Il trapianto di cellule staminali emopoietiche

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EMATOLOGIA
1
direttori della collana
Franco Mandelli, Giuseppe Avvisati
IL TRAPIANTO DI CELLULE STAMINALI
EMOPOIETICHE ALLOGENICHE
William Arcese, Anna Paola Iori
Dipartimento di Biotecnologie Cellulari ed Ematologia
Università “La Sapienza” - Roma
8
EMATOLOGIA
DIRETTORI DELLA COLLANA
Franco Mandelli, Giuseppe Avvisati
Dipartimento di Biotecnologie Cellulari ed Ematologia
Università “La Sapienza”, Roma
ACCADEMIA NAZIONALE DI MEDICINA
REDAZIONE
P.zza della Vittoria, 15/1 - 16121 Genova
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PROGETTO GRAFICO
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essere riprodotta o diffusa senza il permesso scritto dell'editore
INDICE
GENERALITÀ
1
TRAPIANTO DI MIDOLLO OSSEO ALLOGENICO
DA DONATORE FAMILIARE
2
TRAPIANTO DI MIDOLLO OSSEO ALLOGENICO
DA DONATORE NON CORRELATO
3
TRAPIANTO DI CELLULE STAMINALI ALLOGENICHE
DA SANGUE PERIFERICO
4
TRAPIANTO DI CELLULE STAMINALI EMOPOIETICHE
DA SANGUE DI CORDONE OMBELICALE
5
LE COMPLICANZE POST-TRAPIANTO
6
LA GRAFT VERSUS HOST DISEASE
7
LA TERAPIA DI SUPPORTO
8
LA RECIDIVA LEUCEMICA POST-TRAPIANTO
9
BIBLIOGRAFIA GENERALE
LE DIAPOSITIVE
10
ABBREVIAZIONI
ADA
AR
AREB
AREB-T
BMDW
BUS
CB
CMV
CSA
CSE
CTX
CVC
DFS
EFS
EPN
FA
FC
G-CSF
GITMO
GM-CSF
GVHD
GVL
HLA
IFN
LAK
LDH
LFS
LH
LLA
LLC
LMA
LMC
LMMC
LNH
MDS
MHC
MM
MTX
MUD
NK
NR
PBSC
PCR
PI
PMN
PV
RC
RP
SAL
SCO
TAI
TBC
TBI
TMO
TNI
TRM
VNTR
VOD
adenosindeaminasi
anemia refrattaria
AR con eccesso di blasti
AREB in trasformazione
Bone Marrow Donor Worldwide
busulfano
crisi blastica
Cytomegalovirus
ciclosporina
cellula staminale emopoietica
ciclofosfamide
catetere venoso centrale
sopravvivenza libera da malattia
sopravvivenza libera da eventi
emoglobinuria parossistica notturna
fase accelerata
fase cronica
granulocyte colony stimulating factor
Gruppo Italiano per il Trapianto di Midollo Osseo
granulocyte-macrophage colony stimulating factor
graft versus host disease
graft versus leukemia
human leukocyte antigen
interferone
lymphokine activated killer
lattico-deidrogenasi
sopravvivenza libera da leucemia
linfoma di Hodgkin
leucemia linfoide acuta
leucemia linfoide cronica
leucemia mieloide acuta
leucemia mieloide cronica
leucemia mielomonocitica cronica
linfoma non Hodgkin
sindrome mielodisplastica
complesso maggiore di istocompatibilità
mieloma multiplo
metotrexato
donatore di midollo non correlato
cellule natural killer
non rispondenti
cellule staminali allogeniche da sangue periferico
polymerase chain reaction
polmonite interstiziale
polimorfonucleati
policitemia vera
remissione completa
remissione parziale
siero anti-linfocitario
sangue di cordone ombelicale
toracol abdominal irradiation
tubercolosi
total body irradiation
trapianto di midollo osseo
total nodal irradiation
mortalità correlata al trapianto
variable number tandem repeats
malattia veno-occlusiva
1
GENERALITÀ
1.1
L’OBIETTIVO DEL TRAPIANTO ALLOGENICO
DI CELLULE STAMINALI
Alla base di numerose patologie ematologiche vi è un’alterazione
acquisita (es. aplasia midollare, neoplasie ematologiche) o congenita
(emoglobinopatie) del compartimento delle cellule staminali. L’obiettivo
del trapianto allogenico di cellule staminali è quello di sostituire il
compartimento alterato del paziente con un patrimonio di cellule
staminali ottenuto da un donatore sano capace di ricostituire il
sistema emopoietico e immunitario del ricevente. Questo obiettivo
si identifica pertanto con la guarigione, e il suo raggiungimento
dipende dalla realizzazione di tre fattori principali:
1. la scomparsa totale del compartimento di cellule staminali totipotenti del paziente per mezzo di una chemio-radioterapia pre-trapianto (detta di “condizionamento”) il più possibile eradicante per
“creare spazio”
2. il superamento, ai fini dell’attecchimento, della barriera immunologica rappresentata dalle cellule immunocompetenti del paziente che
sono responsabili del rigetto
3. il superamento della barriera immunologica, rappresentata dalle cellule immunocompetenti attive del donatore presenti nella sospensione di cellule staminali infuse, responsabili della malattia del trapianto contro l’ospite (graft versus host disease, GVHD).
Quindi, nel trapianto di cellule staminali allogeniche, a differenza di
qualunque altro tipo di trapianto, la barriera immunologica da superare è doppia: del ricevente verso donatore (rigetto) e del donatore
verso ricevente (GVHD).
1.2
CENNI STORICI
Il primo tentativo di impiego di midollo osseo nel trattamento di una
patologia ematologica risale al 1891 quando Brown-Sequard somministrò midollo rosso per via orale a un paziente affetto da leucemia acuta
(1). Altri tentativi successivi, sporadicamente segnalati, si devono considerare più che pionieristici, fino ad arrivare al 1939 quando fu ese-
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guita la prima infusione endovenosa di midollo osseo: in quell’anno su
Annals of Internal Medicine fu pubblicato il caso di un paziente affetto
da aplasia midollare trattato con infusione endovenosa di midollo ottenuto da fratello (2).
Tuttavia l’inizio della moderna trapiantologia risale alla metà del ‘900
con gli studi del 1951 di Jacobson e coll. (3); questi dimostrarono che
i topi potevano guarire da un’irradiazione mortale se le aree emopoietiche del loro femore venivano schermate, avendo osservato in precedenza che l’aplasia midollare nei topi irradiati poteva essere reversibile
schermando la milza. In seguito si osservò che topi in cui erano state
somministrate dosi potenzialmente letali di radiazioni risultavano protetti da un’infusione di midollo e nel 1952 Lorenz e coll. (4) dimostrarono che la guarigione era dovuta alle cellule contenute nel midollo trapiantato.
Subito dopo la seconda guerra mondiale, gli effetti ematologici osservati in seguito all’irradiazione nei sopravvissuti alle bombe atomiche di
Hiroshima e Nagasaki stimolarono la ricerca sulla potenziale capacità
del midollo osseo di conferire una radioprotezione.
I più gravi problemi che i clinici si trovarono ad affrontare furono quelli
immunologici del rigetto e della reazione del trapianto contro l’ospite,
descritta per la prima volta nell’uomo da Mathè e coll. (5).
Una parte consistente del lavoro sullo sviluppo del trapianto di midollo
osseo (TMO) è stata inoltre svolta da Donall Thomas, premio Nobel per
la Medicina nel 1990, che ha usato il cane come modello sperimentale
per sviluppare schemi efficaci di irradiazione “total body” e ha introdotto il metotrexato (MTX) come mezzo per prevenire la GVHD (6).
Questi progressi tecnici e la caratterizzazione del sistema di istocompatibilità (HLA) hanno definitivamente aperto la strada a una nuova era
trapiantologica, portando alla realizzazione del primo trapianto sulla
base delle nuove conoscenze in un paziente affetto da sindrome di
Wiskott-Aldrich, esperienza pubblicata nel 1968 da Bach e coll. (7),
1.3
IL CONCETTO DI CHIMERA
La sostituzione del compartimento staminale del paziente con le cellule
del donatore determina la convivenza nello stesso individuo del
patrimonio genetico di due soggetti differenti; il ricevente in questo
caso diventa genotipicamente una chimera (termine mutuato dalla
mitologia classica per definire una creatura con parti anatomiche derivate da individui differenti).
Inoltre, la cellula staminale non è presente solo a livello midollare o nel
sangue periferico di un individuo, ma è rappresentata in numerosi altri
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tessuti: da essa derivano, infatti, i macrofagi degli alveoli polmonari, le
cellule del Kupffer del fegato, gli osteoclasti, le cellule del Langherans
della cute, le cellule microgliari del cervello e, come dimostrato del
tutto recentemente, anche le cellule muscolari striate (8).
Questa caratteristica rende ragione dell’impiego del trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche (CSE) anche in pazienti affetti da
errori congeniti del metabolismo (tesaurismosi lisosomiale). Infatti
quando si esegue un trapianto allogenico in un ricevente sottoposto a
regime ablativo, le CSE trapiantate danno origine a tutte le discendenze emopoietiche, inclusa la linea dei monociti come precursori dei
macrofagi tissutali che si trovano a livello polmonare, cutaneo o epatico. Sulla base di questa acquisizione è stato proposto che un trapianto allogenico di CSE possa servire da fonte permanente dell’enzima
mancante e correggere il difetto metabolico o per sostituzione delle
cellule fagocito-macrofagiche del fegato portatrici del deficit enzimatico con cellule normali, o trasferendo l’enzima per contatto diretto cellula-cellula dalle cellule derivate dal midollo osseo enzimaticamente
normale in quelle patologiche, o mediante rilascio dell’enzima nel plasma con successiva captazione da parte delle cellule carenti.
Di fatto quindi il trapianto allogenico di CSE può essere considerato un trapianto sistemico.
L’analisi del chimerismo post-trapianto può essere condotta attraverso l’uso di analisi citogenetiche classiche (sesso differente tra
donatore e ricevente, polimorfismi di bandeggio all’analisi cariotipica, eventuale presenza nei pazienti con patologie clonali di anomalie
citogenetiche caratteristiche), oppure mediante determinazione dei
gruppi eritrocitari o tipizzazione HLA per trapianti tra soggetti non
identici. Più recentemente vengono impiegate metodiche di biologia
molecolare, attraverso tecniche di reazione a catena della polimerasi
(polymerase chain reaction, PCR), che amplificano regioni del genoma umano altamente polimorfiche (quali ad esempio variable number
tandem repeats, VNTR). Attraverso queste metodiche, applicabili sia
su cellule midollari che su sangue periferico, è possibile stabilire il
chimerismo post-trapianto e soprattutto seguirne l’andamento nel
tempo. In base alla persistenza o meno di cellule del ricevente a
livello midollare o periferico si distinguono tre possibili differenti
stati chimerici:
• chimerismo completo (assenza di residuo cellulare emopoietico
del paziente)
• chimerismo misto (concomitante presenza di cellule del donatore
e del ricevente)
• assenza di chimerismo (ricostituzione emopoietica autologa).
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1.4
IL SISTEMA HLA
I geni che esercitano un effetto primario sulle reazioni umorali e cellulari determinanti la compatibilità tessutale sono raggruppati in un
complesso cromosomico che prende il nome di complesso maggiore di istocompatibilità (MHC) (nell’uomo viene siglato HLA:
human leukocyte antigen) localizzato sul braccio corto del cromosoma 6. Si conoscono oggi diverse famiglie di geni HLA che si raggruppano in regioni distinte del complesso. Si distinguono: la regione
ABC, dove trovano sistemazione i geni di classe I; la regione DR, dove
sono localizzati i geni di classe II; e infine la regione di classe III che
comprende i geni che codificano per alcune frazioni del complemento.
Il complesso HLA, salvo l’evenienza del crossing over che interviene in
circa il 3% dei casi, si trasmette come un blocco unico di informazione genetica secondo la I legge di Mendell. La combinazione dei
geni sullo stesso cromosoma si chiama “aplotipo”; il genotipo
consta dei due aplotipi parentali (paterno e materno) e viene stabilito esclusivamente con indagine familiare.
I prodotti dei geni HLA caratterizzati inizialmente con metodiche sierologiche e cellulari, vengono più recentemente identificati con tecniche di biologia molecolare. Questi prodotti, conosciuti comunemente
come “antigeni HLA”, presentano le caratteristiche di un polimorfismo molto elevato, il più esteso noto nell’uomo. Attualmente il
numero dei possibili geni e quindi degli antigeni nei vari loci HLA sono:
25 nel locus A, 51 nel locus B, 12 nel locus C, 18 nel locus DR, 10 nel
locus DQ e infine 6 nel locus DP. Ciò comporta un altissimo numero di
combinazioni aplotipiche e un numero illimitato di genotipi. Il polimorfismo è tuttavia ristretto in ambito familiare dove esiste una probabilità di identità HLA in circa il 30% dei fratelli.
Gli antigeni di classe I sono glicoproteine di membrana, altamente polimorfe, costituite da una catena pesante saldamente inserita nella
membrana cellulare e da una catena leggera rappresentata dalla b 2 microglobulina, un polipeptide non polimorfo, e non glicosilato, codificato da un gene situato sul cromosoma 15. Sono presenti su tutte le
cellule nucleate e sulle piastrine, ma la loro espressione varia nei diversi tessuti e nelle differenti categorie di cellule. La massima espressione
si ha sui linfociti dove rappresentano l’1% circa di tutte le proteine di
membrana. Dal punto di vista funzionale gli antigeni di classe I sono
antigeni di trapianto che rappresentano il bersaglio per i linfociti
citotossici T nelle reazioni di rigetto.
Gli antigeni di classe II hanno distribuzione ristretta, sono infatti presenti solo su certe linee cellulari: linfociti B, macrofagi, cellule dell’epitelio timico, alcuni progenitori delle cellule mieloidi, una certa quota di
linfociti T attivati, cellule del Langherans. Sono composti anch’essi da
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due catene polipeptidiche glicosilate: una catena più lunga e una più
corta legate tra loro in modo non covalente. Sono state individuate tre
famiglie di antigeni di classe II: antigeni HLA-DR, DQ e DP. Gli antigeni di classe II sono essenzialmente coinvolti nelle cooperazioni fra
le varie popolazioni di cellule immunocompetenti per la regolazione della risposta immune. I linfociti T, infatti, possono riconoscere un
antigene estraneo soltanto se esso forma un complesso con un antigene HLA sulla cellula presentante l’antigene (tipicamente un macrofago). La funzione di indurre il riconoscimento di un antigene da
parte dei linfociti T è propria degli antigeni di classe II per quanto
riguarda la popolazione T4 mentre sarebbe svolta dalle molecole
di classe I per la sottopopolazione T8.
1.5
INDICAZIONI
Nella Tabella 1 sono schematicamente rappresentate le patologie
neoplastiche e non neoplastiche per le quali è stato impiegato il trapianto allogenico di CSE.
1.6
LE FONTI DI CELLULE STAMINALI ALLOGENICHE
Il trapianto di cellule staminali allogeniche rappresenta ormai una procedura terapeutica consolidata nel trattamento di numerose emopatie
sistemiche sia neoplastiche che non neoplastiche in pazienti di età
<60 anni.
Tuttavia la possibilità di reperire un donatore HLA compatibile nell’ambito familiare è di circa il 30%, e tale probabilità può essere
estesa a un ulteriore 10% dei casi se si includono anche donatori
familiari incompatibili per un solo locus.
A un’ampia proporzione di pazienti, eleggibili per un trapianto di cellule staminali allogeniche, calcolata nell’ordine del 70% circa dei casi,
rimarrebbe pertanto preclusa la possibilità di usufruire di tale procedura terapeutica.
La disponibilità di donatori volontari di cellule staminali da midollo osseo reperibili nell’ambito dei Registri Internazionali dei donatori di
midollo (Bone Marrow Donor Worldwide) ha permesso di rispondere
alla richiesta di un ulteriore 40% circa dei pazienti. Tuttavia, il
tempo per la ricerca di un donatore volontario nei registri è
mediamente di circa 4-6 mesi, spesso troppo lungo per le esigenze cliniche del paziente. Inoltre le frequenze HLA rappresentate nei
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Patologie nelle quali è stato impiegato il trapianto
allogenico di cellule staminali emopoietiche
Tabella 1
Patologie neoplastiche
Leucemia mieloide acuta
Leucemia linfoide acuta
Leucemia mieloide cronica
Leucemia mielomonocitica cronica
Leucemia mieloide cronica giovanile
Sindrome mielodisplastica
Mielofibrosi
Osteomielosclerosi
Policitemia vera
Linfoma non Hodgkin
Linfoma di Hodgkin
Leucemia a cellule capellute
Mieloma multiplo
Leucemia linfoide cronica
Patologie non neoplastiche
Anemia aplastica grave
Emoglobinuria parossistica notturna
Anemia di Fanconi
Anemia di Blakfan-Diamond
Talassemie
Anemia falciforme
Altre emoglobinopatie
Immunodeficienza grave combinata
Carenza di adenosindeaminasi
Discinesia reticolare
Atassia teleangiectasia
Sindrome di Wiskott Aldrich
Malattia di De George
Malattia granulomatosa cronica
Sindrome di Chediak-Higashi
Sindrome linfoproliferativa legata al cromosoma X
Deficienza di adesione dei leucociti
Osteopetrosi
Disordini metabolici genetici
Mucopolisaccaridosi
Sindrome di Hurler
Sindrome di Scheie
Sindrome di Hunter
Sindrome di San Filippo
Sindrome di Morquio
Sindrome di Maroteaux-Lami
Deficienza di beta-glucuronidasi
Malattia di Gaucher
Leucodistrofia metacromatica
Malattia di Krabbe
Malattia di Nieman-Pick
Tesaurismosi lisosomiali
Istiocitosi X
Emofagocitosi linfoistiocitosi familiare
Emofagocitosi
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registri riflettono in larga maggioranza quelle proprie della razza caucasica e provengono in genere da una popolazione di fascia sociale
medio-alta.
Le minoranze etniche, le individualità emergenti nelle società multirazziali sempre più diffuse e la grande quota degli appartenenti ai Paesi
del terzo mondo sono scarsamente rappresentate nei registri (9).
Rimane pertanto una quota di pazienti per i quali la possibilità di eseguire un trapianto allogenico è preclusa. Recentemente, l’impiego
del sangue di cordone ombelicale (SCO) quale fonte di cellule staminali ha permesso di migliorare ulteriormente la risposta alle esigenze trapiantologiche (10-14) (Figura 1).
1
Figura 1 • Fonti di cellule staminali emopoietiche
SCO
MO
PBSC
Donatore correlato
HLA identico
25-30%
Donatore
correlato
Donatore non
correlato
Pazienti privi di
donatore correlato
Aploidentico
SCO
1 locus
mismatched
MO
HLA identico
PBSC
HLA
identico
SCO
1 locus
mismatched
MO
PBSC
SCO = sangue da cordone ombelicale; MO = midollo osseo; PBSC = cellule staminali alloge niche da sangue periferico.
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1.7
I TIPI DI TRAPIANTO
Il trapianto di cellule staminali allogeniche viene definito dalle seguenti
caratteristiche:
• fonte di cellule staminali (midollo osseo, sangue periferico, sangue
da cordone ombelicale)
• familiarità con il donatore o disponibilità di un donatore non familiare (o non correlato)
• grado di compatibilità che dipende dal numero di antigeni A, B e
DR uguali tra donatore e ricevente.
Sulla base di queste caratteristiche, e utilizzando come fonte di cellule
staminali il midollo osseo, il sangue periferico o il sangue da cordone
ombelicale, si distinguono i seguenti tipi di trapianto allogenico:
• trapianto singenico (da gemello monocoriale)
• trapianto allogenico da donatore familiare HLA compatibile
• trapianto da donatore familiare HLA non compatibile
• trapianto da donatore non familiare HLA compatibile
• trapianto da donatore non familiare HLA non compatibile.
1.8
LE IMPLICAZIONI IMMUNOLOGICHE
Dopo l’infusione di cellule staminali allogeniche possono manifestarsi
tre effetti immunomediati: il rigetto, la GVHD e la graft versus leukemia
(GVL).
Il fenomeno del rigetto si instaura allorché le cellule midollari del
donatore, riconosciute come non proprie (“non self”), vengono
attaccate e distrutte dalle cellule immunocompetenti del ricevente. La profonda immunosoppressione indotta dalle alte dosi di radiochemioterapia pre-trapianto riduce, tuttavia, l’incidenza del rigetto nel
TMO allogenico non T depleto da donatore HLA compatibile all’1-2%
dei casi. Il rigetto rappresenta un problema maggiore nei trapianti
da donatore non familiare o nei trapianti non compatibili.
La reattività delle cellule immunocompetenti allogeniche contro i
tessuti dell’ospite determina l’effetto GVHD.
Inoltre è ben noto l’effetto immunomediato di reazione del trapianto verso la leucemia (GVL) che interviene in associazione al
regime di condizionamento pre-trapianto, nel prevenire la recidiva
leucemica.
Numerose sono le evidenze, sia sull’uomo che su modelli animali, che
riconoscono una stretta correlazione tra il fenomeno della GVHD e l’effetto GVL (15-17). La probabilità di recidiva leucemica risulta significativamente ridotta nei pazienti con GVHD acuta e cronica rispetto ai
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pazienti senza GVHD. In letteratura sono riportati singoli casi di recidiva leucemica post-trapianto nei quali la comparsa della GVHD, insorta
spontaneamente o dopo la sospensione della terapia immunosoppressiva, risultava associata alla remissione della malattia leucemica (18,
19). Inoltre, la comparazione tra trapianto singenico e allogenico
ha fornito molti dati indiretti sul rapporto GVL-GVHD: l’incidenza
della recidiva leucemica risulta più alta nei pazienti sottoposti a
trapianto singenico, che non sono a rischio di GVHD, rispetto ai
pazienti che ricevono trapianto allogenico (20). Esiste comunque
un effetto GVL legato esclusivamente alla natura allogenica del trapianto: è stato infatti osservato che, rispetto ai riceventi trapianto singenico, l’incidenza della recidiva leucemica risulta ridotta nei pazienti
trapiantati con midollo allogenico anche in assenza di GVHD (21).
A differenza di quanto riportato in modelli animali nei quali è possibile
ottenere cellule di origine del donatore con esclusiva attività antileucemica e prive di reattività verso i tessuti normali dell’ospite, nell’uomo
non sono ancora perfettamente note le popolazioni cellulari coinvolte
nel meccanismo fisiopatologico della GVL e della GVHD. Van Lochem
e coll. nel 1992 (22), esaminando le popolazioni linfocitarie di pazienti
con GVHD post-trapianto, hanno distinto tre cloni funzionalmente differenti di linfociti T citotossici:
1. cloni del donatore diretti sia contro antigeni minori del sistema HLA
dell’ospite sia contro le cellule leucemiche
2. cloni che riconoscono solo i linfociti del sangue periferico dell’ospite ma non le cellule leucemiche
3. c l o n i d i r e t t i e s c l u s i v a m e n t e c o n t r o l e c e l l u l e n e o p l a s t i c h e d e l
paziente.
Questi risultati deporrebbero per la presenza di cellule effettrici sia
distinte che comuni nell’esprimere le due attività GVL e GVHD.
L’azione citotossica antileucemica sembrerebbe espressa da cloni
di linfociti T sia CD4 + che CD8 + , ad attività ristretta per gli antigeni
di I e di II classe dell’MHC. Gli antigeni target potrebbero essere antigeni minori del sistema di istocompatibilità presenti sulle cellule leucemiche ma anche neo-peptidi prodotti dalle traslocazioni cromosomiche
o proteine glicosilate o fosforilate in maniera anomala (22-24).
È probabile che siano responsabili dell’attività GVL anche altre popolazioni cellulari quali natural killer (NK), cellule LAK, e che siano inoltre
coinvolte alcune citochine o con meccanismo diretto antileucemico o
mediante reclutamento di cellule accessorie o potenziando la citotossicità cellulare (25-27).
L’identificazione fenotipica e funzionale delle cellule responsabili dell’effetto antileucemico potrebbe consentire manipolazioni tali da intensificare la GVL rispetto alla GVHD.
Il tentativo di rimuovere i linfociti T dal midollo del donatore (tra-
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pianto T depleto) ha nettamente ridotto l’incidenza della GVHD,
favorendo però un netto aumento della recidiva leucemica (28-30).
Tuttavia, come riportato da Champlin e coll. (31), la deplezione selettiva di cellule CD8 + dal midollo infuso associata alla somministrazione
della ciclosporina (CSA), sembra determinare una significativa riduzione della GVHD acuta senza incrementare la recidiva leucemica in
pazienti trapiantati con leucemia mieloide cronica (LMC). Tuttavia ulteriori studi sono necessari per il miglioramento dell’applicazione clinica
di tali procedure.
1.9
IL CONDIZIONAMENTO PRE-TRAPIANTO
Il regime di condizionamento pre-trapianto, detto anche regime ablativo, ha l’obiettivo di eradicare la malattia di base e immunosopprimere il paziente. Tale scopo si ottiene mediante l’associazione di farmaci chemioterapici o impiegando regimi di condizionamento che
associno la chemioterapia a trattamenti radianti.
■ IRRADIAZIONE CORPOREA TOTALE
L’impiego dell’irradiazione corporea totale (total body irradiation, TBI)
nel regime di condizionamento pre-trapianto ha un effetto immunosoppressivo e antitumorale; in particolare la TBI agisce anche sulle cellule
in fase G 0 del ciclo cellulare e sulle cellule del sistema nervoso centrale
e dei testicoli (considerati santuari di malattia).
La TBI può essere in dose singola, quando la quantità di radiazioni
viene somministrata in un’unica volta, oppure frazionata, quando la
dose totale di radiazioni viene somministrata suddivisa in più giorni.
La dose totale e la sua intensità sono variabili. In generale i valori sono
più alti nella TBI frazionata rispetto a quella in frazione singola
(Tabella 2). Quando la TBI si utilizza per emopatie non maligne, la
dose totale è solitamente più bassa, non essendo necessaria l’eliminazione di cellule tumorali, ma solo l’effetto immunosoppressivo.
Molti centri impiegano la schermatura del polmone, in modo da ridurre
la dose totale erogata su questi organi e quindi i danni da radiazione.
Durante le prime ore della TBI gli effetti collaterali più facilmente osservabili sono la nausea e il vomito, nelle 24-48 ore successive si possono osservare eritema cutaneo, dolore mascellare (parotide), mucosite;
più tardiva è l’insorgenza dell’alopecia, della sindrome da sonnolenza
o della malattia veno-occlusiva (VOD). I possibili effetti tardivi della TBI
sono la sterilità, l’ipotiroidismo, la cataratta, l’insorgenza di secondi
tumori e la polmonite interstiziale (PI).
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A
T
O
L
O
G
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A
Esempi di regimi di TBI frazionata impiegati
Tabella 2
Centro
Strumentazione
Intensità
di dose
(cGy/min)
Dose (Gy)
Frazioni
60Co a
duplice fascio
4
10.5
Singola
Hammersmith
Hospital,
Londra, UK
Acceleratore
lineare
15
12
6
(2 al giorno)
Middlesex
Hospital,
Londra, UK
Acceleratore
lineare
22
14.4
8
(2 al giorno)
Istituto Nazionale
Ricerca Cancro,
Genova, Italia
Acceleratore
lineare
6
9.9
3
(1 al giorno)
Institut J Paoli
Calmettes,
Marsiglia, Francia
Acceleratore
lineare
4
11
5
(1 al giorno)
University of
Minnesota,
Minneapolis, USA
Acceleratore
lineare
10
13.2
8
(2 al giorno)
4
12
6
(1 al giorno)
12
13.2
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(3 al giorno)
Royal Marsden
Hospital,
Surrey, UK
60Co a
Fred Hutchinson
Cancer Research
duplice fascio
Center, Seattle, USA
Memorial
Sloan-Kettering
Cancer Center,
New York, USA
Acceleratore
lineare
In alcune patologie, come l’anemia di Fanconi o l’aplasia midollare
grave, nelle quali è necessario indurre solamente l’effetto immunosoppressivo, l’irradiazione pre-trapianto è stata somministrata a campi
ristretti sotto forma di irradiazione toraco-addominale (TAI) o irradiazione linfonodale totale (TNI).
È possibile anche, se necessario, la somministrazione di dosi di radioterapia aggiuntive (boosting) su aree considerate santuari di malattia o
su aree interessate da grosse masse tumorali (bulky).
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■ FARMACI CHEMIOTERAPICI
Anche per la chemioterapia pre-trapianto, come per la TBI, gli obiettivi
principali sono creazione di spazio, eradicazione della malattia e
immunosoppressione.
Ovviamente l’ablazione pre-trapianto è fondamentale per le patologie
con midollo iperplastico, come nelle forme leucemiche o nelle talassemie, mentre è di minore importanza nei casi di midollo ipoplastico
come nel caso dell’aplasia midollare, dove è fondamentale invece l’effetto immmunosoppressivo. I farmaci solitamente impiegati per l’ablazione midollare sono il busulfano (BUS), l’etoposide, la citosina-arabinoside e il melphalan, mentre la ciclofosfamide (CTX), ampiamente
usata in molti regimi di condizionamento, ha prevalentemente un effetto
immunosoppressivo, ma non è in genere sufficiente a determinare
un’ablazione midollare dell’ospite tranne che in presenza di uno stato
midollare ipoplasico.
In relazione alla patologia di base, per ottenere l’effetto sperato dal regime di condizionamento (ablazione + immunosoppressione), è fondamentale, rispetto all’impiego di una monochemioterapia, l’associazione
strategica di più farmaci in modo da ridurre la probabilità di una resistenza nei confronti di qualcuna delle sostanze impiegate. Inoltre l’impiego di associazioni chemioterapiche può ridurre la morbilità globale
legata alla tossicità dei farmaci rispetto all’equivalente morbilità che si
avrebbe utilizzando un unico agente per ottenere lo stesso effetto terapeutico. Infatti, i chemioterapici impiegati nei regimi di condizionamento
vengono somministrati a dosi sovramassimali e gli effetti tossici a essi
associati possono essere particolarmente gravi (PI, cardiotossicità, epatotossicità, VOD, cistite emorragica, crisi convulsive, ecc.).
In relazione al tipo di trapianto è fondamentale, in alcuni casi, privilegiare o eventualmente incrementare, mediante l’impiego di farmaci aggiuntivi, l’effetto immunosoppressivo per ridurre il rischio del rigetto o del
non attecchimento, come nel caso dei trapianti da SCO o da MUD compatibile o da donatore nei quali alla terapia citoriduttiva vengono aggiunti il siero anti-linfocitario (SAL) o la fludarabina.
1.10 ATTECCHIMENTO
La ripresa emopoietica dopo trapianto di cellule staminali allogeniche dipende da vari fattori quali: la malattia di base, il regime di
condizionamento pre-trapianto, la profilassi della GVHD, la comparsa di eventuali infezioni virali (Cytomegalovirus, CMV), il numero di cellule infuse.
Anche se la cellularità midollare incrementa rapidamente dopo circa 24 settimane dal trapianto e morfologicamente sono presenti tutte le
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componenti emopoietiche, occorrono 6-12 mesi prima che la cellularità ritorni normale (32).
L’attecchimento viene definito dal valore dei polimorfonucleati
(PMN) delle piastrine e dei reticolociti a livello del sangue periferico. Convenzionalmente l’attecchimento per la serie granulocitaria è
definito dal numero dei PMN, >500/mm 3 per almeno tre giorni consecutivi, mentre per le piastrine da una conta superiore a 50 000/mm 3 e
per la serie rossa da un numero di reticolociti superiore a 25 000/mm 3
sempre su tre controlli consecutivi in tre giorni successivi.
La perdita dell’attecchimento è definita dalla riduzione dei PMN al di
sotto dei 200/mm 3 e dalla cellularità midollare <5% dopo il raggiungimento di un normale attecchimento granulocitario.
Non ci sono linee guida ben definite per l’impiego dei fattori di
crescita dopo trapianto.
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TRAPIANTO DI MIDOLLO
OSSEO ALLOGENICO DA
DONATORE FAMILIARE
2.1
INTRODUZIONE
■ CRITERI DI SCELTA DEL DONATORE
In Tabella 3 sono elencati i criteri di scelta solitamente impiegati per il
donatore di midollo osseo allogenico.
Donatore di midollo osseo: criteri di selezione
Tabella 3
Compatibilità HLA
• Gemello omozigote
• HLA compatibile genotipicamente identico
• HLA compatibile apparentato fenotipicamente identico
• HLA compatibile non apparentato fenotipicamente identico
• HLA incompatibile per un locus
Fenotipo eritrocitario AB0 Rh
• compatibile
• incompatibilità minore
• incompatibilità maggiore
Età giovane
Compatibilità di sesso
Grado di disponibilità alla donazione
■ SCREENING PRE-TRAPIANTO DEL DONATORE
DI MIDOLLO OSSEO
Poiché per eseguire il prelievo di midollo osseo il donatore viene sottoposto ad anestesia generale o epidurale le indagini pre-espianto
necessarie per il donatore sono per lo più quelle richieste per l’anestesia generale oltre a uno screening infettivologico (Tabella 4).
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Indagini di screening pre-trapianto
del donatore di midollo osseo
Tabella 4
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Anamnesi
Esame obiettivo
Emocromo
Esami ematochimici (azotemia, glicemia, creatinina, colinesterasi, elettroliti sierici, bilirubina totale e frazionata, transaminasi, gGT, fosfatasi alcalina, proteine totali con elettroforesi, dosaggio immunoglobuline, sideremia, ferritina)
Screening coagulativo (PT, PTT, fibrinogeno, ATIII)
VES, TAS
Virologia (HSV, HVZ, EBV)
Toxotest
Sierodiagnosi (tifo, paratifo A e B , brucellosi)
Sierologia epatite (HBV, HCV, HIV)
Sierologia per CMV
Prove immunoematologiche
Esame urine
Radiografia del torace
Visita cardiologica con ECG
Valutazione anestesiologica
La morbilità del donatore derivante dall’intervento di prelievo è molto
bassa e si limita generalmente a un temporaneo fastidio a livello delle
creste iliache posteriori dove solitamente viene eseguito il prelievo di
midollo; più rari sono i casi di difficoltà alla deambulazione che possono durare da qualche giorno fino ad alcuni mesi.
Inoltre, considerando che la quantità di midollo prelevato è dell’ordine
di circa 15 ml/kg, è solitamente necessaria una trasfusione di sangue;
per garantire la massima sicurezza al donatore si esegue una trasfusione autologa di sangue salassato alcuni giorni prima.
■ SCREENING PRE-TRAPIANTO PER IL PAZIENTE
Fondamentale, per sottoporre un paziente a trapianto di midollo, è la
valutazione del suo stato clinico. Particolare importanza assume lo
screening infettivologico; infatti le complicanze infettive del TMO
sono direttamente legate all’esistenza di infezioni inapparenti nel donatore e nel ricevente prima del trapianto. Inoltre, alcune infezioni preesistenti al TMO sia nel donatore sia nel ricevente (epatite B, C, infezione
da CMV, HSV e da Aspergillo, TBC), possono rappresentare un rischio
durante il decorso post-trapianto anche se il significato e l’utilità di
alcune indagini sono tuttora oggetto di dibattito.
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In Tabella 5 sono elencate le indagini di screening sia generale sia
infettivologico previste per il paziente.
Fondamentale nella preparazione del paziente al trapianto è l’inserimento del catetere venoso centrale (CVC), indispensabile per
la somministrazione della chemioterapia, terapia di supporto,
nutrizione parenterale e per eseguire i numerosi prelievi di sangue
necessari per il monitoraggio giornaliero del paziente.
Indagini di screening pre-trapianto
del ricevente midollo osseo
Tabella 5
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Anamnesi
Esame obiettivo
Emocromo
Esami ematochimici (azotemia, glicemia, creatinina, colinesterasi, elettroliti sierici, bilirubina totale e frazionata, transaminasi, gGT, fosfatasi alcalina, proteine totali con elettroforesi, dosaggio immunoglobuline, sideremia, ferritina)
Screening coagulativo (PT, PTT, fibrinogeno, ATIII)
VES, TAS
Virologia (HSV, HVZ, EBV)
Toxotest
Sierodiagnosi (tifo, paratifo A e B, brucellosi)
Sierologia epatite (HBV, HCV, HIV )
Sierologia per CMV
Prove immunoematologiche
Esame urine
Radiografia del torace
Visita cardiologica con ECG ed ecocardiografia
Emogasanalisi e prove di funzionalità respiratoria
TAC total body con mezzo di contrasto
Ecografia epatosplenica
Radiografia ortopanoramica
Se donna: visita ginecologica con PAP test
■ TECNICA DEL PRELIEVO DI MIDOLLO E
MANIPOLAZIONI MIDOLLARI
Il midollo osseo viene prelevato in anestesia generale o spinale, dalla
cresta iliaca anteriore, da quella posteriore e dallo sterno. Solitamente
però è sufficiente eseguire le aspirazioni solamente dalla cresta posteriore o anteriore che offrono una quantità di cellule midollari nucleate
sufficienti per l’intero prelievo. Il prelievo avviene mediante aspirazioni
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multiple in più sedi: si possono eseguire diverse penetrazioni della corteccia ossea, attraverso un unico foro di ago nella cute, cercando di
ridurre al minimo traumi o formazioni di lesioni cicatriziali. In genere,
minore è il volume aspirato per ogni penetrazione, più ricca è la
conta delle cellule formanti colonie.
La dose di midollo per prelievo è solitamente espressa come
numero di cellule nucleate per Kg di peso corporeo del ricevente.
Per un trapianto allogenico è consigliabile, ai fini dell’attecchimento un numero di cellule nucleate >3x10 8 /Kg del ricevente.
In caso di trapianto da donatore non familiare o incompatibile, o nel
caso sia prevista una manipolazione in laboratorio del midollo prelevato (T deplezione, rimozione dei globuli rossi, deplasmazione, ecc.), si
deve prelevare un numero maggiore di cellule. Per i donatori con
basso peso corporeo rispetto al ricevente, può essere necessario eseguire due prelievi di midollo, di cui il primo viene criopreservato.
Il midollo, una volta prelevato, viene raccolto in sacche trasfusionali e
reinfuso direttamente al paziente mediante il CVC. Solitamente si somministrano clorfenamina e idrocortisone prima dell’infusione di midollo
per prevenire reazioni allergiche.
In caso di incompatibilità AB0 tra donatore e ricevente (presenza
nel plasma del paziente di isoagglutinine contro i globuli rossi del
donatore) è indicata la rimozione degli eritrociti dal midollo prelevato (meno frequentemente si usa rimuovere le isoagglutinine dal plasma del ricevente) per evitare reazioni trasfusionali emolitiche durante
l’infusione del midollo. La deplezione eritrocitaria del midollo prelevato
si può ottenere mediante tecniche di eritrosedimentazione per gravità
o centrifugazione differenziale mediante separatori cellulari a flusso
continuo o discontinuo (COBE 2991, Haemonetics 30, COBE SPECTRA, FENWALL CS 3000, ecc.). Dopo la deplezione eritrocitaria si può
ottenere un prodotto finale contaminato solo per il 2% da eritrociti e
un massimo recupero di cellule mononucleate. L’incompatibilità AB0
tra donatore e ricevente non influisce sull’attecchimento, poiché le cellule staminali sono prive degli antigeni AB0 e pertanto non possono
venire distrutte da anticorpi anti-A o anti-B del ricevente, né sulla incidenza della GVHD o sulla sopravvivenza; tuttavia si possono osservare
un ritardo nell’attecchimento della serie rossa con un prolungamento
del fabbisogno trasfusionale e reazioni emolitiche dovute alla continua
produzione post-trapianto di anticorpi anti-A o anti-B contro gli eritrociti del donatore da parte dei linfociti residui del ricevente.
La deplezione midollare di cellule T attualmente viene eseguita solo
in casi di trapianti ad alto rischio di GVHD; si ottiene solitamente
mediante aggiunta di anticorpi monoclonali fissanti il complemento
diretti contro gli antigeni delle cellule T o mediante altre tecniche farmacologiche o fisiche (Tabella 6).
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Tecniche per la T deplezione del midollo osseo
Tabella 6
Metodi fisici
Metodi farmacologici
Microsfere magnetiche
rivestite con polistirene
Incubazione con complemento
e anticorpi monoclonali
Colonna di perle di anticorpi
monoclonali biotina - avidina poliacrilamide
Incubazione con ricino anticorpi monoclonali
Sedimentazione dopo formazione
di rosette con eritrociti di pecora
Incubazione con farmaci
citotossici
Sedimentazione dopo trattamento
con agglutinina di soia
2.2
INDICAZIONI
■ LEUCEMIA MIELOIDE CRONICA
Benché sia noto che il TMO allogenico rappresenta un approccio
terapeutico curativo nella LMC, tuttavia, a tutt’oggi rimangono
insoluti alcuni problemi: selezione dei pazienti eleggibili, scelta
del donatore ottimale, tempi della procedura trapiantologica,
migliore tecnologia trapiantologica applicabile, monitoraggio
della malattia post-trapianto.
Relativamente al paziente eleggibile, dato che la mortalità da trapianto
incrementa con l’età, solitamente molti Centri trapianto limitano l’età a
50 anni.
Per la scelta del donatore, essa è in primo luogo legata al livello di
compatibilità HLA e all’età del donatore stesso, infatti l’impiego di
donatori più giovani correla con una riduzione della TRM. Per quanto
riguarda il momento più adeguato della storia della malattia per procedere a un trapianto sappiamo che la probabilità di recidiva e la TRM
sono più elevate se la procedura è impiegata in fase avanzata di
malattia. Inoltre, per i pazienti in fase cronica (FC) si è osservato una
minore TRM e una migliore sopravvivenza libera da leucemia (LFS)
quando il TMO viene effettuato entro un anno dalla diagnosi. Questo
dato comunque è riferibile a pazienti precedentemente trattati con
BUS o idrossiurea, e non è certo se la stessa correlazione possa
essere fatta nei pazienti pretrattati con interferone (IFN).
Non sono state rilevate sostanziali differenze nei regimi di condizionamento risultando l’associazione TBI+CTX equivalente in termini di
risultati alla combinazione BUS + CTX.
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L’associazione della CSA + MTX è il trattamento maggiormente impiegato nella profilassi della GVHD. La T deplezione, che viene applicata
ormai in una minoranza di Centri, come sappiamo riduce il rischio di
GVHD, ma incrementa la recidiva leucemica (28-30).
Globalmente, dalle analisi più recenti risulta che il trapianto di cellule
staminali da fratello HLA identico nella LMC in FC determina, a seconda delle casistiche, una probabilità di sopravvivenza, LFS e recidiva a
5 anni rispettivamente del 50-70%, 30-60%, 15-30%. Variabile statisticamente significativa in termini di migliore LFS risulta essere l’età <30
anni (33, 34). In considerazione dell’incremento della TRM con l’età e
dei risultati favorevoli ottenuti con l’impiego dell’IFN, nella LMC in FC
può essere indicato intervenire con la procedura trapiantologica nei
pazienti di età <30 anni, mentre nei pazienti di età >30 anni può essere indicato in prima istanza l’impiego dell’IFN e successivamente del
trapianto in caso di assente o ridotta risposta citogenetica (Ph >75%)
dopo un anno di terapia.
■ LEUCEMIA MIELOIDE ACUTA
Nei pazienti con leucemia mieloide acuta (LMA) si può ottenere la guarigione con il trapianto allogenico che tuttavia, se applicato negli stadi
più avanzati o nelle leucemie refrattarie, cura solo il 10% della popolazione. Sopravvivenza a lungo termine e una probabilità di guarigione
del 20-40% si osservano invece in pazienti trattati in II o >II RC fino ad
arrivare a valori del 40-70% per i pazienti trapiantati in I RC.
Come linee guida si può dire che il trapianto allogenico in pazienti
sotto i 50 anni, con donatore compatibile, e con malattia in ³ II
remissione o in recidiva precoce ha indicazione elettiva considerando che circa il 30% di questi pazienti diventano lunghi sopravviventi mentre la chemioterapia non offre chance per il controllo
della malattia; il trapianto ha inoltre indicazione assoluta anche
per quei pazienti resistenti alla prima linea di trattamento.
Più complessa è la scelta terapeutica per la LMA in I RC. Infatti,
sebbene gli studi comparativi dimostrino una riduzione, con il trapianto, della probabilità di recidiva, in alcuni di essi non si osserva un reale
miglioramento della DFS a causa della più elevata TRM anche se,
comunque è presente un trend a favore del TMO; in soggetti adulti
<50 anni è comunque una procedura adeguata soprattutto con il
miglioramento delle strategie volte a ridurre la TRM (35-37). Sarebbe
però utile realizzare degli studi che possano permettere di individuare
quali caratteristiche biologiche e quali fenotipi molecolari indicano la
necessità di un trapianto in I RC; certamente una precedente fase
mielodisplastica e alterazioni citogenetiche sfavorevoli rappresentano delle indicazioni ben precise al trapianto in I RC.
Un discorso a parte merita la LMA FAB M3 per la quale gli ottimi
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risultati ottenuti con l’acido retinoico associato alla chemioterapia
non rendono ragione di un approccio trapiantologico in I RC se
non nel caso di una remissione solo ematologica e non molecolare
della malattia (38).
■ LEUCEMIA LINFATICA ACUTA
I risultati della chemioterapia convenzionale in età pediatrica sono
così soddisfacenti che il trapianto in I RC in questa categoria di
pazienti trova spazio solo in sottogruppi particolari quali pazienti
che presentino alla diagnosi fattori riconosciuti ad alto rischio di
recidiva (leucemia linfoide acuta (LLA) Ph + , t(4;11)) (39).
Sono invece candidati all’allotrapianto bambini con recidiva precoce di malattia o recidivati dopo programmi terapeutici particolarmente intensivi, o refrattari alla prima linea di trattamento.
In questi casi infatti le possibilità terapeutiche con la chemioterapia
sono praticamente assenti. Oggetto di discussione può essere l’impiego del trapianto nei casi di recidiva tardiva (off therapy) o dopo programmi terapeutici definiti a basso rischio.
Il trapianto di midollo allogenico nell’adulto, quando effettuato in I RC
ha dato DFS del 40-70% a lungo temine (40, 41); tuttavia il ruolo del
trapianto in questa fase è ancora discutibile (42, 43). Il trapianto è
senz’altro una procedura di elezione nei pazienti in I RC di malattia ad alto rischio di recidiva, con caratteristiche citogenetiche
sfavorevoli, o che abbiano ottenuto la I RC dopo terapie di “salvataggio”, o nei pazienti in fase più avanzata di malattia.
■ APLASIA MIDOLLARE
Nell’aplasia midollare il TMO allogenico determina una DFS superiore al 50% (44). I risultati migliori si osservano nei pazienti giovani che
hanno avuto una malattia di breve durata e un numero limitato di trasfusioni. Il regime di condizionamento di scelta comprende la sola
CTX. I pazienti con più di 30 anni presentano maggiori complicanze
legate al trapianto e i risultati tra allotrapianto e terapia immunosoppressiva sono simili (45). In particolare è consigliabile la terapia
immunosoppressiva in pazienti più anziani (>40 anni) o in pazienti
con aplasia moderata.
■ EMOGLOBINOPATIE
L’efficacia del trapianto allogenico nei pazienti con talassemia è
ormai chiaramente dimostrata da più di 10 anni di studi effettuati
soprattutto in Italia (46-48).
La più grossa casistica finora pubblicata si riferisce a 802 pazienti trat-
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tati presso il Centro di Pesaro (48). In questa casistica fattori prognostici sfavorevoli per la sopravvivenza e la DFS sono risultati essere l’epatomegalia, la fibrosi portale, le complicanze dovute alla terapia ferrochelante. In particolare, suddividendo i pazienti in tre gruppi di
rischio (I, II o III) in base al numero dei fattori di rischio presenti, la
DFS varia dal 90%, all’82%, al 57%, mentre per ciascun gruppo la
sopravvivenza è rispettivamente del 95%, 84% e 79%. In particolare
nei pazienti appartenenti al gruppo a rischio più elevato correlano con
una migliore sopravvivenza l’età inferiore a 17 anni e la minore intensità del regime di condizionamento. Sembra che i pazienti appartenenti alla I e II classe di rischio, ovvero le classi con minore compromissione di organo, il regime di condizionamento più adeguato sia rappresentato da BUS (16 mg/kg) + CTX (200 mg/Kg) ± SAL o deplezione
dei linfociti T dal midollo. Per i pazienti a più alto rischio, in particolare
se di età >17 anni, si può ridurre la dose della CTX (120-160 mg/Kg).
Il successo nei soggetti giovani ha portato a estendere il trapianto
anche a soggetti adulti. In 106 pazienti adulti, per lo più appartenenti
alla II e III classe di rischio, sottoposti a trapianto presso il Centro di
Pesaro, la sopravvivenza globale e l’EFS sono state del 68 e 65%
rispettivamente. Tuttavia, l’alta mortalità da trapianto osservata deve
suggerire una grossa cautela nella selezione dei pazienti adulti con
talassemia da sottoporre a TMO allogenico.
Un’altra forma di emoglobinopatia per la quale l’approccio trapiantologico risulta curativo è l’anemia drepanocitica. Tuttavia, i
recenti progressi nel trattamento medico hanno permesso di migliorare
la qualità di vita dei pazienti e le complicanze della malattia, riducendo
così l’impiego del trapianto, già comunque limitato a forme particolarmente a rischio. In Tabella 7 sono elencati i criteri di inclusione
selezionati dal British Paediatric Haematology Forum per il trapianto di
midollo nell’anemia drepanocitica.
■ ERRORI CONGENITI DEL METABOLISMO
Nonostante il numero di trapianti eseguiti in pazienti con tesaurismosi
lisosomiale, è ancora poco chiaro per molte patologie, il reale
beneficio di tale procedura. Infatti i danni d’organo non sono reversibili e dopo trapianto non migliorano né le deformità scheletriche, né i
danni neurologici a causa della barriera emato-encefalica che non permette alle cellule neuronali di essere raggiunte dall’enzima in circolo.
Quello che emerge dagli studi è che l’attività enzimatica determinata
nei linfociti e nel tessuto epatico dopo trapianto riflette un attecchimento stabile e una sostituzione dei macrofagi tissutali. Infatti la riduzione del materiale accumulato nel fegato e nella milza è dovuto alla
sostituzione dei macrofagi dell’ospite ricchi di prodotto accumulato
con le cellule enzimaticamente competenti del donatore che possono
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Tabella 7
Selezione dei pazienti affetti da anemia falciforme per il
trapianto di midollo osseo allogenico: criteri
del British Paediatric Haematologic Forum
Criteri di inclusione
1. Età <16 anni con donatore familiare HLA identico e consenso informato
2. Presenza di una o più delle seguenti complicazioni correlate alla malattia:
• compromissione del SNC
• compromissione polmonare acuta ricorrente o malattia polmonare
cronica falciforme stadio I/II
• dolori ricorrenti gravi con debilitazione (>3 ricoveri annui in 3-4 anni)
3. Problemi relativi al futuro terapeutico del paziente
Criteri di esclusione
1. Donatore affetto da emoglobinopatia grave
2. Uno o più delle seguenti caratteristiche:
• Karnofsky <70%
• fibrosi portale (moderata o severa)
• compromissione renale (FGR < 30%)
• compromissione intellettiva grave
• malattia polmonare falciforme di grado III o IV
• cardiomiopatia
• infezione da HIV
promuovere anche una clearance del materiale accumulato dalle cellule vicine, compresi gli epatociti.
Tuttavia un reale miglioramento clinico è stato osservato solo in pochi
soggetti sopravvissuti a lungo termine; inoltre, considerata l’estrema
variabilità del decorso di tali patologie anche all’interno della stessa
famiglia, occorre valutare con cautela i possibili effetti benefici del
trapianto nei singoli pazienti.
■ ANEMIA DI FANCONI
Anche se l’anemia di Fanconi può rispondere in modo transitorio alla
terapia medica, il trapianto rimane l’unico approccio terapeutico
realmente curativo in casi di pancitopenia. È oggetto di discussione il
momento ottimale per l’esecuzione del trapianto che comunque va
eseguito tempestivamente in caso di aplasia grave con trasfusione
dipendenza o complicanze infettive (49).
È da notare come l’anemia di Fanconi si associ a un’alta incidenza
di complicanze trapiantologiche, in particolare mucosite (fino a scollamenti di grandi frammenti di mucosa), tossicità cutanea, insorgenza
di secondi tumori dovuti all’estrema sensibilità dei pazienti ad agenti
alchilanti e alla radioterapia. Anche la GVHD e la cistite emorragica
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sono solitamente gravi. Tuttavia, la probabilità di sopravvivenza è risultata essere intorno al 75% nei due maggiori studi fino ad ora pubblicati
(49, 50).
■ IMMUNODEFICIENZA PRIMARIA
I primi trapianti di midollo allogenico sono stati effettuati in bambini
con immunodeficienza congenita (7, 51). La procedura trapiantologica
permette la sostituzione della cellula staminale alterata con una cellula
normalmente funzionante capace di ricostituire il sistema emopoietico
e immunitario dell’ospite. Quindi la disponibilità di un donatore HLA
identico per un bambino con immunodeficienza rende il trapianto
il trattamento di elezione. In assenza di un donatore compatibile
sono stati eseguiti con successo trapianti da donatori HLA
mismatched o da donatori non correlati (52, 53) previa deplezione
midollare delle cellule T.
■ EMOGLOBINURIA PAROSSISTICA NOTTURNA
L’emoglobinuria parossistica notturna (EPN) è una patologia rara
caratterizzata da un disordine acquisito della cellula staminale con
anemia emolitica cronica, neutropenia, trombocitopenia ed episodi
trombotici.
L’unico approccio realmente curativo per questa patologia è il TMO
allogenico, tuttavia, tale procedura è gravata da un’alta mortalità e
morbilità (54). Considerando la storia naturale della malattia e la
possibilità anche di remissioni spontanee, la scelta terapeutica
del trapianto è da valutare attentamente.
Poiché la trombocitopenia, la presenza di trombosi alla diagnosi o una
precedente diagnosi di aplasia midollare sono fattori prognosticamente
sfavorevoli in termini di sopravvivenza, in questi casi potrebbe essere
giustificato l’approccio trapiantologico. Considerato l’esiguo numero di
pazienti trapiantati non ci sono delle reali linee guida se non un grave
stato di aplasia midollare con dipendenza trasfusionale.
■ SINDROMI MIELOPROLIFERATIVE
Le sindromi mieloproliferative costituiscono un gruppo di patologie
caratterizzate da una lenta ma progressiva espansione clonale di cellule emopoietiche, che possono andare incontro a una evoluzione blastica. Comprendono la LMC (già esaminata in dettaglio), la LMC giovanile, la policitemia vera (PV), la trombocitemia essenziale e la mielofibrosi
idiopatica.
Nella PV il ruolo del trapianto è più ipotetico che reale considerato
che la sopravvivenza con la chemioterapia convenzionale è di circa 10
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anni e che l’età alla diagnosi è solitamente superiore ai 60 anni.
Essendo tuttavia una malattia della cellula staminale il trapianto trova
ovviamente indicazione solo in pazienti giovani non rispondenti al
trattamento.
Anche per la trombocitemia essenziale il trapianto è più un
approccio virtuale che reale riferibile solo a pazienti giovani con
grave rischio trombotico o episodi emorragici ricorrenti.
Per la mielofibrosi idiopatica invece il ruolo del trapianto è
senz’altro fondamentale anche se l’esperienza per questa forma
patologica è molto limitata. L’ostacolo principale all’approccio terapeutico è sempre l’età del paziente e il grado di fibrosi che non deve
essere tuttavia vista come una controindicazione al trapianto, anche
se nei casi di grave fibrosi midollare può rappresentare senz’altro un
rischio aggiuntivo per l’attecchimento. In un’esperienza riportata da
Rajantie e coll. (55) il mancato attecchimento è stato osservato nel 6%
dei pazienti con fibrosi media o moderata e nel 33% dei pazienti con
grave fibrosi midollare.
Nella LMC giovanile l’indicazione al trapianto è assoluta considerata l’estrema aggressività della patologia e l’assenza di altri
approcci curativi.
■ SINDROMI MIELODISPLASTICHE
Le sindromi mielodisplastiche (MDS) sono caratterizzate da un disordine clonale dell’emopoiesi con emopoiesi inefficace e citopenia periferica. Sebbene la storia naturale della malattia dipenda dal tipo di mielodisplasia: anemia refrattaria (AR), AR con eccesso di blasti (AREB),
AREB in trasformazione (AREB-T), leucemia mielomonocitica cronica
(LMMC), i trattamenti convenzionali non sono curativi e la mediana di
sopravvivenza globalmente è di 15 mesi. Attualmente, il TMO allogenico sembra essere potenzialmente curativo. In particolare, in 59
pazienti trapiantati dal gruppo di Seattle (56), la sopravvivenza libera
da eventi (EFS) a 3 anni è risultata del 45%.
Recentemente sono stati pubblicati i dati relativi a 93 pazienti, 64 trapiantati da fratelli HLA identici, i rimanenti da donatore familiare
mismatched o da MUD (57). Tutti presentavano prima del trapianto
neutropenia o piastrinopenia o una quota blastica superiore al 5% nel
midollo o nel sangue periferico. La probabilità di sopravvivenza libera
da malattia (DFS) a 4 anni, la recidiva e la mortalità trapiantologica
sono state, rispettivamente, del 41%, 28% e 48%. Fattori prognostici
favorevoli per la DFS sono risultati l’età del paziente (DFS 48% a 4
anni per età <40 anni vs 17% per età >40 anni), e una minore durata
del tempo intercorso dalla diagnosi della malattia al trapianto. La recidiva è stata osservata solamente nel gruppo dei pazienti con eccesso
di blasti (51% a 4 anni). La DFS per i pazienti di età inferiore a 40 anni
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e senza eccesso di blasti al trapianto è risultata del 62% a 4 anni.
La procedura trapiantologica sembra pertanto indicata in pazienti
con età inferiore a 40 anni se impiegata precocemente prima della
progressione blastica o delle citopenie gravi. Certamente è difficile
intervenire con una procedura aggressiva come il trapianto in pazienti
con AR, senza pancitopenia o anomalie citogenetiche complesse o
senza fabbisogno trasfusionale; in questo gruppo potrebbe essere
indicata solo un’attenta sorveglianza per intervenire in caso di segni di
evoluzione. Per i pazienti di età superiore ai 40 anni o con eccesso
di blasti l’impiego della procedura trapiantologica è discutibile. In
quest’ultimo caso può essere indicata una polichemioterapia pre-trapianto per sottoporre il paziente alla procedura trapiantologica in RC
di malattia (DFS a 2 anni del 60%) (58).
■ LEUCEMIA LINFATICA CRONICA
La leucemia linfatica cronica (LLC) è una patologia che interessa per
lo più pazienti anziani, quindi l’approccio trapiantologico con cellule
staminali allogeniche da donatore familiare identico è riservato solo a
una ridotta quota di pazienti idonei per età. Fino ad ora il TMO allogenico è stato effettuato in piccoli gruppi di pazienti con LLC a prognosi
sfavorevole (59-61).
I risultati preliminari non permettono attualmente di fornire linee guida
per TMO allogenico nella LLC; tuttavia possiamo considerare indicato il trapianto allogenico in pazienti giovani con malattia a prognosi sfavorevole.
■ MIELOMA MULTIPLO
Il trapianto di midollo allogenico da donatore familiare identico è stato
utilizzato per la prima volta in questa patologia nel 1982 dal gruppo di
Seattle (62). Si trattava di un trapianto singenico, cui hanno fatto
seguito altri casi aneddotici.
Dati relativi a un’ampia casistica relativa all’impiego del trapianto di
midollo allogenico in pazienti affetti da mieloma multiplo (MM) sono
stati pubblicati nel 1991 da Gahrton e coll. (63). La probabilità attuariale di sopravvivenza è stata globalmente del 40% con un follow-up
massimo di 78 mesi. È stato osservato un trend statisticamente non
significativo a favore dei pazienti trapiantati in stadio I rispetto ai
pazienti in stadio II o III di malattia e nei pazienti trapiantati in remissione completa (RC) rispetto ai pazienti in remissione parziale (RP) o
non rispondenti (NR) o in progressione di malattia. È risultato inoltre
significativo ai fini della sopravvivenza l’ottenimento di uno stato di RC
dopo l’attecchimento. La mortalità correlata al trapianto (TRM) è stata
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del 38%; tra le cause principali di decesso sono state osservate PI,
recidive, GVHD, infezioni ed emorragie.
Da questi dati è evidente come il trapianto allogenico per mieloma è
gravato da un’alta mortalità trapiantologica, che varia dal 40 al
50% ma si riduce per trapianti effettuati in fase meno avanzata di
malattia. Questo in parte è legato all’età media dei pazienti trapiantati
per mieloma che è superiore a quella dei pazienti trapiantati per leucemia, ma probabilmente è anche dovuto all’alta incidenza di malattia
attiva al momento del trapianto e alle alterazioni renali cliniche e subcliniche presenti nel MM, nonché alla predisposizione alle infezioni.
Non ci sono linee guida ben precise sull’impiego del trapianto nel
MM anche se ci potrebbe essere indicazione nei pazienti più giovani già precedentemente trattati, con buona risposta alla chemioterapia. Tuttavia, considerando l’alta mortalità trapiantologica può
anche essere ragionevole aspettare una seconda linea di trattamento. Inoltre, potrebbe essere indicato il trapianto in pazienti di
età <50 anni resistenti alla chemioterapia di prima linea con donatore compatibile; questi pazienti, infatti, non hanno possibilità di
sopravvivenza a lungo termine.
■ LINFOMA DI HODGKIN
La buona risposta alla chemioterapia non rende necessario per
questa patologia l’approccio trapiantologico se non in casi particolari (64). Il trapianto allogenico è stato finora impiegato in un ridotto
numero di pazienti in recidiva di malattia resistente o sensibile alla
chemioterapia, criterio quest’ultimo che correla con una minore probabilità di recidiva post-trapianto (65-68).
■ LINFOMA NON HODGKIN
Gli studi relativi al TMO allogenico in pazienti affetti da linfoma non
Hodgkin (LNH) non si riferiscono a casistiche numerose di pazienti.
Tuttavia, da questi studi si evince un’attività di GVL che non si traduce
in un incremento dell’EFS per i pazienti allotrapiantati, rispetto a quelli
trattati con autotrapianto, a causa della maggiore mortalità da allotrapianto. È comunque consigliabile il trapianto allogenico in pazienti
con LNH aggressivo, linfoma di Burkitt o linfoma linfoblastico
soprattutto in soggetti giovani con basso rischio di sviluppare
GVHD, nei quali si può sfruttare al meglio l’effetto di GVL.
Per i linfomi a basso grado (indolenti) non si possono fare delle
considerazioni relative all’impiego dell’allotrapianto; sicuramente
l’età del paziente, la storia naturale della malattia, la TRM non la
rendono una procedura di elezione.
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■ TRAPIANTO APLOIDENTICO
Il trapianto di cellule staminali da donatore aploidentico è una procedura terapeutica gravata da un elevato rischio di GVHD e di mancato attecchimento. Recentemente, per aumentare la probabilità di
successo di questa procedura, sono stati impiegati regimi di condizionamento più intensivi, deplezione delle cellule T dall’inoculo, incremento del numero delle cellule staminali infuse mediante la combinazione
cellule midollari + cellule staminali da sangue periferico previa stimolazione con fattore di crescita.
Di fondamentale importanza in questo campo è l’esperienza del gruppo di Perugia che in pazienti in fase avanzata di malattia ha associato
la T deplezione a un regime di condizionamento costituito da TBI +
CTX (100-120 mg/Kg) + thiotepa (10 mg/Kg) e SAL (20 mg/Kg).
Le cellule staminali infuse erano ottenute sia dal midollo osseo che dal
sangue periferico del donatore dopo stimolazione con granulocyte
colony stimulating factor (G-CSF): sia il midollo che le leucoaferesi
venivano previamente sottoposte a rimozione dei linfociti T (69).
L’esperienza di questo gruppo ha evidenziato una probabilità di attecchimento del 75%, con una riduzione della GVHD acuta. Tuttavia con
questo regime di preparazione pre-trapianto rimane ancora alta la
TRM. Una migliore selezione dei pazienti, la modificazione del regime
di condizionamento e il miglioramento delle procedure di profilassi
della GVHD sono le direttive verso cui si muove il gruppo di Perugia e i
risultati preliminari sembrano promettenti.
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TRAPIANTO DI MIDOLLO
OSSEO ALLOGENICO
DA DONATORE NON
CORRELATO
3.1
BANCHE DEI DONATORI VOLONTARI
DI MIDOLLO OSSEO
Come già detto il TMO allogenico è una procedura ormai consolidata
nel trattamento di numerose emopatie, tuttavia solo il 30% dei pazienti, eleggibili per età o malattia di base possono usufruire di un donatore HLA compatibile nell’ambito della fratria. Tale probabilità si accresce del 10% se si considera la possibilità di individuare un familiare
con fenotipo HLA diverso solo per un locus.
Di fatto, a circa il 60-70% dei pazienti eleggibili rimarrebbe preclusa la
possibilità di usufruire delle procedure trapiantologiche.
Le conoscenze sempre più approfondite del sistema HLA e l’estensione degli studi HLA alla genetica delle popolazioni hanno permesso di
stabilire la possibilità di esistenza, per ogni singolo individuo, nell’ambito della popolazione mondiale, di uno o più soggetti fenotipicamente
HLA compatibili.
Tale acquisizione ha costituito il presupposto per la creazione dei
Registri Internazionali e Nazionali di donatori volontari di midollo
osseo.
Il Bone Marrow Donor Worldwide (BMDW) costituito a Leiden sotto la
presidenza del Prof. J. van Rood, raccoglie le tipizzazioni HLA provenienti da tutti i Registri Nazionali, a ognuno dei quali vengono ritrasmesse con aggiornamenti periodici.
Un limite fondamentale di questi registri è che la frequenza HLA riflette
in larga maggioranza quella propria della razza caucasica proveniente
da una fascia sociale medio alta. Pertanto le minoranze etniche, le
individualità emergenti nelle società multirazziali sempre più diffuse e la
grande quota degli appartenenti ai Paesi a economia non avanzata
sono scarsamente o affatto rappresentate nei registri.
Il criterio etnico comunque non è la sola variabile che influenza la probabilità di trovare un donatore compatibile nell’ambito dei Registri
Internazionali.
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Ulteriori fattori sono rappresentati da:
1. dimensione del pool dei donatori
2. frequenza aplotipica HLA del paziente nell’ambito del pool dei
donatori
3. diagnosi e condizione clinica del paziente.
A seconda delle diverse esperienze, il tempo medio per identificare
un donatore dall’inizio della ricerca è di 4-6 mesi; pertanto la possibilità di reperibilità dipende in larga misura dalla spettanza di vita del
paziente, essendo la ricerca spesso interrotta per decesso o per aggravamento delle condizioni cliniche generali del ricevente.
Inoltre, la ricerca ha costi elevati ed è esposta al rischio di rinuncia finale, volontaria o forzata del donatore.
L’espansione del pool dei donatori è fondamentale per cercare di
rispondere alle esigenze di reperibilità di un donatore per i pazienti con
aplotipo più raro, anche se è stato calcolato che oltre un certo numero
di donatori la probabilità di individuare soggetti HLA identici raggiunge
un plateau (Figura 2).
È da aggiungere inoltre che i dati disponibili fanno riferimento alla sola
tipizzazione sierologica del sistema HLA e sono basati su un numero di
alleli HLA così come definiti alla data dell’analisi. Entrambi questi fattori
sono soggetti a modificazioni sia per l’introduzione di metodi di tipizzazione più approfonditi, in particolare quelli forniti dalla biologia molecolare, sia per il progressivo incremento del numero di alleli definiti.
Attualmente comunque la possibilità di individuare un donatore
Figura 2 • Probabilità di individuare soggetti HLA identici da un registro di
donatori di midollo osseo
100
80
HLA 5/6
%
60
HLA 6/6
40
20
0
1x10 3
1x10 4
1x10 5
1x10 6
3x10 6
N° donatori
Da: Sonnenberg, Blood 1989.
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1x10 7
1x10 8
compatibile, contando i registri oltre 4 000 000 di donatori, è del
40%. Fino a oggi si calcola che siano stati effettuati più di 5 000 trapianti da MUD per malattie ematologiche grazie a donatori reperiti
attraverso il network mondiale dei registri.
3.2
RISULTATI
Si calcola che globalmente la probabilità di ottenere l’attecchimento in un trapianto MUD sia dell’ordine dell’80-98% a seconda
delle diverse casistiche con una mediana di 22 giorni per PMN
>500/mm 3 (70, 71). Studi recenti hanno evidenziato che un più alto
numero di cellule infuse si correla con una riduzione della graft failure
e con un accorciamento dei tempi di attecchimento (72, 73).
L’impiego dei fattori di crescita non migliora l’andamento clinico dei
pazienti e non riduce le percentuali di mancato attecchimento, ma
sembra agire solamente sulla velocità di risalita dei PMN. Fattori che
influenzano l’attecchimento sono inoltre la deplezione T cellulare del
midollo (20% di insuccessi), il livello di compatibilità HLA, l’intensità
del regime di condizionamento e l’immunosoppressione post-trapianto
(74-77).
La GVHD acuta rappresenta la maggior causa di insuccesso posttrapianto MUD. La sua incidenza e gravità incrementano in base al
grado di incompatibilità HLA (78).
I due principali approcci per ridurre la GVHD acuta sono la T deplezione del midollo e la terapia immunosoppressiva post-trapianto.
Tuttavia, la T deplezione riduce la GVHD senza migliorare la sopravvivenza, perché incrementa il rischio di rigetto e la recidiva. Sono in
corso studi volti a individuare rimozioni selettive o parziali delle cellule
T. Sebbene la somministrazione del MTX con la CSA per la profilassi
della GVHD nei trapianti da donatore familiare abbia mostrato una
maggiore efficacia rispetto alle singole sostanze, tale combinazione
nei trapianti MUD previene la GVHD acuta in meno del 25% dei casi e
la sua efficacia è ancora più bassa se valutata nei trapianti incompatibili per un locus.
Globalmente l’incidenza della GVHD acuta è del 79% nei pazienti
che hanno ricevuto MTX+CSA con donatore HLA identico non correlato rispetto al 35% del donatore consanguineo (79). Sembra tuttavia che in individui con meno di 36 anni, con donatore compatibile
non correlato, l’incidenza della GVHD sia più bassa rispetto a donatori
familiari incompatibili per un locus (71). Inoltre l’incidenza della GVHD
aumenta nel caso che il donatore sia donna con gravidanze precedenti rispetto alle nullipare o a donatori maschi.
L’incidenza della GVHD cronica risulta significativamente più bassa nei
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pazienti che hanno ricevuto midollo T depleto (70). Tra i pazienti trapiantati con midollo non manipolato e che hanno ricevuto profilassi della GVHD con MTX e CSA, la GVHD cronica è di grado
esteso nel 77% dei casi, subclinica nell’8%, e solo il 15% dei
pazienti non presenta GVHD cronica. Globalmente il 25-30% dei
pazienti muore per complicanze da GVHD cronica estesa durante la
terapia immunosoppressiva (78).
In un’analisi multivariata volta a definire i fattori di rischio associati con
una migliore sopravvivenza in 267 pazienti affetti da emopatia maligna
sottoposti a TMO da donatore non familiare correlavano con una
minore sopravvivenza i seguenti fattori: diagnosi diversa da LMC, stadio avanzato di malattia, età >20 anni, sierologia pre-trapianto positiva
per CMV, irregolare somministrazione della terapia impiegata per la
profilassi della GVHD (78).
In una recente analisi condotta su 333 pazienti affetti da LMC, trapiantati da donatore non compatibile dal Maggio 1985 al Dicembre 1994
dal gruppo di Seattle, la probabilità di sopravvivenza a 3 anni è stata
del 59%, 39%, 32% e 7% rispettivamente per i pazienti trapiantati in I
FC, FA, II FC e crisi blastica (CB) (80).
Sempre il gruppo di Seattle (73) ha condotto un’analisi su 174 pazienti
affetti da leucemia acuta linfoide e mieloide ad alto rischio: la DFS a 3
anni è stata del 37% per i pazienti trapiantati in II RC, rispetto al 13%
per i pazienti trapiantati in fase più avanzata di malattia. La sopravvivenza globale risulta ridotta nei pazienti resistenti o in recidiva di
malattia al trapianto; con blasti nel sangue periferico o più del 30% di
blasti nel midollo. Inoltre, dall’analisi multivariata è risultato che un
numero di cellule infuse >3.65x10 8 cellule/Kg del ricevente correla con
una migliore sopravvivenza.
Recentemente è stata pubblicata una casistica relativa a 57 pazienti
affetti da MDS trapiantati a Seattle dall’Ottobre 1987 al Luglio 1995
(76); per questo gruppo di pazienti la probabilità di DFS a 2 anni è
stata del 38%.
3.3
INDICAZIONI
Le indicazioni a un trapianto da MUD dipendono dalla patologia di
base, dall’età e ovviamente dall’urgenza clinica del paziente.
Secondo il GITMO (Gruppo Italiano per il Trapianto di Midollo Osseo)
esse sono:
a. indicazioni di tipo sperimentale, accettabili sulla base dei dati e dei
protocolli pubblicati, che siano già state sottoposte e approvate
dalla Commissione GITMO (ad esempio la talassemia major)
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b. patologie per le quali è già codificato il trapianto da donatore non
consanguineo:
• aplasia midollare grave dopo 6 mesi di terapia inefficace con SAL
o CSA in pazienti al di sotto dei 20 anni
• anemia di Fanconi in pazienti al di sotto dei 20 anni
• LLA in II RC in pazienti al di sotto dei 40 anni
• LMA in II RC in pazienti al di sotto dei 40 anni
• LMC in I FC in pazienti con età inferiore a 45 anni non rispondenti
all’IFN
• MDS ad alto rischio in pazienti al di sotto dei 45 anni.
Ogni indicazione in deroga a questi criteri deve essere preventivamente sottoposta alla Commissione GITMO-MUD prima di procedere a un
trapianto allogenico da donatore non compatibile.
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TRAPIANTO DI CELLULE
STAMINALI ALLOGENICHE
DA SANGUE PERIFERICO
Negli ultimi due anni si è assistito a un progressivo incremento nell’impiego delle cellule staminali allogeniche ottenute da sangue periferico
per il trapianto di pazienti affetti da patologie ematologiche.
I presupposti per la diffusione di tale procedura sono stati i seguenti:
1. comparsa di una ricostituzione emopoietica completa e permanente con chimerismo completo del donatore in esperienze precliniche
su animali
2. possibilità di aumentare considerevolmente il numero di cellule staminali circolanti per mezzo di citochine
3. buona tollerabilità da parte del donatore del G-CSF impiegato
quale citochina per la mobilizzazione delle cellule staminali
4. vantaggi per il donatore al quale vengono evitati i rischi e i disagi
legati all’anestesia, all’ospedalizzazione, all’autotrasfusione, al
dolore nella sede del prelievo e, in alcuni casi, la difficoltà nella
deambulazione che può durare da qualche giorno fino, sia pure
molto raramente, a qualche mese
5. una più rapida risalita dei neutrofili e delle piastrine
6. l’assenza di un aumentato rischio di GVHD acuta nonostante il
numero di linfociti T nel sangue periferico sia da 7 a 10 volte maggiore rispetto al midollo osseo
7. il numero maggiore dei linfociti T e delle cellule NK presenti nell’inoculo, che potrebbe incrementare l’effetto GVL, anche se non vi
sono ancora dati sufficienti al riguardo.
4.1
PRELIEVO
Attualmente la citochina più largamente impiegata per ottenere la
mobilizzazione di cellule staminali nel donatore di cellule staminali allogeniche da sangue periferico (PBSC) è il G-CSF. In uno studio condotto da Korbling e coll. (81), in 41 donatori sottoposti a trattamento con
G-CSF alla dose di 12 mg/Kg per 3 giorni, la concentrazione di globuli
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rossi, PMN e linfociti è incrementata, rispetto al valore di base, di 6.4,
8.0 e 2.2 volte rispettivamente. Inoltre, cellule CD34 + e sottotipi più
immaturi quali le cellule CD34 + Thy-1 dim e CD34 + Thy-1 dim CD38 – incrementano di 16.3, 24.2 e 23.2 volte rispettivamente evidenziando una
mobilizzazione selettiva da parte del G-CSF dei progenitori emopoietici e
in particolare dei sottotipi più primitivi di cellule staminali.
Il granulocyte-macrophage colony stimulating factor (GM-CSF) sembra
essere meno efficace in termini di mobilizzazione delle cellule staminali
anche se i dati sono ancora scarsi. La combinazione delle due citochine non sembra migliorare il livello di mobilizzazione rispetto all’impiego
del G-CSF da solo e limitate sono le esperienze con le altre citochine.
Dati recentemente pubblicati sulla tollerabilità del G-CSF hanno messo
in evidenza la comparsa di dolori ossei, cefalea, astenia e nausea. Tali
effetti collaterali sono risultati dose dipendente e possono risolversi
entro pochi giorni dalla sospensione del farmaco; in ogni caso sono
ben controllati dall’impiego di analgesici. Gravi effetti collaterali tali da
determinare la sospensione del farmaco sono rari. In alcuni casi il GCSF può indurre incremento dei valori della fosfatasi alcalina (anche di
due-tre volte), della lattico-deidrogenasi (LDH) o più raramente un
decremento del potassio e del magnesio sierico.
Solitamente la citochina viene impiegata alla dose di almeno 10 mg/Kg
del donatore e somministrata per via sottocutanea per i 4-5 giorni consecutivi che precedono l’inizio delle leucoaferesi. Infatti, sembra che il
giorno migliore per la raccolta delle cellule staminali dopo una somministrazione giornaliera di 10 mg/Kg di G-CSF sia il 4° o il 5°; continuando
a somministrare ulteriormente il fattore di crescita, si osserva una progressiva riduzione nella mobilizzazione dei progenitori CD34 + . Naturalmente, è fondamentale poter disporre di un buon accesso venoso
per poter procedere alla leucoaferesi ed è da evitare, a eccezione di
casi particolari, un accesso venoso centrale.
Le PBSC sono raccolte mediante sedute singole o multiple di leucoaferesi effettuate mediante separatori cellulari a flusso continuo. Il volume di sangue totale processato per ogni seduta è solitamente due-tre
volte il volume ematico del donatore; il numero di cellule mononucleate
(MNC) raccolto varia da 3 a 5x10 8 /Kg. L’obiettivo, per ottenere un
adeguato attecchimento, è raggiungere un totale di cellule CD34+ >3-4
x10 6 /Kg del ricevente. Questo obiettivo si raggiunge con una sola leucoaferesi nell’80% dei donatori e con due leucoaferesi nel rimanente
20%. La concentrazione di cellule CD34 + nel sangue periferico del
donatore può essere predittiva della quantità di cellule staminali presenti nell’aferesi. All’analisi multivariata, tra i fattori che possono
influenzare la resa nella produzione di cellule staminali da donatore
sano (82), sembra che l’età del donatore >55 anni correli con una
ridotta mobilizzazione di CD34 + .
A volte nel donatore si può assistere a una riduzione del numero delle
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piastrine con normalizzazione dei valori durante la successiva settimana; tuttavia, questo inconveniente si può evitare reinfondendo, alla fine
dell’aferesi, plasma autologo con piastrine. Alterazioni nei livelli di
magnesio o potassio vengono corrette con una adeguata integrazione
di elettroliti.
4.2
RISULTATI
In una recente analisi condotta da Przepiorka e coll. (83), sono state
analizzate tre coorti di pazienti (TMO + MTX-CSA, TMO + CSA-PDN,
trapianto da PBSC + CSA-PDN) al fine di valutare la mortalità e la
morbilità correlata al trapianto da PBSC rispetto al TMO. La tossicità
legata al regime di condizionamento (in particolare la mucosite) è stata
meno grave nei pazienti trapiantati con PBSC. Anche la degenza
ospedaliera in questo gruppo di pazienti è stata più breve di circa 4
giorni rispetto al trapianto da midollo. La sopravvivenza calcolata a sei
mesi è stata più alta nel gruppo PBSC. Tali dati sono stati confermati
da Azvedo e coll. (84) e da Russell e coll. (85) che hanno rilevato
anche un ridotto numero di giorni di terapia antibiotica e antifungina e
un ridotto numero di trasfusioni di piastrine nei pazienti trapiantati con
PBSC.
Nonostante il numero di linfociti T e cellule NK sia superiore nelle
PBSC rispetto al midollo osseo, numerosi studi non hanno osservato
un aumento nell’incidenza della GVHD acuta rispetto al trapianto
midollare. Sono ancora preliminari i dati relativi all’incidenza della
GVHD cronica, tuttavia in uno studio condotto da Anderlini e coll. (86)
sembra che l’incidenza della GVHD cronica sia maggiore nel trapianto
da PBSC rispetto al gruppo dei pazienti sottoposti a TMO. Tuttavia,
tale incremento non si traduce in un incremento di mortalità grazie a
una più bassa incidenza di recidiva; se ciò si può correlare a un effetto
GVL potenziato è ancora da definire.
In uno studio condotto da Bacigalupo e coll. (87), relativamente alla
ricostituzione ematologica dopo trapianto da PBSC, la ripresa delle
cellule CD3 + è paragonabile a quella del TMO, d’altro canto, la ripresa
delle cellule CD4 + e CD8 + sembra più veloce nel trapianto da PBSC;
questo può tradursi in una ricostituzione immunologica più rapida con
conseguente riduzione della mortalità e morbilità dovuta alle infezioni.
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TRAPIANTO DI CELLULE
STAMINALI EMOPOIETICHE
DA SANGUE DI CORDONE
OMBELICALE
Risale al 1974 la prima dimostrazione della presenza nel SCO di CSE
(88) il cui potenziale uso a fini trapiantologici è stato successivamente
precisato da numerosi studi, in particolare dal gruppo della Indiana
University (89) e confermato definitivamente nel 1989 dal primo trapianto di SCO eseguito con successo in un paziente effetto da anemia
di Fanconi (10).
5.1
CARATTERISTICHE BIOLOGICHE DELLA
CELLULA STAMINALE EMOPOIETICA DA
SANGUE DI CORDONE OMBELICALE
Secondo un ordine ontogenetico, la CSE origina primariamente nel
sacco vitellino, per migrare successivamente nel fegato fetale e quindi
nel midollo osseo, che ne costituisce dopo la nascita la fonte principale. La generale immaturità tessutale alla nascita e la particolarità anatomo-funzionale del circolo materno-fetale contribuiscono a conferire
caratteristiche specifiche alla componente cellulare del sangue placentare sia sotto il profilo emopoietico che immunologico.
5.2
CARATTERISTICHE EMOPOIETICHE
Sulla base di numerosi dati sperimentali, la CSE del SCO risulta fenotipicamente diversa, funzionalmente più immatura e dotata di potenziale proliferativo maggiore rispetto a quella del midollo osseo o del
sangue periferico.
L’entrata in ciclo delle cellule cordonali CD34+ per stimolazione con lo
stem cell factor avviene più rapidamente rispetto alle cellule midollari,
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mentre la crescita cellulare in vitro sembra essere indipendente dall’aggiunta dei fattori di crescita prodotti per via autocrina o paracrina.
Queste specificità ematopoietiche conferiscono alla CSE del cordone
ombelicale proprietà peculiari che la rendono particolarmente indicata
per la manipolazione in vitro sia ai fini della terapia genica (già praticata in bambini affetti da deficienza di adenosindeaminasi) sia ai fini dell’espansione del pool delle cellule staminali per un loro impiego nel trapianto dei pazienti adulti (9).
5.3
CARATTERISTICHE IMMUNOLOGICHE
Rispetto al sangue periferico, il SCO contiene linfociti in numero assoluto più elevato, rappresentati, nell’ambito della sottopopolazione T,
da cellule più immature e fenotipicamente distinte, a elevata attività
soppressoria, scarsamente alloreattive, capaci comunque di esprimere
intensa citotossicità di tipo NK e LAK dopo stimolazione con IL-2.
Inoltre, sono state riconosciute funzionalmente immature le cellule
dendritiche del SCO, accessorie della risposta T cellulare. Questi dati
di laboratorio supportano sul piano biologico l’osservazione clinica di
un aumentato rischio per l’attecchimento e di una ridotta incidenza e
gravità della GVHD nei trapianti di SCO. Tuttavia, solo un numero più
elevato di pazienti trapiantati e un più lungo follow-up potranno rispondere al quesito se a una diminuzione della GVHD corrisponderà o
meno una riduzione dell’effetto GVL da parte delle cellule cordonali. Gli
studi in vitro sembrerebbero tuttavia evidenziare il mantenimento dell’attività citotossica anti-leucemica (9).
5.4
TECNICA DEL PRELIEVO
Il sangue contenuto nel cordone ombelicale e nella placenta può essere facilmente prelevato dopo l’espletamento del parto sia spontaneo
che cesareo. Per il recupero di maggiori quantità di sangue, sono stati
adottati vari metodi di raccolta: sistemi aperti o chiusi, impiegati prima
o dopo l’espulsione della placenta con o senza l’ausilio di una soluzione di lavaggio anticoagulante. Attualmente si ritiene che un sistema
chiuso sia da preferire poiché si associa a una minore incidenza di
contaminazione. Fondamentale ai fini del prelievo è la rapidità del clampaggio del funicolo dopo la nascita del neonato, viene quindi incannulata la vena ombelicale e il sangue viene fatto defluire attraverso il
sistema chiuso. Il momento migliore per il prelievo, nel parto spontaneo, sembra essere prima del secondamento in quanto le contrazioni
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uterine a placenta in situ permettono un più efficace svuotamento e
quindi il recupero di un maggior volume di sangue (Figura 3).
Figura 3 • Prelievo di CSE da sangue di cordone ombelicale
In Tabella 8 sono elencati i criteri di esclusione per la raccolta.
Criteri di esclusione per la raccolta
Tabella 8
• Età gestazionale < 35 settimane
• Rottura delle membrane > 12 ore
• Patologie della gravidanza e/o distociche
• Sofferenza fetale e/o malformazioni fetali
• Malattie familiari genetiche
• Malattie trasmissibili per via ematogena
• Assenza di consenso informato
Successivamente vengono effettuati studi infettivologici sul siero
materno (HBsAg, anti-HCV, anti-HIV 1-2, anti-CMV, TPHA) e un test
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di sterilità sul SCO. Su ogni unità SCO viene eseguito lo studio
dell’HLA, del gruppo sanguigno e della composizione cellulare.
L’unità di SCO viene quindi congelata e resa disponibile solo dopo che
a 6 mesi di distanza sia stata confermata la negatività del test per l’HIV
in un nuovo campione di siero materno.
5.5
RISULTATI CLINICI
■ TRAPIANTO DI SCO DA DONATORE CORRELATO
In un’analisi condotta da Wagner e coll. nel 1995 (11) relativa all’esperienza generale su 44 bambini riceventi trapianto SCO, per malattia
neoplastica o non neoplastica, da fratello HLA identico o incompatibile
per uno o più loci, la probabilità di sopravvivenza globale a 1.6 anni è
risultata essere del 72%. L’attecchimento è stato ottenuto nell’86% dei
casi con un tempo mediano di recupero in PMN (>500/mm3 ) e piastrine (>50 000/mm 3 ) rispettivamente di 22 e 49 giorni, mentre l’incidenza
della GVHD acuta di grado > I è stata pari al 3% dei casi. Il numero
limitato dei pazienti, l’eterogeneità delle patologie di base e dei regimi
di condizionamento pre-trapianto conferiscono all’analisi i limiti propri
di uno studio retrospettivo e multicentrico.
Tuttavia alcuni risultati appaiono indicativi:
1. il mancato attecchimento è stato osservato esclusivamente nei
pazienti con malattia non neoplastica o riceventi SCO HLA incompatibile per 2-3 loci
2. nessuna correlazione è stata osservata tra capacità e rapidità di
attecchimento, impiego terapeutico dei fattori di crescita emopoietici e dose cellulare sia in termini di cellule nucleate infuse che di
CFU-GM
3. l’incidenza della GVHD acuta e cronica, pur considerando l’età
pediatrica della casistica, appare particolarmente limitata.
Recentemente Gluckman e coll. (14) hanno presentato i dati dell’esperienza europea relativa a 143 pazienti trapiantati con SCO dal 1988 al
1996 in 45 Centri Trapianto. Nei 78 pazienti sottoposti a trapianto di
SCO da donatore correlato, l’età mediana era di 5 anni (0.2-20) il peso
di 19 Kg (5-50); 46 pazienti erano affetti da malattie neoplastiche (44
ematologiche, 2 neuroblastomi), 17 da sindromi da insufficienza midollare, 8 da emoglobinopatie, 7 da errori congeniti del metabolismo. La
probabilità di sopravvivenza è stata del 63% a un anno. Fattori prognostici favorevoli per la sopravvivenza sono risultati l’età più giovane
del paziente, il più basso peso corporeo, il grado di compatibilità HLA
e la sieronegatività per CMV. L’incidenza della GVHD di grado ³ II è
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stata del 9% nei 60 pazienti riceventi SCO HLA identico e del 50% in
18 pazienti sottoposti a trapianto di SCO HLA non compatibile.
In questa casistica una correlazione è stata trovata tra attecchimento,
età, peso corporeo e numero di cellule nucleate infuse/Kg del ricevente.
■ TRAPIANTO SCO DA DONATORE NON CORRELATO
Se i risultati clinici del trapianto SCO da donatore correlato sono da
considerarsi ancora preliminari, ancora più lo sono i dati relativi ai trapianti da donatore non correlato.
Wagner e coll. (13) hanno riportato i dati relativi a 18 pazienti con età
mediana di 2.7 anni (0.1-21.3) e peso di 15 Kg (3-78) riceventi SCO
proveniente da donatore non correlato. Dei 18 pazienti, 13 erano affetti
da una patologia oncoematologica e 5 da malattia non neoplastica.
I gradi di compatibilità HLA erano di 6/6 loci in 7 pazienti, 3-5/6 loci
nei rimanenti 11. Tutti i pazienti esaminati hanno presentato attecchimento per neutrofili con un tempo mediano di 24 giorni (16-53), mentre
molto più tardivo è stato l’attecchimento per le piastrine
(>50 000/mm 3 ) osservato dopo una mediana di 67 giorni (55-120). La
probabilità di sviluppare GVHD di grado III-IV è stata dell’11%. Con
una mediana di follow-up di 6 mesi la probabilità di sopravvivenza è
stata del 65%. In questa casistica non è stata trovata nessuna correlazione tra il numero di cellule nucleate infuse/Kg del ricevente e attecchimento.
Un’altra importante casistica relativa all’esperienza della Duke
University di Kurtzenberg e coll. (12) comprende 25 pazienti con un’età
mediana di 7 anni (0.8-23.5); peso corporeo mediano 19.4 Kg (7.5-79),
trapiantati per patologie neoplastiche e non neoplastiche. Impiegando
metodiche di tipizzazione molecolare ad alta risoluzione, in 9 pazienti vi
era un’incompatibilità per un solo locus con l’unità cordonale, mentre
in 15 casi l’incompatibilità era relativa a 2-3 loci HLA.
Il mancato attecchimento o rigetto è stato osservato in circa il 10% dei
casi, mentre la GVHD acuta di grado I-II è stata osservata nel 50% dei
pazienti. Un solo paziente ha presentato GVHD acuta di grado >II.
Considerata la fase avanzata di malattia, solo 7 pazienti risultavano
sopravviventi tra 1 e 24 mesi post-trapianto.
Nell’esperienza europea riportata da Glukman e coll. (14), 65 pazienti
hanno ricevuto trapianto di SCO da donatore non correlato. L’età
mediana era di 9 anni (0.3-45), peso mediano 30 Kg (4-90). Una patologia oncoematologica era presente in 49 pazienti, 9 avevano un’insufficienza midollare e 7 erano affetti da errori congeniti del metabolismo.
L’attecchimento in termini di PMN >500/mm 3 è stato globalmente
dell’87% e del 94% per i pazienti che hanno ricevuto un numero di cellule nucleate >3.7x10 7 /Kg. La GVHD acuta di grado >II è stata osservata in 21 dei 65 pazienti. Globalmente la sopravvivenza a un anno è stata
del 29%. Fattori prognostici favorevoli correlati alla sopravvivenza sono
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risultati la sierologia negativa per CMV del ricevente, fattore quest’ultimo correlato anche con una ridotta incidenza della GVHD acuta, e la
fase favorevole di malattia al momento del trapianto.
5.6
BANCHE DI SANGUE DI CORDONE OMBELICALE
Sebbene preliminari, i risultati clinici delle esperienze precedentemente
riportate sembrano promettenti e indicano alcuni sostanziali vantaggi
offerti dall’impiego del SCO nel trapianto allogenico da donatore non
correlato. Per tale motivo in numerosi Centri sia americani che europei
sono state costituite o stanno per essere attivate banche di SCO complementari e per alcuni versi alternative ai Registri Internazionali di
midollo.
Infatti, come abbiamo già precedentemente detto, nonostante la grande espansione del numero dei donatori volontari di midollo osseo, solo
il 40% dei pazienti privi di donatore HLA identico ha la possibilità di
reperire un donatore HLA compatibile nell’ambito dei registri. Inoltre il
tempo mediano di 4-6 mesi per l’identificazione del donatore, può
essere eccessivo rispetto alle esigenze cliniche del paziente. Bisogna
anche tener presente che i donatori volontari possono essere portatori
di infezioni latenti o croniche, in particolare di natura virale e che la
ricerca ha costi elevati ed è esposta al rischio di rinuncia finale alla
donazione che è stata calcolata nell’ordine dell’1% al mese. Infine, le
frequenze HLA dei registri riflettono in larga maggioranza quelle proprie della razza caucasica provenienti da una popolazione di fascia
sociale medio-alta; le minoranze etniche sono scarsamente rappresentate nell’ambito dei registri.
Il SCO costituisce una fonte illimitata di rifornimento, la raccolta è
tecnicamente semplice e non comporta alcun rischio né per la
madre né per il bambino. Una Banca di SCO è programmabile sulla
base delle frequenze HLA della popolazione e le unità, una volta raggiunta la copertura della domanda corrente, possono essere selezionate concentrandone la raccolta su gruppi HLA più rari. La completa
tipizzazione HLA, l’immediata disponibilità alla richiesta, l’assenza del
rischio di rinuncia finale alla donazione e la facile trasportabilità si traducono in un drastico accorciamento degli intervalli di tempo tra l’inizio della ricerca e il trapianto. Sul piano infettivo il SCO è generalmente esente da contaminazioni batteriche o virali trasmissibili.
Tuttavia vanno considerati anche i limiti delle banche di SCO: necessità di coordinamento operativo tra competenze diverse (ostetrico-ginecologiche, pediatriche, ematologico-trasfusionali); necessità di reperire
ampi spazi per lo stoccaggio dei campioni; reperibilità della madre e del
bambino per il controllo infettivologico e clinico a distanza di almeno 6
mesi dalla donazione del cordone; rischio di mantenimento indefinito di
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unità non utilizzabili. La creazione di banche parallele di DNA, cellule,
siero e plasma per ogni singola unità criopreservata costituisce una
parte integrante del progetto di creazione di una banca di SCO.
Attualmente banche di SCO sono presenti negli Stati Uniti, in particolare presso il New York Blood Center e in Paesi europei quali Germania, Belgio, Gran Bretagna e Francia. In Italia è particolarmente attiva la banca di Milano ma anche altre banche sono state istituite a
Torino, Firenze e Roma. Un lavoro di coordinamento è in atto al fine di
standardizzare le procedure di raccolta, manipolazione e criopreservazione, incrementando così il livello di qualità delle singole banche.
5.7
INDICAZIONI
Si possono considerare eleggibili per un trapianto di cellule cordonali da donatore non correlato i pazienti di età ²45 anni privi di
donatore familiare compatibile per almeno 5/6 loci HLA o di donatore di midollo HLA identico nell’ambito dei Registri Internazionali.
Le patologie per le quali il trapianto SCO è una possibile indicazione
terapeutica sono le seguenti:
• leucemia linfoblastica acuta in II o III RC (in seconda remissione si
possono considerare eleggibili pazienti recidivati precocemente)
• leucemia mieloide acuta in I RC ad alto rischio di recidiva
• leucemia mieloide acuta in II RC
• leucemia acuta promielocitica in II RC o I RC ematologica con persistenza di malattia molecolare
• mielodiplasia ad alto rischio
• leucemia mieloide cronica in FC, senza risposta citogenetica alla
terapia con IFN, dopo almeno 6 mesi di ricerca nei Registri Internazionali di donatori di midollo o LMC in FA
• anemia di Fanconi
• anemia aplastica acquisita non rispondente alla terapia immunosoppressiva dopo almeno 2 cicli di terapia e un precario compenso clinico
• errori congeniti del sistema immunitario che rendono urgente e
indifferibile l’esecuzione del trapianto.
Sono fondamentali per un trapianto con SCO la presenza dei
seguenti parametri nell’unità di sangue placentare:
1. compatibilità di almeno 4/6 loci HLA dopo tipizzazione DRB1 ad
alta risoluzione;
2. numero di cellule contenute nell’unità cordonale prima della
criopreservazione >10x10 6 /Kg di peso corporeo del ricevente.
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Inoltre, tutti i pazienti devono avere un’unità criopreservata di midollo
osseo o sangue periferico autologo contenente un numero di cellule
CD34 + ³ 2x10 6 /kg. In generale, per quel che riguarda l’alternativa tra
l’uso di cellule staminali da SCO o da midollo osseo da donatore non
correlato, è opportuno sottolineare che a favore del primo vi è l’osservazione che i dati attualmente disponibili (seppure su casistiche limitate) indicano che esiste una riduzione del rischio di sviluppare una
GVHD acuta di grado elevato, mentre a favore del TMO esiste ormai
una casistica consolidata dal punto di vista numerico sui risultati ottenuti. La decisione di usare ai fini trapiantologici l’una o l’altra
fonte di cellule staminali dovrebbe essere adottata da ogni singolo Centro tenendo conto del grado di compatibilità tra donatore o
ricevente, del numero di cellule dell’unità placentare disponibile,
del rischio di complicanze immunomediate (GVHD) dei due differenti tipi di trapianto e del tempo che mediamente intercorre dall’inizio della ricerca all’esecuzione del trapianto in funzione della
patologia. È infatti chiaro che per pazienti affetti da leucemia acuta o
da malattie in equilibrio ematologico precario il tempo a disposizione
per poter eseguire un trapianto in condizioni favorevoli è relativamente
breve.
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LE COMPLICANZE
POST-TRAPIANTO
6.1
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COMPLICANZE PRECOCI
Si definiscono complicanze precoci quelle che intervengono nei primi
100 giorni post-trapianto; vengono definite tardive quelle che si manifestano successivamente.
■ COMPLICANZE INFETTIVE
La neutropenia e il danno alla barriera mucosa indotto dalla chemioradioterapia di condizionamento rappresentano fattori di rischio che
predispongono il paziente alle infezioni.
La durata della neutropenia è variabile e dipende dal tipo di trapianto,
dal numero di cellule infuse, dalla profilassi della GVHD, dall’uso di citochine; tuttavia mediamente è dell’ordine di 2-3 settimane. Il danno alle
mucose dipende solitamente dal tipo di regime di condizionamento: farmaci quali il BUS, l’etoposide, il melphalan, la citarabina e la TBI si associano a un danno maggiore. Questo danno è presente non solo a carico
del cavo orale, ma anche a livello del tratto gastrointestinale e l’impiego
del MTX per la profilassi della GVHD peggiora il danno alle mucose.
Alla citopenia e al danno alle mucose vanno aggiunti quali fattori di
rischio per le complicanze infettive l’impiego del CVC, la nutrizione
parenterale e anche le alterazioni dell’integrità della cute dovute ai
ripetuti prelievi del sangue, agli aspirati midollari e alle biopsie ossee e
cutanee. Inoltre, alla comparsa delle complicanze infettive contribuiscono anche il periodo di profonda immunosoppressione cui il paziente va incontro. La durata e la gravità di questo periodo dipendono dal
tipo di trapianto, dal grado di incompatibilità donatore-ricevente, dalla
T deplezione, dal tipo e dalla durata della profilassi per la GVHD, dalla
presenza di infezione da CMV e di GVHD. Naturalmente, con il tempo
c’è un recupero dell’immunità cellulare e umorale che verosimilmente è
più rapido dopo un trapianto da donatore familiare compatibile che in
altre condizioni trapiantologiche. Tuttavia, in presenza di GVHD cronica lo stato immunodepressivo può persistere per mesi o anche per
anni; solitamente in condizioni ottimali il tempo di recupero immunologico è di circa un anno.
In funzione della sequenza di eventi legati a tali fattori di rischio si
distinguono diversi periodi di comparsa di complicanze infettive nel
paziente trapiantato.
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Entro le prime tre settimane dal trapianto sono frequenti le infezioni batteriche e fungine (neutropenia + lesioni mucose).
Le infezioni da virus erpetico si sviluppano solitamente entro il
primo mese (riattivazione del virus latente).
Entro i primi tre mesi si osservano il maggior numero di infezioni
da CMV.
Le infezioni da Aspergillo, toxoplasma e P. carinii si osservano nei
primi 6 mesi da trapianto o anche successivamente se insorge GVHD
cronica e persiste il trattamento immunosoppressivo.
Di più raro riscontro sono le infezioni da adenovirus, rotavirus e da
EBV. Il terzo periodo di rischio infettivo fa seguito al terzo mese dal
trapianto in corrispondenza della GVHD cronica. In tale periodo si
osservano soprattutto infezioni respiratorie: Haemophilus influenzae,
Streptococcus pneumoniae, germi capsulati, queste ultime soprattutto
in assenza di profilassi con penicillina. Il paziente trapiantato, in questa
fase tardiva, può andare incontro a infezioni batteriche, virali o fungine
insorte ex novo o per riattivazione di infezioni pregresse.
Frequenti le infezione causate dal virus della Varicella zoster a partire
dal sesto mese (30% dei pazienti) (90-92).
In Figura 4 sono riportate schematicamente le fasi infettive post-trapianto correlate ai fattori di rischio e ai periodi di rischio.
Figura 4 • Fasi di rischio infettivo dopo trapianto di midollo osseo allogenico
Polmonite
Batterica
Virus
VHS
Funghi
Candida
Batteri
Gram +
Gram –
Fattori
di rischio
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VVZ
Capsulati
GVHD acuta + Rx
Primo
E
ADENO
Aspergillus
giorni post TMO
0
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CMV
neutropenia
Periodo
di rischio
Interstiziale non batterica
50
100
Secondo
I
A
GVHD cronica
mesi
Terzo
12
■ COMPLICANZE GASTROINTESTINALI
Negli ultimi 20 anni l’incidenza delle complicanze gastrointestinali precoci post-trapianto è rimasta per lo più invariata, anche se è cambiata
l’origine. Infatti, negli anni ‘70 le cause principali di queste complicanze erano la GVHD epatica e intestinale e le infezioni erpetiche; successivamente, con il miglioramento dei regimi di profilassi anti-GVHD e
degli agenti antivirali le cause principali sono diventate quelle legate al
regime di condizionamento. Recentemente, con l’incremento dei trapianti HLA incompatibili sta riemergendo, tra le complicanze gastrointestinali precoci, la GVHD intestinale. Di fatto, ancora negli anni ‘90 le
complicanze epatiche e intestinali costituiscono una causa considerevole di morbilità post-trapianto.
Gli effetti tossici legati al regime di condizionamento durante il periodo
precoce post-trapianto sono rappresentati da nausea, vomito e anoressia. I meccanismi principali che li determinano sono l’effetto della
chemioterapia sui centri del vomito, probabilmente gli elevati livelli di
citochine e la presenza di mucosite.
Sempre entro i primi 100 giorni, sembra che la GVHD acuta intervenga
nel determinare perdita dell’appetito, nausea e vomito. In uno studio
condotto da Weinstorf e coll. nel 1990 (93), il 60% dei pazienti con
nausea e vomito erano positivi per GVHD a livello dello stomaco e del
duodeno agli esami bioptici.
Inoltre, possono contribuire all’insorgenza di queste complicanze precoci l’impiego degli antibiotici, della CSA, della nutrizione parenterale (lipidi
e alti livelli di glucosio o aminoacidi) e le infezioni virali.
Il regime di condizionamento, la GVHD, gli agenti infettivi, i farmaci
impiegati nella profilassi della GVHD, possono favorire l’insorgenza di
altre due complicanze precoci: la mucosite e la diarrea.
Il regime di condizionamento pre-trapianto è inoltre responsabile della
VOD, una grave complicanza a carico del fegato, dovuta a un danno
che interessa la zona 3 dell’acino epatico e che si manifesta, a seconda delle diverse casistiche, dall’1 al 54% dei pazienti. Questa grande
disparità nella percentuale di incidenza è dovuta sia alla tossicità dei
diversi regimi di condizionamento, sia alla selezione dei pazienti e
soprattutto ai criteri diagnostici impiegati per definire una VOD (94).
Clinicamente è una sindrome caratterizzata da iperbilirubinemia, epatomegalia associata a sintomatologia dolorosa e ritenzione idrica:
secondo i criteri utilizzati dal gruppo di Seattle, la diagnosi è definita
dalla presenza di almeno due dei tre criteri elencati. Per il Centro di
Baltimora una diagnosi di VOD richiede la presenza di iperbilirubinemia
(>2.0 mg/dl) e di due dei seguenti segni, epatomegalia con dolore,
ascite o incremento del peso corporeo >5%.
La patogenesi della VOD è dovuta a un’obliterazione fibrotica delle
venule epatiche terminali e delle vene sublobulari, dilatazione e fibrosi
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dei sinusoidi centrolobulari e necrosi degli epatociti della zona 3.
La sindrome si può manifestare precocemente, anche prima dell’infusione stessa del midollo; tuttavia, più frequentemente i segni di laboratorio si manifestano tra il 6° e 7° giorno post-trapianto con picco nei
successivi 10 giorni nei pazienti che vanno incontro a guarigione, i
valori della bilirubina tendono a normalizzarsi dopo ulteriori 10 giorni.
La mortalità per VOD in base alle diverse casistiche varia dal 3 al 67%
e la mortalità entro i primi 100 giorni dipende dalla gravità della sindrome: 9% nei pazienti con VOD di grado lieve, 23% per le forme moderate, 98% nei pazienti con VOD di grado grave.
■ COMPLICANZE POLMONARI
La PI da CMV è una delle più temibili complicanze polmonari che si
osservano precocemente nel periodo post-trapianto. Si caratterizza
per un quadro di compromissione interstiziale evidente a livello radiologico con concomitante dimostrazione della presenza del virus nel liquido del broncolavaggio. Si manifesta, in genere, tra i 70 e i 100 giorni
post-trapianto e si caratterizza per la presenza di febbre, tosse, tachipnea e occasionalmente dolore toracico. Prima dell’introduzione dei
trattamenti preventivi, la probabilità di insorgenza era, in base alle
diverse casistiche, del 15-30% con una mortalità dell’80% circa.
Attualmente sia l’insorgenza che la mortalità della PI da CMV sono
notevolmente ridotte.
In caso di comparsa di una PI da CMV, il trattamento di elezione è
l’impiego del gancyclovir in associazione alle immunoglobuline; nei
casi di tossicità midollare o di resistenza al gancyclovir è indicato l’impiego del foscarnet, meno mielotossico, anche se responsabile di alterazioni renali dose dipendenti, comunque reversibili.
Sebbene il CMV sia il principale responsabile della PI dopo trapianto,
la PI può essere determinata anche da altri agenti infettivi o da
cause sconosciute: in questo caso la polmonite viene definita idiopatica.
I principali fattori di rischio per la polmonite idiopatica sono:
• il regime di condizionamento
• l’età del paziente
• l’impiego della TBI
• l’uso del MTX nella profilassi della GVHD
• la GVHD.
Nella polmonite idiopatica, i test di funzionalità polmonare evidenziano
riduzione dei volumi polmonari e ipossiemia; estremamente elevata è la
mortalità soprattutto per i pazienti che richiedono intubazione meccanica (90%).
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■ CISTITE EMORRAGICA
La cistite emorragica rappresenta una grave complicanza precoce
post-trapianto. Si manifesta a una mediana di circa 20 giorni e ha una
incidenza di circa il 15-25%.
I fattori di rischio che correlano con l’insorgenza della cistite emorragica sono la presenza a livello urinario di papovavirus (BK virus) e adenovirus e l’impiego della CTX nel regime di condizionamento pre-trapianto (95, 96).
Comunemente, la profilassi per la cistite emorragica si avvale, durante
il regime di condizionamento pre-trapianto, di regimi di iperdiuresi o di
lavaggio vescicale continuo associato o meno al MESNA.
6.2
COMPLICANZE TARDIVE
Si definiscono tardive quelle complicanze che intervengono dopo
100 giorni dal trapianto. Alcune di esse sono direttamente correlate
al trapianto (effetti da GVHD cronica o immunodeficienza), altre sono
dovute all’intensità del regime di condizionamento, molte hanno una
patogenesi multifattoriale.
■ COMPLICANZE OCULARI
Gli occhi possono essere sede di complicanze tardive post-trapianto
per effetto della GVHD cronica, della terapia steroidea impiegata per il
trattamento, per infezioni o per sequele dovute al regime di condizionamento, in particolare la TBI, più raramente i chemioterapici. È stata
riferita un’incidenza di cataratta post-TBI pari, in alcune casistiche, al
75% a 5-6 anni post-trapianto dopo irradiazione singola; tale incidenza
si riduce nel caso della TBI frazionata al 50% per dosaggi superiori a
1200 rad, fino a percentuali del 30-35% per dosi di 1200 rad o inferiori. L’incidenza post-chemioterapia è dell’ordine del 20%. La cataratta
può cominciare a insorgere già dopo un anno dal trapianto.
Un’altra complicanza oculare tardiva è la “sindrome degli occhi secchi” dovuta a una minore produzione di lacrime in seguito a radiazioni
o a “sindrome SICCA” (tipo Sjögren) da GVHD cronica.
Il danno determinato dalla GVHD cronica può inoltre causare sinechie,
ectropion e anche perforazioni corneali, inoltre sono stati segnalati
ostruzioni del dotto nasolacrimale.
■ COMPLICANZE OSSEE
Frequentemente, dopo trapianto, è possibile osservare osteoporosi.
Questa complicanza può essere dovuta alla menopausa precoce nelle
donne, alla GVHD cronica o all’uso prolungato dei corticosteroidi.
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Un’altra conseguenza della terapia corticosteroidea è la necrosi asettica della testa del femore che si manifesta nel 10% circa dei pazienti; può insorgere non solo dopo trattamenti prolungati, ma anche dopo
cicli di terapia di breve durata ad alte dosi, come nel trattamento della
GVHD acuta.
■ ACCRESCIMENTO
L’accrescimento è un fenomeno determinato durante l’infanzia prevalentemente dallo stato nutrizionale, quindi dall’ormone della crescita
(GH) e durante la pubertà dall’azione combinata dell’ormone della crescita e degli ormoni sessuali.
Le radiazioni possono indurre un ritardo della crescita. Anche lo sviluppo della dentizione e dello scheletro facciale risultano alterati in
bambini sottoposti a radioterapia prima dei 6 anni. L’irradiazione
del SNC si associa infatti a una riduzione del GH in correlazione all’età
del paziente, alla dose di radiazione e al tipo di frazionamento. Questo
deficit si può osservare in particolare quando alla TBI è associata una
radioterapia craniale prima del trapianto e può non svilupparsi nel caso
della sola TBI. Sembra che il ritardo della crescita possa essere notevolmente contenuto con l’impiego della TBI frazionata rispetto alla
dose unica.
L’alterazione dell’accrescimento nei bambini con GVHD cronica può
essere in parte attribuita all’impiego dei corticosteroidi o all’effetto
catabolico della GVHD cronica. La somministrazione dell’ormone della
crescita può migliorare la velocità dell’accrescimento e la sua secrezione può venire stimolata mediante somministrazione dell’ormone di
rilascio del GH a indicare che dopo radioterapia l’ipotalamo può subire
un danno superiore all’ipofisi stessa (39).
■ EFFETTI SULLA TIROIDE
La chemioterapia convenzionale non determina solitamente danni alla
tiroide, mentre la radioterapia pre-trapianto può determinare a carico della ghiandola problemi di ipotiroidismo. Dopo TBI il danno funzionale, anche se ben compensato, può intervenire dal 28 al 56% dei
casi e successivamente convertirsi in ipotiroidismo clinico nel 9-13%
dei pazienti sopravvissuti a lungo termine, anche se con minor frequenza dopo TBI frazionata. Il danno tiroideo non sembra correlare
con l’età del paziente al trapianto, con la GVHD acuta o cronica, o con
il sesso. Nell’asse ipotalamo - ghiandola pituitaria - ghiandola tiroidea
quest’ultima appare maggiormente danneggiata dalla radiazione.
È stato inoltre descritto il trasferimento dal donatore al ricevente di
tiroidite autoimmunitaria (39).
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■ COMPLICANZE TARDIVE DEL TRATTO GASTROINTESTINALE
La GVHD cronica è la causa principale di complicanze epatiche posttrapianto; essa è caratterizzata da un quadro colestatico con incremento della fosfatasi alcalina, delle transaminasi e della bilirubina.
Il paziente può essere asintomatico o presentare prurito, astenia o
perdita di peso. Sono stati descritti casi di progressione in cirrosi. La
diagnosi risulta facile quando ai segni di colestasi si associa anche un
impegno cutaneo o mucoso o di altri tessuti tipicamente compromessi
nella GVHD cronica. La diagnosi diventa più complessa in caso di
localizzazione isolata al fegato; in questi casi è dirimente, per iniziare
una terapia immmunosoppressiva, la biopsia epatica.
Un trial condotto da Fried e coll. nel 1992 (97) ha mostrato un miglioramento dei parametri di colestasi con l’impiego dell’acido ursodesossicolico.
Tra le complicanze intestinali tardive vanno segnalate anche diarrea e
perdita di peso per sindrome da malassorbimento.
■ COMPLICANZE POLMONARI A LUNGO TERMINE
A carico del polmone sono stati segnalati sia deficit restrittivi che
ostruttivi, quali sequenze a distanza del trapianto. In uno studio condotto da Springmeyer e coll. (98) il 20% dei pazienti mostrava un deficit restrittivo dopo un anno dal trapianto indipendentemente dal regime di condizionamento o dalla GVHD cronica, con miglioramento dopo
il 3° o 4° anno. Poco conosciuti sono i meccanismi che determinano il
deficit ostruttivo che si osserva dal 10 al 15% dei pazienti con GVHD
cronica, che sono in generale i più esposti allo sviluppo di deficit polmonari gravi. Questi possono favorire l’insorgenza di infezioni con ulteriore peggioramento della funzionalità polmonare fino a quadri di PI o
bronchiolite obliterante.
■ FERTILITÀ
Dopo trapianto, a causa della radio-chemioterapia sovramassimale del
regime di condizionamento, la pubertà spontanea è ritardata o
assente nelle ragazze e solo una quota di esse giunge al menarca
spontaneamente. Molte richiedono terapia ormonale sostitutiva a
base di ormoni sessuali. I ragazzi frequentemente recuperano la funzione delle cellule del Leydig e producono testosterone a meno che
non abbiano ricevuto dosi supplementari di radioterapia sui testicoli e
solitamente non necessitano di terapia ormonale sostitutiva.
Negli adulti l’infertilità è quasi la norma. Dopo TBI nelle donne la
gravidanza è un’evenienza rarissima, in letteratura sono stati riferiti
solo casi sporadici di maternità post-trapianto. Tutte le donne sottoposte a irradiazione vanno incontro a insufficienza ovarica primitiva, in
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particolare l’incidenza aumenta con l’età della paziente ed è richiesta
terapia ormonale sostitutiva.
Dopo TBI più del 90% degli uomini va incontro ad azospermia permanente. In alcuni casi è stata osservata ripresa della spermogenesi a
distanza di anni dal trapianto. Sicuramente più frequente è la ripresa
della fertilità (64%) dopo un condizionamento con l’impiego della
sola CTX.
■ SECONDO TUMORE
In una recente analisi relativa a 19 229 pazienti condotta da Rochelle e
coll. (99) i pazienti sottoposti a TMO allogenico hanno un rischio
più elevato, rispetto alla popolazione generale di sviluppare tumori solidi. In particolare il rischio è 8.3 volte superiore per quelli che
sopravvivono oltre 10 anni dal trapianto. La probabilità di sviluppare un
secondo tumore è del 2.2% a 10 anni e 6.7% a 15 anni. I tumori più
frequentemente osservati sono il melanoma maligno, tumori della
cavità buccale, del SNC, della tiroide, del tessuto osseo e tessuto
connettivo. In particolare il rischio di sviluppare un secondo tumore
sembra più alto per i pazienti trapiantati in giovane età rispetto agli
altri (p<0.001). Il fattore di rischio che all’analisi multivariata si
associa a una maggiore incidenza di secondo tumore risulta essere la TBI. La GVHD cronica e il sesso maschile sembrano correlare
con un aumentato rischio di tumori squamocellulari della cavità buccale e della cute.
Questa aumentata incidenza di secondi tumori rende ragione, per il
paziente trapiantato, di una stretta sorveglianza, anche a distanza dal
trapianto, per il monitoraggio di tali eventuali complicazioni.
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LA GRAFT VERSUS
HOST DISEASE
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La malattia del trapianto contro l’ospite viene comunemente chiamata GVHD. Già nel 1956 Barnes intuì l’esistenza di questo effetto del
trapianto. Nei suoi studi ormai storici, topi leucemici ricevevano una
dose letale di irradiazione totale più midollo singenico o allogenico
HLA compatibile. Mentre i riceventi di midollo singenico morivano tutti
per recidiva di malattia, parte dei topi allotrapiantati guariva dalla leucemia, anche se quasi tutti morivano per la “malattia del trapianto contro l’ospite” (GVHD) (100).
La GVHD rappresenta a tutt’oggi una delle più frequenti complicanze
del trapianto di cellule staminali allogeniche, particolarmente nei casi
di trapianto incompatibile.
Dalle diverse casistiche, per il trapianto di midollo HLA identico, l’incidenza della GVHD è del 30-50%; tale incidenza aumenta al 50-80% dei
casi nei trapianti da MUD o familiari HLA parzialmente compatibili.
La sopravvivenza a lungo termine nei pazienti con GVHD di grado >II
risulta inferiore al 30%.
Ovviamente, non solo il tipo di trapianto (il trapianto di SCO correla
infatti con una più bassa probabilità di incidenza della GVHD) e il grado
di compatibilità donatore-ricevente influenzano l’incidenza della GVHD,
ma anche il regime di profilassi impiegato e numerosi altri fattori.
L’esatta identificazione della popolazione cellulare responsabile della
GVHD come precedentemente già riferito resta poco chiara ed esistono prove che sia i linfociti T CD4 + che CD8 + possano giocare un ruolo
in questo fenomeno insieme a cellule NK. Possono inoltre contribuire
alla GVHD le citochine, compresi gli IFN, il tumor necrosis factor e il
GM-CSF. In particolare, nell’immediato post-trapianto gli alti livelli di
citochine e molecole di adesione possono rendere maggiormente reattivi i linfociti T infusi verso gli antigeni HLA del ricevente e in tal modo
contribuire al danno tessutale della GVHD.
7.1
GVHD ACUTA E CRONICA
Sono distinguibili due differenti “sindromi” distinte di GVHD, denominate
GVHD acuta e GVHD cronica. La GVHD acuta compare entro i primi
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100 giorni mentre la forma cronica compare successivamente.
La GVHD acuta si manifesta mediamente intorno al 15° giorno dopo
l’infusione del midollo allogenico. Le sue caratteristiche cliniche ruotano intorno alla triade rash cutaneo, diarrea, disfunzione epatica
(ittero colestatico). Non necessariamente tutti e tre gli organi vengono interessati, ma in relazione al livello di compromissione d’organo e
alle manifestazioni cliniche, alla GVHD acuta viene dato un grado complessivo di gravità che va dal I al IV (Tabella 9).
La GVHD cronica ha un tempo di comparsa successivo ai primi
100 giorni dal TMO allogenico e può far seguito a una GVHD acuta
o insorgere de novo.
Può interessare le stesse sedi della GVHD acuta, ma solitamente la
sua estensione è più sistemica con impegno di quasi tutti gli organi e
Criteri di stadiazione della GVHD acuta
Tabella 9
Stadio
Cute
Fegato
Intestino
Rash maculopapulare
in <25% della
superficie corporea
Bilirubina
2-3 mg/dl
Diarrea
500-1000
ml/die
++
Rash maculopapulare sul
25-50% della
superficie corporea
Bilirubina
3-6 mg/dl
Diarrea
1000-1500
ml/die
+++
Eritrodermia
generalizzata
Bilirubina
6-15 mg/dl
Diarrea
>1500
ml/die
++++
Desquamazione
e formazioni
bollose
Bilirubina
>15 mg/dl
Dolore
o ileo
+
Grado della GVHD acuta
Grado
0
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II
III
IV
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Cute
Fegato
Intestino
Compromissione
funzionale
0
+/++
+/+++
++/+++
++/++++
0
0
+
++/+++
++/++++
0
0
+
++/+++
++/++++
0
0
+
++
+++
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apparati (cute, occhi, mucosa orale o esofagea, fegato, polmone,
apparato neuromuscolare, intestino; può assumere le caratteristiche
della sclerodermia, della cirrosi biliare o della bronchiolite obliterante).
In base alla compromissione d’organo la GVHD cronica può essere
limitata o estesa (Tabella 10).
È da sottolineare che entrambe le forme di GVHD aumentano la tendenza alle complicanze infettive, sia per la loro natura immunosoppressiva che per l’effetto immunosoppressore delle terapie impiegate
per il suo trattamento. In questa fase diventa pertanto particolarmente
importante il monitoraggio delle complicanze infettive e la loro eventuale profilassi.
Grado GVHD cronica (IBMTR)
Tabella 10
Limitata
Compromissione localizzata della cute e/o compromissione epatica;
nessun’altra compromissione di organo
Estesa
Compromissione generalizzata o localizzata della cute e/o
compromissione multipla di organi
7.2
PROFILASSI
I farmaci impiegati nella profilassi della GVHD sono farmaci citotossici o immunosoppressori quali il MTX, la CSA e i corticosteroidi;
sono inoltre state impiegate tecniche di manipolazioni del midollo infuso quali la rimozione dei linfociti T.
Il MTX agisce come farmaco citotossico che interferisce sulla sintesi
nucleotidica della timidina e purina.
Inizialmente impiegato in modelli di trapianto canino, successivamente
è stato utilizzato sull’uomo. In particolare il gruppo di Seattle nel 1977
(101) ha utilizzato il MTX a basse dosi (15 mg/m 2 giorno +1 post-TMO,
quindi 10 mg/m 2 nei giorni +3, +6, +11 e poi ogni settimana fino al
100 giorno) riducendo l’incidenza di GVHD a circa il 50%.
Le principali complicanze legate all’impiego del MTX sono la mucosite
e l’ipoplasia midollare.
La CSA è un peptide ciclico idrofobico di origine micotica. Agisce
come immunosoppressore riducendo la produzione di interleuchina 2
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(IL-2) da parte dei linfociti T helper e interferendo con il suo recettore
cellulare, bloccando in tal modo l’amplificazione della risposta alloimmunitaria.
L’impiego di tale farmaco può associarsi a tossicità renale, specialmente quando è previsto il concomitante impiego di altri farmaci nefrotossici (antibiotici, antifungini, ecc.) o in presenza di altre complicanze
quali sepsi o VOD. È pertanto fondamentale monitorizzare il valore
della creatinina sierica per avere una misura della tossicità renale del
farmaco o eventualmente i livelli sierici di CSA.
La CSA può inoltre determinare irsutismo, lesioni retiniche, ipertensione, disturbi neurologici, disfunzione epatica, ipomagnesiemia, emolisi
microangiopatica e mialgia. Tuttavia, rispetto al MTX, non determina
mucosite né ipoplasia midollare e non interferisce perciò con l’attecchimento.
Uno schema posologico comune che previene la comparsa di GVHD
prevede l’impiego della CSA dal giorno -1 (alla dose di 3 mg/kg per via
endovenosa) seguito, a risoluzione dei problemi di mucosite del paziente, da una somministrazione per via orale alla dose di 12.5 mg/Kg, con
riduzione graduale settimanale del 5% della dose a partire dal giorno
+50 fino a sospensione in assenza di segni di GVHD al sesto mese.
Sono stati proposti numerosi altri schemi di profilassi con la CSA con
dosi variabili da 1 mg/kg a 5 mg/kg allo scopo di individuare uno schema adeguato per ridurre l’incidenza della GVHD senza aumentare il
rischio di recidiva leucemica.
Studi randomizzati che hanno paragonato l’uso della CSA e quello del
MTX in pazienti leucemici sottoposti ad allotrapianto hanno dato risultati equivalenti.
Successivamente, in uno studio condotto su cani aploidentici è stato
impiegato con successo un regime di profilassi della GVHD che prevedeva l’impiego del MTX per 11 giorni e della CSA per 180 giorni. Studi
controllati sull’uomo hanno confrontato questo regime di associazione
verso il MTX alle dosi standard in pazienti affetti da aplasia midollare, e
verso CSA da sola in pazienti affetti da leucemia ottenendo una significativa riduzione nell’incidenza della GVHD e un miglioramento della
sopravvivenza in quei pazienti trattati con l’associazione MTX + CSA.
Attualmente questo schema di profilassi è largamente impiegato,
soprattutto nei trapianti a maggior rischio di GVHD, in particolare da
MUD o nei trapianti non compatibili. L’associazione del MTX con la
CSA è invece discutibile nei trapianti di SCO da donatore non correlato
in quanto l’impiego del MTX potrebbe prolungare i tempi di attecchimento con danno a carico dei progenitori emopoietici e con possibile
riduzione della capacità di ripopolamento midollare. Tuttavia, pur in
presenza di un ridotto rischio di GVHD acuta e cronica nei trapianti da
SCO non correlati, la sola CSA non sembra sufficiente a evitare l’insorgenza di complicanze immunomediate. Per questo motivo, in questi
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pazienti è opportuno associare alla CSA, al dosaggio di 3 mg/Kg ev
die, una terapia corticosteroidea.
Un effetto preventivo sullo sviluppo della GVHD è svolto anche dal
trattamento con SAL che è previsto nei regimi di condizionamento del
trapianto con SCO (15 mg/Kg/die per 4 giorni) allo scopo di ridurre il
rischio del rigetto.
Nei trapianti da SCO da donatore correlato HLA identico in pazienti
affetti da emopatia maligna, il regime di profilassi della GVHD, visto il
basso rischio della GVHD stessa, può essere sicuramente meno intensivo, con l’impiego di CSA alla dose di 1 mg/Kg ev die seguito da un
dosaggio per os di 6 mg/Kg al giorno dal momento in cui le condizioni
cliniche del paziente lo consentano. Nei pazienti sottoposti a trapianto
con SCO da donatore correlato HLA identico affetti da patologie non
neoplastiche, nelle quali l’effetto GVL non è richiesto, i regimi di profilassi della GVHD potrebbero prevedere l’impiego della CSA alla dose
di 3 mg/Kg ev die seguita dalla dose di 10 mg/Kg per os.
Diversi studi sulla rimozione ex vivo dei linfociti T dall’inoculo di cellule
staminali (mediante l’impiego di anticorpi monoclonali o di metodi fisici
o della combinazione dei due), hanno dimostrato una netta riduzione
dell’incidenza della GVHD acuta di gran lunga superiore a qualunque
altro regime di profilassi. Tuttavia i brillanti risultati ottenuti sulla riduzione della GVHD sono gravati dall’incremento del rischio di recidiva
leucemica e del rigetto (28-30).
Interessanti sono gli studi di Champlin e coll. (31) che hanno adottato,
in alternativa a una deplezione pan-T, una deplezione selettiva dei
linfociti CD8 + dal midollo infuso in associazione alla somministrazione
di CSA, riducendo l’incidenza della GVHD acuta al 22% rispetto al
58% dei pazienti che avevano ricevuto midollo non T depleto e al 5%
del gruppo storico dei pazienti che avevano ricevuto una deplezione
pan-T. In questo studio non è stata osservata alcuna recidiva nei
pazienti e la DFS a 3 anni è stata del 68% rispetto al 45% per i pazienti riceventi midollo non manipolato e al 35% per i pazienti riceventi
midollo T depleto. Questi studi, come già precedentemente detto,
necessitano di ulteriori conferme.
Degli altri farmaci attualmente in studio per la profilassi della GVHD
quali il SAL, la talidomide, il succinilacetone, il tracolimus (FK506)
sembra essere il più promettente.
7.3
TERAPIA DELLA GVHD ACUTA
La terapia di prima linea nel trattamento della GVHD è rappresentata dai corticosteroidi. Sebbene siano state osservate delle risposte
con dosi variabili da 1 a 60 mg/Kg/die di metilprednisolone, le mega
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dosi sono state associate a un’alta incidenza di infezioni mortali. Di
fatto, il dosaggio di metil-prednisolone attualmente impiegato in molti
Centri di trapianto è 2 mg/Kg/die. I pazienti che non rispondono alla
prima linea di terapia sono eleggibili per trattamenti più aggressivi anche
se in prima battuta l’atteggiamento è quello di incrementare la dose di
steroidi.
I farmaci di seconda linea impiegati agiscono con meccanismi diversi e
i più usati sono: la globulina anti-linfocitaria; gli anticorpi monoclonali
anti-cellule T (OKT3); gli anticorpi anti-recettore dell’IL-2; l’FK506 (farmaco immunosoppressore che blocca l’attivazione delle cellule T); le
sostanze antiossidanti (che determinano una modulazione negativa di
alcune risposte immunitarie) quali l’N-acetil cisteina; la deossispergualina (farmaco capace di inibire la funzione dei macrofagi, i linfociti T
citotossici e la maturazione dei linfociti B).
Studi su casistiche più numerose di pazienti con maggiore follow-up
sono tuttavia necessari per valutare la reale efficacia di questi farmaci
e di altri ancora in corso di sperimentazione.
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LA TERAPIA
DI SUPPORTO
8.1
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PROFILASSI INFETTIVA
Il trapianto di cellule staminali allogeniche comporta sempre un’elevata
immunosoppressione che è responsabile di complesse problematiche
infettivologiche per le quali è fondamentale un’adeguata profilassi.
Infatti, le infezioni batteriche, fungine, virali e protozoarie sono ancora
gravate dal 30-50% di letalità. Inoltre, le complicanze infettive sono più
frequenti e gravi nel caso in cui il trapianto non sia HLA compatibile, il
midollo sia stato T depleto e sia presente GVHD acuta o cronica.
Pertanto, la profilassi antimicrobica rappresenta un importante presidio
per ridurre il tasso di morbilità e di letalità da infezioni nel paziente sottoposto a trapianto allogenico. Tuttavia, malgrado tale pratica sia
ampiamente impiegata in tutti i Centri trapiantologici, in considerazione
della non provata efficacia e della tossicità di alcuni farmaci utilizzati,
sono tuttora non risolte molte problematiche.
8.2
PROFILASSI ANTIBATTERICA
Per la profilassi antibatterica sono stati impiegati vari antibiotici orali
non assorbibili quali vancomicina, gentamicina, neomicina, colestina,
polimixina B in varie combinazioni. Nonostante i numerosi studi clinici
controllati, la scarsa compliance dei pazienti, gli alti costi e soprattutto
l’emergenza di resistenze hanno reso necessario l’impiego di altri antibiotici.
Attualmente durante il periodo della neutropenia post-trapianto è consigliabile l’impiego dei chinolonici, preferibilmente i nuovi fluorchinolonici. In particolare la ciprofloxacina sembra preferibile rispetto alla
norfloxacina (i due tipi di chinolonici più largamente impiegati) perché
raggiunge alti livelli plasmatici, risulta più attiva contro alcuni germi
gram positivi e verso lo Pseudomonas spp.
Di contro la ciprofloxacina non è attiva contro molti stafilococchi meticillino-resistenti, che rappresentano la maggior parte degli stafilococchi isolati.
Da considerare il problema della possibile insorgenza di resistenze ai
chinolonici. Tuttavia in uno studio prospettico effettuato su una coorte
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di 500 pazienti presso il Johns Hopkins Oncology Center, non è stata
messa in evidenza l’insorgenza di resistenza in pazienti trattati in via
profilattica con la norfloxacina. Inoltre i chinolonici hanno una scarsa
attività contro gli anaerobi, quindi la flora intestinale anaerobica,
durante il loro impiego non viene alterata; questo potrebbe essere un
fattore protettivo nei confronti di altri germi patogeni più virulenti.
Le dosi consigliate nella maggior parte degli studi per la ciprofloxacina sono 500 mg x 2/die anche se vanno verificati eventuali
dosaggi minori.
La somministrazione di immunoglobuline endovena ha dato risultati
contrastanti e in ogni caso è gravata da un elevato rapporto costo
beneficio.
8.3
PROFILASSI ANTITUBERCOLARE
La reale incidenza della tubercolosi nei pazienti sottoposti a trapianto
allogenico non è nota. È quindi difficile dare delle linee guida in merito,
così come, del resto, per altre categorie di pazienti immunocompromessi.
È indicata la profilassi nei pazienti con anamnesi positiva o con
cutireazione positiva alla tubercolina. Il farmaco da utilizzare è l’isoniazide al dosaggio di 300 mg/die che va continuato per almeno
tre mesi dopo la sospensione della terapia immunosoppressiva.
8.4
PROFILASSI DELLA POLMONITE
DA PNEUMOCISTIS CARINII
La profilassi contro lo Pneumocistis carinii viene attuata con il co-trimossazolo (trimetropim-sulfametossazolo): 160-800 mg per os per
tre volte alla settimana dall’attecchimento e per la durata del trattamento immunosoppressivo.
Per i soggetti allergici al co-trimossazolo viene usata la pentamidina
aerosol (300 mg una volta al mese) o il dapsone per os (50 mg x2
volte a settimana).
8.5
PROFILASSI ANTIFUNGINA
Varie sostanze somministrate per via orale sono state impiegate nella
profilassi antifungina delle infezioni da Candida (nistatina, clotrimazolo,
miconazolo, amfotericina B) senza dare tuttavia risultati incoraggianti.
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L’impiego dell’amfotericina B per via endovenosa, somministrata a
bassi dosaggi, non si è mostrata chiaramente efficace mentre è da
considerare la possibile tossicità del farmaco.
Alcuni trial controllati sull’impiego del ketoconazolo hanno dato buoni
risultati sulla riduzione delle mucositi da Candida, ma nessuno studio
ha mostrato l’efficacia nel ridurre le infezioni sistemiche. Il miconazolo
somministrato per via endovenosa ha dato buoni risultati nel ridurre le
infezioni sistemiche in una sola esperienza, ma non è risultato attivo
contro l’Aspergillo e inoltre ha creato numerosi problemi di tossicità.
Attualmente i triazolici sembrano avere una buona attività antifungina e
una ridotta tossicità. Il primo farmaco di questo gruppo impiegato negli
Stati Uniti è stato il fluconazolo, disponibile sia per via orale che endovenosa; ha un’escrezione prevalentemente renale, possiede una buona
capacità di penetrazione nel fluido cerebrospinale, ha un rapido ed
elevato assorbimento per via orale anche in pazienti con mucosite, e
inoltre può essere somministrato una sola volta durante la giornata. Il
farmaco sembra interferire con altre sostanze che vengono metabolizzate a livello del sistema enzimatico citocromo P450, come la CSA.
Tuttavia, le dosi di farmaco solitamente impiegate (100-400 mg/die)
non sembrano determinare interferenze clinicamente significative. Due
studi controllati (102, 103) ne hanno evidenziato l’efficacia nel ridurre
le infezioni disseminate e le mucositi da Candida e nel migliorare la
sopravvivenza rispetto al gruppo placebo. Tuttavia il fluconazolo non è
efficace contro l’Aspergillo e contro alcune specie di Candida quali
Candida krusei e Candida glabrata. Pochi sono i dati sull’impiego in
profilassi dell’itraconazolo.
Relativamente alla profilassi contro le infezioni da Aspergillo sono
necessari studi clinici per definire l’efficacia dei triazolici, in particolare
dell’itraconazolo che, in uno studio non randomizzato, sembrerebbe
ridurre l’incidenza delle infezioni da Aspergillo rispetto al gruppo di
pazienti trattato con ketoconazolo. Tuttavia l’itraconazolo è un farmaco il cui assorbimento per via orale dipende dall’acidità gastrica e la
cui efficacia è strettamente legata ai livelli plasmatici, quindi è fondamentale valutarne la reale biodisponibilità dopo assunzione orale.
Importante sarà la valutazione dell’impiego della formulazione endovenosa di prossima produzione.
8.6
PROFILASSI ANTIVIRALE
Le infezioni da virus erpetico si osservano per lo più nel primo mese posttrapianto per la riattivazione del virus latente nei soggetti sieropositivi.
È consigliabile usare nella profilasi antivirale (HSV, VZV) acyclovir alla
dose di 250 mg/m 2 ev ogni 8 ore durante i periodi in cui la mucosi-
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te non permette l’assunzione per os del farmaco iniziandone l’assunzione già durante il condizionamento. Quindi la profilassi antivirale può essere continuata per os alla dose di 400 mg x 5/die per
un anno, a meno di terapia immunosoppressiva ancora in atto.
8.7
PROFILASSI DELLE INFEZIONI
DA CYTOMEGALOVIRUS
L’infezione da CMV viene definita dalla presenza del virus o degli antigeni virali nel sangue o nei tessuti, o dall’incremento del titolo anticorpale di 4 volte o più. La malattia da CMV viene definita dalla presenza
di manifestazioni cliniche legate al virus. I principali fattori di rischio
per la malattia da CMV sono l’età del paziente, la sieropositività pretrapianto, il grado di compatibilità HLA, la presenza della GVHD.
L’associazione CMV-GVHD è determinata probabilmente dall’induzione
dell’attivazione di linfociti citotossici da parte del virus e a sua volta la
GVHD si associa a un aumentato rischio di infezione da CMV.
I pazienti sieronegativi con donatore sieronegativo per CMV non
necessitano di nessuna profilassi, ma devono essere trasfusi con
emoderivati sieronegativi. L’impiego di emoderivati filtrati per rimuovere i globuli bianchi dai prodotti ematici sembrerebbe, in assenza di
donatori CMV negativi, ridurre l’incidenza dell’infezione virale. Tuttavia
sono necessari ulteriori studi per valutare la reale validità di questa
procedura e sono necessari studi randomizzati per confrontare l’impiego di donatori sieronegativi verso prodotti filtrati.
L’uso di acyclovir ad alte dosi si è dimostrato solo modestamente efficace nella prevenzione delle infezioni da CMV.
La somministrazione di gancyclovir a tutti i pazienti sieropositivi
per CMV è molto costosa e ingiustificata a causa dell’elevata tossicità midollare. In uno studio condotto da Goodrich e coll. (104), il
gancyclovir somministrato in via profilattica alla dose di 5 mg/Kg x 2/die
fino al 100° giorno, ha ridotto l’incidenza della PI da CMV, della malattia
da CMV e dell’escrezione virale. Tuttavia non c’è stata nessuna differenza in termini di mortalità tra il gruppo che ha ricevuto gancyclovir rispetto al gruppo placebo sia durante il trattamento che a 180 giorni.
Il trattamento si è mostrato infatti mielotossico e ha incrementato le complicanze infettive legate alla neutropenia. Uno studio condotto da
Winston e coll. (105) che hanno impiegato il gancyclovir a dosi più basse,
ha ridotto il rischio di infezioni da CMV, ma non la malattia da CMV.
Sembra essere più giustificato trattare con gancyclovir (5 mg/Kg x
2/die) i pazienti che presentano viremia o antigenemia positiva per
il virus o presenza di CMV nel broncolavaggio: è necessario a tale
scopo un controllo virologico settimanale.
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L’impiego del foscarnet in profilassi è ancora da definire. Il foscarnet è indicato nelle forme resistenti al gancyclovir e nei pazienti
che presentano indagini virologiche positive nella fase di attecchimento midollare.
Nei trapianti da donatore incompatibile familiare o non correlato, gravati da un maggior rischio di infezione da CMV, l’impiego del gancyclovir in profilassi è oggetto di studio.
8.8
PROFILASSI DELLE INFEZIONI
BATTERICHE TARDIVE
La morbilità e la mortalità da GVHD cronica sono spesso dovute alle
infezioni. Si rende pertanto necessaria una profilassi antibiotica somministrata anche nelle fasi più tardive del trapianto. Sia in presenza
che in assenza di GVHD cronica deve essere presa in considerazione la terapia antibiotica con penicillina per ridurre l’incidenza
delle infezioni da Streptococcus pneumoniae e da batteri capsulati. Tali infezioni sono legate all’asplenia funzionale nel paziente
trapiantato e all’incapacità di produrre anticorpi opsonizzanti.
La disponibilità di vaccini contro pneumococco, Haemophilus
influenzae e meningococco è particolarmente utile, purtroppo in
questa categoria di pazienti è poco efficace la risposta alle vaccinazioni, soprattutto in presenza di GVHD cronica.
Per i pazienti con riduzione delle immunoglobuline l’impiego delle
immunoglobuline endovena potrebbe essere utile, ma anche in questo
caso è discutibile il rapporto costo beneficio.
8.9
ALIMENTAZIONE PARENTERALE
L’elevata tossicità del regime di condizionamento con gli effetti collaterali a esso legati (anoressia, nausea, vomito, mucositi, diarrea), lo sviluppo di infezioni e la GVHD non consentono un adeguato apporto alimentare nel paziente trapiantato e il mantenimento di un adeguato
stato nutrizionale. Si rende pertanto necessario in corso di trapianto
l’impiego di un supporto nutrizionale parenterale. Inoltre, dati sperimentali hanno dimostrato gli effetti negativi della malnutrizione proteico-calorica sull’attecchimento di cellule emopoietiche infuse in animali
da esperimento precedentemente sottoposti a irradiazione.
Il ruolo di un’adeguata alimentazione parenterale sulla sopravvivenza di
un paziente sottoposto a trapianto è mostrato in Figura 5 (106).
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Figura 5 • Ruolo dell’alimentazione parenterale sulla sopravvivenza dopo
trapianto di midollo osseo allogenico
100
% sopravviventi
80
60
Alimentazione
parenterale si
40
20
0
Alimentazione
parenterale no
0
0.5
1.0
1.5
2.0
Anni dopo trapianto
2.5
3.0
Da: Weisdorf et al. (106).
8.10 SUPPORTO TRASFUSIONALE
Durante la fase dell’aplasia post-trapianto (variabile dalle 2 alle 4 settimane) si richiede solitamente un adeguato supporto trasfusionale sia
in termini di piastrine che di globuli rossi.
In uno studio condotto dal gruppo di Seattle nel 1990, il fabbisogno
trasfusionale si attesta sulle 16 unità di GR e 37 unità di concentrati
piastrinici da donatore unico.
Il rischio di GVHD da trasfusione impone la rimozione dei linfociti
T dalle sacche di emoderivati. L’irradiazione dei prodotti trasfusionali è ormai riconosciuto come il metodo di elezione per prevenire la GVHD trasfusionale.
Relativamente alle trasfusioni di GR la politica di vari Centri di trapianto, è di mantenere i livelli di ematocrito intorno a valori del 25-30%; la
maggior parte delle trasfusioni viene richiesta durante le prime 4 settimane. L’incompatibilità AB0 donatore-ricevente incrementa il fabbisogno trasfusionale.
I concentrati piastrinici vengono solitamente somministrati in profilassi
per valori inferiori a 15 000-20 000/mm 3 . Trasfusioni con valori superiori sono richieste solo in caso di sanguinamento.
Di fatto l’atteggiamento trasfusionale deve essere sempre guidato dalla
condizione clinica del paziente, riducendo l’apporto trasfusionale al
fabbisogno indispensabile allo scopo di ridurre il rischio di alloimmunizzazione che comprometterebbe la resa trasfusionale successiva.
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LA RECIDIVA LEUCEMICA
POST-TRAPIANTO
La recidiva leucemica rappresenta tuttora una delle cause più frequenti
di insuccesso dopo trapianto di midollo
L’aumento della sopravvivenza osservato negli ultimi 10 anni sembra
essere dovuto principalmente al miglioramento della terapia di supporto, mentre la probabilità di recidiva è rimasta relativamente costante:
tra il 10% e il 40% per pazienti trapiantati in fase favorevole di malattia
(I RC di leucemia acuta o FC di LMC) e il 50-70% per pazienti con leucemia in fase più avanzata (107). La recidiva generalmente origina
dalle cellule del ricevente, a dimostrazione del fatto che il clone leucemico può sopravvivere alle dosi sovramassimali di radio-chemioterapia
e sottrarsi all’effetto GVL. Solo in rari casi la malattia, osservata per lo
più tardivamente dopo trapianto, si è ripresentata nelle cellule del
donatore. Diverse cause sono state considerate responsabili di tale
evento: l’impiego della TBI, la persistenza dello stimolo leucemogeno
microambientale, il trasferimento di materiale oncogenetico dalle cellule leucemiche del paziente e quelle normali del donatore.
Anche i pazienti con GVHD acuta o cronica, pregressa o in atto, possono recidivare a ulteriore indicazione che non sempre la GVHD si traduce in un effetto GVL. I tentativi di ridurre la recidiva leucemica sono
stati diretti da una parte verso il potenziamento dei regimi di condizionamento pre-trapianto, dall’altra parte verso la ricerca di amplificazione dell’effetto GVL mediante la riduzione della profilassi per la GVHD.
L’aggiunta di nuovi chemioterapici o l’aumento di intensità della radioterapia, pur dimostratisi maggiormente eradicanti verso il clone leucemico, non hanno migliorato i risultati globali in termini di sopravvivenza, essendo correlati a un maggior rischio di mortalità post-trapianto.
L’osservazione che anche per i pazienti riceventi midollo non T depleto
il rischio di recidiva leucemica si modifica in rapporto al livello e tipo di
profilassi per la GVHD, ha favorito studi clinici basati sulla modulazione
dei regimi di profilassi della GVHD senza ottenere tuttavia risultati soddisfacenti.
Influenzano l’evoluzione della recidiva leucemica post-trapianto il tipo
di leucemia, l’intervallo di tempo trascorso dal trapianto alla recidiva, il
performance status del paziente e il tipo di trattamento.
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9.1
CHEMIOTERAPIA CONVENZIONALE
Nei pazienti con leucemia acuta in recidiva dopo trapianto la prognosi
è senz’altro sfavorevole e, se non viene somministrata alcuna terapia,
la mediana di sopravvivenza è di soli 3-4 mesi.
Sono segnalati rarissimi casi di RC ottenuta con la sola sospensione
della CSA in pazienti recidivati in corso di trattamento immunosoppressivo.
La probabilità di RC con chemioterapia convenzionale varia dal 30 al
40%, con una mediana di sopravvivenza di 8 mesi per la LMA e di 14
mesi per la LLA. Nei pazienti che non ottengono RC la mediana di
sopravvivenza si riduce a 3 mesi.
La prognosi per i pazienti recidivati dopo TMO per LMC dipende dal
sesso del paziente, dall’intervallo di tempo dal trapianto e soprattutto
dalla fase di malattia al momento della recidiva: in analisi univariata la
probabilità di sopravvivenza a 6 anni è del 52% per i pazienti con sola
recidiva citogenetica, rispetto al 30% per i pazienti in recidiva anche
ematologica; nessun paziente che recidiva dopo trapianto con malattia
in fase avanzata ha una sopravvivenza superiore a 3.5 anni dal
momento della recidiva (108).
Il trattamento con chemioterapia convenzionale, proposto per i pazienti con recidiva di LMC in FA o CB non ha dato risultati soddisfacenti: la
mediana di sopravvivenza risulta inferiore a 6 mesi. Al contrario, nel
caso in cui la recidiva compaia in corso di trattamento con CSA, l’immediata sospensione di quest’ultima può indurre una RC con recupero
dell’emopoiesi del donatore. Infine il secondo trapianto, pur permettendo una probabilità di DFS a 4 anni variabile tra il 20 e il 30% a
seconda delle diverse casistiche, è correlato con un elevato rischio di
mortalità precoce e di ulteriore recidiva (109). È consigliabile pertanto
che tale procedura sia limitata a pazienti non clinicamente compromessi nei quali la recidiva sia intervenuta tardivamente dopo il primo
trapianto (>6 mesi nei pazienti pediatrici, >12 mesi nei pazienti adulti).
9.2
TRATTAMENTI IMMUNOMODULANTI CON
FATTORI DI CRESCITA E CITOCHINE
La patologia per la quale l’impiego di fattori immunomodulanti è meglio
definita è senz’altro la LMC in recidiva post-trapianto distinta in recidiva molecolare, citogenetica ed ematologica.
La tecnica della PCR applicata allo studio della malattia minima residua (MRD) dopo trapianto permette di identificare il trascritto di fusione RNA bcr/abl specifico della malattia fino a una diluizione di 105 -10 6
cellule.
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Sebbene ampiamente praticata, tale tecnica rimane tuttavia una procedura particolarmente delicata per i problemi correlati alla sua esecuzione, alla sua specificità e sensibilità.
È pertanto difficile un confronto di risultati provenienti da laboratori
diversi e devono essere considerate con cautela le interpretazioni cliniche dei dati che da essi vengono tratte. Inoltre, solo in alcuni studi i
pazienti testati presentano un follow-up sufficientemente lungo per
valutare l’eventuale correlazione con la recidiva citogenetica ed ematologica, e il numero dei pazienti analizzati spesso non è sufficiente per
una corretta valutazione del test in relazione ad altre variabili.
Uno studio del gruppo di Seattle del 1995 (110) ha valutato il significato prognostico della PCR in 346 pazienti, analizzati a diversi intervalli
di tempo dal TMO.
Le principali conclusioni di questo studio possono essere sintetizzate
nei seguenti punti:
1. esiste una concordanza di risultato della PCR tra midollo e sangue
periferico nel 91% dei casi;
2. la precoce positività della PCR, rilevata entro 3 mesi o oltre 36 mesi
dal trapianto, non è predittiva del rischio di recidiva;
3. una singola positività della PCR rilevata tra 6 e 12 mesi e tra 12 e
24 mesi post-trapianto si correla con una probabilità attuariale di
recidiva rispettivamente del 42 e 25%, significativamente più elevata del 3 e 1% della probabilità calcolata nei pazienti PCR negativi
agli stessi intervalli di tempo;
4. la progressione di malattia interviene con una mediana di 7 mesi nei
pazienti risultati PCR positivi;
5. in analisi multivariata, la PCR positività rimane il principale fattore
indipendente correlato con il rischio di recidiva; gli altri due fattori a
essa associati che mantengono significatività statistica sono il TMO
da donatore HLA compatibile e la GVHD acuta di grado 0-I.
Il dibattito ancora aperto sul significato biologico della PCR dopo TMO
non permette di trovare ancora un approccio clinico terapeutico nel
caso di una recidiva molecolare di malattia. Tuttavia, alla luce dei dati
precedentemente esposti, è proponibile che la recidiva molecolare,
dopo 6 mesi dal trapianto nei pazienti non riceventi CSA, sia valutata in uno studio prospettico randomizzato per la terapia con
IFN; ovviamente interventi terapeutici più aggressivi non sono giustificati.
Particolarmente complesso è il quadro della recidiva citogenetica.
Sebbene la ricomparsa di cellule Ph positive dopo trapianto sia spesso
seguita da una progressione di malattia verso la fase ematologica, non
infrequente è l’osservazione di metafasi Ph positive transitorie o persistenti in assenza di recidiva ematologica.
Il significato predittivo di progressione ematologica rappresentato dalla
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recidiva citogenetica è influenzato da diversi fattori: metafasi Ph positive frequentemente rilevate entro i primi 100 giorni possono rappresentare un residuo cellulare maturante destinato a estinguersi; una ridotta
percentuale (<10%) di cellule Ph positive, rilevate anche tardivamente
dopo trapianto nell’ambito di una normale emopoiesi del donatore,
vanno facilmente incontro a una remissione spontanea; un aumentato
rischio di progressione ematologica è stato invece segnalato per una
proporzione di cellule Ph positive >25% in associazione con una condizione di chimerismo misto presente nel compartimento emopoietico
normale (111). Inoltre, l’evoluzione della recidiva citogenetica è influenzata dal regime impiegato per la profilassi della GVHD: pazienti riceventi midollo T depleto anche in presenza di una bassa percentuale di
metafasi Ph positive quasi sempre evolvono in recidiva ematologica
franca.
Da un punto di vista terapeutico è ormai confermata l’indicazione terapeutica alla terapia con IFN. L’analisi retrospettiva eseguita dall’EBMT
su 130 pazienti (108), dimostra che la terapia con IFN ritarda la progressione di malattia e induce pertanto un significativo aumento
della sopravvivenza dei pazienti con LMC in recidiva sia ematologica sia soltanto citogenetica.
Tale approccio terapeutico deve tuttavia essere attualmente
riconsiderato alla luce delle nuove esperienze provenienti dall’infusione dei linfociti del donatore la cui potente attività GVL si traduce in elevata efficacia terapeutica come verrà meglio definito nel
prossimo paragrafo.
Del tutto preliminari sono i risultati relativi all’azione del G-CSF sulla
recidiva di leucemia acuta e cronica recentemente riportati dal gruppo
dell’M.D. Anderson: 3 di 7 pazienti trattati con G-CSF hanno ottenuto
la RC mantenuta per un follow-up sufficientemente lungo.
Infine, anche l’IL-2 sembra un agente potenzialmente attivo nel trattamento della recidiva dopo trapianto.
9.3
TRATTAMENTO IMMUNOMODULANTE MEDIANTE
INFUSIONE DEI LINFOCITI DEL DONATORE
Nei pazienti con recidiva di malattia dopo TMO il chimerismo e la conseguente tolleranza immunologica verso le specificità HLA del donatore costituiscono il presupposto necessario per l’impiego di una immunoterapia adottiva con i linfociti del donatore il cui obiettivo è quello di
evocare un’attività GVL.
Nello studio retrospettivo, multicentrico dell’EBMT (112) su 135
pazienti sottoposti a infusione di linfociti del donatore per LMC, LMA,
LLA e MDS in recidiva post-TMO, la maggiore efficacia terapeutica in
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termini di percentuale di RC si riscontra per i pazienti con LMC in recidiva citogenetica (82%) o ematologica in FC (74%). Tali percentuali si
riducono al 22% per i pazienti con LMA, al 12% dei pazienti con LMC
in FA, mentre nessuno dei pazienti con LLA risulta rispondente.
Le complicanze più frequentemente osservate con l’infusione dei linfociti del donatore sono state la GVHD e la mielosoppressione osservate
nel 50 e 35% rispettivamente dei pazienti.
L’ottenimento della RC per effetto GVL indotto dal DLT è significativamente associato all’insorgenza della GVHD e/o della mielosoppressione.
Allo stato attuale la terapia con DLT è da considerarsi elettiva per i
pazienti in recidiva di LMC in FC post-trapianto, mentre per i
pazienti con recidiva in fase avanzata è indicato un trattamento
con chemioterapia seguita da infusione di DLT. Fondamentale è lo
studio dello stato di chimerismo pre-DLT, infatti, in uno stato di chimerismo completo o misto l’aplasia midollare risulta transitoria o assente,
mentre in assenza di chimerismo è più alto il rischio di sviluppare
un’aplasia midollare grave (113). In quest’ultimo caso è indicato
pertanto associare all’infusione di DLT anche cellule staminali del
donatore mobilizzate previa somministrazione di G-CSF.
Per i pazienti in recidiva citogenetica è proponibile una stratificazione,
in base al numero di metafasi Ph + a ricevere o meno terapia con IFN;
se il numero di metafasi Ph + è elevato (>40%) i pazienti possono essere randomizzati a ricevere DLT + IFN.
Più aggressivo dovrebbe essere l’atteggiamento terapeutico e il monitoraggio citogenetico e molecolare per i pazienti che hanno ricevuto
midollo T depleto in considerazione dell’elevato rischio di evoluzione
ematologica in caso di recidiva citogenetica o molecolare di malattia.
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