modo la possono tenere sotto controllo istante per istante. Un altro esempio sono dei recettori che sono sensibili alla pressione parziale di ossigeno disciolto fisicamente nel sangue, e regolano la ventilazione polmonare sulla base della quantità di ossigeno presente nel sangue. Il sistema recettore, in ogni caso, ha delle caratteristiche comuni come la soglia (figura 54), che è la quantità di energia necessaria a far partire l’informazione. Figura 54 57 Prima, al fine di semplificare l’introduzione del discorso dei recettori, abbiamo fatto un’affermazione non esatta: non esistono infatti recettori per un solo tipo di energia, ma esistono recettori più adatti a recepire un tipo di energia piuttosto che un’altra, perché per quel tipo di energia hanno una soglia di eccitabilità molto bassa. Per esempio, se consideriamo un recettore come quello in figura 54, chiamato corpuscolo del Paceni, esso ha una terminazione nervosa a cipolla, e tra uno strato e l’altro della terminazione c’è un liquido abbastanza viscoso. Ebbene, se a questo corpuscolo si applica un incremento di temperatura, si nota qualche scarica di potenziale, nonostante lo si stia scaldando parecchio. Se invece si applica uno stimolo meccanico, e quindi una pressione, molto minore rispetto allo stimolo termico precedente, si vede che nonostante ciò si ha una notevole scarica di potenziali d’azione. Allora diremo senza dubbio che questo è un recettore che può recepire anche l’energia termica, ma che è molto più adatto all’acquisizione della pressione. Quindi la soglia ci dice qual è lo stimolo (inteso come forma di energia) più adatto a far funzionare un determinato recettore. E’ evidente che il corpuscolo del Paceni è un meccanorecettore adatto alla rilevazione della pressione, e infatti li abbiamo sotto i polpastrelli. Sovrapposizione dell’informazione e l’adattamento. Per parlare di questo argomento, partiamo da un quesito: come facciamo ad accorgerci che una formica ci sta camminando sul dorso della mano senza guardare? Partiamo dalla considerazione che la formica è una massa, quindi abbiamo bisogno di sensori in grado di recepire una forza, più precisamente una pressione. Ma noi non sentiamo solo la presenza della formica, bensì Figura 55 anche la posizione, la velocità, e questo e legato alla disposizione dei recettori sotto la cute. In figura 55 vediamo due sistemi recettoriali diversi, uno rosso e uno blu, e stiamo analizzando un tratto di cute che in questo esempio è di 7 mm. Notiamo che i recettori rossi sono più abbondanti nella parte superiore del lembo di cute, i blu sono più concentrati a sud, mentre al centro abbiamo una zona di interferenza. Bisogna dire una cosa: l’entità dell’informazione dipende dalla densità dei recettori che ho in superficie. Allora se inizio a far camminare la formica dal punto 0, a maggior concentrazione rossa, e la faccio procedere sino al settimo millimetro, vedrò nel grafico l’informazione che viene rilevata da questi due recettori che sarà la stessa informazione continua e precisa recepita dal midollo spinale e dalla corteccia in maniera tonotopica. Quando ci infiliamo un cappotto, sentiamo immediatamente il suo peso gravare sulle nostre spalle. Immaginare di tenere questa sensazione di peso durante tutto il tempo di indossamento dei nostri indumenti è chiaramente terribile. Invece sentiamo lo stimolo iniziale, e poi la sensazione di peso scompare. In termini di scarica di potenziali, parliamo di recettori a rapido adattamento (grafico verde in figura 56), ossia, tornando Figura 56 58 all’esempio del cappotto, ci dicono quando lo mettiamo, quando lo togliamo, per quanto tempo lo indossiamo e ci comunicano il peso. Per il resto, rimangono spenti. Altri recettori non hanno questa caratteristica, ma si mantengono in funzione per tutta la durata dello stimolo (grafico blu). Per dare una prima conclusione a questo discorso, parliamo della corrispondenza che vi è tra stimoli, quindi energia applicata, e sensazioni, che sono rispettivamente parametri oggettivi e soggettivi. STIMOLI FORZA MECCANICA LUCE TEMPERATURA SOSTANZE IN SOLUZIONE ELEVATA INTENSITA’ DEGLI STIMOLI SENSAZIONI TATTO, PRESSIONE, SENSO DI POSIZIONE, UDITO VISIONE CALDO, FREDDO GUSTO, OLFATTO DOLORE Come mostrato in tabella, per stimoli di forza meccanica, quindi applicazione di forza, le sensazioni risultanti possono essere tatto, pressione, senso di posizione (di un’articolazione ad esempio), udito. Le variazioni dello spettro luminoso ci permettono la visione, mentre la differenza di temperatura, di energia termica, ci permette di provare le due sensazioni differenziate di caldo e freddo. Le sostanze in soluzione (acquosa generalmente) danno luogo al gusto e all’olfatto. Generalmente, quando questi stimoli hanno elevata intensità proviamo dolore. Consideriamo quindi la sensibilità somatica divisa in sensibilità meccanocettiva (tattile, vibratoria e cinestesica, che ci consente di sapere dov’è situata un’articolazione nello spazio senza il bisogno di guardarla), sensibilità termica (al caldo o al freddo), e infine sensibilità dolorifica (di origine culturale, che ci fa distinguere dolore puntorio, dolore urente e dolore profondo). Lezione del 15/12/2008. Riepilogo dell’ultima lezione. L’ultima volta ci siamo fermati all’analisi della relazione che esiste tra i tipi di variazione di energia che possono venire in relazione con l’organismo e ciò che percepiamo culturalmente sul piano della sensazione. Abbiamo detto che nel caso della sensibilità meccanocettiva, possiamo avere tre tipi di sensazioni derivanti dallo stesso input, ossia tattile, vibratoria e cinestesica. La sensibilità tattile è quella che ci consente di individuare le caratteristiche di un corpo col quale le nostre strutture recettoriali esterne vengono a contatto: è la sensibilità più sviluppata dal punto di vista della capacità discriminatoria. La sensibilità vibratoria ci consente di recepire l’applicazione di forze con una bassa frequenza: infatti riusciamo ad acquisire l’oscillazione causata da questa applicazione di forze fatta con una certa frequenza; è chiaro che all’aumentare della frequenza la sensazione risultante tenderà ad essere continua. Per questo tipo di sensibilità sono molto importanti i fusi neuromuscolari e le fibre del gruppo II, che nascono dalla struttura fusale ed entrano nel midollo spinale. La sensibilità cinestesica è legata invece all’esistenza di recettori di tipo meccanico dentro e attorno alle articolazioni, come mostrato in figura 57: abbiamo lo schema generico di un’articolazione, in cui troviamo dei meccanocettori connessi al midollo spinale, che mandano informazioni attraverso delle vie che, possono mischiarsi ad altre informazioni sino alla corteccia sensoriale. Esiste un codice per il riconoscimento del recettore che invia l’informazione, in Figura 57 59 modo tale che a livello corticale possa essere ricostruito lo spazio. Questo ci consente di acquisire l’informazione dell’articolazione nello spazio senza bisogno di guardarla. Se l’energia di attivazione è termica, il tipo di recettore adatto all’acquisizione di questa informazione sarà diverso, sia dal punto di vista della costituzione che da quello della posizione, oltre alla differenza delle vie che portano le informazioni in corteccia. Abbiamo due tipi di recettori, con diversa specializzazione: alcuni più sensibili alle basse temperature (recettori del freddo), altri più sensibili alle alte temperature (recettori del caldo). Abbiamo anche degli esterocettori (in genere sono quelli per il freddo) e degli enterocettori, nell’encefalo e in altre parti del corpo, che invece sono più adatti a rilevare l’aumento di temperatura. Stiamo parlando della sola sensibilità somatica, trascurando le sensazioni che provengono dagli organi di senso: somatica significa infatti che parliamo di una sensibilità i cui recettori sono distribuiti su tutto il corpo. Un altro tipo di sensibilità è quella dolorifica: tutti conosciamo la sensazione del dolore (a parte alcune persone che hanno un’alterazione genetica che non consente loro di provare dolore, il che le pone a rischio continuo, in quanto il dolore è un’informazione di pericolo). Tradizionalmente si distinguono diverse tipologie di sensibilità dolorifica: il dolore puntorio, ben definito dal nome stesso, è quella sensazione circoscritta di un dolore che viene da un punto del corpo, a causa di una puntura ad esempio, ma generalmente a causa di agenti esterocettivi. Questo tipo di dolore è fortemente discriminabile: possiamo infatti distinguere diversi dolori puntori anche in aree molto piccole del nostro corpo. Il dolore urente e il dolore profondo sono invece sensazioni più interne: il dolore urente è esteso in un’area ampia e non è localizzabile in un solo punto, e un esempio ne è il mal di pancia; il dolore profondo è difficile da definire, in effetti può parlarne solo chi l’ha provato, ad esempio malati di tumore. Il dolore oncogeno è infatti un esempio di dolore profondo. Questi tipi di informazioni somatiche sono in grado di integrarsi per fornire una risultante: un esempio tipico è il cubetto di ghiaccio tenuto tra le dita. Noi, pur non guardandolo, riusciamo ad affermare che stiamo tenendo in mano in cubetto di ghiaccio: ci sono tre modalità di informazione sensoriale. Sicuramente interviene il tatto, e ci dà il peso; interviene altresì la sensibilità cinestesica che, fornendoci la posizione delle articolazioni delle dita che circoscrivono l’oggetto, ci comunica la forma stessa dell’oggetto. Infine, la sensibilità termica ci fornisce un’informazione di bassa temperatura. Queste tre informazioni, sulla base dell’esperienza e della cultura personale, vengono integrate in modo automatico e ci fanno capire qual è l’oggetto che stiamo tenendo in mano. Modalità di trasmissione della sensibilità tattile. L’acquisizione di informazione precisa come quella tattile è possibile grazie ad un sistema recettoriale molto raffinato. Pensiamo ad un polpastrello su cui poggiamo la punta di una penna: riusciamo a sentire con precisione il punto di applicazione della forza. Tutto questo è possibile perché a livello di midollo spinale abbiamo un’organizzazione basata sul concetto di inibizione laterale reciproca. Ammettiamo di avere una situazione come quella in figura 58: tre recettori sottocutanei per l’acquisizione della sensazione tattile, ognuno dei quali ha un certo numero di vie sensoriali che convergono su una via nervosa che entra nel midollo spinale e tende ad andare in corteccia. Allora tutto ciò che interessa l’area stimolata viene acquisito dalla via nervosa e così via. Lo stesso discorso vale per tutti e tre i recettori, che del tutto o in parte sono interessati nella deformazione provocata dallo stimolo. A livello dell’ingresso del midollo spinale, da ognuna delle vie nervose dei recettori, si ha una divergenza, per creare sinapsi su interneuroni inibitori, che saranno attivati in maniera proporzionale all’informazione che percorre la via nervosa. Questo processo ha luogo per tutti e tre i recettori, che attiveranno l’inibizione dei neuroni laterali, con la prevalenza per la via nervosa del recettore che acquisisce più informazioni: notiamo infatti che in figura, 60 schematicamente, sulla via nervosa del recettore centrale, abbiamo rappresentato una frequenza maggiore di potenziale d’azione. Figura 58 Questo potenziale attiva l’azione inibitoria sugli interneuroni laterali, in questo modo l’informazione prosegue nel circuito con un andamento quasi lineare sino alla corteccia, e il risultato è il grafico mostrato in basso nella figura: avremo una sensazione più forte a livello del recettore centrale, mentre dai recettori laterali arriverà un’informazione davvero minima. Analizziamo il percorso in modo più specifico. Con questo tipo di circuito riusciamo a focalizzare il punto di maggior stimolazione; diversamente si avrebbe la sensazione di uno sfocamento sensoriale. A livello corticale, come è possibile notare dal grafico, abbiamo una percezione non solo della posizione dello stimolo, ma anche della sua frequenza: abbiamo detto che i nuclei talamici sono dei centri di smistamento delle informazioni dalla periferia verso la corteccia o viceversa, ma all’interno dei nuclei talamici ci sono altri neuroni. Si ha, quindi, anche a livello talamico, una divergenza di informazioni su più neuroni talamici e, come si vede in figura, la distribuzione dell’informazione anche qui non è uniforme, ma seguirà la stessa distribuzione che abbiamo osservato nel passaggio dai recettori al midollo spinale. Finalmente l’informazione giunge alla corteccia: a seconda della quantità di stimoli che attraverso le vie nervose entra a livello corticale, una o più aree della corteccia vengono eccitate, che in maniera tono topica rappresentano tutte le zone del nostro corpo. Quindi, in breve, a seconda della quantità di recettori attivati dallo stimolo, e a seconda 61 dell’intensità dello stimolo stesso, si ha un aumento o una diminuzione del numero di neuroni interessati allo stimolo a livello di corteccia sensoriale, che schematicamente è rappresentata dal grafico dell’andamento della frequenza dei potenziali d’azione. C’è quindi un filtro iniziale che ripulisce l’informazione, successivamente troviamo una possibilità di amplificazione dell’informazione pulita sia a livello talamico che a livello corticale. Questo tipo di trasferimento di informazione è tipico della sensibilità tattile: le altre sensibilità somatiche che abbiamo citato non hanno un’organizzazione così discriminante, ma sono più grossolane dal punto di vista dell’acquisizione dell’informazione. Questa stessa sensibilità tattile però, non ha lo stesso grado di discriminazione in tutti i punti del corpo. Torniamo quindi a parlare della soglia. Prendiamo in considerazione il grafico in figura, e nello specifico la soglia spaziale, rappresentata in rosso. Come si può vedere stiamo prendendo in considerazione diverse parti del corpo. Si prende un compasso e, partendo Figura 59 da un’apertura nulla e allargandolo via via, lo si poggia su queste diverse zone del corpo, si no a quando la zona in questione non rileva la presenza di due stimoli. Dopo di che si legge la distanza in mm tra i due bracci del compasso, e quella sarà proprio la soglia spaziale di quella zona del corpo: in questo modo si ricava il grafico, dal quale si nota che la zona maggiormente sensibile a rilevare due punti distinti è il palmo della mano (in accordo con la teoria alla base dell’homunculus sensorialis), seguito dai polpastrelli, poi dalle labbra e infine dal tronco. Un altro tipo di misura è la soglia assoluta, che stabilisce la massa minima percepibile da una certa zona del corpo: si effettua quindi un test ponendo dei pesetti piccolissimi su queste zone del corpo, e si individua qual è il peso minimo che esse rilevano. L’andamento del grafico della soglia assoluta, come possiamo osservare, segue lo stesso andamento di quello della soglia spaziale, che sono quindi entrambe legate alla densità di recettori. Tutte queste informazioni però non hanno solo una valenza sensoriale e culturale, ma anche clinica: il neurologo, chiaramente, quando effettua questi test su un paziente, si aspetta una certa risposta, quindi questi sono a tutti gli effetti dei test diagnostici. Collegandoci a quanto appena esposto, e facendo riferimento alla figura 60, possiamo ad esempio vedere come ci sia un fondamento scientifico nell’agopuntura, che è un sistema antalgico fisico (e non chimico). E’ possibile, infilando degli aghetti in varie parti del corpo, combattere il dolore: tutto questo ha delle basi neurofunzionali. Ammettiamo di avere di Figura 60 62 fronte un tratto sottocutaneo, dove ci sono delle dei recettori che danno luogo a diverse fibre nervose, che afferiscono al midollo spinale e inviano le informazioni sino all’encefalo. Quando parliamo di tipi diversi di fibre nervose, parliamo di differenze di spessore: passiamo da fibre più grosse, legate ai recettori del tatto, alle fibre più sottili, legate alla sensibilità dolorifica. Vediamo il percorso dell’informazione dolorifica: essa può essere causata da un’alterazione del sistema, sia essa cutanea o di altro tipo, che eccita in modo molto aspecifico i recettori dolorifici. L’informazione arriva dunque al midollo spinale attraverso neuroni del secondo ordine, e arrivano alla corteccia cerebrale. Nel midollo spinale esiste una struttura chiamata sostanza gelatinosa del Rolando, i cui neuroni emettono degli assoni che agiscono in termini di inibizione sulle afferenze dei neuroni del secondo ordine che vanno alla corteccia. I neuroni del secondo ordine possono essere interessati sia da fibre grosse afferenti dalla periferia, che portano informazioni di tipo tattile, sia da fibre sottili che portano informazione dolorifica. Quando l’informazione che arriva è di tipo dolorifico, essa precorre la fibra di colore rosso, che diramandosi, attraverso la sinapsi inibitoria va a bloccare la sostanza gelatinosa, che in questo modo è impossibilitata ad inibire l’informazione dolorifica, che arriva dunque sino alla corteccia. Invece se l’informazione che arriva è di tipo tattile, essa va a stimolare la sostanza gelatinosa che quindi andrà ad inibire le strutture presinaptiche delle fibre dolorifiche. Quindi, quando si va ad infilare l’ago, ad esempio in uno spazio intermedio tra la fibra grossa e quella sottile, si generano entrambi i tipi di informazione: bisogna quindi ricordare che la velocità di conduzione delle fibre nervose è funzione del quadrato del diametro. L’informazione fornita dalla fibra grossa arriva quindi per prima alla sostanza gelatinosa del Rolando, che si attiva ed inibisce le strutture presinaptiche delle fibre dolorifiche, bloccando il dolore. Dalla stessa corteccia possono partire informazioni in grado di attivare la sostanza gelatinosa del Rolando. Vediamo ora le vie nervose che trasportano le informazioni dalla periferia alla corteccia. A sinistra vediamo un circuito delle vie nervose che trasportano le informazioni altamente discriminate: notiamo il tratto cosiddetto neospinotalamico, Figura 61 che è una delle novità dell’evoluzione, ed è quindi più giovane e specializzato. L’informazione entra attraverso le corna dorsali del midollo spinale, lo percorre ed arriva ai due nuclei gracile e cuneato, che sono delle strutture di ricezione dell’informazione da queste vie. Da questi due nuclei partono due vie che insieme formano il lemnisco mediale che, senza interruzione, prosegue fino al talamo ventrobasale, e da qui l’informazione va in una zona ben precisa della corteccia sensoriale. Si tenga presente che le due informazioni che percorrono le corna dorsali e il tratto neospinotalamico restano separate in tutto il loro percorso, entrano nei due nuclei sopracitati e finiscono, tramite il 63 talamo, in due zone ben distinte della corteccia. Questa è la base anatomica che consente di recepire diversi punti in cui il corpo viene stimolato. Altre informazioni, ad esempio di tipo termico e dolorifico, quindi non discriminate, percorrono il circuito rappresentato a destra della figura 61: attraversano il tratto paleospinotalamico, che, al contrario del neospinotalamico, ha diversi incroci. Notiamo diverse sinapsi a livello di midollo, omolateralmente può andare a finire sul talamo ed entrare in corteccia; può anche andare verso la sostanza reticolare attivatrice ed altre zone, formando un circuito parecchio intricato, perché l’informazione dolorifica deve interessare tantissime aree. Possiamo quindi dire che il secondo tipo di sensibilità è molto più importante dal punto di vista della salvaguardia dell’individuo. Le informazioni più discriminate (tattile, vibratoria e cinestesica), per percorrere le nostre vie nervose, si servono del cosiddetto sistema dei cordoni posteriori, che è appunto il risultato dell’evoluzione, mentre le informazioni meno discriminate (dolorifica, termica), si servono del cosiddetto sistema spinotalamico, che è invece un sistema più antico. Infatti, attraverso tale sistema, noi siamo in grado di sentire la sensazione di prurito, che altro non è se non una sensazione ancestrale. L’ipotalamo. Abbiamo così terminato una panoramica di ciò che accade nel midollo spinale. Vediamo invece cosa accade nell’encefalo. Abbiamo tutti quanti sentito parlare dell’ipotalamo, struttura che sta sotto il talamo, ed è un insieme di cellule nervose che danno luogo a nuclei che sono fondamentali per il mantenimento dell’individuo, grazie alla generazione di schemi comportamentali. L’ipotalamo non ha però capacità di scelta, ed ha quindi bisogno di un’altra struttura che dia gli input per l’attivazione dei vari nuclei. Non a caso l’ipotalamo è al centro di tutta una serie di informazioni che entrano ed escono: ad esempio è in relazione col sistema nervoso volontario di cui abbiamo già parlato, col sistema nervoso autonomo; è anche in connessione diretta col sistema endocrino, in quanto è sensibile ad ormoni o gestisce la produzione di ormoni. Le uscite dell’ipotalamo vanno verso tutta una serie di sistemi neuroendocrini atti alla creazione della condizione di omeostasi dell’organismo. L’omeostasi è il mantenimento costante di una certa funzione: ad esempio, la concentrazione di glucosio del sangue, o glicemia, deve rimanere costante, poiché un suo aumento può determinare gravi forme di disidratazione, caduta della pressione e coma iperglicemico (questa patologia è detta diabete mellito), mentre riduzioni della glicemia portano a coma ipoglicemico, in quanto il glucosio è l’unico combustibile del sistema nervoso, e quindi riducendo la glicemia togliamo energia al sistema nervoso centrale che si spegne. Il glucosio è altresì un ottimo combustibile per le strutture muscolari, e non a caso l’organismo ha messo a punto un sistema di conservazione del glucosio, non appena raggiunge la sua concentrazione ottimale nel sangue (100 mg/100 ml): immediatamente viene attivata l’increzione dell’insulina che toglie il glucosio dal sangue e lo manda in cellule di deposito, verso le strutture muscolari, dove esso si ricostituisce in un polimero chiamato glicogeno muscolare, ma anche verso le cellule epatiche, dove questo glicogeno è molto abbondante. Il glucosio viene mandato anche verso le cellule adipose dove viene trasformato in trigliceride e quindi in grasso di deposito. A questa omeostasi bada l’ipotalamo, in quanto in esso sono contenuti il nucleo ventromediale e il nucleo laterale che sono sensibili alla glicemia. La sensazione di fame, così come quella di sazietà, è regolata proprio da questi due sistemi, che leggono la glicemia. Un’altra condizione che riguarda l’omeostasi è ad esempio l’omeostasi termica, in quanto il nostro organismo è un sistema che funziona alla temperatura costante di 37° C: variazioni di questa temperatura interna possono essere molto dannose, in quanto le funzioni enzimatiche del nostro organismo hanno bisogno di quella specifica temperatura per funzionare al meglio. L’ipotalamo possiede quindi dei termocettori che regolano la quantità di calore prodotto e consentono di risparmiare il calore stesso, attraverso due meccanismi: per aumentare la quantità di calore agisce su un’altra ghiandola, 64 la tiroide, regolando l’increzione di tiroxina, ormone che svolge la funzione di immagazzinamento delle sostanze tramite fosforilazione, e la funzione di ossidazione delle sostanze, ossia le “brucia” per produrre calore. Si ha inoltre una vasocostrizione periferica, per allontanare il sangue dalla cute e aumentare la barriera di protezione termica e limitare la perdita di calore. L’ipofisi mette in moto anche altri meccanismi culturali quali lo spostarsi all’ombra in caso di temperature eccessive, o il mettere un cappotto in caso di freddo, e così via. L’osmolarità dei liquidi interni all’organismo è un altro meccanismo legato al mantenimento dell’entropia: 300 mosm/l (milliosmoli per litro) è l’osmolarità del sangue e di tutti gli altri liquidi extra cellulari. Le alterazioni dell’osmolarità indicano variazioni del volume di liquidi: in primis la volemia, ossia la quantità di sangue in circolo (mediamente di 5 l). Un aumento dell’osmolarità trattiene acqua, che fa aumentare la volemia, che ha implicazioni emodinamiche quali l’aumento di pressione, ed infatti uno degli strumenti più usati per ridurre la pressione negli ipertesi sono i diuretici, in modo da far espellere acqua e ridurre la volemia. Questo è lo stesso motivo per cui agli ipertesi è sconsigliato assumere in grandi dosi cloruro di sodio, in quanto fa aumentare l’osmolarità, la ritenzione di liquidi e di conseguenza volemia e pressione. Tutte queste regolazioni, a livello ipotalamico, vengono effettuate dagli osmocettori, che leggono questa informazione e regolano di conseguenza la diuresi e la sensazione della sete. Anatomicamente, l’ipotalamo ha relazioni col talamo, e quindi con le strutture di smistamento delle informazioni tra periferia e corteccia, ha relazioni col sistema limbico, di cui non abbiamo ancora parlato ma che è un sistema subcorticale abbastanza complesso legato alla affettività del soggetto (da non confondere con l’accezione romantica del termine; per affettività si intende la capacità di rispondere immediatamente con azioni e comportamenti per la salvaguardia dell’individuo, ad esempio la risposta ad uno schiaffo). Il sistema limbico manda le informazioni all’ipotalamo che regola in questo modo i comportamenti che teniamo, che sono oltretutto mediati culturalmente dalla corteccia che sovrasta il sistema limbico stesso. I nuclei ipotalamici hanno delle uscite anatomiche verso la neuroipofisi, e quindi regolano la produzione di un certo tipo di ormoni (ad esempio l’ormone antidiuretico, che viene prodotto proprio in questa ghiandola e trasferito nel sangue quando necessario, oppure l’ossitocina, ormone importantissimo nelle donne durante il parto, in quanto necessario alla dilatazione dell’endometrio uterino e alla contrazione della muscolatura liscia dell’utero). Un’altra struttura controllata dall’ipotalamo è l’adenoipofisi, che altro non è se non un’altra parte dell’ipofisi, attraverso un circuito ematico molto fine che scende dall’ipotalamo e produce tutti i releasing factors (ormone della crescita, della corteccia surrenale etc.). Riceve inoltre informazioni nervose dal tronco dell’encefalo e dal midollo spinale, informazioni che possono essere di tipo olfattivo, gustativo, somestesico o anche di tipo tattile; l’ipotalamo riceve quindi tutte queste informazioni e gestisce le risposte dell’organismo, che possono essere di tipo involontario, attraverso il sistema riflesso, oppure di tipo più complesso e comportamentale. Vediamo meglio il funzionamento dei termocettori talamici. Esistono due modalità di acquisizione dell’informazione: una nasce in periferia ed è legata ad un certo tipo di recettore sensibile alle basse temperature. Questa informazione entra, come tutte le altre informazioni sensoriali, al midollo spinale, ed Figura 62 arriva al centro di controllo ipotalamico della temperatura, dove però arrivano informazioni anche da endorecettori ipotalamici che leggono la 65 temperatura del sangue. Abbiamo quindi un’informazione della temperatura esterna, una della temperatura interna, e nel centro di controllo della temperatura si effettua una differenza tra queste informazioni. Il differenziale viene trasformato in informazione di regolazione per la produzione o la dispersione del calore. Vediamo ora un diagramma a blocchi sul funzionamento di questo sistema. Figura 63 In alto, da sinistra verso destra, vediamo che c’è la temperatura del corpo, la risposta ipotalamica al caldo, e quest’informazione va al centro termoregolatore ipotalamico che definisce e attiva meccanismi per l’aumento della dispersione di calore e la riduzione di produzione di calore attraverso il metabolismo. In caso di temperature basse, si ha la risposta ipotalamica al freddo, una diminuzione della dispersione del calore (attraverso la vasocostrizione) e un aumento della produzione del calore metabolico, attraverso l’aumento dell’increzione degli ormoni tiroidei attraverso il metabolismo. Non è un caso che i soggetti affetti da patologia ipertiroidea siano più magri del normale e soffrano il caldo. Sempre in figura 63, vediamo, rappresentato in blu, uno schema di paragone “meccanico” con le strutture del nostro organismo. Vediamo ora, il controllo generale che l’ipofisi ha sul sistema endocrino, che è un sistema molto importante. Dall’ipotalamo, anatomicamente nasce l’ipofisi, la quale, come abbiamo già accennato, si divide in adenoipofisi anteriore e neuroipofisi posteriore. Dall’adenoipofisi nascono degli ormoni che ad esempio controllano la tiroide (TSH), oppure controllano lo sviluppo dell’organismo in età evolutiva (ormone della Figura 64 crescita), ma soprattutto, in seguito ad un pasto iperproteico, l’ipofisi rilascia nel sangue una sostanza per preservare quelle proteine in eccesso e non utilizzarle come combustibile. Stimola inoltre la disponibilità di grassi e zuccheri mentre si è a digiuno: svolge quindi una funzione di mantenimento delle masse muscolari. Nelle donne, durante il periodo dell’allattamento, rilascia la prolattina, che è un ormone che stimola la produzione di latte dagli acini ghiandolari della mammella. La prolattina è presente anche negli uomini, ma non si sa ancora a cosa serva; tuttavia, c’è una relazione interessante tra la prolatinemia e il turnover del neuromediatore dopamina, in neuroni dopaminergici che non sono situati nei gangli della base, ma nella cosiddetta zona mesolimbica (che è coinvolta nel discorso dell’affettività), dove 66 è fondamentale per il controllo dei comportamenti che nascono da gratificazione consapevole, che è il meccanismo che ci fa ripetere un’azione che ci dà piacere. Da una parte esso è un meccanismo per la salvaguardia della specie, in quanto alla base del comportamento sessuale, della ricerca del cibo, l’aggressività, ma è anche alla base delle dipendenze da sostanze stupefacenti. E’stato dimostrato che anche l’esercizio fisico, se fatto con costanza, poiché tiene l’organismo in forma, crea dipendenza. Oltre a tutto questo, nell’adenoipofisi vengono prodotti anche ormoni per il controllo delle gonadi, e infine, importantissimo, l’ormone adrenocorticotropo (ACTH) che, increto nel sangue, implica la produzione da parte della corteccia del surrene di cortisolo (glucocorticoide in grado di aumentare la glicemia e responsabile dello stress: quando si ha bisogno di energia supplementare, il cortisolo scinde il glucosio a livello epatico immettendolo nel sangue, e blocca la produzione di glicogeno da parte dell’insulina, tenendo alta la glicemia). Esiste un meccanismo a feedback (generalmente negativo) della concentrazione sanguigna di questi ormoni appena citati in rapporto alla loro produzione: l’ormone viene prodotto, il sistema nervoso centrale, attraverso l’ipotalamo, coordina la sintesi e l’increzione di uno di questi ormoni; si attiva l’adenoipofisi che rilascia l’ormone nel sangue, che successivamente raggiunge le cellule bersaglio, e il surplus di ormone costituisce il feedback negativo per l’ipotalamo, il che rende questo controllo completamente automatico. Figura 65 Passiamo ora all’analisi dei processi di controllo dell’osmolarità a livello ipotalamico. Nel nostro organismo abbiamo un input e un output idrico: l’input è chiaramente l’ingestione di acqua, mentre l’output è sostanzialmente costituito dall’urina, ma abbiamo anche la sudorazione, la perspiratio insensibilis di acqua e la respirazione (ogni volta che espiriamo emettiamo vapor acqueo). L’incremento del volume idrico non dipende solo dall’ingestione di acqua: ricordiamo che ogni volta che bruciamo 1 mole di glucosio produciamo 6 moli d’acqua. L’acqua ha quindi anche un’origine metabolica, ed essa è molto importante non solo per il mantenimento del volume del sangue, ma anche la concentrazione di acqua stessa a livello Figura 66 intracellulare. Nell’ipotalamo abbiamo delle cellule dedicate chiamate osmorecettori, che leggono l’osmolarità e si attivano non appena essa si muove dal valore di 300 mosm/l, regolando la produzione dell’ormone antidiuretico, o vasopressina (ADH), che avviene a livello dell’ipotalamo stesso. Questo avviene per trasporto assonico attraverso la neuroipofisi posteriore, che lo immette nel sangue. Una volta nel sangue, l’ADH arriva a livello renale, più precisamente a livello dei tubuli collettori, che normalmente sono impermeabili all’acqua, e l’antidiuretico non fa altro che rendere il tubo permeabile all’acqua, che può quindi 67 passare attraverso la parete del tubulo collettore. Sostanzialmente accade che per riaumentare l’osmolarità del sangue si regola il sistema in modo da espellere urine ridotte in volume ed altamente concentrate (1200 osm), mentre per far diminuire l’osmolarità stessa il sistema agirà in modo da produrre un volume di urine più consistente, e quindi meno concentrato (300 osm). In poche parole, il rene ogni giorno filtra 180 l d’acqua dal sangue, di cui l’80% viene riassorbito a livello dei tubuli collettori e rimesso in circolo. Se non ci fosse l’ormone antidiuretico quindi, espelleremmo 36 litri d’acqua al giorno: questa patologia è detta diabete insipido, perché produce lo stesso effetto volemico del diabete mellito; ricordiamo però che il diabete mellito è dovuto ad iperosmolarità del liquido, per presenza di glucosio nel filtrato, che ha una rilevante funzionalità osmotica, e quindi trattiene acqua causando poliuria diabetica che poi porta ad ipovolemia, caduta di pressione e coma; in questo caso si ha una poliuria, ma che non ha le stesse origini di quella da diabete mellito, bensì è causata da una lesione della neuroipofisi. Oggi questa patologia si tratta farmacologicamente: diversamente, i pazienti affetti da diabete insipido sarebbero destinati alla morte. Riassumendo, abbiamo una riduzione di acqua nei tessuti che provoca l’attivazione degli osmorecettori; si attiva la neuroipofisi che produce ADH che attraverso i vasi raggiunge i reni, e qui si ha il riassorbimento aumentato di acqua attraverso la permeabilizzazione dei tubuli collettori: ciò provoca una perdita d’acqua a livello renale e l’innescamento Figura 67 della sensazione di sete. Naturalmente vale anche il procedimento contrario: se c’è un eccesso di acqua nei tessuti, viene ridotta l’attività degli osmorecettori, e di conseguenza diminuisce la produzione di ADH a livello di neuroipofisi, si ha riduzione di permeabilità dei tubuli, accumulo di acqua nei reni, e grande quantità di urine. Misurando la densità delle urine siamo quindi in grado di dire se un soggetto è o meno a rischio di disidratazione: se la densità è alta sarà a rischio, viceversa, le urine risulteranno poco concentrate, il soggetto sarà iperidratato. Figura 68 Concludiamo parlando di un’altra funzione importante dell’ipotalamo riferendoci ad un esperimento condotto su un gatto anestetizzato. L’esperimento consiste nella stimolazione dei nuclei ipotalamici per conoscerne la funzione. Abbiamo degli elettrodi inseriti nel nucleo ventromediale, e in un altro piccolo nucleo più in alto (rappresentato in verde). Il nucleo ventromediale possiede delle cellule chiamate glucostati, che sono le uniche cellule nervose che hanno bisogno dell’insulina per assorbire glucosio. 68 Un incremento della glicemia corrisponde ad un incremento del glucosio in queste cellule, che fanno cessare nell’animale l’appetito, lo pongono in uno stato di quiescenza e lo fanno addormentare. Possiamo notare, in figura 68, una serie di informazioni comportamentali dell’animale, a cui corrispondono una serie di informazioni oggettive come la pressione del sangue, l’attività peristaltica dell’intestino, e il flusso sanguigno che arriva nell’intestino e nei muscoli. A causa della stimolazione del nucleo ventromediale, l’animale presenta il comportamento descritto nella colonna sinistra: stato di allerta e cammina annusando alla ricerca di cibo. Inizia a mangiare, si smette di stimolare il nucleo ed immediatamente smette di mangiare. Notiamo che la pressione del sangue, rispetto allo stimolo descritto nella colonna destra, è più bassa che dopo, mentre la peristalsi dell’intestino è più alta, come se avesse ingerito e iniziasse a digerire, stesso motivo per cui è aumentato il flusso ematico intestinale, necessario ad assorbire le sostanze digerite. A causa di questo elevato flusso ematico intestinale, il flusso a livello muscolare diminuisce. Successivamente si va a stimolare l’altro centro, legato all’aggressività, e si osserva la serie di comportamenti descritti nella colonna destra: inarcamento della schiena, estrazione delle unghie, piloerezione, ed infine l’animale sbava ed urina. Questo comportamento non avrebbe motivo d’essere, l’animale in precedenza dormicchiava ed era tranquillo: sappiamo per certo quindi, che quella reazione è provocata dalla stimolazione della seconda area. A livello fisiologico si ha un aumento della pressione del sangue, azzeramento della peristalsi dell’intestino, poiché la digestione, in questa situazione di emergenza, ruberebbe energia. Diminuisce per lo stesso motivo il flusso ematico intestinale, che viene convogliato nei muscoli. Dopo la fine dello stimolo, l’animale riprende la precedente condizione di quiescenza. Riepilogando, l’ipotalamo è una struttura che interagisce con diversi centri nervosi: col tronco encefalico, col quale scambia informazioni sia a livello volontario che a livello autonomo; interagisce col sistema limbico, che è una struttura complessa sottocorticale legata, come abbiamo detto, all’affettività; tale sistema fa in modo, in cooperazione con l’ipotalamo, di creare determinate reazioni comportamentali coerenti con la salvaguardia del soggetto, al di là di mediazioni culturali. Il sistema limbico è connesso con il lobo frontale della corteccia, che è la sede di integrazione delle informazioni dove si crea una risposta “personalizzata” agli stimoli esterni. Abbiamo infine la corteccia associativa che media col sistema limbico. La conclusione di questo discorso è che noi, in quanto individui, siamo caratterizzati da quadri espressivi, non soltanto da espressioni facciali ma anche da comportamenti veri e propri, che vengono gestiti dal sistema limbico: esso infatti media tra l’azione dell’ipotalamo e il controllo culturale della neocorteccia. Il quadro espressivo altro non è se non la risposta alla variazione della situazione ambientale mediata dal filtro composto da sistema limbico, ipotalamo e neocorteccia. Lezione del 19/12/2008. Il muscolo scheletrico. In conclusione di questa prima parte del corso, inizieremo a parlare della macchina muscolare. Riprenderemo quindi le nozioni anatomiche e cercheremo di capire il funzionamento chimico di questa struttura che attua una trasduzione di energia, passando dall’energia chimica contenuta nei tre legami (altamente energetici) fosforici dell’adenosintrifosfato, i quali, in condizioni idonee, si scindono, e questa energia viene trasformata o in altri legami chimici (nel cosiddetto anabolismo), o in forza meccanica applicata dalla macchina muscolo. La caratteristica dinamica della struttura muscolare scheletrica è quella di accorciarsi. I muscoli non si allungano, vengono allungati da forze applicate su di essi, ma se eccitati, tendono a ridurre la loro lunghezza. Possono riuscirci solo nel caso in cui la forza o il carico applicati siano inferiori alla massima forza che possono produrre: se le due forze si equivalgono si ha la cosiddetta contrazione senza movimento (o contrazione isometrica, 69 tipica dei muscoli posturali, che stanno in contrazione ma bilanciano la forza peso distribuita fra di loro); se invece avviene la contrazione, essa viene detta contrazione isotonica (o concentrica), e in questo caso si compie lavoro meccanico. Esiste infine anche la contrazione eccentrica, che si manifesta quando il muscolo genera una forza necessaria a contrarsi ma i carichi applicati sono superiori a questa forza, per cui esso viene comunque allungato. Alla base di queste caratteristiche c’è una complessa struttura molecolare di tipo proteico, chiamata sistema delle proteine contrattili : è infatti noto che sostanzialmente alla base del movimento muscolare vi sono le due proteine actina e miosina, che al loro interno hanno una struttura ulteriormente complessa. Queste due proteine, scivolando l’una sull’altra, producono forza, che per essere prodotta ha bisogno di altri fattori: c’è sicuramente bisogno di energia potenziale, fornita dall’adenosintrifosfato, che ha bisogno di un trigger che dia l’inizio, che è lo ione Ca++, presente nel sarcomero ad un basso livello di concentrazione. In determinate condizioni lo ione Ca++, contenuto nel reticolo sarcoplasmatico, vicino al sarcomero, viene liberato, e la sua concentrazione aumenta tantissimo, rendendolo disponibile alla sua funzione di trigger, ossia di aggancio delle due proteine, con conseguente scorrimento. Il primo passo di questo fenomeno è sempre lo stesso, ossia la depolarizzazione della membrana della cellula muscolare, la quale avviene, normalmente, quando uno specifico neuromediatore (acetilcolina) viene estruso dalla terminazione nervosa che fa sinapsi con la cellula muscolare (giunzione neuromuscolare). La terminazione nervosa non è altro che un assone di un motoneurone α che sta a livello del midollo spinale che, quando viene attivato produce una scarica di potenziali d’azione che si traduce in una quantità di acetilcolina che viene estrusa nello spazio intersinaptico, tra membrana presinaptica neuronale e membrana postsinaptica muscolare; quest’ultima ha delle strutture specifiche, dei recettori di membrana adatti a legarsi con l’acetilcolina. Il legame tra acetilcolina e recettori determina un aumento di conduttanza al sodio, che fa scattare una depolarizzazione della membrana, e questo evento libera lo ione Ca++ dal reticolo sarcoplasmatico e, per gradiente di concentrazione, va ad invadere il sarcomero. Inizia così la contrazione, evento che in termini biologici ha un tempo d’esecuzione molto rapido. La possibilità di produrre forza per tempi prolungati è legata alla rapida successione di contrazioni e stiramenti della struttura muscolare o meglio, alle rapide depolarizzazioni e ripolarizzazioni che avvengono a livello di membrana. Possiamo osservare, nell’immagine a lato, una sezione di muscolo ingrandita al microscopio, dove è possibile distinguere una struttura muscolare frammista a cellule adipose. Figura 69 70 Vediamo ora, tramite uno schema esploso(figura 70), come una grossa struttura come una massa muscolare, non sia altro che un ripetersi, in termini di lunghezza e spessore, dell’unità morfofunzionale del muscolo, cioè il sarcomero. Consideriamo il muscolo in figura (bicipite), lo deafferentiamo ad un capo e lo allunghiamo; iniziamo successivamente a sezionarlo e troviamo dei fascicoli allungati, dei cilindroidi, che sono le fibre muscolari che, a seconda del tipo di muscolo possono essere anche piuttosto lunghe. Andando ad osservare l'interno della fibra muscolare, troviamo una membrana di connettivo e si individua un'altra struttura ancora più piccola, la miofibrilla, al cui interno Figura 70 troviamo una struttura lineare composta da elementi posti in serie fra di loro, anatomicamente delimitati da delle bande che istologicamente sono dei discoidi che uniscono un elemento all’altro. L’elemento delimitato dalle due bande è proprio il sarcomero. Schematicamente, il sarcomero è rappresentato dalla struttura rappresentata a lato. Macroscopicamente si compone di due tipologie di filamenti: quelli sottili, di actina, che vanno dalla banda Z e protrudono verso Figura 71 l’interno; notiamo che i filamenti di actina di ogni sarcomero sono opposti e non si toccano. All’interno di due coppie di filamenti di actina si trova un altro filamento, apparentemente staccato dai dischi Z intercalari: si tratta della miosina, o filamento grosso. Quando il sistema viene attivato si generano delle forze che tendono a far avvicinare le bande Z, con uno scorrimento dell’actina sulle teste di miosina che tende ad accorciare il sarcomero. 71 In questa immagine abbiamo una fibra muscolare, con le sue miofibrille, a cui arriva una terminazione nervosa da un motoneurone α, che si sfilaccia e innerva un certo numero di fibrille, e quindi un certo numero di strutture sarcomeri che. Quando si ha una stimolazione o artificiale o da parte del motoneurone α avviene, a livello di membrana, a causa dell’acetilcolina, la depolarizzazione mostrata in grafico. Se andiamo a vedere il grafico in basso notiamo che il propagarsi del potenziale d’azione provoca un picco di incremento di concentrazione dello ione Ca++ all’interno del sarcomero; successivamente a questo evento si osserva il fenomeno di produzione di Figura 72 forza tra le due bande Z: questo evento meccanico è detto stato attivo. L’ampiezza di questo impulso di forza è costante, ed è sempre la massima possibile che il sarcomero può generare. Il valore assoluto dello stato attivo dipende dalla lunghezza del sarcomero: si ha infatti una lunghezza ideale per la quale si ha la massima ampiezza dello stato attivo, per cui un sarcomero di lunghezza maggiore o minore rispetto a quella ideale ha uno stato attivo di ampiezza inferiore a quella massima; vedremo in seguito il perché. Il meccanismo è quindi innescato da un’eccitazione (potenziale d’azione), che provoca l’accoppiamento tra actina e miosina (estrusione di ione Ca++) che genera la contrazione (stato attivo): tra queste fasi essenziali della contrazione muscolare c’è evidentemente un ritardo in termini di tempo. La miosina. Vediamo ora schematicamente la morfologia della miosina: si tratta di un fascicolo di strutture filiformi, come bastoncelli (circa 100 per fascicolo), caratterizzati da una forma simile a quella di una mazza da golf, la cui estremità (testa della miosina) è composta da meromiosina pesanteMMP, mentre il corpo centrale allungato è composto da meromiosina Figura 73 : Miosina 72 leggera-MML. La lunghezza media dei filamenti di miosina nell’uomo è di circa 1200 Å; se noi disponiamo questi filamenti in un fascio, chiaramente le teste andranno a disporsi in diversi punti: andando a considerare le teste di miosina giacenti sullo stesso piano, si è notato che la loro distanza è costante ed è pari a 400 Å. Le teste della miosina hanno una forte affinità con l’ATP, per cui, quando ne trovano in circolo, lo catturano, e in una zona vicinale alla testa della miosina, nel bastoncello, si trova un sito enzimatico ATPasico che è il responsabile della scissione dell’ATP e della generazione di energia. Figura 74 : Testa di miosina L’actina. Andiamo ora a vedere il cosiddetto filamento sottile, l’actina, che in realtà più che un filamento, è un sistema proteico multi molecolare. Il filamento è infatti un concatenamento di molecole sferoidali che sono proprio molecole di actina. Tali molecole hanno un diametro di circa 55 Å e sono polarizzate, e in questo modo si attaccano formando una specie di “collana”. Il filamento di actina è formato da una doppia elica composta da due di queste collane, conformazione che prevede dei nodi e delle espansioni: in presenza dei nodi si trova un’altra struttura molecolare, chiamata troponina, e la distanza tra due nodi è esattamente di 400 Å, come le due teste di miosina Figura 75 : Actina nello stesso piano. Si ha un’altra struttura molecolare filamentosa chiamata tropo miosina, che è situata nel solco formato dalle due collane. 73 Cross-link acto-miosinico. Proviamo a vedere in sezione il sistema: a riposo, la troponina I ha affinità con l’actina e vi si attacca, la troponina T ha affinità con la tropomiosina e le impedisce di finire in mezzo al solco, mentre la troponina C ha affinità con lo ione Ca++. In condizioni di non contrazione, il sistema troponinatropomiosina forma, con l’asse delle due molecole di actina, un angolo di 50°. Le teste di miosina, che contengono ATP, poggerebbero sull’actina, se non ci fosse il sistema troponinatropomiosina ad impedirlo. Dobbiamo tener conto del fatto che sia la testa della miosina che l’actina sono polarizzate negativamente. Abbiamo quindi una repulsione elettrica tra questi Figura 76 due sistemi. Quando si passa allo stato 2 di attivazione, ossia una depolarizzazione che ha liberato calcio dal reticolo sarcoplasmatico verso il sarcomero, fa diffondere rapidamente Ca++ che si attacca alla sub unità C della troponina. In questo modo la sub unità I si sgancia dall’actina, e l’energia accumulata dalla tropo miosina la spinge all’interno del solco, portandosi dietro tutto il sistema e liberando il sito di attacco tra teste di miosina ed actina. Si tenga presente che l’ATP contenuto nelle teste di miosina è ancora integro, che a questo punto innesca il meccanismo di contrazione muscolare. La contrazione muscolare. Figura 77 74 Facendo riferimento all’immagine 77, vediamo un modello elettrochimico della contrazione muscolare. Nella prima immagine della sequenza vediamo il banda Z e l’interno del sarcomero: abbiamo il filamento di actina con la troponina, il filamento di miosina e notiamo che c’è ATP in circolo. Sia l’actina che la miosina sono caricate negativamente, ma il sito ATPasico della miosina fa si che essa venga caricata sulla testa, aumentandone l’elettronegatività. Successivamente uno stimolo depolarizza la membrana delle cellule muscolari e viene liberato lo ione Ca++ nel sarcomero, che arriva in prossimità della sub unità C della troponina, viene catturato e si crea una sorta di legame tra l’uno e l’altro. A questo punto il calcio va a svolgere l’ulteriore funzione di polarizzazione positiva della testa di miosina, che si piega e si avvicina al filamento di actina. La testa, piegandosi, determina una variazione di lunghezza ∆l della banda Z, e quindi si genera lavoro. Nel momento in cui avviene questo, l’ATP viene scisso dal sito ATPasico, però la testa della miosina rimane attaccata all’actina: in questo modo si passa da un complesso ad alto livello energetico ad un complesso a basso livello energetico (sequenze 5 e 6). Inoltre l’ADP, che non ha affinità con la testa della miosina, si sgancia; nel frattempo la ripolarizzazione della membrana della cellula muscolare non consente più uscita di calcio dal reticolo sarcoplasmatico. Questo è importante, in quanto il movimento muscolare si basa sulle contrazioni: è quindi necessario riportare continuamente il calcio nel reticolo sarcoplasmatico, che non può tornare indietro autonomamente, essendo contro gradiente. La concentrazione di calcio nel reticolo infatti è sempre più alta di quella nel sarcomero. Nella struttura del reticolo sarcoplasmatico si spende energia per sfruttare meccanismi esterni di origine metabolica: ci sono delle pompe che prendono il calcio dal sarcomero e lo riportano, contro gradiente, nel reticolo sarcoplasmatico, spendendo in questo modo ATP. Tuttavia questo meccanismo è lento, e non dà ragione della rapidità di contrazioni e rilasciamenti. Vediamo ora il reticolo plasmatico più nello specifico. Istologicamente notiamo la fibra muscolare, avvolta da guaina connettivale, sotto la quale Figura 78 : Reticolo sarcoplasmatico possiamo osservare le miofibrille e i sarcomeri che le compongono. Attorno alle fibrille c’è una struttura di piccoli canali e, in corrispondenza della banda Z, a livello di demarcazione tra un sarcomero e l’altro, i canali si fondono e formano le cosiddette cisterne, dove si ha l’effettivo addensamento del calcio. Ovviamente la concentrazione di calcio nel reticolo sarcoplasmatico dipende dalla calcemia, ossia dalla concentrazione di calcio nel sangue, a sua volta dipendente dalla tireotropina tiroidea (TSH), dal paratormone delle paratiroidi, dal calcio che assumiamo con la dieta e dal calcio presente nelle ossa, che non serve solo a strutturare le ossa, ma funge da vera e propria riserva minerale per l’organismo. Nell’immagine notiamo due zone, denominate A e I: la banda A è costituita da filamenti spessi (che durante la contrazione mantengono la stessa lunghezza), mentre la banda I è la zona del sarcomero occupata dai filamenti sottili. Abbiamo detto che nella zona di congiunzione tra A ed I 75 (cioè la banda Z), il reticolo sarcoplasmatico presenta la cisterna, dalla quale si dipartono tubuli disposti longitudinalmente che confluiscono in una cisterna fenestrata centrale. Alla confluenza di due cisterne terminali è presente, tra le due cisterne una formazione tubulare detta tubulo T, si tratta di una invaginazione del sarcolemma il cui lume comunica con l'ambiente extracellulare ma non con il lume del reticolo sarcoplasmatico. Le membrane dei due sistemi sono affrontate ma separate da un interstizio. L'insieme di queste formazioni (tubulo a T+cisterne) prende il nome di triade del reticolo ed è connessa alla modulazione del rilascio di ioni calcio necessari per consentire la contrazione. Schematicamente, in figura, vediamo la membrana della miofibrilla, il tubulo a T, interfacciato alle due cisterne. Notiamo che a riposo la concentrazione del calcio nel reticolo sarcoplasmatico è di 10-8 mM. Il potenziale d’azione provoca un’inversione di polarizzazione della membrana, evidenziata nella sequenza 2 di quest’immagine, e permette la fuoriuscita di Ca++ dalle cisterne verso il sarcomero, facendo diminuire la concentrazione di calcio a livello sarcoplasmatico di ben tre zeri: si passa infatti ad una concentrazione di 10-5 mM. La quantità di calcio estrusa è sufficiente a scatenare il meccanismo descritto ad inizio pagina 75. Una volta che la membrana si è ripolarizzata, si pone il problema del recupero di calcio, che non può tornare spontaneamente nel reticolo sarcoplasmatico, come abbiamo già accennato. Allora intervengono quei meccanismi di recupero attivo con costo energetico che però sono troppo lenti. Esistono, Figura 79 a seconda del tipo di cellula muscolare, nei dintorni della membrana, delle piccole proteine, le parvalbumine (P), che hanno una forte affinità per lo ione calcio e funzionano come tamponi o spugne, consentendo il distacco di tali ioni dalla troponina e quindi il recupero pressoché istantaneo della condizione di riposo. In altre cellule, quelle più sottili ed ossidative, ad espletare questa funzione sono gli stessi mitocondri. Viene cosi recuperata la concentrazione iniziale di calcio nel reticolo, come mostrato nella sequenza 3. Questo meccanismo è temporaneo, serve solo durante le contrazioni successive, che chiaramente non possono essere infinite. Normalmente questa funzione viene svolta proprio dalla pompa ATPasica descritta in precedenza. Questi argomenti verranno approfonditi nella seconda parte del corso dove affronteremo il modello meccanico del muscolo. 76