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Enea e la Fondazione di Roma
“Destatevi subito uomini, sedete agli scalmi,/ sciogliete le vele presto: un dio
dall’alto disceso,/ a prendere in fretta la fuga, a tagliar le ritorte gomene/
ancora ci stimola. Noi ti seguiamo, o dio santo, chiunque tu sia ancora al
comando obbediamo festanti./ Oh, sii benigno soccorrici, buone dal cielo/
dacci le stelle!”. (Eneide C.IV)
Con queste parole Enea incitò i suoi
uomini a salpare alla volta delle
coste italiche. Fu Zeus ad inviare
Mercurio dal valoroso condottiero
per recargli quella repentina
esortazione. Enea colse l’importanza
di quella chiamata e, riunendo i suoi
uomini scelti, si apprestò a seguire
quella ingiunzione: sguainò dal
fodero la spada, con il nudo ferro
colpì il grosso canapo che teneva
ferma l’imbarcazione, e dette il via
alla navigazione.
La storia di Enea, figlio di Venere e
Anchise, che ebbe come istruttore Chirone, il centauro ritenuto il più giusto
e sapiente del suo tempo, fu strettamente legata a Troia, città dell’Asia
Minore, depositaria di un antico sapere.
Troia fu fondata da Ilio in prossimità di due sorgenti e si dice che Apollo e
Poseidone l’avessero munita di fortificazioni così possenti da renderla, per
anni, un invincibile baluardo. Alcuni testi riferiscono che le pietre, al suono
della lira di Apollo, si
erano ammucchiate e
disposte da sole, mettendo
in
evidenza
la
straordinarietà di quella
struttura. A Troia si
svolgeva anche un antico
mito legato a Vesta, dea
della Terra, e Madre di
un fuoco misterioso che
mai si doveva spegnere. Si
trattava di un Fuoco
sacro, custodito da fanciulle vergini e riservato
solo per coloro che si rendevano degni a
riceverlo. Le mura della città proteggevano
anche il Palladio, simulacro della dea Athena,
dea della Sapienza, ritratta armata con lancia
in una mano, ed una conocchia ed un fuso
nell’altra; quella statua alta tre cubiti si dice
fosse capace di difendere la città da ogni
intrusione molesta.
Omero, poeta e scrittore greco, iniziato agli
arcani della Scienza sacra, cantò quel mondo
ellenico nei suoi due poemi, Iliade e Odissea,
velando dietro a storie mitologiche, simboli ed
allegorie, gli insegnamenti segreti della
Dottrina Ermetica. Stessa cosa fece Virgilio
nell’Eneide. Il grande poeta latino utilizzò il
mito come cifrario segreto per nascondere,
dietro quei personaggi storici, operazioni
interiori da compiere nella propria essenza, al fine di insegnare a trasformare
la personalità umana da materialista e dèifuga a superiore ed eroica.
Il poeta, partendo dalle vicende storiche che videro il ratto di Elena e
l’improvvisa caduta di Troia, accompagnò Enea nel suo percorso iniziatico
fino a farlo approdare sulle coste italiche.
Il rapimento di Elena da parte di Paride, principe troiano, fu probabilmente
solo un pretesto alla guerra che tra Troiani ed Achei ne scaturì. La verità era
che Troia godeva da secoli di grande prosperità e ricchezza: le sue terre
erano fertili, le acque vi scorrevano e frutti di ogni tipo provvedevano
largamente al nutrimento della popolazione. Quando l’esercito acheo
cominciò l’assedio, la
città riuscì a reggere in
maniera eroica per ben
nove anni; dovette
intervenire l’astuto
stratagemma del cavallo
di legno, ideato da Ulisse,
a far cedere quella
inespugnabile struttura.
Si dice che Troia venne
distrutta perché Ulisse
riuscì a rubare il Palladio,
vero talismano per quel
centro abitato; secondo Virgilio, invece, fu Enea a
portarlo con sé per non farlo cadere nelle mani
nemiche: ipotesi che sembra confermata dalla
storia.
Enea, dopo aver inutilmente tentato di difendere
la sua città, fuggì da Troia in fiamme portando
sulle spalle il padre Anchise e per mano il
figlioletto Ascanio. Il nobile guerriero, attraverso
un’infinità di peripezie segnate anche dalla morte
del vecchio e saggio padre, approderà infine sulle
coste d’Italia. Il primo porto a cui attraccò fu
Cuma, località dell’area dei Campi Flegrei, luogo
consacrato ad Apollo, abitato dalla sua profetessa,
la Sibilla Cumana.
Fu con la discesa Inferi che Enea
cominciò il suo percorso. La
Sibilla lo introdusse nella sua
tenebrosa grotta
e gli svelò
l’avvenire: gli rivelò tutte le
difficoltà a cui sarebbe andato
incontro e gli ostacoli che avrebbe
dovuto superare prima di stabilirsi
i n q u e l l a n u ov a t e r r a . L a
profetessa gli ricordò che era facile
discendere all’Inferno, perché
quella porta è aperta notte e
giorno, ma che era molto più
difficile risalire nel soggiorno dei
viventi, perché questa esperienza comportava una purezza di cuore assoluta
ed una buona protezione Divina. La risposta di Enea fu ferma e coraggiosa;
la decisione era stata presa: l’idea di discendere in
quel luogo tenebroso per riabbracciare il padre
Anchise superò ogni incertezza.
Questa storia, ed altre che vedranno Enea procedere
nel suo viaggio, nascondono un’infinità di simboli ed
allegorie che solo la comprensione della Dottrina
ermetica può svelare. I terribili personaggi come
Caronte e Cerbero che l’eroe, accompagnato dalla
Sibilla, incontra, fanno riferimento al superamento
di difficili esperienze da compiere nella propria
anima.
A questo riguardo così si esprime l’alchimista
Jean d’Espagnet: “La verità è nascosta sotto
densissimi veli, perché i Filosofi non dicono
una grande verità se non quando usano un
linguag gio oscuro”. L’espediente di
esprimersi con termini a volta ambigui, non
viene utilizzato con lo scopo di distruggere la
verità, ma di velarla per renderla evidente
solo a chi possiede le qualità giuste per
comprenderla.
La mitica leggenda di Enea che, come Orfeo,
Ercole e Teseo e lo stesso Dante Alighieri,
scende agli Inferi, segna una tappa
fondamentale del suo percorso. Sarà dopo il
superamento di quelle prove iniziatiche e
grazie ad un misterioso “ramoscello dai
frutti d’oro”, faticosamente raccolto e consacrato a Proserpina, che Enea
riuscirà ad accedere ai Campi Elisi, e lì ad incontrare il padre Anchise,
simbolo di arcaica Sapienza.
Durante quel suo viaggio nell’Oltretomba, Enea incontrerà Deifobo,
principe troiano, che lo identificherà come unico
restauratore della gloria troiana, detentore di un fuoco
che mai cesserà di ardere.
Virgilio è il cantore di quest’eroe umano-divino che,
guidato dal fato supremo, riesce a portare in Italia “gli
dei di Troia”: il fuoco misterioso e segreto che sempre
ardeva dentro al santuario di Vesta.
“Vesta Iliaca”: così si chiamava il culto della TerraMadre che Enea si
apprestò a traslare
nel Latium.
Ovidio parla di un
Trono di Fuoco
puro, incorrotto,
che viene affidato
all’eroe, affinché possa trasportarlo in una
nuova “terra vergine”.
Nelle antiche tradizioni misteriche è
risaputo che quando un centro iniziatico
è in via di sgretolamento, prima che
diventi “terra inaridita”, la Sapienza
Divina si ritira da quel luogo per
stabilirsi in un suolo nuovo in grado
di saperla accogliere.
Enea, è l’Uomo invincibile che,
facendosi portavoce dei bisogni
dell’umanità, ha le capacità giuste
per contenere quella Sapienza
Primordiale.
Lo scudo che Vulcano gli regalò, era a
forma di disco metallico e sopra vi
erano impresse le future imprese che
egli avrebbe sostenuto.
Enea è, dunque, il condottiero predestinato che combatte non per ottenere
onori personali, ma per conseguire il compito che gli è stato affidato. In lui
coraggio, lealtà e giustizia si affiancano a clemenza, amore e fede. La volontà
Divina, alla quale si assoggetta, lo vede combattente ardimentoso che deve
passare da esperienze dolorose pur di riaffermare la grandezza di quella
conoscenza arcaica.
Così Enea, lasciata Cuma, accompagnato dal figlio Ascanio e da uno stretto
manipolo di Troiani, approdò sulle coste d’Etruria.
Virgilio chiamò quella terra Saturnia Tellus, la Terra Nera o Terra di
Saturno, in ricordo del mitico re d’Italia che instaurò la prima Età chiamata
anche Età dell’Oro: luogo antico di armonia, fertilità ed abbondanza.
Ad Enea, fu dunque
a f fi d a t a l a d i f fi c i l e
missione di trasferire
Vesta Iliaca nel Latium e
lì fondare un nuovo
centro d’irraggiamento di
quel Fuoco Fecondatore;
lo stesso fuoco che verrà
custodito nel nuovo
tempio dedicato a Vesta,
che il valoroso si apprestò
a edificare in terra italica.
Il nome Latium deriva
dal termine latino “latus”
con il significato di vasto, copioso, abbondante, e dal verbo “lateo” che vuol
dire essere riparato, protetto, sicuro, ma anche “nascondersi”, vocabolo che
trova il suo significato nella leggenda mitologica che vide Giove come divino
abitatore di quei luoghi.
Fu in quella regione che Enea,
appena giunto, assistette al
miracoloso parto di una scrofa
gravida di trenta porcellini:
apparizione straordinaria che
rappresentò per l’eroe il primo
segno di fortunata fertilità
spirituale che quelle terre di lì a
poco avrebbero trovato. Il mito
racconta che dopo quel
s e n s a z i o n a l e p a r t o, E n e a
sacrificò la scrofa agli dei e che su quel luogo fondò la città di Lavinium.
Trent’anni dopo, il figlio Ascanio vi eresse la città di Alba Longa, chiamata
così perché si estendeva su una lunga sequenza di colline e splendeva bianca
alla luce del sole, tanto che il suo nome
assunse il significato di “monte su cui sorge
il sole”.
Gli scavi effettuati a Lavinium, l’odierna
Pratica di Mare, mettono in evidenza i
contatti che il Lazio centro-meridionale
ebbe con il mondo Miceneo. Nei resti del
santuario che si sviluppò intorno alla tomba
dell’eroe troiano, furono ritrovate statuine di
terracotta ed una statua di Pallade-Athena:
testimonianza che il suo culto era celebrato
in quelle terre già da epoche antichissime, diversi secoli prima che Virgilio
componesse l’Eneide.
La storia racconta che una piccola comunità di pastori scesi dai Colli Albani,
si accampò sul Palatino, altri abitatori di quei luoghi si stabilirono lungo le
rive del Tevere ed altri ancora si fermarono su Campidoglio, Aventino, Celio,
Esquilino, Vicinale, Quirinale: i sette colli su cui sarebbe sorta la città di
Roma, si stavano animando di
piccoli nuclei abitativi.
La fondazione dell’Urbe, risale
intorno al 753 a. C. e, come
vedremo, l’intreccio tra storia e
leggenda troverà ancor oggi le sue
chiare tracce.
Il mito racconta che Marte, molto
partecipe alle sorti di Albalonga,
capì che era giunto il momento di
operare; fu così che s’invaghì di Rea Silvia, sacerdotessa di
Vesta, figlia di re Numintore, diretto discendente di
Ascanio. Il dio inviò alla regale Vestale un sogno che le si
ripresentò per ben sette notti consecutive: la donna vide
sulla sua testa una corona di alloro dalla quale crescevano
due alberi talmente alti, da arrivare a toccare il cielo.
Rea Silvia capì che quel sogno non poteva che essere un
presagio divino ed i due gemelli che nacquero di lì a nove
mesi, furono la testimonianza che qualcosa di eccezionale
era stato stabilito per lei e per la sua discendenza.
La legge che vigeva nel Tempio di Vesta era che le giovani
Vestali rimanessero vergini custodi di quel fuoco, pena la
morte. Alla scoperta dei due neonati, i provvedimenti presi
nei confronti della donna furono inequivocabili. Rea Silvia
fu gettata
insieme ai figli
nel Tevere, nel pieno turbinio
della corrente; un epilogo che
sembrava terribile, ma quando vi
è un’assistenza dal cielo, gli eventi
prendono un’altra direzione. Fu
Marte a vigilare su quella scena. Il
mito racconta che la giovane fu
salvata dal dio del fiume Tevere
che la sposò e la rese immortale;
mentre il cesto che racchiudeva i
gemelli, sfug gì alla piena,
fermandosi fra le radici di un
grande albero che sporgeva dalla
sponda. Poi Marte fece in modo che una lupa, animale a lui sacro, uscisse
dalla tana per nutrire i neonati con il suo latte; infine dette il compito, ad uno
stormo di uccelli, di lasciar
cadere ogni giorno bacche e
molliche di pane nelle loro
piccole bocche. Fu un certo
Faustolo, pastore del luogo, ad
accorgersi dello straordinario
evento e ad allevare, insieme
alla moglie, i due bambini.
Dei due gemelli fu Romolo ad
avere le caratteristiche giuste
per fondare la città di Roma.
Il termine Roma, secondo Plutarco, significa
“Forza” e sembra che quello stesso nome portasse
anche la donna che Enea sposò, appena arrivato
in quelle terre.
Roma, in lingua caldaica significa “altezza del
cielo” e “tempio di Dio”, mentre in sanscrito
assume il significato di “donna”, “sposa” e
“amore”.
Secondo la leggenda, Romolo, osservando il volo
degli uccelli, trasse gli auspici per la fondazione
della città.
Plutarco narra che furono chiamati dall’Etruria
dei Sacerdoti esperti per insegnare
minuziosamente il rituale prescritto dai testi sacri.
Il cerimoniale prevedeva lo scavo di un fosso
perfettamente rotondo nel cui centro
venivano poste tutte le primizie che la
natura poteva dare; poi ciascun abitante
doveva portare una manciata di terra del
proprio paese di provenienza e gettarla tra
quei frutti confondendoli tutti insieme: quel
fosso così concepito diventava il centro, o
“mundus”, di un cerchio molto più ampio
che avrebbe delimitato il perimetro della
città.
Fu Romolo, a diventare il depositario di
quella dottrina ed a delineare quella divina
circonferenza con il Lituus, la verga regale
etrusca che solo l’Augure sapeva utilizzare.
Sempre con il Lituus, il sacerdote-teurgo tagliò lo spazio dentro al cerchio,
mediante due rette perpendicolari ed incrociate tra loro,
in perfetta coincidenza con i quattro punti cardinali: la
retta Nord-Sud contraddistingueva il Cardine e quella
Est-Ovest, il Decumano.
Ognuno dei quattro quadranti, venne a sua volta
suddiviso in sedici parti chiamate “dimore degli dei” e
quel luogo assunse il significato di Tempio di Dio, lo
spazio sacro dove la Presenza Divina si poteva
manifestare.
Il termine Templum trae origine dal greco “tem-no” che
vuol dire delimitare, dividere, mentre i
Greci chiamavano Tem-enos, il “sacro
recinto”, il luogo inaccessibile ai profani.
Roma, così concepita, venne chiamata
Urbe, dal verbo “urbo”, che assunse il
significato di “tracciare” con l’aratro un
cerchio. Gli storici concordano che
l’undicesimo giorno prima delle Calende di
Maggio, fu quello in cui fu fondata Roma;
all’interno di quell’ideale spazio circolare,
venne anche qui edificato e custodito
l’Altare delle Vergini Vestali - anch’esso di
forma circolare - simbolo dell’Universo e dimora del Fuoco Fecondatore
Divino.
Ancora una volta leggenda e realtà si
sovrappongono e si fondano. Dagli ultimi
scavi eseguiti nella zona del Foro Romano,
vicino al Santuario di Vesta, sono state
rinvenute tracce di un palazzo di
dimensioni straordinarie, la cui datazione
sembra che risalga alla leggendaria
fondazione di Roma. La scoperta di
un’entrata monumentale fa presupporre la
presenza di una dimora regale e gli arredi e
le ceramiche ritrovate, convalidano questa stessa ipotesi; sono state riportate
alla luce anche vestigia di un edificio che sembra essere appartenuto alle
Vergini Vestali: scoperte che tendono a confermare quanto il mito affondi le
sue radici nella storia.
Anchise, Enea, Ascanio, Sibilla Cumana, Rea Silvia, Romolo, personaggi che
sembrano appartenuti ad un passato leggendario, e che invece si riscoprono
portatori di un messaggio importante per tutta l’umanità.
Tra questi Enea e Romolo, suo discendente,
si
distinguono per il coraggio e per la grandezza della
loro persona.
Enea fu chiamato anche “Figlio del Sole”, dando forza
al compito di detentore della Sapienza Divina, che gli
fu affidato. Si dice di lui che morì combattendo contro
i Rutuli, ma il suo corpo non fu mai ritrovato: fatto
abbastanza straordinario che conferma l’eccezionalità
del suo ruolo storico e della sua sorte. La convinzione
più diffusa fu che Enea, “eletto dagli dei”, fosse stato
assunto in cielo: premio grandioso, ma non certo impossibile, per un Uomo
che dedicò la sua vita a traslare il Fuoco d’amore Divino a Roma - Caput
Mundi - nuovo Centro di irradiazione spirituale della Tradizione Arcaica.