EMATOLOGIA 1 direttori della collana Franco Mandelli, Giuseppe Avvisati IL TRAPIANTO DI CELLULE STAMINALI EMOPOIETICHE ALLOGENICHE William Arcese, Anna Paola Iori Dipartimento di Biotecnologie Cellulari ed Ematologia Università “La Sapienza” - Roma 8 EMATOLOGIA DIRETTORI DELLA COLLANA Franco Mandelli, Giuseppe Avvisati Dipartimento di Biotecnologie Cellulari ed Ematologia Università “La Sapienza”, Roma ACCADEMIA NAZIONALE DI MEDICINA REDAZIONE P.zza della Vittoria, 15/1 - 16121 Genova Tel. 010/5458611 - Fax 010/541761 E-mail: [email protected] http: //www.accmed.net DIREZIONE Luigi Frati - Stefania Ledda COORDINAMENTO EDITORIALE Gabriella Allavena PROGETTO GRAFICO Giorgio Prestinenzi IMPAGINAZIONE Maria Grazia Granata, Giuliana Vaglio PROMOZIONE Luisa Baggiani SERVIZIO STAMPA EFFE - Via Cesiolo, 10 - 37126 Verona © 1998 Forum Service Editore s.c.a r.l. P.zza della Vittoria, 15/1 - 16121 Genova Distributore unico per l’Italia: Del Porto S.p.A. - Via Meucci, 17 - 43015 Noceto (PR) Tel. 0521/620544 - Fax 0521/627977 Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte del libro può essere riprodotta o diffusa senza il permesso scritto dell'editore INDICE GENERALITÀ 1 TRAPIANTO DI MIDOLLO OSSEO ALLOGENICO DA DONATORE FAMILIARE 2 TRAPIANTO DI MIDOLLO OSSEO ALLOGENICO DA DONATORE NON CORRELATO 3 TRAPIANTO DI CELLULE STAMINALI ALLOGENICHE DA SANGUE PERIFERICO 4 TRAPIANTO DI CELLULE STAMINALI EMOPOIETICHE DA SANGUE DI CORDONE OMBELICALE 5 LE COMPLICANZE POST-TRAPIANTO 6 LA GRAFT VERSUS HOST DISEASE 7 LA TERAPIA DI SUPPORTO 8 LA RECIDIVA LEUCEMICA POST-TRAPIANTO 9 BIBLIOGRAFIA GENERALE LE DIAPOSITIVE 10 ABBREVIAZIONI ADA AR AREB AREB-T BMDW BUS CB CMV CSA CSE CTX CVC DFS EFS EPN FA FC G-CSF GITMO GM-CSF GVHD GVL HLA IFN LAK LDH LFS LH LLA LLC LMA LMC LMMC LNH MDS MHC MM MTX MUD NK NR PBSC PCR PI PMN PV RC RP SAL SCO TAI TBC TBI TMO TNI TRM VNTR VOD adenosindeaminasi anemia refrattaria AR con eccesso di blasti AREB in trasformazione Bone Marrow Donor Worldwide busulfano crisi blastica Cytomegalovirus ciclosporina cellula staminale emopoietica ciclofosfamide catetere venoso centrale sopravvivenza libera da malattia sopravvivenza libera da eventi emoglobinuria parossistica notturna fase accelerata fase cronica granulocyte colony stimulating factor Gruppo Italiano per il Trapianto di Midollo Osseo granulocyte-macrophage colony stimulating factor graft versus host disease graft versus leukemia human leukocyte antigen interferone lymphokine activated killer lattico-deidrogenasi sopravvivenza libera da leucemia linfoma di Hodgkin leucemia linfoide acuta leucemia linfoide cronica leucemia mieloide acuta leucemia mieloide cronica leucemia mielomonocitica cronica linfoma non Hodgkin sindrome mielodisplastica complesso maggiore di istocompatibilità mieloma multiplo metotrexato donatore di midollo non correlato cellule natural killer non rispondenti cellule staminali allogeniche da sangue periferico polymerase chain reaction polmonite interstiziale polimorfonucleati policitemia vera remissione completa remissione parziale siero anti-linfocitario sangue di cordone ombelicale toracol abdominal irradiation tubercolosi total body irradiation trapianto di midollo osseo total nodal irradiation mortalità correlata al trapianto variable number tandem repeats malattia veno-occlusiva 1 GENERALITÀ 1.1 L’OBIETTIVO DEL TRAPIANTO ALLOGENICO DI CELLULE STAMINALI Alla base di numerose patologie ematologiche vi è un’alterazione acquisita (es. aplasia midollare, neoplasie ematologiche) o congenita (emoglobinopatie) del compartimento delle cellule staminali. L’obiettivo del trapianto allogenico di cellule staminali è quello di sostituire il compartimento alterato del paziente con un patrimonio di cellule staminali ottenuto da un donatore sano capace di ricostituire il sistema emopoietico e immunitario del ricevente. Questo obiettivo si identifica pertanto con la guarigione, e il suo raggiungimento dipende dalla realizzazione di tre fattori principali: 1. la scomparsa totale del compartimento di cellule staminali totipotenti del paziente per mezzo di una chemio-radioterapia pre-trapianto (detta di “condizionamento”) il più possibile eradicante per “creare spazio” 2. il superamento, ai fini dell’attecchimento, della barriera immunologica rappresentata dalle cellule immunocompetenti del paziente che sono responsabili del rigetto 3. il superamento della barriera immunologica, rappresentata dalle cellule immunocompetenti attive del donatore presenti nella sospensione di cellule staminali infuse, responsabili della malattia del trapianto contro l’ospite (graft versus host disease, GVHD). Quindi, nel trapianto di cellule staminali allogeniche, a differenza di qualunque altro tipo di trapianto, la barriera immunologica da superare è doppia: del ricevente verso donatore (rigetto) e del donatore verso ricevente (GVHD). 1.2 CENNI STORICI Il primo tentativo di impiego di midollo osseo nel trattamento di una patologia ematologica risale al 1891 quando Brown-Sequard somministrò midollo rosso per via orale a un paziente affetto da leucemia acuta (1). Altri tentativi successivi, sporadicamente segnalati, si devono considerare più che pionieristici, fino ad arrivare al 1939 quando fu ese- I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 1 guita la prima infusione endovenosa di midollo osseo: in quell’anno su Annals of Internal Medicine fu pubblicato il caso di un paziente affetto da aplasia midollare trattato con infusione endovenosa di midollo ottenuto da fratello (2). Tuttavia l’inizio della moderna trapiantologia risale alla metà del ‘900 con gli studi del 1951 di Jacobson e coll. (3); questi dimostrarono che i topi potevano guarire da un’irradiazione mortale se le aree emopoietiche del loro femore venivano schermate, avendo osservato in precedenza che l’aplasia midollare nei topi irradiati poteva essere reversibile schermando la milza. In seguito si osservò che topi in cui erano state somministrate dosi potenzialmente letali di radiazioni risultavano protetti da un’infusione di midollo e nel 1952 Lorenz e coll. (4) dimostrarono che la guarigione era dovuta alle cellule contenute nel midollo trapiantato. Subito dopo la seconda guerra mondiale, gli effetti ematologici osservati in seguito all’irradiazione nei sopravvissuti alle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki stimolarono la ricerca sulla potenziale capacità del midollo osseo di conferire una radioprotezione. I più gravi problemi che i clinici si trovarono ad affrontare furono quelli immunologici del rigetto e della reazione del trapianto contro l’ospite, descritta per la prima volta nell’uomo da Mathè e coll. (5). Una parte consistente del lavoro sullo sviluppo del trapianto di midollo osseo (TMO) è stata inoltre svolta da Donall Thomas, premio Nobel per la Medicina nel 1990, che ha usato il cane come modello sperimentale per sviluppare schemi efficaci di irradiazione “total body” e ha introdotto il metotrexato (MTX) come mezzo per prevenire la GVHD (6). Questi progressi tecnici e la caratterizzazione del sistema di istocompatibilità (HLA) hanno definitivamente aperto la strada a una nuova era trapiantologica, portando alla realizzazione del primo trapianto sulla base delle nuove conoscenze in un paziente affetto da sindrome di Wiskott-Aldrich, esperienza pubblicata nel 1968 da Bach e coll. (7), 1.3 IL CONCETTO DI CHIMERA La sostituzione del compartimento staminale del paziente con le cellule del donatore determina la convivenza nello stesso individuo del patrimonio genetico di due soggetti differenti; il ricevente in questo caso diventa genotipicamente una chimera (termine mutuato dalla mitologia classica per definire una creatura con parti anatomiche derivate da individui differenti). Inoltre, la cellula staminale non è presente solo a livello midollare o nel sangue periferico di un individuo, ma è rappresentata in numerosi altri E 2 M A T O L O G I A tessuti: da essa derivano, infatti, i macrofagi degli alveoli polmonari, le cellule del Kupffer del fegato, gli osteoclasti, le cellule del Langherans della cute, le cellule microgliari del cervello e, come dimostrato del tutto recentemente, anche le cellule muscolari striate (8). Questa caratteristica rende ragione dell’impiego del trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche (CSE) anche in pazienti affetti da errori congeniti del metabolismo (tesaurismosi lisosomiale). Infatti quando si esegue un trapianto allogenico in un ricevente sottoposto a regime ablativo, le CSE trapiantate danno origine a tutte le discendenze emopoietiche, inclusa la linea dei monociti come precursori dei macrofagi tissutali che si trovano a livello polmonare, cutaneo o epatico. Sulla base di questa acquisizione è stato proposto che un trapianto allogenico di CSE possa servire da fonte permanente dell’enzima mancante e correggere il difetto metabolico o per sostituzione delle cellule fagocito-macrofagiche del fegato portatrici del deficit enzimatico con cellule normali, o trasferendo l’enzima per contatto diretto cellula-cellula dalle cellule derivate dal midollo osseo enzimaticamente normale in quelle patologiche, o mediante rilascio dell’enzima nel plasma con successiva captazione da parte delle cellule carenti. Di fatto quindi il trapianto allogenico di CSE può essere considerato un trapianto sistemico. L’analisi del chimerismo post-trapianto può essere condotta attraverso l’uso di analisi citogenetiche classiche (sesso differente tra donatore e ricevente, polimorfismi di bandeggio all’analisi cariotipica, eventuale presenza nei pazienti con patologie clonali di anomalie citogenetiche caratteristiche), oppure mediante determinazione dei gruppi eritrocitari o tipizzazione HLA per trapianti tra soggetti non identici. Più recentemente vengono impiegate metodiche di biologia molecolare, attraverso tecniche di reazione a catena della polimerasi (polymerase chain reaction, PCR), che amplificano regioni del genoma umano altamente polimorfiche (quali ad esempio variable number tandem repeats, VNTR). Attraverso queste metodiche, applicabili sia su cellule midollari che su sangue periferico, è possibile stabilire il chimerismo post-trapianto e soprattutto seguirne l’andamento nel tempo. In base alla persistenza o meno di cellule del ricevente a livello midollare o periferico si distinguono tre possibili differenti stati chimerici: • chimerismo completo (assenza di residuo cellulare emopoietico del paziente) • chimerismo misto (concomitante presenza di cellule del donatore e del ricevente) • assenza di chimerismo (ricostituzione emopoietica autologa). I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 3 1 1.4 IL SISTEMA HLA I geni che esercitano un effetto primario sulle reazioni umorali e cellulari determinanti la compatibilità tessutale sono raggruppati in un complesso cromosomico che prende il nome di complesso maggiore di istocompatibilità (MHC) (nell’uomo viene siglato HLA: human leukocyte antigen) localizzato sul braccio corto del cromosoma 6. Si conoscono oggi diverse famiglie di geni HLA che si raggruppano in regioni distinte del complesso. Si distinguono: la regione ABC, dove trovano sistemazione i geni di classe I; la regione DR, dove sono localizzati i geni di classe II; e infine la regione di classe III che comprende i geni che codificano per alcune frazioni del complemento. Il complesso HLA, salvo l’evenienza del crossing over che interviene in circa il 3% dei casi, si trasmette come un blocco unico di informazione genetica secondo la I legge di Mendell. La combinazione dei geni sullo stesso cromosoma si chiama “aplotipo”; il genotipo consta dei due aplotipi parentali (paterno e materno) e viene stabilito esclusivamente con indagine familiare. I prodotti dei geni HLA caratterizzati inizialmente con metodiche sierologiche e cellulari, vengono più recentemente identificati con tecniche di biologia molecolare. Questi prodotti, conosciuti comunemente come “antigeni HLA”, presentano le caratteristiche di un polimorfismo molto elevato, il più esteso noto nell’uomo. Attualmente il numero dei possibili geni e quindi degli antigeni nei vari loci HLA sono: 25 nel locus A, 51 nel locus B, 12 nel locus C, 18 nel locus DR, 10 nel locus DQ e infine 6 nel locus DP. Ciò comporta un altissimo numero di combinazioni aplotipiche e un numero illimitato di genotipi. Il polimorfismo è tuttavia ristretto in ambito familiare dove esiste una probabilità di identità HLA in circa il 30% dei fratelli. Gli antigeni di classe I sono glicoproteine di membrana, altamente polimorfe, costituite da una catena pesante saldamente inserita nella membrana cellulare e da una catena leggera rappresentata dalla b 2 microglobulina, un polipeptide non polimorfo, e non glicosilato, codificato da un gene situato sul cromosoma 15. Sono presenti su tutte le cellule nucleate e sulle piastrine, ma la loro espressione varia nei diversi tessuti e nelle differenti categorie di cellule. La massima espressione si ha sui linfociti dove rappresentano l’1% circa di tutte le proteine di membrana. Dal punto di vista funzionale gli antigeni di classe I sono antigeni di trapianto che rappresentano il bersaglio per i linfociti citotossici T nelle reazioni di rigetto. Gli antigeni di classe II hanno distribuzione ristretta, sono infatti presenti solo su certe linee cellulari: linfociti B, macrofagi, cellule dell’epitelio timico, alcuni progenitori delle cellule mieloidi, una certa quota di linfociti T attivati, cellule del Langherans. Sono composti anch’essi da E 4 M A T O L O G I A due catene polipeptidiche glicosilate: una catena più lunga e una più corta legate tra loro in modo non covalente. Sono state individuate tre famiglie di antigeni di classe II: antigeni HLA-DR, DQ e DP. Gli antigeni di classe II sono essenzialmente coinvolti nelle cooperazioni fra le varie popolazioni di cellule immunocompetenti per la regolazione della risposta immune. I linfociti T, infatti, possono riconoscere un antigene estraneo soltanto se esso forma un complesso con un antigene HLA sulla cellula presentante l’antigene (tipicamente un macrofago). La funzione di indurre il riconoscimento di un antigene da parte dei linfociti T è propria degli antigeni di classe II per quanto riguarda la popolazione T4 mentre sarebbe svolta dalle molecole di classe I per la sottopopolazione T8. 1.5 INDICAZIONI Nella Tabella 1 sono schematicamente rappresentate le patologie neoplastiche e non neoplastiche per le quali è stato impiegato il trapianto allogenico di CSE. 1.6 LE FONTI DI CELLULE STAMINALI ALLOGENICHE Il trapianto di cellule staminali allogeniche rappresenta ormai una procedura terapeutica consolidata nel trattamento di numerose emopatie sistemiche sia neoplastiche che non neoplastiche in pazienti di età <60 anni. Tuttavia la possibilità di reperire un donatore HLA compatibile nell’ambito familiare è di circa il 30%, e tale probabilità può essere estesa a un ulteriore 10% dei casi se si includono anche donatori familiari incompatibili per un solo locus. A un’ampia proporzione di pazienti, eleggibili per un trapianto di cellule staminali allogeniche, calcolata nell’ordine del 70% circa dei casi, rimarrebbe pertanto preclusa la possibilità di usufruire di tale procedura terapeutica. La disponibilità di donatori volontari di cellule staminali da midollo osseo reperibili nell’ambito dei Registri Internazionali dei donatori di midollo (Bone Marrow Donor Worldwide) ha permesso di rispondere alla richiesta di un ulteriore 40% circa dei pazienti. Tuttavia, il tempo per la ricerca di un donatore volontario nei registri è mediamente di circa 4-6 mesi, spesso troppo lungo per le esigenze cliniche del paziente. Inoltre le frequenze HLA rappresentate nei I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 5 1 Patologie nelle quali è stato impiegato il trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche Tabella 1 Patologie neoplastiche Leucemia mieloide acuta Leucemia linfoide acuta Leucemia mieloide cronica Leucemia mielomonocitica cronica Leucemia mieloide cronica giovanile Sindrome mielodisplastica Mielofibrosi Osteomielosclerosi Policitemia vera Linfoma non Hodgkin Linfoma di Hodgkin Leucemia a cellule capellute Mieloma multiplo Leucemia linfoide cronica Patologie non neoplastiche Anemia aplastica grave Emoglobinuria parossistica notturna Anemia di Fanconi Anemia di Blakfan-Diamond Talassemie Anemia falciforme Altre emoglobinopatie Immunodeficienza grave combinata Carenza di adenosindeaminasi Discinesia reticolare Atassia teleangiectasia Sindrome di Wiskott Aldrich Malattia di De George Malattia granulomatosa cronica Sindrome di Chediak-Higashi Sindrome linfoproliferativa legata al cromosoma X Deficienza di adesione dei leucociti Osteopetrosi Disordini metabolici genetici Mucopolisaccaridosi Sindrome di Hurler Sindrome di Scheie Sindrome di Hunter Sindrome di San Filippo Sindrome di Morquio Sindrome di Maroteaux-Lami Deficienza di beta-glucuronidasi Malattia di Gaucher Leucodistrofia metacromatica Malattia di Krabbe Malattia di Nieman-Pick Tesaurismosi lisosomiali Istiocitosi X Emofagocitosi linfoistiocitosi familiare Emofagocitosi E 6 M A T O L O G I A registri riflettono in larga maggioranza quelle proprie della razza caucasica e provengono in genere da una popolazione di fascia sociale medio-alta. Le minoranze etniche, le individualità emergenti nelle società multirazziali sempre più diffuse e la grande quota degli appartenenti ai Paesi del terzo mondo sono scarsamente rappresentate nei registri (9). Rimane pertanto una quota di pazienti per i quali la possibilità di eseguire un trapianto allogenico è preclusa. Recentemente, l’impiego del sangue di cordone ombelicale (SCO) quale fonte di cellule staminali ha permesso di migliorare ulteriormente la risposta alle esigenze trapiantologiche (10-14) (Figura 1). 1 Figura 1 • Fonti di cellule staminali emopoietiche SCO MO PBSC Donatore correlato HLA identico 25-30% Donatore correlato Donatore non correlato Pazienti privi di donatore correlato Aploidentico SCO 1 locus mismatched MO HLA identico PBSC HLA identico SCO 1 locus mismatched MO PBSC SCO = sangue da cordone ombelicale; MO = midollo osseo; PBSC = cellule staminali alloge niche da sangue periferico. I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 7 1.7 I TIPI DI TRAPIANTO Il trapianto di cellule staminali allogeniche viene definito dalle seguenti caratteristiche: • fonte di cellule staminali (midollo osseo, sangue periferico, sangue da cordone ombelicale) • familiarità con il donatore o disponibilità di un donatore non familiare (o non correlato) • grado di compatibilità che dipende dal numero di antigeni A, B e DR uguali tra donatore e ricevente. Sulla base di queste caratteristiche, e utilizzando come fonte di cellule staminali il midollo osseo, il sangue periferico o il sangue da cordone ombelicale, si distinguono i seguenti tipi di trapianto allogenico: • trapianto singenico (da gemello monocoriale) • trapianto allogenico da donatore familiare HLA compatibile • trapianto da donatore familiare HLA non compatibile • trapianto da donatore non familiare HLA compatibile • trapianto da donatore non familiare HLA non compatibile. 1.8 LE IMPLICAZIONI IMMUNOLOGICHE Dopo l’infusione di cellule staminali allogeniche possono manifestarsi tre effetti immunomediati: il rigetto, la GVHD e la graft versus leukemia (GVL). Il fenomeno del rigetto si instaura allorché le cellule midollari del donatore, riconosciute come non proprie (“non self”), vengono attaccate e distrutte dalle cellule immunocompetenti del ricevente. La profonda immunosoppressione indotta dalle alte dosi di radiochemioterapia pre-trapianto riduce, tuttavia, l’incidenza del rigetto nel TMO allogenico non T depleto da donatore HLA compatibile all’1-2% dei casi. Il rigetto rappresenta un problema maggiore nei trapianti da donatore non familiare o nei trapianti non compatibili. La reattività delle cellule immunocompetenti allogeniche contro i tessuti dell’ospite determina l’effetto GVHD. Inoltre è ben noto l’effetto immunomediato di reazione del trapianto verso la leucemia (GVL) che interviene in associazione al regime di condizionamento pre-trapianto, nel prevenire la recidiva leucemica. Numerose sono le evidenze, sia sull’uomo che su modelli animali, che riconoscono una stretta correlazione tra il fenomeno della GVHD e l’effetto GVL (15-17). La probabilità di recidiva leucemica risulta significativamente ridotta nei pazienti con GVHD acuta e cronica rispetto ai E 8 M A T O L O G I A pazienti senza GVHD. In letteratura sono riportati singoli casi di recidiva leucemica post-trapianto nei quali la comparsa della GVHD, insorta spontaneamente o dopo la sospensione della terapia immunosoppressiva, risultava associata alla remissione della malattia leucemica (18, 19). Inoltre, la comparazione tra trapianto singenico e allogenico ha fornito molti dati indiretti sul rapporto GVL-GVHD: l’incidenza della recidiva leucemica risulta più alta nei pazienti sottoposti a trapianto singenico, che non sono a rischio di GVHD, rispetto ai pazienti che ricevono trapianto allogenico (20). Esiste comunque un effetto GVL legato esclusivamente alla natura allogenica del trapianto: è stato infatti osservato che, rispetto ai riceventi trapianto singenico, l’incidenza della recidiva leucemica risulta ridotta nei pazienti trapiantati con midollo allogenico anche in assenza di GVHD (21). A differenza di quanto riportato in modelli animali nei quali è possibile ottenere cellule di origine del donatore con esclusiva attività antileucemica e prive di reattività verso i tessuti normali dell’ospite, nell’uomo non sono ancora perfettamente note le popolazioni cellulari coinvolte nel meccanismo fisiopatologico della GVL e della GVHD. Van Lochem e coll. nel 1992 (22), esaminando le popolazioni linfocitarie di pazienti con GVHD post-trapianto, hanno distinto tre cloni funzionalmente differenti di linfociti T citotossici: 1. cloni del donatore diretti sia contro antigeni minori del sistema HLA dell’ospite sia contro le cellule leucemiche 2. cloni che riconoscono solo i linfociti del sangue periferico dell’ospite ma non le cellule leucemiche 3. c l o n i d i r e t t i e s c l u s i v a m e n t e c o n t r o l e c e l l u l e n e o p l a s t i c h e d e l paziente. Questi risultati deporrebbero per la presenza di cellule effettrici sia distinte che comuni nell’esprimere le due attività GVL e GVHD. L’azione citotossica antileucemica sembrerebbe espressa da cloni di linfociti T sia CD4 + che CD8 + , ad attività ristretta per gli antigeni di I e di II classe dell’MHC. Gli antigeni target potrebbero essere antigeni minori del sistema di istocompatibilità presenti sulle cellule leucemiche ma anche neo-peptidi prodotti dalle traslocazioni cromosomiche o proteine glicosilate o fosforilate in maniera anomala (22-24). È probabile che siano responsabili dell’attività GVL anche altre popolazioni cellulari quali natural killer (NK), cellule LAK, e che siano inoltre coinvolte alcune citochine o con meccanismo diretto antileucemico o mediante reclutamento di cellule accessorie o potenziando la citotossicità cellulare (25-27). L’identificazione fenotipica e funzionale delle cellule responsabili dell’effetto antileucemico potrebbe consentire manipolazioni tali da intensificare la GVL rispetto alla GVHD. Il tentativo di rimuovere i linfociti T dal midollo del donatore (tra- I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 9 1 pianto T depleto) ha nettamente ridotto l’incidenza della GVHD, favorendo però un netto aumento della recidiva leucemica (28-30). Tuttavia, come riportato da Champlin e coll. (31), la deplezione selettiva di cellule CD8 + dal midollo infuso associata alla somministrazione della ciclosporina (CSA), sembra determinare una significativa riduzione della GVHD acuta senza incrementare la recidiva leucemica in pazienti trapiantati con leucemia mieloide cronica (LMC). Tuttavia ulteriori studi sono necessari per il miglioramento dell’applicazione clinica di tali procedure. 1.9 IL CONDIZIONAMENTO PRE-TRAPIANTO Il regime di condizionamento pre-trapianto, detto anche regime ablativo, ha l’obiettivo di eradicare la malattia di base e immunosopprimere il paziente. Tale scopo si ottiene mediante l’associazione di farmaci chemioterapici o impiegando regimi di condizionamento che associno la chemioterapia a trattamenti radianti. ■ IRRADIAZIONE CORPOREA TOTALE L’impiego dell’irradiazione corporea totale (total body irradiation, TBI) nel regime di condizionamento pre-trapianto ha un effetto immunosoppressivo e antitumorale; in particolare la TBI agisce anche sulle cellule in fase G 0 del ciclo cellulare e sulle cellule del sistema nervoso centrale e dei testicoli (considerati santuari di malattia). La TBI può essere in dose singola, quando la quantità di radiazioni viene somministrata in un’unica volta, oppure frazionata, quando la dose totale di radiazioni viene somministrata suddivisa in più giorni. La dose totale e la sua intensità sono variabili. In generale i valori sono più alti nella TBI frazionata rispetto a quella in frazione singola (Tabella 2). Quando la TBI si utilizza per emopatie non maligne, la dose totale è solitamente più bassa, non essendo necessaria l’eliminazione di cellule tumorali, ma solo l’effetto immunosoppressivo. Molti centri impiegano la schermatura del polmone, in modo da ridurre la dose totale erogata su questi organi e quindi i danni da radiazione. Durante le prime ore della TBI gli effetti collaterali più facilmente osservabili sono la nausea e il vomito, nelle 24-48 ore successive si possono osservare eritema cutaneo, dolore mascellare (parotide), mucosite; più tardiva è l’insorgenza dell’alopecia, della sindrome da sonnolenza o della malattia veno-occlusiva (VOD). I possibili effetti tardivi della TBI sono la sterilità, l’ipotiroidismo, la cataratta, l’insorgenza di secondi tumori e la polmonite interstiziale (PI). E 10 M A T O L O G I A Esempi di regimi di TBI frazionata impiegati Tabella 2 Centro Strumentazione Intensità di dose (cGy/min) Dose (Gy) Frazioni 60Co a duplice fascio 4 10.5 Singola Hammersmith Hospital, Londra, UK Acceleratore lineare 15 12 6 (2 al giorno) Middlesex Hospital, Londra, UK Acceleratore lineare 22 14.4 8 (2 al giorno) Istituto Nazionale Ricerca Cancro, Genova, Italia Acceleratore lineare 6 9.9 3 (1 al giorno) Institut J Paoli Calmettes, Marsiglia, Francia Acceleratore lineare 4 11 5 (1 al giorno) University of Minnesota, Minneapolis, USA Acceleratore lineare 10 13.2 8 (2 al giorno) 4 12 6 (1 al giorno) 12 13.2 11 (3 al giorno) Royal Marsden Hospital, Surrey, UK 60Co a Fred Hutchinson Cancer Research duplice fascio Center, Seattle, USA Memorial Sloan-Kettering Cancer Center, New York, USA Acceleratore lineare In alcune patologie, come l’anemia di Fanconi o l’aplasia midollare grave, nelle quali è necessario indurre solamente l’effetto immunosoppressivo, l’irradiazione pre-trapianto è stata somministrata a campi ristretti sotto forma di irradiazione toraco-addominale (TAI) o irradiazione linfonodale totale (TNI). È possibile anche, se necessario, la somministrazione di dosi di radioterapia aggiuntive (boosting) su aree considerate santuari di malattia o su aree interessate da grosse masse tumorali (bulky). I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 11 ■ FARMACI CHEMIOTERAPICI Anche per la chemioterapia pre-trapianto, come per la TBI, gli obiettivi principali sono creazione di spazio, eradicazione della malattia e immunosoppressione. Ovviamente l’ablazione pre-trapianto è fondamentale per le patologie con midollo iperplastico, come nelle forme leucemiche o nelle talassemie, mentre è di minore importanza nei casi di midollo ipoplastico come nel caso dell’aplasia midollare, dove è fondamentale invece l’effetto immmunosoppressivo. I farmaci solitamente impiegati per l’ablazione midollare sono il busulfano (BUS), l’etoposide, la citosina-arabinoside e il melphalan, mentre la ciclofosfamide (CTX), ampiamente usata in molti regimi di condizionamento, ha prevalentemente un effetto immunosoppressivo, ma non è in genere sufficiente a determinare un’ablazione midollare dell’ospite tranne che in presenza di uno stato midollare ipoplasico. In relazione alla patologia di base, per ottenere l’effetto sperato dal regime di condizionamento (ablazione + immunosoppressione), è fondamentale, rispetto all’impiego di una monochemioterapia, l’associazione strategica di più farmaci in modo da ridurre la probabilità di una resistenza nei confronti di qualcuna delle sostanze impiegate. Inoltre l’impiego di associazioni chemioterapiche può ridurre la morbilità globale legata alla tossicità dei farmaci rispetto all’equivalente morbilità che si avrebbe utilizzando un unico agente per ottenere lo stesso effetto terapeutico. Infatti, i chemioterapici impiegati nei regimi di condizionamento vengono somministrati a dosi sovramassimali e gli effetti tossici a essi associati possono essere particolarmente gravi (PI, cardiotossicità, epatotossicità, VOD, cistite emorragica, crisi convulsive, ecc.). In relazione al tipo di trapianto è fondamentale, in alcuni casi, privilegiare o eventualmente incrementare, mediante l’impiego di farmaci aggiuntivi, l’effetto immunosoppressivo per ridurre il rischio del rigetto o del non attecchimento, come nel caso dei trapianti da SCO o da MUD compatibile o da donatore nei quali alla terapia citoriduttiva vengono aggiunti il siero anti-linfocitario (SAL) o la fludarabina. 1.10 ATTECCHIMENTO La ripresa emopoietica dopo trapianto di cellule staminali allogeniche dipende da vari fattori quali: la malattia di base, il regime di condizionamento pre-trapianto, la profilassi della GVHD, la comparsa di eventuali infezioni virali (Cytomegalovirus, CMV), il numero di cellule infuse. Anche se la cellularità midollare incrementa rapidamente dopo circa 24 settimane dal trapianto e morfologicamente sono presenti tutte le E 12 M A T O L O G I A componenti emopoietiche, occorrono 6-12 mesi prima che la cellularità ritorni normale (32). L’attecchimento viene definito dal valore dei polimorfonucleati (PMN) delle piastrine e dei reticolociti a livello del sangue periferico. Convenzionalmente l’attecchimento per la serie granulocitaria è definito dal numero dei PMN, >500/mm 3 per almeno tre giorni consecutivi, mentre per le piastrine da una conta superiore a 50 000/mm 3 e per la serie rossa da un numero di reticolociti superiore a 25 000/mm 3 sempre su tre controlli consecutivi in tre giorni successivi. La perdita dell’attecchimento è definita dalla riduzione dei PMN al di sotto dei 200/mm 3 e dalla cellularità midollare <5% dopo il raggiungimento di un normale attecchimento granulocitario. Non ci sono linee guida ben definite per l’impiego dei fattori di crescita dopo trapianto. I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 13 1 TRAPIANTO DI MIDOLLO OSSEO ALLOGENICO DA DONATORE FAMILIARE 2.1 INTRODUZIONE ■ CRITERI DI SCELTA DEL DONATORE In Tabella 3 sono elencati i criteri di scelta solitamente impiegati per il donatore di midollo osseo allogenico. Donatore di midollo osseo: criteri di selezione Tabella 3 Compatibilità HLA • Gemello omozigote • HLA compatibile genotipicamente identico • HLA compatibile apparentato fenotipicamente identico • HLA compatibile non apparentato fenotipicamente identico • HLA incompatibile per un locus Fenotipo eritrocitario AB0 Rh • compatibile • incompatibilità minore • incompatibilità maggiore Età giovane Compatibilità di sesso Grado di disponibilità alla donazione ■ SCREENING PRE-TRAPIANTO DEL DONATORE DI MIDOLLO OSSEO Poiché per eseguire il prelievo di midollo osseo il donatore viene sottoposto ad anestesia generale o epidurale le indagini pre-espianto necessarie per il donatore sono per lo più quelle richieste per l’anestesia generale oltre a uno screening infettivologico (Tabella 4). I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 15 2 Indagini di screening pre-trapianto del donatore di midollo osseo Tabella 4 • • • • • • • • • • • • • • • • Anamnesi Esame obiettivo Emocromo Esami ematochimici (azotemia, glicemia, creatinina, colinesterasi, elettroliti sierici, bilirubina totale e frazionata, transaminasi, gGT, fosfatasi alcalina, proteine totali con elettroforesi, dosaggio immunoglobuline, sideremia, ferritina) Screening coagulativo (PT, PTT, fibrinogeno, ATIII) VES, TAS Virologia (HSV, HVZ, EBV) Toxotest Sierodiagnosi (tifo, paratifo A e B , brucellosi) Sierologia epatite (HBV, HCV, HIV) Sierologia per CMV Prove immunoematologiche Esame urine Radiografia del torace Visita cardiologica con ECG Valutazione anestesiologica La morbilità del donatore derivante dall’intervento di prelievo è molto bassa e si limita generalmente a un temporaneo fastidio a livello delle creste iliache posteriori dove solitamente viene eseguito il prelievo di midollo; più rari sono i casi di difficoltà alla deambulazione che possono durare da qualche giorno fino ad alcuni mesi. Inoltre, considerando che la quantità di midollo prelevato è dell’ordine di circa 15 ml/kg, è solitamente necessaria una trasfusione di sangue; per garantire la massima sicurezza al donatore si esegue una trasfusione autologa di sangue salassato alcuni giorni prima. ■ SCREENING PRE-TRAPIANTO PER IL PAZIENTE Fondamentale, per sottoporre un paziente a trapianto di midollo, è la valutazione del suo stato clinico. Particolare importanza assume lo screening infettivologico; infatti le complicanze infettive del TMO sono direttamente legate all’esistenza di infezioni inapparenti nel donatore e nel ricevente prima del trapianto. Inoltre, alcune infezioni preesistenti al TMO sia nel donatore sia nel ricevente (epatite B, C, infezione da CMV, HSV e da Aspergillo, TBC), possono rappresentare un rischio durante il decorso post-trapianto anche se il significato e l’utilità di alcune indagini sono tuttora oggetto di dibattito. E 16 M A T O L O G I A In Tabella 5 sono elencate le indagini di screening sia generale sia infettivologico previste per il paziente. Fondamentale nella preparazione del paziente al trapianto è l’inserimento del catetere venoso centrale (CVC), indispensabile per la somministrazione della chemioterapia, terapia di supporto, nutrizione parenterale e per eseguire i numerosi prelievi di sangue necessari per il monitoraggio giornaliero del paziente. Indagini di screening pre-trapianto del ricevente midollo osseo Tabella 5 • • • • • • • • • • • • • • • • • • • Anamnesi Esame obiettivo Emocromo Esami ematochimici (azotemia, glicemia, creatinina, colinesterasi, elettroliti sierici, bilirubina totale e frazionata, transaminasi, gGT, fosfatasi alcalina, proteine totali con elettroforesi, dosaggio immunoglobuline, sideremia, ferritina) Screening coagulativo (PT, PTT, fibrinogeno, ATIII) VES, TAS Virologia (HSV, HVZ, EBV) Toxotest Sierodiagnosi (tifo, paratifo A e B, brucellosi) Sierologia epatite (HBV, HCV, HIV ) Sierologia per CMV Prove immunoematologiche Esame urine Radiografia del torace Visita cardiologica con ECG ed ecocardiografia Emogasanalisi e prove di funzionalità respiratoria TAC total body con mezzo di contrasto Ecografia epatosplenica Radiografia ortopanoramica Se donna: visita ginecologica con PAP test ■ TECNICA DEL PRELIEVO DI MIDOLLO E MANIPOLAZIONI MIDOLLARI Il midollo osseo viene prelevato in anestesia generale o spinale, dalla cresta iliaca anteriore, da quella posteriore e dallo sterno. Solitamente però è sufficiente eseguire le aspirazioni solamente dalla cresta posteriore o anteriore che offrono una quantità di cellule midollari nucleate sufficienti per l’intero prelievo. Il prelievo avviene mediante aspirazioni I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 17 2 multiple in più sedi: si possono eseguire diverse penetrazioni della corteccia ossea, attraverso un unico foro di ago nella cute, cercando di ridurre al minimo traumi o formazioni di lesioni cicatriziali. In genere, minore è il volume aspirato per ogni penetrazione, più ricca è la conta delle cellule formanti colonie. La dose di midollo per prelievo è solitamente espressa come numero di cellule nucleate per Kg di peso corporeo del ricevente. Per un trapianto allogenico è consigliabile, ai fini dell’attecchimento un numero di cellule nucleate >3x10 8 /Kg del ricevente. In caso di trapianto da donatore non familiare o incompatibile, o nel caso sia prevista una manipolazione in laboratorio del midollo prelevato (T deplezione, rimozione dei globuli rossi, deplasmazione, ecc.), si deve prelevare un numero maggiore di cellule. Per i donatori con basso peso corporeo rispetto al ricevente, può essere necessario eseguire due prelievi di midollo, di cui il primo viene criopreservato. Il midollo, una volta prelevato, viene raccolto in sacche trasfusionali e reinfuso direttamente al paziente mediante il CVC. Solitamente si somministrano clorfenamina e idrocortisone prima dell’infusione di midollo per prevenire reazioni allergiche. In caso di incompatibilità AB0 tra donatore e ricevente (presenza nel plasma del paziente di isoagglutinine contro i globuli rossi del donatore) è indicata la rimozione degli eritrociti dal midollo prelevato (meno frequentemente si usa rimuovere le isoagglutinine dal plasma del ricevente) per evitare reazioni trasfusionali emolitiche durante l’infusione del midollo. La deplezione eritrocitaria del midollo prelevato si può ottenere mediante tecniche di eritrosedimentazione per gravità o centrifugazione differenziale mediante separatori cellulari a flusso continuo o discontinuo (COBE 2991, Haemonetics 30, COBE SPECTRA, FENWALL CS 3000, ecc.). Dopo la deplezione eritrocitaria si può ottenere un prodotto finale contaminato solo per il 2% da eritrociti e un massimo recupero di cellule mononucleate. L’incompatibilità AB0 tra donatore e ricevente non influisce sull’attecchimento, poiché le cellule staminali sono prive degli antigeni AB0 e pertanto non possono venire distrutte da anticorpi anti-A o anti-B del ricevente, né sulla incidenza della GVHD o sulla sopravvivenza; tuttavia si possono osservare un ritardo nell’attecchimento della serie rossa con un prolungamento del fabbisogno trasfusionale e reazioni emolitiche dovute alla continua produzione post-trapianto di anticorpi anti-A o anti-B contro gli eritrociti del donatore da parte dei linfociti residui del ricevente. La deplezione midollare di cellule T attualmente viene eseguita solo in casi di trapianti ad alto rischio di GVHD; si ottiene solitamente mediante aggiunta di anticorpi monoclonali fissanti il complemento diretti contro gli antigeni delle cellule T o mediante altre tecniche farmacologiche o fisiche (Tabella 6). E 18 M A T O L O G I A Tecniche per la T deplezione del midollo osseo Tabella 6 Metodi fisici Metodi farmacologici Microsfere magnetiche rivestite con polistirene Incubazione con complemento e anticorpi monoclonali Colonna di perle di anticorpi monoclonali biotina - avidina poliacrilamide Incubazione con ricino anticorpi monoclonali Sedimentazione dopo formazione di rosette con eritrociti di pecora Incubazione con farmaci citotossici Sedimentazione dopo trattamento con agglutinina di soia 2.2 INDICAZIONI ■ LEUCEMIA MIELOIDE CRONICA Benché sia noto che il TMO allogenico rappresenta un approccio terapeutico curativo nella LMC, tuttavia, a tutt’oggi rimangono insoluti alcuni problemi: selezione dei pazienti eleggibili, scelta del donatore ottimale, tempi della procedura trapiantologica, migliore tecnologia trapiantologica applicabile, monitoraggio della malattia post-trapianto. Relativamente al paziente eleggibile, dato che la mortalità da trapianto incrementa con l’età, solitamente molti Centri trapianto limitano l’età a 50 anni. Per la scelta del donatore, essa è in primo luogo legata al livello di compatibilità HLA e all’età del donatore stesso, infatti l’impiego di donatori più giovani correla con una riduzione della TRM. Per quanto riguarda il momento più adeguato della storia della malattia per procedere a un trapianto sappiamo che la probabilità di recidiva e la TRM sono più elevate se la procedura è impiegata in fase avanzata di malattia. Inoltre, per i pazienti in fase cronica (FC) si è osservato una minore TRM e una migliore sopravvivenza libera da leucemia (LFS) quando il TMO viene effettuato entro un anno dalla diagnosi. Questo dato comunque è riferibile a pazienti precedentemente trattati con BUS o idrossiurea, e non è certo se la stessa correlazione possa essere fatta nei pazienti pretrattati con interferone (IFN). Non sono state rilevate sostanziali differenze nei regimi di condizionamento risultando l’associazione TBI+CTX equivalente in termini di risultati alla combinazione BUS + CTX. I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 19 L’associazione della CSA + MTX è il trattamento maggiormente impiegato nella profilassi della GVHD. La T deplezione, che viene applicata ormai in una minoranza di Centri, come sappiamo riduce il rischio di GVHD, ma incrementa la recidiva leucemica (28-30). Globalmente, dalle analisi più recenti risulta che il trapianto di cellule staminali da fratello HLA identico nella LMC in FC determina, a seconda delle casistiche, una probabilità di sopravvivenza, LFS e recidiva a 5 anni rispettivamente del 50-70%, 30-60%, 15-30%. Variabile statisticamente significativa in termini di migliore LFS risulta essere l’età <30 anni (33, 34). In considerazione dell’incremento della TRM con l’età e dei risultati favorevoli ottenuti con l’impiego dell’IFN, nella LMC in FC può essere indicato intervenire con la procedura trapiantologica nei pazienti di età <30 anni, mentre nei pazienti di età >30 anni può essere indicato in prima istanza l’impiego dell’IFN e successivamente del trapianto in caso di assente o ridotta risposta citogenetica (Ph >75%) dopo un anno di terapia. ■ LEUCEMIA MIELOIDE ACUTA Nei pazienti con leucemia mieloide acuta (LMA) si può ottenere la guarigione con il trapianto allogenico che tuttavia, se applicato negli stadi più avanzati o nelle leucemie refrattarie, cura solo il 10% della popolazione. Sopravvivenza a lungo termine e una probabilità di guarigione del 20-40% si osservano invece in pazienti trattati in II o >II RC fino ad arrivare a valori del 40-70% per i pazienti trapiantati in I RC. Come linee guida si può dire che il trapianto allogenico in pazienti sotto i 50 anni, con donatore compatibile, e con malattia in ³ II remissione o in recidiva precoce ha indicazione elettiva considerando che circa il 30% di questi pazienti diventano lunghi sopravviventi mentre la chemioterapia non offre chance per il controllo della malattia; il trapianto ha inoltre indicazione assoluta anche per quei pazienti resistenti alla prima linea di trattamento. Più complessa è la scelta terapeutica per la LMA in I RC. Infatti, sebbene gli studi comparativi dimostrino una riduzione, con il trapianto, della probabilità di recidiva, in alcuni di essi non si osserva un reale miglioramento della DFS a causa della più elevata TRM anche se, comunque è presente un trend a favore del TMO; in soggetti adulti <50 anni è comunque una procedura adeguata soprattutto con il miglioramento delle strategie volte a ridurre la TRM (35-37). Sarebbe però utile realizzare degli studi che possano permettere di individuare quali caratteristiche biologiche e quali fenotipi molecolari indicano la necessità di un trapianto in I RC; certamente una precedente fase mielodisplastica e alterazioni citogenetiche sfavorevoli rappresentano delle indicazioni ben precise al trapianto in I RC. Un discorso a parte merita la LMA FAB M3 per la quale gli ottimi E 20 M A T O L O G I A risultati ottenuti con l’acido retinoico associato alla chemioterapia non rendono ragione di un approccio trapiantologico in I RC se non nel caso di una remissione solo ematologica e non molecolare della malattia (38). ■ LEUCEMIA LINFATICA ACUTA I risultati della chemioterapia convenzionale in età pediatrica sono così soddisfacenti che il trapianto in I RC in questa categoria di pazienti trova spazio solo in sottogruppi particolari quali pazienti che presentino alla diagnosi fattori riconosciuti ad alto rischio di recidiva (leucemia linfoide acuta (LLA) Ph + , t(4;11)) (39). Sono invece candidati all’allotrapianto bambini con recidiva precoce di malattia o recidivati dopo programmi terapeutici particolarmente intensivi, o refrattari alla prima linea di trattamento. In questi casi infatti le possibilità terapeutiche con la chemioterapia sono praticamente assenti. Oggetto di discussione può essere l’impiego del trapianto nei casi di recidiva tardiva (off therapy) o dopo programmi terapeutici definiti a basso rischio. Il trapianto di midollo allogenico nell’adulto, quando effettuato in I RC ha dato DFS del 40-70% a lungo temine (40, 41); tuttavia il ruolo del trapianto in questa fase è ancora discutibile (42, 43). Il trapianto è senz’altro una procedura di elezione nei pazienti in I RC di malattia ad alto rischio di recidiva, con caratteristiche citogenetiche sfavorevoli, o che abbiano ottenuto la I RC dopo terapie di “salvataggio”, o nei pazienti in fase più avanzata di malattia. ■ APLASIA MIDOLLARE Nell’aplasia midollare il TMO allogenico determina una DFS superiore al 50% (44). I risultati migliori si osservano nei pazienti giovani che hanno avuto una malattia di breve durata e un numero limitato di trasfusioni. Il regime di condizionamento di scelta comprende la sola CTX. I pazienti con più di 30 anni presentano maggiori complicanze legate al trapianto e i risultati tra allotrapianto e terapia immunosoppressiva sono simili (45). In particolare è consigliabile la terapia immunosoppressiva in pazienti più anziani (>40 anni) o in pazienti con aplasia moderata. ■ EMOGLOBINOPATIE L’efficacia del trapianto allogenico nei pazienti con talassemia è ormai chiaramente dimostrata da più di 10 anni di studi effettuati soprattutto in Italia (46-48). La più grossa casistica finora pubblicata si riferisce a 802 pazienti trat- I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 21 2 tati presso il Centro di Pesaro (48). In questa casistica fattori prognostici sfavorevoli per la sopravvivenza e la DFS sono risultati essere l’epatomegalia, la fibrosi portale, le complicanze dovute alla terapia ferrochelante. In particolare, suddividendo i pazienti in tre gruppi di rischio (I, II o III) in base al numero dei fattori di rischio presenti, la DFS varia dal 90%, all’82%, al 57%, mentre per ciascun gruppo la sopravvivenza è rispettivamente del 95%, 84% e 79%. In particolare nei pazienti appartenenti al gruppo a rischio più elevato correlano con una migliore sopravvivenza l’età inferiore a 17 anni e la minore intensità del regime di condizionamento. Sembra che i pazienti appartenenti alla I e II classe di rischio, ovvero le classi con minore compromissione di organo, il regime di condizionamento più adeguato sia rappresentato da BUS (16 mg/kg) + CTX (200 mg/Kg) ± SAL o deplezione dei linfociti T dal midollo. Per i pazienti a più alto rischio, in particolare se di età >17 anni, si può ridurre la dose della CTX (120-160 mg/Kg). Il successo nei soggetti giovani ha portato a estendere il trapianto anche a soggetti adulti. In 106 pazienti adulti, per lo più appartenenti alla II e III classe di rischio, sottoposti a trapianto presso il Centro di Pesaro, la sopravvivenza globale e l’EFS sono state del 68 e 65% rispettivamente. Tuttavia, l’alta mortalità da trapianto osservata deve suggerire una grossa cautela nella selezione dei pazienti adulti con talassemia da sottoporre a TMO allogenico. Un’altra forma di emoglobinopatia per la quale l’approccio trapiantologico risulta curativo è l’anemia drepanocitica. Tuttavia, i recenti progressi nel trattamento medico hanno permesso di migliorare la qualità di vita dei pazienti e le complicanze della malattia, riducendo così l’impiego del trapianto, già comunque limitato a forme particolarmente a rischio. In Tabella 7 sono elencati i criteri di inclusione selezionati dal British Paediatric Haematology Forum per il trapianto di midollo nell’anemia drepanocitica. ■ ERRORI CONGENITI DEL METABOLISMO Nonostante il numero di trapianti eseguiti in pazienti con tesaurismosi lisosomiale, è ancora poco chiaro per molte patologie, il reale beneficio di tale procedura. Infatti i danni d’organo non sono reversibili e dopo trapianto non migliorano né le deformità scheletriche, né i danni neurologici a causa della barriera emato-encefalica che non permette alle cellule neuronali di essere raggiunte dall’enzima in circolo. Quello che emerge dagli studi è che l’attività enzimatica determinata nei linfociti e nel tessuto epatico dopo trapianto riflette un attecchimento stabile e una sostituzione dei macrofagi tissutali. Infatti la riduzione del materiale accumulato nel fegato e nella milza è dovuto alla sostituzione dei macrofagi dell’ospite ricchi di prodotto accumulato con le cellule enzimaticamente competenti del donatore che possono E 22 M A T O L O G I A Tabella 7 Selezione dei pazienti affetti da anemia falciforme per il trapianto di midollo osseo allogenico: criteri del British Paediatric Haematologic Forum Criteri di inclusione 1. Età <16 anni con donatore familiare HLA identico e consenso informato 2. Presenza di una o più delle seguenti complicazioni correlate alla malattia: • compromissione del SNC • compromissione polmonare acuta ricorrente o malattia polmonare cronica falciforme stadio I/II • dolori ricorrenti gravi con debilitazione (>3 ricoveri annui in 3-4 anni) 3. Problemi relativi al futuro terapeutico del paziente Criteri di esclusione 1. Donatore affetto da emoglobinopatia grave 2. Uno o più delle seguenti caratteristiche: • Karnofsky <70% • fibrosi portale (moderata o severa) • compromissione renale (FGR < 30%) • compromissione intellettiva grave • malattia polmonare falciforme di grado III o IV • cardiomiopatia • infezione da HIV promuovere anche una clearance del materiale accumulato dalle cellule vicine, compresi gli epatociti. Tuttavia un reale miglioramento clinico è stato osservato solo in pochi soggetti sopravvissuti a lungo termine; inoltre, considerata l’estrema variabilità del decorso di tali patologie anche all’interno della stessa famiglia, occorre valutare con cautela i possibili effetti benefici del trapianto nei singoli pazienti. ■ ANEMIA DI FANCONI Anche se l’anemia di Fanconi può rispondere in modo transitorio alla terapia medica, il trapianto rimane l’unico approccio terapeutico realmente curativo in casi di pancitopenia. È oggetto di discussione il momento ottimale per l’esecuzione del trapianto che comunque va eseguito tempestivamente in caso di aplasia grave con trasfusione dipendenza o complicanze infettive (49). È da notare come l’anemia di Fanconi si associ a un’alta incidenza di complicanze trapiantologiche, in particolare mucosite (fino a scollamenti di grandi frammenti di mucosa), tossicità cutanea, insorgenza di secondi tumori dovuti all’estrema sensibilità dei pazienti ad agenti alchilanti e alla radioterapia. Anche la GVHD e la cistite emorragica I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 23 sono solitamente gravi. Tuttavia, la probabilità di sopravvivenza è risultata essere intorno al 75% nei due maggiori studi fino ad ora pubblicati (49, 50). ■ IMMUNODEFICIENZA PRIMARIA I primi trapianti di midollo allogenico sono stati effettuati in bambini con immunodeficienza congenita (7, 51). La procedura trapiantologica permette la sostituzione della cellula staminale alterata con una cellula normalmente funzionante capace di ricostituire il sistema emopoietico e immunitario dell’ospite. Quindi la disponibilità di un donatore HLA identico per un bambino con immunodeficienza rende il trapianto il trattamento di elezione. In assenza di un donatore compatibile sono stati eseguiti con successo trapianti da donatori HLA mismatched o da donatori non correlati (52, 53) previa deplezione midollare delle cellule T. ■ EMOGLOBINURIA PAROSSISTICA NOTTURNA L’emoglobinuria parossistica notturna (EPN) è una patologia rara caratterizzata da un disordine acquisito della cellula staminale con anemia emolitica cronica, neutropenia, trombocitopenia ed episodi trombotici. L’unico approccio realmente curativo per questa patologia è il TMO allogenico, tuttavia, tale procedura è gravata da un’alta mortalità e morbilità (54). Considerando la storia naturale della malattia e la possibilità anche di remissioni spontanee, la scelta terapeutica del trapianto è da valutare attentamente. Poiché la trombocitopenia, la presenza di trombosi alla diagnosi o una precedente diagnosi di aplasia midollare sono fattori prognosticamente sfavorevoli in termini di sopravvivenza, in questi casi potrebbe essere giustificato l’approccio trapiantologico. Considerato l’esiguo numero di pazienti trapiantati non ci sono delle reali linee guida se non un grave stato di aplasia midollare con dipendenza trasfusionale. ■ SINDROMI MIELOPROLIFERATIVE Le sindromi mieloproliferative costituiscono un gruppo di patologie caratterizzate da una lenta ma progressiva espansione clonale di cellule emopoietiche, che possono andare incontro a una evoluzione blastica. Comprendono la LMC (già esaminata in dettaglio), la LMC giovanile, la policitemia vera (PV), la trombocitemia essenziale e la mielofibrosi idiopatica. Nella PV il ruolo del trapianto è più ipotetico che reale considerato che la sopravvivenza con la chemioterapia convenzionale è di circa 10 E 24 M A T O L O G I A anni e che l’età alla diagnosi è solitamente superiore ai 60 anni. Essendo tuttavia una malattia della cellula staminale il trapianto trova ovviamente indicazione solo in pazienti giovani non rispondenti al trattamento. Anche per la trombocitemia essenziale il trapianto è più un approccio virtuale che reale riferibile solo a pazienti giovani con grave rischio trombotico o episodi emorragici ricorrenti. Per la mielofibrosi idiopatica invece il ruolo del trapianto è senz’altro fondamentale anche se l’esperienza per questa forma patologica è molto limitata. L’ostacolo principale all’approccio terapeutico è sempre l’età del paziente e il grado di fibrosi che non deve essere tuttavia vista come una controindicazione al trapianto, anche se nei casi di grave fibrosi midollare può rappresentare senz’altro un rischio aggiuntivo per l’attecchimento. In un’esperienza riportata da Rajantie e coll. (55) il mancato attecchimento è stato osservato nel 6% dei pazienti con fibrosi media o moderata e nel 33% dei pazienti con grave fibrosi midollare. Nella LMC giovanile l’indicazione al trapianto è assoluta considerata l’estrema aggressività della patologia e l’assenza di altri approcci curativi. ■ SINDROMI MIELODISPLASTICHE Le sindromi mielodisplastiche (MDS) sono caratterizzate da un disordine clonale dell’emopoiesi con emopoiesi inefficace e citopenia periferica. Sebbene la storia naturale della malattia dipenda dal tipo di mielodisplasia: anemia refrattaria (AR), AR con eccesso di blasti (AREB), AREB in trasformazione (AREB-T), leucemia mielomonocitica cronica (LMMC), i trattamenti convenzionali non sono curativi e la mediana di sopravvivenza globalmente è di 15 mesi. Attualmente, il TMO allogenico sembra essere potenzialmente curativo. In particolare, in 59 pazienti trapiantati dal gruppo di Seattle (56), la sopravvivenza libera da eventi (EFS) a 3 anni è risultata del 45%. Recentemente sono stati pubblicati i dati relativi a 93 pazienti, 64 trapiantati da fratelli HLA identici, i rimanenti da donatore familiare mismatched o da MUD (57). Tutti presentavano prima del trapianto neutropenia o piastrinopenia o una quota blastica superiore al 5% nel midollo o nel sangue periferico. La probabilità di sopravvivenza libera da malattia (DFS) a 4 anni, la recidiva e la mortalità trapiantologica sono state, rispettivamente, del 41%, 28% e 48%. Fattori prognostici favorevoli per la DFS sono risultati l’età del paziente (DFS 48% a 4 anni per età <40 anni vs 17% per età >40 anni), e una minore durata del tempo intercorso dalla diagnosi della malattia al trapianto. La recidiva è stata osservata solamente nel gruppo dei pazienti con eccesso di blasti (51% a 4 anni). La DFS per i pazienti di età inferiore a 40 anni I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 25 2 e senza eccesso di blasti al trapianto è risultata del 62% a 4 anni. La procedura trapiantologica sembra pertanto indicata in pazienti con età inferiore a 40 anni se impiegata precocemente prima della progressione blastica o delle citopenie gravi. Certamente è difficile intervenire con una procedura aggressiva come il trapianto in pazienti con AR, senza pancitopenia o anomalie citogenetiche complesse o senza fabbisogno trasfusionale; in questo gruppo potrebbe essere indicata solo un’attenta sorveglianza per intervenire in caso di segni di evoluzione. Per i pazienti di età superiore ai 40 anni o con eccesso di blasti l’impiego della procedura trapiantologica è discutibile. In quest’ultimo caso può essere indicata una polichemioterapia pre-trapianto per sottoporre il paziente alla procedura trapiantologica in RC di malattia (DFS a 2 anni del 60%) (58). ■ LEUCEMIA LINFATICA CRONICA La leucemia linfatica cronica (LLC) è una patologia che interessa per lo più pazienti anziani, quindi l’approccio trapiantologico con cellule staminali allogeniche da donatore familiare identico è riservato solo a una ridotta quota di pazienti idonei per età. Fino ad ora il TMO allogenico è stato effettuato in piccoli gruppi di pazienti con LLC a prognosi sfavorevole (59-61). I risultati preliminari non permettono attualmente di fornire linee guida per TMO allogenico nella LLC; tuttavia possiamo considerare indicato il trapianto allogenico in pazienti giovani con malattia a prognosi sfavorevole. ■ MIELOMA MULTIPLO Il trapianto di midollo allogenico da donatore familiare identico è stato utilizzato per la prima volta in questa patologia nel 1982 dal gruppo di Seattle (62). Si trattava di un trapianto singenico, cui hanno fatto seguito altri casi aneddotici. Dati relativi a un’ampia casistica relativa all’impiego del trapianto di midollo allogenico in pazienti affetti da mieloma multiplo (MM) sono stati pubblicati nel 1991 da Gahrton e coll. (63). La probabilità attuariale di sopravvivenza è stata globalmente del 40% con un follow-up massimo di 78 mesi. È stato osservato un trend statisticamente non significativo a favore dei pazienti trapiantati in stadio I rispetto ai pazienti in stadio II o III di malattia e nei pazienti trapiantati in remissione completa (RC) rispetto ai pazienti in remissione parziale (RP) o non rispondenti (NR) o in progressione di malattia. È risultato inoltre significativo ai fini della sopravvivenza l’ottenimento di uno stato di RC dopo l’attecchimento. La mortalità correlata al trapianto (TRM) è stata E 26 M A T O L O G I A del 38%; tra le cause principali di decesso sono state osservate PI, recidive, GVHD, infezioni ed emorragie. Da questi dati è evidente come il trapianto allogenico per mieloma è gravato da un’alta mortalità trapiantologica, che varia dal 40 al 50% ma si riduce per trapianti effettuati in fase meno avanzata di malattia. Questo in parte è legato all’età media dei pazienti trapiantati per mieloma che è superiore a quella dei pazienti trapiantati per leucemia, ma probabilmente è anche dovuto all’alta incidenza di malattia attiva al momento del trapianto e alle alterazioni renali cliniche e subcliniche presenti nel MM, nonché alla predisposizione alle infezioni. Non ci sono linee guida ben precise sull’impiego del trapianto nel MM anche se ci potrebbe essere indicazione nei pazienti più giovani già precedentemente trattati, con buona risposta alla chemioterapia. Tuttavia, considerando l’alta mortalità trapiantologica può anche essere ragionevole aspettare una seconda linea di trattamento. Inoltre, potrebbe essere indicato il trapianto in pazienti di età <50 anni resistenti alla chemioterapia di prima linea con donatore compatibile; questi pazienti, infatti, non hanno possibilità di sopravvivenza a lungo termine. ■ LINFOMA DI HODGKIN La buona risposta alla chemioterapia non rende necessario per questa patologia l’approccio trapiantologico se non in casi particolari (64). Il trapianto allogenico è stato finora impiegato in un ridotto numero di pazienti in recidiva di malattia resistente o sensibile alla chemioterapia, criterio quest’ultimo che correla con una minore probabilità di recidiva post-trapianto (65-68). ■ LINFOMA NON HODGKIN Gli studi relativi al TMO allogenico in pazienti affetti da linfoma non Hodgkin (LNH) non si riferiscono a casistiche numerose di pazienti. Tuttavia, da questi studi si evince un’attività di GVL che non si traduce in un incremento dell’EFS per i pazienti allotrapiantati, rispetto a quelli trattati con autotrapianto, a causa della maggiore mortalità da allotrapianto. È comunque consigliabile il trapianto allogenico in pazienti con LNH aggressivo, linfoma di Burkitt o linfoma linfoblastico soprattutto in soggetti giovani con basso rischio di sviluppare GVHD, nei quali si può sfruttare al meglio l’effetto di GVL. Per i linfomi a basso grado (indolenti) non si possono fare delle considerazioni relative all’impiego dell’allotrapianto; sicuramente l’età del paziente, la storia naturale della malattia, la TRM non la rendono una procedura di elezione. I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 27 2 ■ TRAPIANTO APLOIDENTICO Il trapianto di cellule staminali da donatore aploidentico è una procedura terapeutica gravata da un elevato rischio di GVHD e di mancato attecchimento. Recentemente, per aumentare la probabilità di successo di questa procedura, sono stati impiegati regimi di condizionamento più intensivi, deplezione delle cellule T dall’inoculo, incremento del numero delle cellule staminali infuse mediante la combinazione cellule midollari + cellule staminali da sangue periferico previa stimolazione con fattore di crescita. Di fondamentale importanza in questo campo è l’esperienza del gruppo di Perugia che in pazienti in fase avanzata di malattia ha associato la T deplezione a un regime di condizionamento costituito da TBI + CTX (100-120 mg/Kg) + thiotepa (10 mg/Kg) e SAL (20 mg/Kg). Le cellule staminali infuse erano ottenute sia dal midollo osseo che dal sangue periferico del donatore dopo stimolazione con granulocyte colony stimulating factor (G-CSF): sia il midollo che le leucoaferesi venivano previamente sottoposte a rimozione dei linfociti T (69). L’esperienza di questo gruppo ha evidenziato una probabilità di attecchimento del 75%, con una riduzione della GVHD acuta. Tuttavia con questo regime di preparazione pre-trapianto rimane ancora alta la TRM. Una migliore selezione dei pazienti, la modificazione del regime di condizionamento e il miglioramento delle procedure di profilassi della GVHD sono le direttive verso cui si muove il gruppo di Perugia e i risultati preliminari sembrano promettenti. E 28 M A T O L O G I A TRAPIANTO DI MIDOLLO OSSEO ALLOGENICO DA DONATORE NON CORRELATO 3.1 BANCHE DEI DONATORI VOLONTARI DI MIDOLLO OSSEO Come già detto il TMO allogenico è una procedura ormai consolidata nel trattamento di numerose emopatie, tuttavia solo il 30% dei pazienti, eleggibili per età o malattia di base possono usufruire di un donatore HLA compatibile nell’ambito della fratria. Tale probabilità si accresce del 10% se si considera la possibilità di individuare un familiare con fenotipo HLA diverso solo per un locus. Di fatto, a circa il 60-70% dei pazienti eleggibili rimarrebbe preclusa la possibilità di usufruire delle procedure trapiantologiche. Le conoscenze sempre più approfondite del sistema HLA e l’estensione degli studi HLA alla genetica delle popolazioni hanno permesso di stabilire la possibilità di esistenza, per ogni singolo individuo, nell’ambito della popolazione mondiale, di uno o più soggetti fenotipicamente HLA compatibili. Tale acquisizione ha costituito il presupposto per la creazione dei Registri Internazionali e Nazionali di donatori volontari di midollo osseo. Il Bone Marrow Donor Worldwide (BMDW) costituito a Leiden sotto la presidenza del Prof. J. van Rood, raccoglie le tipizzazioni HLA provenienti da tutti i Registri Nazionali, a ognuno dei quali vengono ritrasmesse con aggiornamenti periodici. Un limite fondamentale di questi registri è che la frequenza HLA riflette in larga maggioranza quella propria della razza caucasica proveniente da una fascia sociale medio alta. Pertanto le minoranze etniche, le individualità emergenti nelle società multirazziali sempre più diffuse e la grande quota degli appartenenti ai Paesi a economia non avanzata sono scarsamente o affatto rappresentate nei registri. Il criterio etnico comunque non è la sola variabile che influenza la probabilità di trovare un donatore compatibile nell’ambito dei Registri Internazionali. I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 29 3 Ulteriori fattori sono rappresentati da: 1. dimensione del pool dei donatori 2. frequenza aplotipica HLA del paziente nell’ambito del pool dei donatori 3. diagnosi e condizione clinica del paziente. A seconda delle diverse esperienze, il tempo medio per identificare un donatore dall’inizio della ricerca è di 4-6 mesi; pertanto la possibilità di reperibilità dipende in larga misura dalla spettanza di vita del paziente, essendo la ricerca spesso interrotta per decesso o per aggravamento delle condizioni cliniche generali del ricevente. Inoltre, la ricerca ha costi elevati ed è esposta al rischio di rinuncia finale, volontaria o forzata del donatore. L’espansione del pool dei donatori è fondamentale per cercare di rispondere alle esigenze di reperibilità di un donatore per i pazienti con aplotipo più raro, anche se è stato calcolato che oltre un certo numero di donatori la probabilità di individuare soggetti HLA identici raggiunge un plateau (Figura 2). È da aggiungere inoltre che i dati disponibili fanno riferimento alla sola tipizzazione sierologica del sistema HLA e sono basati su un numero di alleli HLA così come definiti alla data dell’analisi. Entrambi questi fattori sono soggetti a modificazioni sia per l’introduzione di metodi di tipizzazione più approfonditi, in particolare quelli forniti dalla biologia molecolare, sia per il progressivo incremento del numero di alleli definiti. Attualmente comunque la possibilità di individuare un donatore Figura 2 • Probabilità di individuare soggetti HLA identici da un registro di donatori di midollo osseo 100 80 HLA 5/6 % 60 HLA 6/6 40 20 0 1x10 3 1x10 4 1x10 5 1x10 6 3x10 6 N° donatori Da: Sonnenberg, Blood 1989. E 30 M A T O L O G I A 1x10 7 1x10 8 compatibile, contando i registri oltre 4 000 000 di donatori, è del 40%. Fino a oggi si calcola che siano stati effettuati più di 5 000 trapianti da MUD per malattie ematologiche grazie a donatori reperiti attraverso il network mondiale dei registri. 3.2 RISULTATI Si calcola che globalmente la probabilità di ottenere l’attecchimento in un trapianto MUD sia dell’ordine dell’80-98% a seconda delle diverse casistiche con una mediana di 22 giorni per PMN >500/mm 3 (70, 71). Studi recenti hanno evidenziato che un più alto numero di cellule infuse si correla con una riduzione della graft failure e con un accorciamento dei tempi di attecchimento (72, 73). L’impiego dei fattori di crescita non migliora l’andamento clinico dei pazienti e non riduce le percentuali di mancato attecchimento, ma sembra agire solamente sulla velocità di risalita dei PMN. Fattori che influenzano l’attecchimento sono inoltre la deplezione T cellulare del midollo (20% di insuccessi), il livello di compatibilità HLA, l’intensità del regime di condizionamento e l’immunosoppressione post-trapianto (74-77). La GVHD acuta rappresenta la maggior causa di insuccesso posttrapianto MUD. La sua incidenza e gravità incrementano in base al grado di incompatibilità HLA (78). I due principali approcci per ridurre la GVHD acuta sono la T deplezione del midollo e la terapia immunosoppressiva post-trapianto. Tuttavia, la T deplezione riduce la GVHD senza migliorare la sopravvivenza, perché incrementa il rischio di rigetto e la recidiva. Sono in corso studi volti a individuare rimozioni selettive o parziali delle cellule T. Sebbene la somministrazione del MTX con la CSA per la profilassi della GVHD nei trapianti da donatore familiare abbia mostrato una maggiore efficacia rispetto alle singole sostanze, tale combinazione nei trapianti MUD previene la GVHD acuta in meno del 25% dei casi e la sua efficacia è ancora più bassa se valutata nei trapianti incompatibili per un locus. Globalmente l’incidenza della GVHD acuta è del 79% nei pazienti che hanno ricevuto MTX+CSA con donatore HLA identico non correlato rispetto al 35% del donatore consanguineo (79). Sembra tuttavia che in individui con meno di 36 anni, con donatore compatibile non correlato, l’incidenza della GVHD sia più bassa rispetto a donatori familiari incompatibili per un locus (71). Inoltre l’incidenza della GVHD aumenta nel caso che il donatore sia donna con gravidanze precedenti rispetto alle nullipare o a donatori maschi. L’incidenza della GVHD cronica risulta significativamente più bassa nei I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 31 3 pazienti che hanno ricevuto midollo T depleto (70). Tra i pazienti trapiantati con midollo non manipolato e che hanno ricevuto profilassi della GVHD con MTX e CSA, la GVHD cronica è di grado esteso nel 77% dei casi, subclinica nell’8%, e solo il 15% dei pazienti non presenta GVHD cronica. Globalmente il 25-30% dei pazienti muore per complicanze da GVHD cronica estesa durante la terapia immunosoppressiva (78). In un’analisi multivariata volta a definire i fattori di rischio associati con una migliore sopravvivenza in 267 pazienti affetti da emopatia maligna sottoposti a TMO da donatore non familiare correlavano con una minore sopravvivenza i seguenti fattori: diagnosi diversa da LMC, stadio avanzato di malattia, età >20 anni, sierologia pre-trapianto positiva per CMV, irregolare somministrazione della terapia impiegata per la profilassi della GVHD (78). In una recente analisi condotta su 333 pazienti affetti da LMC, trapiantati da donatore non compatibile dal Maggio 1985 al Dicembre 1994 dal gruppo di Seattle, la probabilità di sopravvivenza a 3 anni è stata del 59%, 39%, 32% e 7% rispettivamente per i pazienti trapiantati in I FC, FA, II FC e crisi blastica (CB) (80). Sempre il gruppo di Seattle (73) ha condotto un’analisi su 174 pazienti affetti da leucemia acuta linfoide e mieloide ad alto rischio: la DFS a 3 anni è stata del 37% per i pazienti trapiantati in II RC, rispetto al 13% per i pazienti trapiantati in fase più avanzata di malattia. La sopravvivenza globale risulta ridotta nei pazienti resistenti o in recidiva di malattia al trapianto; con blasti nel sangue periferico o più del 30% di blasti nel midollo. Inoltre, dall’analisi multivariata è risultato che un numero di cellule infuse >3.65x10 8 cellule/Kg del ricevente correla con una migliore sopravvivenza. Recentemente è stata pubblicata una casistica relativa a 57 pazienti affetti da MDS trapiantati a Seattle dall’Ottobre 1987 al Luglio 1995 (76); per questo gruppo di pazienti la probabilità di DFS a 2 anni è stata del 38%. 3.3 INDICAZIONI Le indicazioni a un trapianto da MUD dipendono dalla patologia di base, dall’età e ovviamente dall’urgenza clinica del paziente. Secondo il GITMO (Gruppo Italiano per il Trapianto di Midollo Osseo) esse sono: a. indicazioni di tipo sperimentale, accettabili sulla base dei dati e dei protocolli pubblicati, che siano già state sottoposte e approvate dalla Commissione GITMO (ad esempio la talassemia major) E 32 M A T O L O G I A b. patologie per le quali è già codificato il trapianto da donatore non consanguineo: • aplasia midollare grave dopo 6 mesi di terapia inefficace con SAL o CSA in pazienti al di sotto dei 20 anni • anemia di Fanconi in pazienti al di sotto dei 20 anni • LLA in II RC in pazienti al di sotto dei 40 anni • LMA in II RC in pazienti al di sotto dei 40 anni • LMC in I FC in pazienti con età inferiore a 45 anni non rispondenti all’IFN • MDS ad alto rischio in pazienti al di sotto dei 45 anni. Ogni indicazione in deroga a questi criteri deve essere preventivamente sottoposta alla Commissione GITMO-MUD prima di procedere a un trapianto allogenico da donatore non compatibile. I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 33 3 TRAPIANTO DI CELLULE STAMINALI ALLOGENICHE DA SANGUE PERIFERICO Negli ultimi due anni si è assistito a un progressivo incremento nell’impiego delle cellule staminali allogeniche ottenute da sangue periferico per il trapianto di pazienti affetti da patologie ematologiche. I presupposti per la diffusione di tale procedura sono stati i seguenti: 1. comparsa di una ricostituzione emopoietica completa e permanente con chimerismo completo del donatore in esperienze precliniche su animali 2. possibilità di aumentare considerevolmente il numero di cellule staminali circolanti per mezzo di citochine 3. buona tollerabilità da parte del donatore del G-CSF impiegato quale citochina per la mobilizzazione delle cellule staminali 4. vantaggi per il donatore al quale vengono evitati i rischi e i disagi legati all’anestesia, all’ospedalizzazione, all’autotrasfusione, al dolore nella sede del prelievo e, in alcuni casi, la difficoltà nella deambulazione che può durare da qualche giorno fino, sia pure molto raramente, a qualche mese 5. una più rapida risalita dei neutrofili e delle piastrine 6. l’assenza di un aumentato rischio di GVHD acuta nonostante il numero di linfociti T nel sangue periferico sia da 7 a 10 volte maggiore rispetto al midollo osseo 7. il numero maggiore dei linfociti T e delle cellule NK presenti nell’inoculo, che potrebbe incrementare l’effetto GVL, anche se non vi sono ancora dati sufficienti al riguardo. 4.1 PRELIEVO Attualmente la citochina più largamente impiegata per ottenere la mobilizzazione di cellule staminali nel donatore di cellule staminali allogeniche da sangue periferico (PBSC) è il G-CSF. In uno studio condotto da Korbling e coll. (81), in 41 donatori sottoposti a trattamento con G-CSF alla dose di 12 mg/Kg per 3 giorni, la concentrazione di globuli I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 35 4 rossi, PMN e linfociti è incrementata, rispetto al valore di base, di 6.4, 8.0 e 2.2 volte rispettivamente. Inoltre, cellule CD34 + e sottotipi più immaturi quali le cellule CD34 + Thy-1 dim e CD34 + Thy-1 dim CD38 – incrementano di 16.3, 24.2 e 23.2 volte rispettivamente evidenziando una mobilizzazione selettiva da parte del G-CSF dei progenitori emopoietici e in particolare dei sottotipi più primitivi di cellule staminali. Il granulocyte-macrophage colony stimulating factor (GM-CSF) sembra essere meno efficace in termini di mobilizzazione delle cellule staminali anche se i dati sono ancora scarsi. La combinazione delle due citochine non sembra migliorare il livello di mobilizzazione rispetto all’impiego del G-CSF da solo e limitate sono le esperienze con le altre citochine. Dati recentemente pubblicati sulla tollerabilità del G-CSF hanno messo in evidenza la comparsa di dolori ossei, cefalea, astenia e nausea. Tali effetti collaterali sono risultati dose dipendente e possono risolversi entro pochi giorni dalla sospensione del farmaco; in ogni caso sono ben controllati dall’impiego di analgesici. Gravi effetti collaterali tali da determinare la sospensione del farmaco sono rari. In alcuni casi il GCSF può indurre incremento dei valori della fosfatasi alcalina (anche di due-tre volte), della lattico-deidrogenasi (LDH) o più raramente un decremento del potassio e del magnesio sierico. Solitamente la citochina viene impiegata alla dose di almeno 10 mg/Kg del donatore e somministrata per via sottocutanea per i 4-5 giorni consecutivi che precedono l’inizio delle leucoaferesi. Infatti, sembra che il giorno migliore per la raccolta delle cellule staminali dopo una somministrazione giornaliera di 10 mg/Kg di G-CSF sia il 4° o il 5°; continuando a somministrare ulteriormente il fattore di crescita, si osserva una progressiva riduzione nella mobilizzazione dei progenitori CD34 + . Naturalmente, è fondamentale poter disporre di un buon accesso venoso per poter procedere alla leucoaferesi ed è da evitare, a eccezione di casi particolari, un accesso venoso centrale. Le PBSC sono raccolte mediante sedute singole o multiple di leucoaferesi effettuate mediante separatori cellulari a flusso continuo. Il volume di sangue totale processato per ogni seduta è solitamente due-tre volte il volume ematico del donatore; il numero di cellule mononucleate (MNC) raccolto varia da 3 a 5x10 8 /Kg. L’obiettivo, per ottenere un adeguato attecchimento, è raggiungere un totale di cellule CD34+ >3-4 x10 6 /Kg del ricevente. Questo obiettivo si raggiunge con una sola leucoaferesi nell’80% dei donatori e con due leucoaferesi nel rimanente 20%. La concentrazione di cellule CD34 + nel sangue periferico del donatore può essere predittiva della quantità di cellule staminali presenti nell’aferesi. All’analisi multivariata, tra i fattori che possono influenzare la resa nella produzione di cellule staminali da donatore sano (82), sembra che l’età del donatore >55 anni correli con una ridotta mobilizzazione di CD34 + . A volte nel donatore si può assistere a una riduzione del numero delle E 36 M A T O L O G I A piastrine con normalizzazione dei valori durante la successiva settimana; tuttavia, questo inconveniente si può evitare reinfondendo, alla fine dell’aferesi, plasma autologo con piastrine. Alterazioni nei livelli di magnesio o potassio vengono corrette con una adeguata integrazione di elettroliti. 4.2 RISULTATI In una recente analisi condotta da Przepiorka e coll. (83), sono state analizzate tre coorti di pazienti (TMO + MTX-CSA, TMO + CSA-PDN, trapianto da PBSC + CSA-PDN) al fine di valutare la mortalità e la morbilità correlata al trapianto da PBSC rispetto al TMO. La tossicità legata al regime di condizionamento (in particolare la mucosite) è stata meno grave nei pazienti trapiantati con PBSC. Anche la degenza ospedaliera in questo gruppo di pazienti è stata più breve di circa 4 giorni rispetto al trapianto da midollo. La sopravvivenza calcolata a sei mesi è stata più alta nel gruppo PBSC. Tali dati sono stati confermati da Azvedo e coll. (84) e da Russell e coll. (85) che hanno rilevato anche un ridotto numero di giorni di terapia antibiotica e antifungina e un ridotto numero di trasfusioni di piastrine nei pazienti trapiantati con PBSC. Nonostante il numero di linfociti T e cellule NK sia superiore nelle PBSC rispetto al midollo osseo, numerosi studi non hanno osservato un aumento nell’incidenza della GVHD acuta rispetto al trapianto midollare. Sono ancora preliminari i dati relativi all’incidenza della GVHD cronica, tuttavia in uno studio condotto da Anderlini e coll. (86) sembra che l’incidenza della GVHD cronica sia maggiore nel trapianto da PBSC rispetto al gruppo dei pazienti sottoposti a TMO. Tuttavia, tale incremento non si traduce in un incremento di mortalità grazie a una più bassa incidenza di recidiva; se ciò si può correlare a un effetto GVL potenziato è ancora da definire. In uno studio condotto da Bacigalupo e coll. (87), relativamente alla ricostituzione ematologica dopo trapianto da PBSC, la ripresa delle cellule CD3 + è paragonabile a quella del TMO, d’altro canto, la ripresa delle cellule CD4 + e CD8 + sembra più veloce nel trapianto da PBSC; questo può tradursi in una ricostituzione immunologica più rapida con conseguente riduzione della mortalità e morbilità dovuta alle infezioni. I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 37 4 TRAPIANTO DI CELLULE STAMINALI EMOPOIETICHE DA SANGUE DI CORDONE OMBELICALE Risale al 1974 la prima dimostrazione della presenza nel SCO di CSE (88) il cui potenziale uso a fini trapiantologici è stato successivamente precisato da numerosi studi, in particolare dal gruppo della Indiana University (89) e confermato definitivamente nel 1989 dal primo trapianto di SCO eseguito con successo in un paziente effetto da anemia di Fanconi (10). 5.1 CARATTERISTICHE BIOLOGICHE DELLA CELLULA STAMINALE EMOPOIETICA DA SANGUE DI CORDONE OMBELICALE Secondo un ordine ontogenetico, la CSE origina primariamente nel sacco vitellino, per migrare successivamente nel fegato fetale e quindi nel midollo osseo, che ne costituisce dopo la nascita la fonte principale. La generale immaturità tessutale alla nascita e la particolarità anatomo-funzionale del circolo materno-fetale contribuiscono a conferire caratteristiche specifiche alla componente cellulare del sangue placentare sia sotto il profilo emopoietico che immunologico. 5.2 CARATTERISTICHE EMOPOIETICHE Sulla base di numerosi dati sperimentali, la CSE del SCO risulta fenotipicamente diversa, funzionalmente più immatura e dotata di potenziale proliferativo maggiore rispetto a quella del midollo osseo o del sangue periferico. L’entrata in ciclo delle cellule cordonali CD34+ per stimolazione con lo stem cell factor avviene più rapidamente rispetto alle cellule midollari, I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 39 5 mentre la crescita cellulare in vitro sembra essere indipendente dall’aggiunta dei fattori di crescita prodotti per via autocrina o paracrina. Queste specificità ematopoietiche conferiscono alla CSE del cordone ombelicale proprietà peculiari che la rendono particolarmente indicata per la manipolazione in vitro sia ai fini della terapia genica (già praticata in bambini affetti da deficienza di adenosindeaminasi) sia ai fini dell’espansione del pool delle cellule staminali per un loro impiego nel trapianto dei pazienti adulti (9). 5.3 CARATTERISTICHE IMMUNOLOGICHE Rispetto al sangue periferico, il SCO contiene linfociti in numero assoluto più elevato, rappresentati, nell’ambito della sottopopolazione T, da cellule più immature e fenotipicamente distinte, a elevata attività soppressoria, scarsamente alloreattive, capaci comunque di esprimere intensa citotossicità di tipo NK e LAK dopo stimolazione con IL-2. Inoltre, sono state riconosciute funzionalmente immature le cellule dendritiche del SCO, accessorie della risposta T cellulare. Questi dati di laboratorio supportano sul piano biologico l’osservazione clinica di un aumentato rischio per l’attecchimento e di una ridotta incidenza e gravità della GVHD nei trapianti di SCO. Tuttavia, solo un numero più elevato di pazienti trapiantati e un più lungo follow-up potranno rispondere al quesito se a una diminuzione della GVHD corrisponderà o meno una riduzione dell’effetto GVL da parte delle cellule cordonali. Gli studi in vitro sembrerebbero tuttavia evidenziare il mantenimento dell’attività citotossica anti-leucemica (9). 5.4 TECNICA DEL PRELIEVO Il sangue contenuto nel cordone ombelicale e nella placenta può essere facilmente prelevato dopo l’espletamento del parto sia spontaneo che cesareo. Per il recupero di maggiori quantità di sangue, sono stati adottati vari metodi di raccolta: sistemi aperti o chiusi, impiegati prima o dopo l’espulsione della placenta con o senza l’ausilio di una soluzione di lavaggio anticoagulante. Attualmente si ritiene che un sistema chiuso sia da preferire poiché si associa a una minore incidenza di contaminazione. Fondamentale ai fini del prelievo è la rapidità del clampaggio del funicolo dopo la nascita del neonato, viene quindi incannulata la vena ombelicale e il sangue viene fatto defluire attraverso il sistema chiuso. Il momento migliore per il prelievo, nel parto spontaneo, sembra essere prima del secondamento in quanto le contrazioni E 40 M A T O L O G I A uterine a placenta in situ permettono un più efficace svuotamento e quindi il recupero di un maggior volume di sangue (Figura 3). Figura 3 • Prelievo di CSE da sangue di cordone ombelicale In Tabella 8 sono elencati i criteri di esclusione per la raccolta. Criteri di esclusione per la raccolta Tabella 8 • Età gestazionale < 35 settimane • Rottura delle membrane > 12 ore • Patologie della gravidanza e/o distociche • Sofferenza fetale e/o malformazioni fetali • Malattie familiari genetiche • Malattie trasmissibili per via ematogena • Assenza di consenso informato Successivamente vengono effettuati studi infettivologici sul siero materno (HBsAg, anti-HCV, anti-HIV 1-2, anti-CMV, TPHA) e un test I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 41 5 di sterilità sul SCO. Su ogni unità SCO viene eseguito lo studio dell’HLA, del gruppo sanguigno e della composizione cellulare. L’unità di SCO viene quindi congelata e resa disponibile solo dopo che a 6 mesi di distanza sia stata confermata la negatività del test per l’HIV in un nuovo campione di siero materno. 5.5 RISULTATI CLINICI ■ TRAPIANTO DI SCO DA DONATORE CORRELATO In un’analisi condotta da Wagner e coll. nel 1995 (11) relativa all’esperienza generale su 44 bambini riceventi trapianto SCO, per malattia neoplastica o non neoplastica, da fratello HLA identico o incompatibile per uno o più loci, la probabilità di sopravvivenza globale a 1.6 anni è risultata essere del 72%. L’attecchimento è stato ottenuto nell’86% dei casi con un tempo mediano di recupero in PMN (>500/mm3 ) e piastrine (>50 000/mm 3 ) rispettivamente di 22 e 49 giorni, mentre l’incidenza della GVHD acuta di grado > I è stata pari al 3% dei casi. Il numero limitato dei pazienti, l’eterogeneità delle patologie di base e dei regimi di condizionamento pre-trapianto conferiscono all’analisi i limiti propri di uno studio retrospettivo e multicentrico. Tuttavia alcuni risultati appaiono indicativi: 1. il mancato attecchimento è stato osservato esclusivamente nei pazienti con malattia non neoplastica o riceventi SCO HLA incompatibile per 2-3 loci 2. nessuna correlazione è stata osservata tra capacità e rapidità di attecchimento, impiego terapeutico dei fattori di crescita emopoietici e dose cellulare sia in termini di cellule nucleate infuse che di CFU-GM 3. l’incidenza della GVHD acuta e cronica, pur considerando l’età pediatrica della casistica, appare particolarmente limitata. Recentemente Gluckman e coll. (14) hanno presentato i dati dell’esperienza europea relativa a 143 pazienti trapiantati con SCO dal 1988 al 1996 in 45 Centri Trapianto. Nei 78 pazienti sottoposti a trapianto di SCO da donatore correlato, l’età mediana era di 5 anni (0.2-20) il peso di 19 Kg (5-50); 46 pazienti erano affetti da malattie neoplastiche (44 ematologiche, 2 neuroblastomi), 17 da sindromi da insufficienza midollare, 8 da emoglobinopatie, 7 da errori congeniti del metabolismo. La probabilità di sopravvivenza è stata del 63% a un anno. Fattori prognostici favorevoli per la sopravvivenza sono risultati l’età più giovane del paziente, il più basso peso corporeo, il grado di compatibilità HLA e la sieronegatività per CMV. L’incidenza della GVHD di grado ³ II è E 42 M A T O L O G I A stata del 9% nei 60 pazienti riceventi SCO HLA identico e del 50% in 18 pazienti sottoposti a trapianto di SCO HLA non compatibile. In questa casistica una correlazione è stata trovata tra attecchimento, età, peso corporeo e numero di cellule nucleate infuse/Kg del ricevente. ■ TRAPIANTO SCO DA DONATORE NON CORRELATO Se i risultati clinici del trapianto SCO da donatore correlato sono da considerarsi ancora preliminari, ancora più lo sono i dati relativi ai trapianti da donatore non correlato. Wagner e coll. (13) hanno riportato i dati relativi a 18 pazienti con età mediana di 2.7 anni (0.1-21.3) e peso di 15 Kg (3-78) riceventi SCO proveniente da donatore non correlato. Dei 18 pazienti, 13 erano affetti da una patologia oncoematologica e 5 da malattia non neoplastica. I gradi di compatibilità HLA erano di 6/6 loci in 7 pazienti, 3-5/6 loci nei rimanenti 11. Tutti i pazienti esaminati hanno presentato attecchimento per neutrofili con un tempo mediano di 24 giorni (16-53), mentre molto più tardivo è stato l’attecchimento per le piastrine (>50 000/mm 3 ) osservato dopo una mediana di 67 giorni (55-120). La probabilità di sviluppare GVHD di grado III-IV è stata dell’11%. Con una mediana di follow-up di 6 mesi la probabilità di sopravvivenza è stata del 65%. In questa casistica non è stata trovata nessuna correlazione tra il numero di cellule nucleate infuse/Kg del ricevente e attecchimento. Un’altra importante casistica relativa all’esperienza della Duke University di Kurtzenberg e coll. (12) comprende 25 pazienti con un’età mediana di 7 anni (0.8-23.5); peso corporeo mediano 19.4 Kg (7.5-79), trapiantati per patologie neoplastiche e non neoplastiche. Impiegando metodiche di tipizzazione molecolare ad alta risoluzione, in 9 pazienti vi era un’incompatibilità per un solo locus con l’unità cordonale, mentre in 15 casi l’incompatibilità era relativa a 2-3 loci HLA. Il mancato attecchimento o rigetto è stato osservato in circa il 10% dei casi, mentre la GVHD acuta di grado I-II è stata osservata nel 50% dei pazienti. Un solo paziente ha presentato GVHD acuta di grado >II. Considerata la fase avanzata di malattia, solo 7 pazienti risultavano sopravviventi tra 1 e 24 mesi post-trapianto. Nell’esperienza europea riportata da Glukman e coll. (14), 65 pazienti hanno ricevuto trapianto di SCO da donatore non correlato. L’età mediana era di 9 anni (0.3-45), peso mediano 30 Kg (4-90). Una patologia oncoematologica era presente in 49 pazienti, 9 avevano un’insufficienza midollare e 7 erano affetti da errori congeniti del metabolismo. L’attecchimento in termini di PMN >500/mm 3 è stato globalmente dell’87% e del 94% per i pazienti che hanno ricevuto un numero di cellule nucleate >3.7x10 7 /Kg. La GVHD acuta di grado >II è stata osservata in 21 dei 65 pazienti. Globalmente la sopravvivenza a un anno è stata del 29%. Fattori prognostici favorevoli correlati alla sopravvivenza sono I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 43 5 risultati la sierologia negativa per CMV del ricevente, fattore quest’ultimo correlato anche con una ridotta incidenza della GVHD acuta, e la fase favorevole di malattia al momento del trapianto. 5.6 BANCHE DI SANGUE DI CORDONE OMBELICALE Sebbene preliminari, i risultati clinici delle esperienze precedentemente riportate sembrano promettenti e indicano alcuni sostanziali vantaggi offerti dall’impiego del SCO nel trapianto allogenico da donatore non correlato. Per tale motivo in numerosi Centri sia americani che europei sono state costituite o stanno per essere attivate banche di SCO complementari e per alcuni versi alternative ai Registri Internazionali di midollo. Infatti, come abbiamo già precedentemente detto, nonostante la grande espansione del numero dei donatori volontari di midollo osseo, solo il 40% dei pazienti privi di donatore HLA identico ha la possibilità di reperire un donatore HLA compatibile nell’ambito dei registri. Inoltre il tempo mediano di 4-6 mesi per l’identificazione del donatore, può essere eccessivo rispetto alle esigenze cliniche del paziente. Bisogna anche tener presente che i donatori volontari possono essere portatori di infezioni latenti o croniche, in particolare di natura virale e che la ricerca ha costi elevati ed è esposta al rischio di rinuncia finale alla donazione che è stata calcolata nell’ordine dell’1% al mese. Infine, le frequenze HLA dei registri riflettono in larga maggioranza quelle proprie della razza caucasica provenienti da una popolazione di fascia sociale medio-alta; le minoranze etniche sono scarsamente rappresentate nell’ambito dei registri. Il SCO costituisce una fonte illimitata di rifornimento, la raccolta è tecnicamente semplice e non comporta alcun rischio né per la madre né per il bambino. Una Banca di SCO è programmabile sulla base delle frequenze HLA della popolazione e le unità, una volta raggiunta la copertura della domanda corrente, possono essere selezionate concentrandone la raccolta su gruppi HLA più rari. La completa tipizzazione HLA, l’immediata disponibilità alla richiesta, l’assenza del rischio di rinuncia finale alla donazione e la facile trasportabilità si traducono in un drastico accorciamento degli intervalli di tempo tra l’inizio della ricerca e il trapianto. Sul piano infettivo il SCO è generalmente esente da contaminazioni batteriche o virali trasmissibili. Tuttavia vanno considerati anche i limiti delle banche di SCO: necessità di coordinamento operativo tra competenze diverse (ostetrico-ginecologiche, pediatriche, ematologico-trasfusionali); necessità di reperire ampi spazi per lo stoccaggio dei campioni; reperibilità della madre e del bambino per il controllo infettivologico e clinico a distanza di almeno 6 mesi dalla donazione del cordone; rischio di mantenimento indefinito di E 44 M A T O L O G I A unità non utilizzabili. La creazione di banche parallele di DNA, cellule, siero e plasma per ogni singola unità criopreservata costituisce una parte integrante del progetto di creazione di una banca di SCO. Attualmente banche di SCO sono presenti negli Stati Uniti, in particolare presso il New York Blood Center e in Paesi europei quali Germania, Belgio, Gran Bretagna e Francia. In Italia è particolarmente attiva la banca di Milano ma anche altre banche sono state istituite a Torino, Firenze e Roma. Un lavoro di coordinamento è in atto al fine di standardizzare le procedure di raccolta, manipolazione e criopreservazione, incrementando così il livello di qualità delle singole banche. 5.7 INDICAZIONI Si possono considerare eleggibili per un trapianto di cellule cordonali da donatore non correlato i pazienti di età ²45 anni privi di donatore familiare compatibile per almeno 5/6 loci HLA o di donatore di midollo HLA identico nell’ambito dei Registri Internazionali. Le patologie per le quali il trapianto SCO è una possibile indicazione terapeutica sono le seguenti: • leucemia linfoblastica acuta in II o III RC (in seconda remissione si possono considerare eleggibili pazienti recidivati precocemente) • leucemia mieloide acuta in I RC ad alto rischio di recidiva • leucemia mieloide acuta in II RC • leucemia acuta promielocitica in II RC o I RC ematologica con persistenza di malattia molecolare • mielodiplasia ad alto rischio • leucemia mieloide cronica in FC, senza risposta citogenetica alla terapia con IFN, dopo almeno 6 mesi di ricerca nei Registri Internazionali di donatori di midollo o LMC in FA • anemia di Fanconi • anemia aplastica acquisita non rispondente alla terapia immunosoppressiva dopo almeno 2 cicli di terapia e un precario compenso clinico • errori congeniti del sistema immunitario che rendono urgente e indifferibile l’esecuzione del trapianto. Sono fondamentali per un trapianto con SCO la presenza dei seguenti parametri nell’unità di sangue placentare: 1. compatibilità di almeno 4/6 loci HLA dopo tipizzazione DRB1 ad alta risoluzione; 2. numero di cellule contenute nell’unità cordonale prima della criopreservazione >10x10 6 /Kg di peso corporeo del ricevente. I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 45 5 Inoltre, tutti i pazienti devono avere un’unità criopreservata di midollo osseo o sangue periferico autologo contenente un numero di cellule CD34 + ³ 2x10 6 /kg. In generale, per quel che riguarda l’alternativa tra l’uso di cellule staminali da SCO o da midollo osseo da donatore non correlato, è opportuno sottolineare che a favore del primo vi è l’osservazione che i dati attualmente disponibili (seppure su casistiche limitate) indicano che esiste una riduzione del rischio di sviluppare una GVHD acuta di grado elevato, mentre a favore del TMO esiste ormai una casistica consolidata dal punto di vista numerico sui risultati ottenuti. La decisione di usare ai fini trapiantologici l’una o l’altra fonte di cellule staminali dovrebbe essere adottata da ogni singolo Centro tenendo conto del grado di compatibilità tra donatore o ricevente, del numero di cellule dell’unità placentare disponibile, del rischio di complicanze immunomediate (GVHD) dei due differenti tipi di trapianto e del tempo che mediamente intercorre dall’inizio della ricerca all’esecuzione del trapianto in funzione della patologia. È infatti chiaro che per pazienti affetti da leucemia acuta o da malattie in equilibrio ematologico precario il tempo a disposizione per poter eseguire un trapianto in condizioni favorevoli è relativamente breve. E 46 M A T O L O G I A LE COMPLICANZE POST-TRAPIANTO 6.1 6 COMPLICANZE PRECOCI Si definiscono complicanze precoci quelle che intervengono nei primi 100 giorni post-trapianto; vengono definite tardive quelle che si manifestano successivamente. ■ COMPLICANZE INFETTIVE La neutropenia e il danno alla barriera mucosa indotto dalla chemioradioterapia di condizionamento rappresentano fattori di rischio che predispongono il paziente alle infezioni. La durata della neutropenia è variabile e dipende dal tipo di trapianto, dal numero di cellule infuse, dalla profilassi della GVHD, dall’uso di citochine; tuttavia mediamente è dell’ordine di 2-3 settimane. Il danno alle mucose dipende solitamente dal tipo di regime di condizionamento: farmaci quali il BUS, l’etoposide, il melphalan, la citarabina e la TBI si associano a un danno maggiore. Questo danno è presente non solo a carico del cavo orale, ma anche a livello del tratto gastrointestinale e l’impiego del MTX per la profilassi della GVHD peggiora il danno alle mucose. Alla citopenia e al danno alle mucose vanno aggiunti quali fattori di rischio per le complicanze infettive l’impiego del CVC, la nutrizione parenterale e anche le alterazioni dell’integrità della cute dovute ai ripetuti prelievi del sangue, agli aspirati midollari e alle biopsie ossee e cutanee. Inoltre, alla comparsa delle complicanze infettive contribuiscono anche il periodo di profonda immunosoppressione cui il paziente va incontro. La durata e la gravità di questo periodo dipendono dal tipo di trapianto, dal grado di incompatibilità donatore-ricevente, dalla T deplezione, dal tipo e dalla durata della profilassi per la GVHD, dalla presenza di infezione da CMV e di GVHD. Naturalmente, con il tempo c’è un recupero dell’immunità cellulare e umorale che verosimilmente è più rapido dopo un trapianto da donatore familiare compatibile che in altre condizioni trapiantologiche. Tuttavia, in presenza di GVHD cronica lo stato immunodepressivo può persistere per mesi o anche per anni; solitamente in condizioni ottimali il tempo di recupero immunologico è di circa un anno. In funzione della sequenza di eventi legati a tali fattori di rischio si distinguono diversi periodi di comparsa di complicanze infettive nel paziente trapiantato. I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 47 Entro le prime tre settimane dal trapianto sono frequenti le infezioni batteriche e fungine (neutropenia + lesioni mucose). Le infezioni da virus erpetico si sviluppano solitamente entro il primo mese (riattivazione del virus latente). Entro i primi tre mesi si osservano il maggior numero di infezioni da CMV. Le infezioni da Aspergillo, toxoplasma e P. carinii si osservano nei primi 6 mesi da trapianto o anche successivamente se insorge GVHD cronica e persiste il trattamento immunosoppressivo. Di più raro riscontro sono le infezioni da adenovirus, rotavirus e da EBV. Il terzo periodo di rischio infettivo fa seguito al terzo mese dal trapianto in corrispondenza della GVHD cronica. In tale periodo si osservano soprattutto infezioni respiratorie: Haemophilus influenzae, Streptococcus pneumoniae, germi capsulati, queste ultime soprattutto in assenza di profilassi con penicillina. Il paziente trapiantato, in questa fase tardiva, può andare incontro a infezioni batteriche, virali o fungine insorte ex novo o per riattivazione di infezioni pregresse. Frequenti le infezione causate dal virus della Varicella zoster a partire dal sesto mese (30% dei pazienti) (90-92). In Figura 4 sono riportate schematicamente le fasi infettive post-trapianto correlate ai fattori di rischio e ai periodi di rischio. Figura 4 • Fasi di rischio infettivo dopo trapianto di midollo osseo allogenico Polmonite Batterica Virus VHS Funghi Candida Batteri Gram + Gram – Fattori di rischio M A T O L O G VVZ Capsulati GVHD acuta + Rx Primo E ADENO Aspergillus giorni post TMO 0 48 CMV neutropenia Periodo di rischio Interstiziale non batterica 50 100 Secondo I A GVHD cronica mesi Terzo 12 ■ COMPLICANZE GASTROINTESTINALI Negli ultimi 20 anni l’incidenza delle complicanze gastrointestinali precoci post-trapianto è rimasta per lo più invariata, anche se è cambiata l’origine. Infatti, negli anni ‘70 le cause principali di queste complicanze erano la GVHD epatica e intestinale e le infezioni erpetiche; successivamente, con il miglioramento dei regimi di profilassi anti-GVHD e degli agenti antivirali le cause principali sono diventate quelle legate al regime di condizionamento. Recentemente, con l’incremento dei trapianti HLA incompatibili sta riemergendo, tra le complicanze gastrointestinali precoci, la GVHD intestinale. Di fatto, ancora negli anni ‘90 le complicanze epatiche e intestinali costituiscono una causa considerevole di morbilità post-trapianto. Gli effetti tossici legati al regime di condizionamento durante il periodo precoce post-trapianto sono rappresentati da nausea, vomito e anoressia. I meccanismi principali che li determinano sono l’effetto della chemioterapia sui centri del vomito, probabilmente gli elevati livelli di citochine e la presenza di mucosite. Sempre entro i primi 100 giorni, sembra che la GVHD acuta intervenga nel determinare perdita dell’appetito, nausea e vomito. In uno studio condotto da Weinstorf e coll. nel 1990 (93), il 60% dei pazienti con nausea e vomito erano positivi per GVHD a livello dello stomaco e del duodeno agli esami bioptici. Inoltre, possono contribuire all’insorgenza di queste complicanze precoci l’impiego degli antibiotici, della CSA, della nutrizione parenterale (lipidi e alti livelli di glucosio o aminoacidi) e le infezioni virali. Il regime di condizionamento, la GVHD, gli agenti infettivi, i farmaci impiegati nella profilassi della GVHD, possono favorire l’insorgenza di altre due complicanze precoci: la mucosite e la diarrea. Il regime di condizionamento pre-trapianto è inoltre responsabile della VOD, una grave complicanza a carico del fegato, dovuta a un danno che interessa la zona 3 dell’acino epatico e che si manifesta, a seconda delle diverse casistiche, dall’1 al 54% dei pazienti. Questa grande disparità nella percentuale di incidenza è dovuta sia alla tossicità dei diversi regimi di condizionamento, sia alla selezione dei pazienti e soprattutto ai criteri diagnostici impiegati per definire una VOD (94). Clinicamente è una sindrome caratterizzata da iperbilirubinemia, epatomegalia associata a sintomatologia dolorosa e ritenzione idrica: secondo i criteri utilizzati dal gruppo di Seattle, la diagnosi è definita dalla presenza di almeno due dei tre criteri elencati. Per il Centro di Baltimora una diagnosi di VOD richiede la presenza di iperbilirubinemia (>2.0 mg/dl) e di due dei seguenti segni, epatomegalia con dolore, ascite o incremento del peso corporeo >5%. La patogenesi della VOD è dovuta a un’obliterazione fibrotica delle venule epatiche terminali e delle vene sublobulari, dilatazione e fibrosi I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 49 6 dei sinusoidi centrolobulari e necrosi degli epatociti della zona 3. La sindrome si può manifestare precocemente, anche prima dell’infusione stessa del midollo; tuttavia, più frequentemente i segni di laboratorio si manifestano tra il 6° e 7° giorno post-trapianto con picco nei successivi 10 giorni nei pazienti che vanno incontro a guarigione, i valori della bilirubina tendono a normalizzarsi dopo ulteriori 10 giorni. La mortalità per VOD in base alle diverse casistiche varia dal 3 al 67% e la mortalità entro i primi 100 giorni dipende dalla gravità della sindrome: 9% nei pazienti con VOD di grado lieve, 23% per le forme moderate, 98% nei pazienti con VOD di grado grave. ■ COMPLICANZE POLMONARI La PI da CMV è una delle più temibili complicanze polmonari che si osservano precocemente nel periodo post-trapianto. Si caratterizza per un quadro di compromissione interstiziale evidente a livello radiologico con concomitante dimostrazione della presenza del virus nel liquido del broncolavaggio. Si manifesta, in genere, tra i 70 e i 100 giorni post-trapianto e si caratterizza per la presenza di febbre, tosse, tachipnea e occasionalmente dolore toracico. Prima dell’introduzione dei trattamenti preventivi, la probabilità di insorgenza era, in base alle diverse casistiche, del 15-30% con una mortalità dell’80% circa. Attualmente sia l’insorgenza che la mortalità della PI da CMV sono notevolmente ridotte. In caso di comparsa di una PI da CMV, il trattamento di elezione è l’impiego del gancyclovir in associazione alle immunoglobuline; nei casi di tossicità midollare o di resistenza al gancyclovir è indicato l’impiego del foscarnet, meno mielotossico, anche se responsabile di alterazioni renali dose dipendenti, comunque reversibili. Sebbene il CMV sia il principale responsabile della PI dopo trapianto, la PI può essere determinata anche da altri agenti infettivi o da cause sconosciute: in questo caso la polmonite viene definita idiopatica. I principali fattori di rischio per la polmonite idiopatica sono: • il regime di condizionamento • l’età del paziente • l’impiego della TBI • l’uso del MTX nella profilassi della GVHD • la GVHD. Nella polmonite idiopatica, i test di funzionalità polmonare evidenziano riduzione dei volumi polmonari e ipossiemia; estremamente elevata è la mortalità soprattutto per i pazienti che richiedono intubazione meccanica (90%). E 50 M A T O L O G I A ■ CISTITE EMORRAGICA La cistite emorragica rappresenta una grave complicanza precoce post-trapianto. Si manifesta a una mediana di circa 20 giorni e ha una incidenza di circa il 15-25%. I fattori di rischio che correlano con l’insorgenza della cistite emorragica sono la presenza a livello urinario di papovavirus (BK virus) e adenovirus e l’impiego della CTX nel regime di condizionamento pre-trapianto (95, 96). Comunemente, la profilassi per la cistite emorragica si avvale, durante il regime di condizionamento pre-trapianto, di regimi di iperdiuresi o di lavaggio vescicale continuo associato o meno al MESNA. 6.2 COMPLICANZE TARDIVE Si definiscono tardive quelle complicanze che intervengono dopo 100 giorni dal trapianto. Alcune di esse sono direttamente correlate al trapianto (effetti da GVHD cronica o immunodeficienza), altre sono dovute all’intensità del regime di condizionamento, molte hanno una patogenesi multifattoriale. ■ COMPLICANZE OCULARI Gli occhi possono essere sede di complicanze tardive post-trapianto per effetto della GVHD cronica, della terapia steroidea impiegata per il trattamento, per infezioni o per sequele dovute al regime di condizionamento, in particolare la TBI, più raramente i chemioterapici. È stata riferita un’incidenza di cataratta post-TBI pari, in alcune casistiche, al 75% a 5-6 anni post-trapianto dopo irradiazione singola; tale incidenza si riduce nel caso della TBI frazionata al 50% per dosaggi superiori a 1200 rad, fino a percentuali del 30-35% per dosi di 1200 rad o inferiori. L’incidenza post-chemioterapia è dell’ordine del 20%. La cataratta può cominciare a insorgere già dopo un anno dal trapianto. Un’altra complicanza oculare tardiva è la “sindrome degli occhi secchi” dovuta a una minore produzione di lacrime in seguito a radiazioni o a “sindrome SICCA” (tipo Sjögren) da GVHD cronica. Il danno determinato dalla GVHD cronica può inoltre causare sinechie, ectropion e anche perforazioni corneali, inoltre sono stati segnalati ostruzioni del dotto nasolacrimale. ■ COMPLICANZE OSSEE Frequentemente, dopo trapianto, è possibile osservare osteoporosi. Questa complicanza può essere dovuta alla menopausa precoce nelle donne, alla GVHD cronica o all’uso prolungato dei corticosteroidi. I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 51 6 Un’altra conseguenza della terapia corticosteroidea è la necrosi asettica della testa del femore che si manifesta nel 10% circa dei pazienti; può insorgere non solo dopo trattamenti prolungati, ma anche dopo cicli di terapia di breve durata ad alte dosi, come nel trattamento della GVHD acuta. ■ ACCRESCIMENTO L’accrescimento è un fenomeno determinato durante l’infanzia prevalentemente dallo stato nutrizionale, quindi dall’ormone della crescita (GH) e durante la pubertà dall’azione combinata dell’ormone della crescita e degli ormoni sessuali. Le radiazioni possono indurre un ritardo della crescita. Anche lo sviluppo della dentizione e dello scheletro facciale risultano alterati in bambini sottoposti a radioterapia prima dei 6 anni. L’irradiazione del SNC si associa infatti a una riduzione del GH in correlazione all’età del paziente, alla dose di radiazione e al tipo di frazionamento. Questo deficit si può osservare in particolare quando alla TBI è associata una radioterapia craniale prima del trapianto e può non svilupparsi nel caso della sola TBI. Sembra che il ritardo della crescita possa essere notevolmente contenuto con l’impiego della TBI frazionata rispetto alla dose unica. L’alterazione dell’accrescimento nei bambini con GVHD cronica può essere in parte attribuita all’impiego dei corticosteroidi o all’effetto catabolico della GVHD cronica. La somministrazione dell’ormone della crescita può migliorare la velocità dell’accrescimento e la sua secrezione può venire stimolata mediante somministrazione dell’ormone di rilascio del GH a indicare che dopo radioterapia l’ipotalamo può subire un danno superiore all’ipofisi stessa (39). ■ EFFETTI SULLA TIROIDE La chemioterapia convenzionale non determina solitamente danni alla tiroide, mentre la radioterapia pre-trapianto può determinare a carico della ghiandola problemi di ipotiroidismo. Dopo TBI il danno funzionale, anche se ben compensato, può intervenire dal 28 al 56% dei casi e successivamente convertirsi in ipotiroidismo clinico nel 9-13% dei pazienti sopravvissuti a lungo termine, anche se con minor frequenza dopo TBI frazionata. Il danno tiroideo non sembra correlare con l’età del paziente al trapianto, con la GVHD acuta o cronica, o con il sesso. Nell’asse ipotalamo - ghiandola pituitaria - ghiandola tiroidea quest’ultima appare maggiormente danneggiata dalla radiazione. È stato inoltre descritto il trasferimento dal donatore al ricevente di tiroidite autoimmunitaria (39). E 52 M A T O L O G I A ■ COMPLICANZE TARDIVE DEL TRATTO GASTROINTESTINALE La GVHD cronica è la causa principale di complicanze epatiche posttrapianto; essa è caratterizzata da un quadro colestatico con incremento della fosfatasi alcalina, delle transaminasi e della bilirubina. Il paziente può essere asintomatico o presentare prurito, astenia o perdita di peso. Sono stati descritti casi di progressione in cirrosi. La diagnosi risulta facile quando ai segni di colestasi si associa anche un impegno cutaneo o mucoso o di altri tessuti tipicamente compromessi nella GVHD cronica. La diagnosi diventa più complessa in caso di localizzazione isolata al fegato; in questi casi è dirimente, per iniziare una terapia immmunosoppressiva, la biopsia epatica. Un trial condotto da Fried e coll. nel 1992 (97) ha mostrato un miglioramento dei parametri di colestasi con l’impiego dell’acido ursodesossicolico. Tra le complicanze intestinali tardive vanno segnalate anche diarrea e perdita di peso per sindrome da malassorbimento. ■ COMPLICANZE POLMONARI A LUNGO TERMINE A carico del polmone sono stati segnalati sia deficit restrittivi che ostruttivi, quali sequenze a distanza del trapianto. In uno studio condotto da Springmeyer e coll. (98) il 20% dei pazienti mostrava un deficit restrittivo dopo un anno dal trapianto indipendentemente dal regime di condizionamento o dalla GVHD cronica, con miglioramento dopo il 3° o 4° anno. Poco conosciuti sono i meccanismi che determinano il deficit ostruttivo che si osserva dal 10 al 15% dei pazienti con GVHD cronica, che sono in generale i più esposti allo sviluppo di deficit polmonari gravi. Questi possono favorire l’insorgenza di infezioni con ulteriore peggioramento della funzionalità polmonare fino a quadri di PI o bronchiolite obliterante. ■ FERTILITÀ Dopo trapianto, a causa della radio-chemioterapia sovramassimale del regime di condizionamento, la pubertà spontanea è ritardata o assente nelle ragazze e solo una quota di esse giunge al menarca spontaneamente. Molte richiedono terapia ormonale sostitutiva a base di ormoni sessuali. I ragazzi frequentemente recuperano la funzione delle cellule del Leydig e producono testosterone a meno che non abbiano ricevuto dosi supplementari di radioterapia sui testicoli e solitamente non necessitano di terapia ormonale sostitutiva. Negli adulti l’infertilità è quasi la norma. Dopo TBI nelle donne la gravidanza è un’evenienza rarissima, in letteratura sono stati riferiti solo casi sporadici di maternità post-trapianto. Tutte le donne sottoposte a irradiazione vanno incontro a insufficienza ovarica primitiva, in I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 53 6 particolare l’incidenza aumenta con l’età della paziente ed è richiesta terapia ormonale sostitutiva. Dopo TBI più del 90% degli uomini va incontro ad azospermia permanente. In alcuni casi è stata osservata ripresa della spermogenesi a distanza di anni dal trapianto. Sicuramente più frequente è la ripresa della fertilità (64%) dopo un condizionamento con l’impiego della sola CTX. ■ SECONDO TUMORE In una recente analisi relativa a 19 229 pazienti condotta da Rochelle e coll. (99) i pazienti sottoposti a TMO allogenico hanno un rischio più elevato, rispetto alla popolazione generale di sviluppare tumori solidi. In particolare il rischio è 8.3 volte superiore per quelli che sopravvivono oltre 10 anni dal trapianto. La probabilità di sviluppare un secondo tumore è del 2.2% a 10 anni e 6.7% a 15 anni. I tumori più frequentemente osservati sono il melanoma maligno, tumori della cavità buccale, del SNC, della tiroide, del tessuto osseo e tessuto connettivo. In particolare il rischio di sviluppare un secondo tumore sembra più alto per i pazienti trapiantati in giovane età rispetto agli altri (p<0.001). Il fattore di rischio che all’analisi multivariata si associa a una maggiore incidenza di secondo tumore risulta essere la TBI. La GVHD cronica e il sesso maschile sembrano correlare con un aumentato rischio di tumori squamocellulari della cavità buccale e della cute. Questa aumentata incidenza di secondi tumori rende ragione, per il paziente trapiantato, di una stretta sorveglianza, anche a distanza dal trapianto, per il monitoraggio di tali eventuali complicazioni. E 54 M A T O L O G I A LA GRAFT VERSUS HOST DISEASE 7 La malattia del trapianto contro l’ospite viene comunemente chiamata GVHD. Già nel 1956 Barnes intuì l’esistenza di questo effetto del trapianto. Nei suoi studi ormai storici, topi leucemici ricevevano una dose letale di irradiazione totale più midollo singenico o allogenico HLA compatibile. Mentre i riceventi di midollo singenico morivano tutti per recidiva di malattia, parte dei topi allotrapiantati guariva dalla leucemia, anche se quasi tutti morivano per la “malattia del trapianto contro l’ospite” (GVHD) (100). La GVHD rappresenta a tutt’oggi una delle più frequenti complicanze del trapianto di cellule staminali allogeniche, particolarmente nei casi di trapianto incompatibile. Dalle diverse casistiche, per il trapianto di midollo HLA identico, l’incidenza della GVHD è del 30-50%; tale incidenza aumenta al 50-80% dei casi nei trapianti da MUD o familiari HLA parzialmente compatibili. La sopravvivenza a lungo termine nei pazienti con GVHD di grado >II risulta inferiore al 30%. Ovviamente, non solo il tipo di trapianto (il trapianto di SCO correla infatti con una più bassa probabilità di incidenza della GVHD) e il grado di compatibilità donatore-ricevente influenzano l’incidenza della GVHD, ma anche il regime di profilassi impiegato e numerosi altri fattori. L’esatta identificazione della popolazione cellulare responsabile della GVHD come precedentemente già riferito resta poco chiara ed esistono prove che sia i linfociti T CD4 + che CD8 + possano giocare un ruolo in questo fenomeno insieme a cellule NK. Possono inoltre contribuire alla GVHD le citochine, compresi gli IFN, il tumor necrosis factor e il GM-CSF. In particolare, nell’immediato post-trapianto gli alti livelli di citochine e molecole di adesione possono rendere maggiormente reattivi i linfociti T infusi verso gli antigeni HLA del ricevente e in tal modo contribuire al danno tessutale della GVHD. 7.1 GVHD ACUTA E CRONICA Sono distinguibili due differenti “sindromi” distinte di GVHD, denominate GVHD acuta e GVHD cronica. La GVHD acuta compare entro i primi I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 55 100 giorni mentre la forma cronica compare successivamente. La GVHD acuta si manifesta mediamente intorno al 15° giorno dopo l’infusione del midollo allogenico. Le sue caratteristiche cliniche ruotano intorno alla triade rash cutaneo, diarrea, disfunzione epatica (ittero colestatico). Non necessariamente tutti e tre gli organi vengono interessati, ma in relazione al livello di compromissione d’organo e alle manifestazioni cliniche, alla GVHD acuta viene dato un grado complessivo di gravità che va dal I al IV (Tabella 9). La GVHD cronica ha un tempo di comparsa successivo ai primi 100 giorni dal TMO allogenico e può far seguito a una GVHD acuta o insorgere de novo. Può interessare le stesse sedi della GVHD acuta, ma solitamente la sua estensione è più sistemica con impegno di quasi tutti gli organi e Criteri di stadiazione della GVHD acuta Tabella 9 Stadio Cute Fegato Intestino Rash maculopapulare in <25% della superficie corporea Bilirubina 2-3 mg/dl Diarrea 500-1000 ml/die ++ Rash maculopapulare sul 25-50% della superficie corporea Bilirubina 3-6 mg/dl Diarrea 1000-1500 ml/die +++ Eritrodermia generalizzata Bilirubina 6-15 mg/dl Diarrea >1500 ml/die ++++ Desquamazione e formazioni bollose Bilirubina >15 mg/dl Dolore o ileo + Grado della GVHD acuta Grado 0 I II III IV E 56 M A T O L Cute Fegato Intestino Compromissione funzionale 0 +/++ +/+++ ++/+++ ++/++++ 0 0 + ++/+++ ++/++++ 0 0 + ++/+++ ++/++++ 0 0 + ++ +++ O G I A apparati (cute, occhi, mucosa orale o esofagea, fegato, polmone, apparato neuromuscolare, intestino; può assumere le caratteristiche della sclerodermia, della cirrosi biliare o della bronchiolite obliterante). In base alla compromissione d’organo la GVHD cronica può essere limitata o estesa (Tabella 10). È da sottolineare che entrambe le forme di GVHD aumentano la tendenza alle complicanze infettive, sia per la loro natura immunosoppressiva che per l’effetto immunosoppressore delle terapie impiegate per il suo trattamento. In questa fase diventa pertanto particolarmente importante il monitoraggio delle complicanze infettive e la loro eventuale profilassi. Grado GVHD cronica (IBMTR) Tabella 10 Limitata Compromissione localizzata della cute e/o compromissione epatica; nessun’altra compromissione di organo Estesa Compromissione generalizzata o localizzata della cute e/o compromissione multipla di organi 7.2 PROFILASSI I farmaci impiegati nella profilassi della GVHD sono farmaci citotossici o immunosoppressori quali il MTX, la CSA e i corticosteroidi; sono inoltre state impiegate tecniche di manipolazioni del midollo infuso quali la rimozione dei linfociti T. Il MTX agisce come farmaco citotossico che interferisce sulla sintesi nucleotidica della timidina e purina. Inizialmente impiegato in modelli di trapianto canino, successivamente è stato utilizzato sull’uomo. In particolare il gruppo di Seattle nel 1977 (101) ha utilizzato il MTX a basse dosi (15 mg/m 2 giorno +1 post-TMO, quindi 10 mg/m 2 nei giorni +3, +6, +11 e poi ogni settimana fino al 100 giorno) riducendo l’incidenza di GVHD a circa il 50%. Le principali complicanze legate all’impiego del MTX sono la mucosite e l’ipoplasia midollare. La CSA è un peptide ciclico idrofobico di origine micotica. Agisce come immunosoppressore riducendo la produzione di interleuchina 2 I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 57 7 (IL-2) da parte dei linfociti T helper e interferendo con il suo recettore cellulare, bloccando in tal modo l’amplificazione della risposta alloimmunitaria. L’impiego di tale farmaco può associarsi a tossicità renale, specialmente quando è previsto il concomitante impiego di altri farmaci nefrotossici (antibiotici, antifungini, ecc.) o in presenza di altre complicanze quali sepsi o VOD. È pertanto fondamentale monitorizzare il valore della creatinina sierica per avere una misura della tossicità renale del farmaco o eventualmente i livelli sierici di CSA. La CSA può inoltre determinare irsutismo, lesioni retiniche, ipertensione, disturbi neurologici, disfunzione epatica, ipomagnesiemia, emolisi microangiopatica e mialgia. Tuttavia, rispetto al MTX, non determina mucosite né ipoplasia midollare e non interferisce perciò con l’attecchimento. Uno schema posologico comune che previene la comparsa di GVHD prevede l’impiego della CSA dal giorno -1 (alla dose di 3 mg/kg per via endovenosa) seguito, a risoluzione dei problemi di mucosite del paziente, da una somministrazione per via orale alla dose di 12.5 mg/Kg, con riduzione graduale settimanale del 5% della dose a partire dal giorno +50 fino a sospensione in assenza di segni di GVHD al sesto mese. Sono stati proposti numerosi altri schemi di profilassi con la CSA con dosi variabili da 1 mg/kg a 5 mg/kg allo scopo di individuare uno schema adeguato per ridurre l’incidenza della GVHD senza aumentare il rischio di recidiva leucemica. Studi randomizzati che hanno paragonato l’uso della CSA e quello del MTX in pazienti leucemici sottoposti ad allotrapianto hanno dato risultati equivalenti. Successivamente, in uno studio condotto su cani aploidentici è stato impiegato con successo un regime di profilassi della GVHD che prevedeva l’impiego del MTX per 11 giorni e della CSA per 180 giorni. Studi controllati sull’uomo hanno confrontato questo regime di associazione verso il MTX alle dosi standard in pazienti affetti da aplasia midollare, e verso CSA da sola in pazienti affetti da leucemia ottenendo una significativa riduzione nell’incidenza della GVHD e un miglioramento della sopravvivenza in quei pazienti trattati con l’associazione MTX + CSA. Attualmente questo schema di profilassi è largamente impiegato, soprattutto nei trapianti a maggior rischio di GVHD, in particolare da MUD o nei trapianti non compatibili. L’associazione del MTX con la CSA è invece discutibile nei trapianti di SCO da donatore non correlato in quanto l’impiego del MTX potrebbe prolungare i tempi di attecchimento con danno a carico dei progenitori emopoietici e con possibile riduzione della capacità di ripopolamento midollare. Tuttavia, pur in presenza di un ridotto rischio di GVHD acuta e cronica nei trapianti da SCO non correlati, la sola CSA non sembra sufficiente a evitare l’insorgenza di complicanze immunomediate. Per questo motivo, in questi E 58 M A T O L O G I A pazienti è opportuno associare alla CSA, al dosaggio di 3 mg/Kg ev die, una terapia corticosteroidea. Un effetto preventivo sullo sviluppo della GVHD è svolto anche dal trattamento con SAL che è previsto nei regimi di condizionamento del trapianto con SCO (15 mg/Kg/die per 4 giorni) allo scopo di ridurre il rischio del rigetto. Nei trapianti da SCO da donatore correlato HLA identico in pazienti affetti da emopatia maligna, il regime di profilassi della GVHD, visto il basso rischio della GVHD stessa, può essere sicuramente meno intensivo, con l’impiego di CSA alla dose di 1 mg/Kg ev die seguito da un dosaggio per os di 6 mg/Kg al giorno dal momento in cui le condizioni cliniche del paziente lo consentano. Nei pazienti sottoposti a trapianto con SCO da donatore correlato HLA identico affetti da patologie non neoplastiche, nelle quali l’effetto GVL non è richiesto, i regimi di profilassi della GVHD potrebbero prevedere l’impiego della CSA alla dose di 3 mg/Kg ev die seguita dalla dose di 10 mg/Kg per os. Diversi studi sulla rimozione ex vivo dei linfociti T dall’inoculo di cellule staminali (mediante l’impiego di anticorpi monoclonali o di metodi fisici o della combinazione dei due), hanno dimostrato una netta riduzione dell’incidenza della GVHD acuta di gran lunga superiore a qualunque altro regime di profilassi. Tuttavia i brillanti risultati ottenuti sulla riduzione della GVHD sono gravati dall’incremento del rischio di recidiva leucemica e del rigetto (28-30). Interessanti sono gli studi di Champlin e coll. (31) che hanno adottato, in alternativa a una deplezione pan-T, una deplezione selettiva dei linfociti CD8 + dal midollo infuso in associazione alla somministrazione di CSA, riducendo l’incidenza della GVHD acuta al 22% rispetto al 58% dei pazienti che avevano ricevuto midollo non T depleto e al 5% del gruppo storico dei pazienti che avevano ricevuto una deplezione pan-T. In questo studio non è stata osservata alcuna recidiva nei pazienti e la DFS a 3 anni è stata del 68% rispetto al 45% per i pazienti riceventi midollo non manipolato e al 35% per i pazienti riceventi midollo T depleto. Questi studi, come già precedentemente detto, necessitano di ulteriori conferme. Degli altri farmaci attualmente in studio per la profilassi della GVHD quali il SAL, la talidomide, il succinilacetone, il tracolimus (FK506) sembra essere il più promettente. 7.3 TERAPIA DELLA GVHD ACUTA La terapia di prima linea nel trattamento della GVHD è rappresentata dai corticosteroidi. Sebbene siano state osservate delle risposte con dosi variabili da 1 a 60 mg/Kg/die di metilprednisolone, le mega I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 59 7 dosi sono state associate a un’alta incidenza di infezioni mortali. Di fatto, il dosaggio di metil-prednisolone attualmente impiegato in molti Centri di trapianto è 2 mg/Kg/die. I pazienti che non rispondono alla prima linea di terapia sono eleggibili per trattamenti più aggressivi anche se in prima battuta l’atteggiamento è quello di incrementare la dose di steroidi. I farmaci di seconda linea impiegati agiscono con meccanismi diversi e i più usati sono: la globulina anti-linfocitaria; gli anticorpi monoclonali anti-cellule T (OKT3); gli anticorpi anti-recettore dell’IL-2; l’FK506 (farmaco immunosoppressore che blocca l’attivazione delle cellule T); le sostanze antiossidanti (che determinano una modulazione negativa di alcune risposte immunitarie) quali l’N-acetil cisteina; la deossispergualina (farmaco capace di inibire la funzione dei macrofagi, i linfociti T citotossici e la maturazione dei linfociti B). Studi su casistiche più numerose di pazienti con maggiore follow-up sono tuttavia necessari per valutare la reale efficacia di questi farmaci e di altri ancora in corso di sperimentazione. E 60 M A T O L O G I A LA TERAPIA DI SUPPORTO 8.1 8 PROFILASSI INFETTIVA Il trapianto di cellule staminali allogeniche comporta sempre un’elevata immunosoppressione che è responsabile di complesse problematiche infettivologiche per le quali è fondamentale un’adeguata profilassi. Infatti, le infezioni batteriche, fungine, virali e protozoarie sono ancora gravate dal 30-50% di letalità. Inoltre, le complicanze infettive sono più frequenti e gravi nel caso in cui il trapianto non sia HLA compatibile, il midollo sia stato T depleto e sia presente GVHD acuta o cronica. Pertanto, la profilassi antimicrobica rappresenta un importante presidio per ridurre il tasso di morbilità e di letalità da infezioni nel paziente sottoposto a trapianto allogenico. Tuttavia, malgrado tale pratica sia ampiamente impiegata in tutti i Centri trapiantologici, in considerazione della non provata efficacia e della tossicità di alcuni farmaci utilizzati, sono tuttora non risolte molte problematiche. 8.2 PROFILASSI ANTIBATTERICA Per la profilassi antibatterica sono stati impiegati vari antibiotici orali non assorbibili quali vancomicina, gentamicina, neomicina, colestina, polimixina B in varie combinazioni. Nonostante i numerosi studi clinici controllati, la scarsa compliance dei pazienti, gli alti costi e soprattutto l’emergenza di resistenze hanno reso necessario l’impiego di altri antibiotici. Attualmente durante il periodo della neutropenia post-trapianto è consigliabile l’impiego dei chinolonici, preferibilmente i nuovi fluorchinolonici. In particolare la ciprofloxacina sembra preferibile rispetto alla norfloxacina (i due tipi di chinolonici più largamente impiegati) perché raggiunge alti livelli plasmatici, risulta più attiva contro alcuni germi gram positivi e verso lo Pseudomonas spp. Di contro la ciprofloxacina non è attiva contro molti stafilococchi meticillino-resistenti, che rappresentano la maggior parte degli stafilococchi isolati. Da considerare il problema della possibile insorgenza di resistenze ai chinolonici. Tuttavia in uno studio prospettico effettuato su una coorte I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 61 di 500 pazienti presso il Johns Hopkins Oncology Center, non è stata messa in evidenza l’insorgenza di resistenza in pazienti trattati in via profilattica con la norfloxacina. Inoltre i chinolonici hanno una scarsa attività contro gli anaerobi, quindi la flora intestinale anaerobica, durante il loro impiego non viene alterata; questo potrebbe essere un fattore protettivo nei confronti di altri germi patogeni più virulenti. Le dosi consigliate nella maggior parte degli studi per la ciprofloxacina sono 500 mg x 2/die anche se vanno verificati eventuali dosaggi minori. La somministrazione di immunoglobuline endovena ha dato risultati contrastanti e in ogni caso è gravata da un elevato rapporto costo beneficio. 8.3 PROFILASSI ANTITUBERCOLARE La reale incidenza della tubercolosi nei pazienti sottoposti a trapianto allogenico non è nota. È quindi difficile dare delle linee guida in merito, così come, del resto, per altre categorie di pazienti immunocompromessi. È indicata la profilassi nei pazienti con anamnesi positiva o con cutireazione positiva alla tubercolina. Il farmaco da utilizzare è l’isoniazide al dosaggio di 300 mg/die che va continuato per almeno tre mesi dopo la sospensione della terapia immunosoppressiva. 8.4 PROFILASSI DELLA POLMONITE DA PNEUMOCISTIS CARINII La profilassi contro lo Pneumocistis carinii viene attuata con il co-trimossazolo (trimetropim-sulfametossazolo): 160-800 mg per os per tre volte alla settimana dall’attecchimento e per la durata del trattamento immunosoppressivo. Per i soggetti allergici al co-trimossazolo viene usata la pentamidina aerosol (300 mg una volta al mese) o il dapsone per os (50 mg x2 volte a settimana). 8.5 PROFILASSI ANTIFUNGINA Varie sostanze somministrate per via orale sono state impiegate nella profilassi antifungina delle infezioni da Candida (nistatina, clotrimazolo, miconazolo, amfotericina B) senza dare tuttavia risultati incoraggianti. E 62 M A T O L O G I A L’impiego dell’amfotericina B per via endovenosa, somministrata a bassi dosaggi, non si è mostrata chiaramente efficace mentre è da considerare la possibile tossicità del farmaco. Alcuni trial controllati sull’impiego del ketoconazolo hanno dato buoni risultati sulla riduzione delle mucositi da Candida, ma nessuno studio ha mostrato l’efficacia nel ridurre le infezioni sistemiche. Il miconazolo somministrato per via endovenosa ha dato buoni risultati nel ridurre le infezioni sistemiche in una sola esperienza, ma non è risultato attivo contro l’Aspergillo e inoltre ha creato numerosi problemi di tossicità. Attualmente i triazolici sembrano avere una buona attività antifungina e una ridotta tossicità. Il primo farmaco di questo gruppo impiegato negli Stati Uniti è stato il fluconazolo, disponibile sia per via orale che endovenosa; ha un’escrezione prevalentemente renale, possiede una buona capacità di penetrazione nel fluido cerebrospinale, ha un rapido ed elevato assorbimento per via orale anche in pazienti con mucosite, e inoltre può essere somministrato una sola volta durante la giornata. Il farmaco sembra interferire con altre sostanze che vengono metabolizzate a livello del sistema enzimatico citocromo P450, come la CSA. Tuttavia, le dosi di farmaco solitamente impiegate (100-400 mg/die) non sembrano determinare interferenze clinicamente significative. Due studi controllati (102, 103) ne hanno evidenziato l’efficacia nel ridurre le infezioni disseminate e le mucositi da Candida e nel migliorare la sopravvivenza rispetto al gruppo placebo. Tuttavia il fluconazolo non è efficace contro l’Aspergillo e contro alcune specie di Candida quali Candida krusei e Candida glabrata. Pochi sono i dati sull’impiego in profilassi dell’itraconazolo. Relativamente alla profilassi contro le infezioni da Aspergillo sono necessari studi clinici per definire l’efficacia dei triazolici, in particolare dell’itraconazolo che, in uno studio non randomizzato, sembrerebbe ridurre l’incidenza delle infezioni da Aspergillo rispetto al gruppo di pazienti trattato con ketoconazolo. Tuttavia l’itraconazolo è un farmaco il cui assorbimento per via orale dipende dall’acidità gastrica e la cui efficacia è strettamente legata ai livelli plasmatici, quindi è fondamentale valutarne la reale biodisponibilità dopo assunzione orale. Importante sarà la valutazione dell’impiego della formulazione endovenosa di prossima produzione. 8.6 PROFILASSI ANTIVIRALE Le infezioni da virus erpetico si osservano per lo più nel primo mese posttrapianto per la riattivazione del virus latente nei soggetti sieropositivi. È consigliabile usare nella profilasi antivirale (HSV, VZV) acyclovir alla dose di 250 mg/m 2 ev ogni 8 ore durante i periodi in cui la mucosi- I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 63 8 te non permette l’assunzione per os del farmaco iniziandone l’assunzione già durante il condizionamento. Quindi la profilassi antivirale può essere continuata per os alla dose di 400 mg x 5/die per un anno, a meno di terapia immunosoppressiva ancora in atto. 8.7 PROFILASSI DELLE INFEZIONI DA CYTOMEGALOVIRUS L’infezione da CMV viene definita dalla presenza del virus o degli antigeni virali nel sangue o nei tessuti, o dall’incremento del titolo anticorpale di 4 volte o più. La malattia da CMV viene definita dalla presenza di manifestazioni cliniche legate al virus. I principali fattori di rischio per la malattia da CMV sono l’età del paziente, la sieropositività pretrapianto, il grado di compatibilità HLA, la presenza della GVHD. L’associazione CMV-GVHD è determinata probabilmente dall’induzione dell’attivazione di linfociti citotossici da parte del virus e a sua volta la GVHD si associa a un aumentato rischio di infezione da CMV. I pazienti sieronegativi con donatore sieronegativo per CMV non necessitano di nessuna profilassi, ma devono essere trasfusi con emoderivati sieronegativi. L’impiego di emoderivati filtrati per rimuovere i globuli bianchi dai prodotti ematici sembrerebbe, in assenza di donatori CMV negativi, ridurre l’incidenza dell’infezione virale. Tuttavia sono necessari ulteriori studi per valutare la reale validità di questa procedura e sono necessari studi randomizzati per confrontare l’impiego di donatori sieronegativi verso prodotti filtrati. L’uso di acyclovir ad alte dosi si è dimostrato solo modestamente efficace nella prevenzione delle infezioni da CMV. La somministrazione di gancyclovir a tutti i pazienti sieropositivi per CMV è molto costosa e ingiustificata a causa dell’elevata tossicità midollare. In uno studio condotto da Goodrich e coll. (104), il gancyclovir somministrato in via profilattica alla dose di 5 mg/Kg x 2/die fino al 100° giorno, ha ridotto l’incidenza della PI da CMV, della malattia da CMV e dell’escrezione virale. Tuttavia non c’è stata nessuna differenza in termini di mortalità tra il gruppo che ha ricevuto gancyclovir rispetto al gruppo placebo sia durante il trattamento che a 180 giorni. Il trattamento si è mostrato infatti mielotossico e ha incrementato le complicanze infettive legate alla neutropenia. Uno studio condotto da Winston e coll. (105) che hanno impiegato il gancyclovir a dosi più basse, ha ridotto il rischio di infezioni da CMV, ma non la malattia da CMV. Sembra essere più giustificato trattare con gancyclovir (5 mg/Kg x 2/die) i pazienti che presentano viremia o antigenemia positiva per il virus o presenza di CMV nel broncolavaggio: è necessario a tale scopo un controllo virologico settimanale. E 64 M A T O L O G I A L’impiego del foscarnet in profilassi è ancora da definire. Il foscarnet è indicato nelle forme resistenti al gancyclovir e nei pazienti che presentano indagini virologiche positive nella fase di attecchimento midollare. Nei trapianti da donatore incompatibile familiare o non correlato, gravati da un maggior rischio di infezione da CMV, l’impiego del gancyclovir in profilassi è oggetto di studio. 8.8 PROFILASSI DELLE INFEZIONI BATTERICHE TARDIVE La morbilità e la mortalità da GVHD cronica sono spesso dovute alle infezioni. Si rende pertanto necessaria una profilassi antibiotica somministrata anche nelle fasi più tardive del trapianto. Sia in presenza che in assenza di GVHD cronica deve essere presa in considerazione la terapia antibiotica con penicillina per ridurre l’incidenza delle infezioni da Streptococcus pneumoniae e da batteri capsulati. Tali infezioni sono legate all’asplenia funzionale nel paziente trapiantato e all’incapacità di produrre anticorpi opsonizzanti. La disponibilità di vaccini contro pneumococco, Haemophilus influenzae e meningococco è particolarmente utile, purtroppo in questa categoria di pazienti è poco efficace la risposta alle vaccinazioni, soprattutto in presenza di GVHD cronica. Per i pazienti con riduzione delle immunoglobuline l’impiego delle immunoglobuline endovena potrebbe essere utile, ma anche in questo caso è discutibile il rapporto costo beneficio. 8.9 ALIMENTAZIONE PARENTERALE L’elevata tossicità del regime di condizionamento con gli effetti collaterali a esso legati (anoressia, nausea, vomito, mucositi, diarrea), lo sviluppo di infezioni e la GVHD non consentono un adeguato apporto alimentare nel paziente trapiantato e il mantenimento di un adeguato stato nutrizionale. Si rende pertanto necessario in corso di trapianto l’impiego di un supporto nutrizionale parenterale. Inoltre, dati sperimentali hanno dimostrato gli effetti negativi della malnutrizione proteico-calorica sull’attecchimento di cellule emopoietiche infuse in animali da esperimento precedentemente sottoposti a irradiazione. Il ruolo di un’adeguata alimentazione parenterale sulla sopravvivenza di un paziente sottoposto a trapianto è mostrato in Figura 5 (106). I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 65 8 Figura 5 • Ruolo dell’alimentazione parenterale sulla sopravvivenza dopo trapianto di midollo osseo allogenico 100 % sopravviventi 80 60 Alimentazione parenterale si 40 20 0 Alimentazione parenterale no 0 0.5 1.0 1.5 2.0 Anni dopo trapianto 2.5 3.0 Da: Weisdorf et al. (106). 8.10 SUPPORTO TRASFUSIONALE Durante la fase dell’aplasia post-trapianto (variabile dalle 2 alle 4 settimane) si richiede solitamente un adeguato supporto trasfusionale sia in termini di piastrine che di globuli rossi. In uno studio condotto dal gruppo di Seattle nel 1990, il fabbisogno trasfusionale si attesta sulle 16 unità di GR e 37 unità di concentrati piastrinici da donatore unico. Il rischio di GVHD da trasfusione impone la rimozione dei linfociti T dalle sacche di emoderivati. L’irradiazione dei prodotti trasfusionali è ormai riconosciuto come il metodo di elezione per prevenire la GVHD trasfusionale. Relativamente alle trasfusioni di GR la politica di vari Centri di trapianto, è di mantenere i livelli di ematocrito intorno a valori del 25-30%; la maggior parte delle trasfusioni viene richiesta durante le prime 4 settimane. L’incompatibilità AB0 donatore-ricevente incrementa il fabbisogno trasfusionale. I concentrati piastrinici vengono solitamente somministrati in profilassi per valori inferiori a 15 000-20 000/mm 3 . Trasfusioni con valori superiori sono richieste solo in caso di sanguinamento. Di fatto l’atteggiamento trasfusionale deve essere sempre guidato dalla condizione clinica del paziente, riducendo l’apporto trasfusionale al fabbisogno indispensabile allo scopo di ridurre il rischio di alloimmunizzazione che comprometterebbe la resa trasfusionale successiva. E 66 M A T O L O G I A LA RECIDIVA LEUCEMICA POST-TRAPIANTO La recidiva leucemica rappresenta tuttora una delle cause più frequenti di insuccesso dopo trapianto di midollo L’aumento della sopravvivenza osservato negli ultimi 10 anni sembra essere dovuto principalmente al miglioramento della terapia di supporto, mentre la probabilità di recidiva è rimasta relativamente costante: tra il 10% e il 40% per pazienti trapiantati in fase favorevole di malattia (I RC di leucemia acuta o FC di LMC) e il 50-70% per pazienti con leucemia in fase più avanzata (107). La recidiva generalmente origina dalle cellule del ricevente, a dimostrazione del fatto che il clone leucemico può sopravvivere alle dosi sovramassimali di radio-chemioterapia e sottrarsi all’effetto GVL. Solo in rari casi la malattia, osservata per lo più tardivamente dopo trapianto, si è ripresentata nelle cellule del donatore. Diverse cause sono state considerate responsabili di tale evento: l’impiego della TBI, la persistenza dello stimolo leucemogeno microambientale, il trasferimento di materiale oncogenetico dalle cellule leucemiche del paziente e quelle normali del donatore. Anche i pazienti con GVHD acuta o cronica, pregressa o in atto, possono recidivare a ulteriore indicazione che non sempre la GVHD si traduce in un effetto GVL. I tentativi di ridurre la recidiva leucemica sono stati diretti da una parte verso il potenziamento dei regimi di condizionamento pre-trapianto, dall’altra parte verso la ricerca di amplificazione dell’effetto GVL mediante la riduzione della profilassi per la GVHD. L’aggiunta di nuovi chemioterapici o l’aumento di intensità della radioterapia, pur dimostratisi maggiormente eradicanti verso il clone leucemico, non hanno migliorato i risultati globali in termini di sopravvivenza, essendo correlati a un maggior rischio di mortalità post-trapianto. L’osservazione che anche per i pazienti riceventi midollo non T depleto il rischio di recidiva leucemica si modifica in rapporto al livello e tipo di profilassi per la GVHD, ha favorito studi clinici basati sulla modulazione dei regimi di profilassi della GVHD senza ottenere tuttavia risultati soddisfacenti. Influenzano l’evoluzione della recidiva leucemica post-trapianto il tipo di leucemia, l’intervallo di tempo trascorso dal trapianto alla recidiva, il performance status del paziente e il tipo di trattamento. I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 67 9 9.1 CHEMIOTERAPIA CONVENZIONALE Nei pazienti con leucemia acuta in recidiva dopo trapianto la prognosi è senz’altro sfavorevole e, se non viene somministrata alcuna terapia, la mediana di sopravvivenza è di soli 3-4 mesi. Sono segnalati rarissimi casi di RC ottenuta con la sola sospensione della CSA in pazienti recidivati in corso di trattamento immunosoppressivo. La probabilità di RC con chemioterapia convenzionale varia dal 30 al 40%, con una mediana di sopravvivenza di 8 mesi per la LMA e di 14 mesi per la LLA. Nei pazienti che non ottengono RC la mediana di sopravvivenza si riduce a 3 mesi. La prognosi per i pazienti recidivati dopo TMO per LMC dipende dal sesso del paziente, dall’intervallo di tempo dal trapianto e soprattutto dalla fase di malattia al momento della recidiva: in analisi univariata la probabilità di sopravvivenza a 6 anni è del 52% per i pazienti con sola recidiva citogenetica, rispetto al 30% per i pazienti in recidiva anche ematologica; nessun paziente che recidiva dopo trapianto con malattia in fase avanzata ha una sopravvivenza superiore a 3.5 anni dal momento della recidiva (108). Il trattamento con chemioterapia convenzionale, proposto per i pazienti con recidiva di LMC in FA o CB non ha dato risultati soddisfacenti: la mediana di sopravvivenza risulta inferiore a 6 mesi. Al contrario, nel caso in cui la recidiva compaia in corso di trattamento con CSA, l’immediata sospensione di quest’ultima può indurre una RC con recupero dell’emopoiesi del donatore. Infine il secondo trapianto, pur permettendo una probabilità di DFS a 4 anni variabile tra il 20 e il 30% a seconda delle diverse casistiche, è correlato con un elevato rischio di mortalità precoce e di ulteriore recidiva (109). È consigliabile pertanto che tale procedura sia limitata a pazienti non clinicamente compromessi nei quali la recidiva sia intervenuta tardivamente dopo il primo trapianto (>6 mesi nei pazienti pediatrici, >12 mesi nei pazienti adulti). 9.2 TRATTAMENTI IMMUNOMODULANTI CON FATTORI DI CRESCITA E CITOCHINE La patologia per la quale l’impiego di fattori immunomodulanti è meglio definita è senz’altro la LMC in recidiva post-trapianto distinta in recidiva molecolare, citogenetica ed ematologica. La tecnica della PCR applicata allo studio della malattia minima residua (MRD) dopo trapianto permette di identificare il trascritto di fusione RNA bcr/abl specifico della malattia fino a una diluizione di 105 -10 6 cellule. E 68 M A T O L O G I A Sebbene ampiamente praticata, tale tecnica rimane tuttavia una procedura particolarmente delicata per i problemi correlati alla sua esecuzione, alla sua specificità e sensibilità. È pertanto difficile un confronto di risultati provenienti da laboratori diversi e devono essere considerate con cautela le interpretazioni cliniche dei dati che da essi vengono tratte. Inoltre, solo in alcuni studi i pazienti testati presentano un follow-up sufficientemente lungo per valutare l’eventuale correlazione con la recidiva citogenetica ed ematologica, e il numero dei pazienti analizzati spesso non è sufficiente per una corretta valutazione del test in relazione ad altre variabili. Uno studio del gruppo di Seattle del 1995 (110) ha valutato il significato prognostico della PCR in 346 pazienti, analizzati a diversi intervalli di tempo dal TMO. Le principali conclusioni di questo studio possono essere sintetizzate nei seguenti punti: 1. esiste una concordanza di risultato della PCR tra midollo e sangue periferico nel 91% dei casi; 2. la precoce positività della PCR, rilevata entro 3 mesi o oltre 36 mesi dal trapianto, non è predittiva del rischio di recidiva; 3. una singola positività della PCR rilevata tra 6 e 12 mesi e tra 12 e 24 mesi post-trapianto si correla con una probabilità attuariale di recidiva rispettivamente del 42 e 25%, significativamente più elevata del 3 e 1% della probabilità calcolata nei pazienti PCR negativi agli stessi intervalli di tempo; 4. la progressione di malattia interviene con una mediana di 7 mesi nei pazienti risultati PCR positivi; 5. in analisi multivariata, la PCR positività rimane il principale fattore indipendente correlato con il rischio di recidiva; gli altri due fattori a essa associati che mantengono significatività statistica sono il TMO da donatore HLA compatibile e la GVHD acuta di grado 0-I. Il dibattito ancora aperto sul significato biologico della PCR dopo TMO non permette di trovare ancora un approccio clinico terapeutico nel caso di una recidiva molecolare di malattia. Tuttavia, alla luce dei dati precedentemente esposti, è proponibile che la recidiva molecolare, dopo 6 mesi dal trapianto nei pazienti non riceventi CSA, sia valutata in uno studio prospettico randomizzato per la terapia con IFN; ovviamente interventi terapeutici più aggressivi non sono giustificati. Particolarmente complesso è il quadro della recidiva citogenetica. Sebbene la ricomparsa di cellule Ph positive dopo trapianto sia spesso seguita da una progressione di malattia verso la fase ematologica, non infrequente è l’osservazione di metafasi Ph positive transitorie o persistenti in assenza di recidiva ematologica. Il significato predittivo di progressione ematologica rappresentato dalla I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 69 9 recidiva citogenetica è influenzato da diversi fattori: metafasi Ph positive frequentemente rilevate entro i primi 100 giorni possono rappresentare un residuo cellulare maturante destinato a estinguersi; una ridotta percentuale (<10%) di cellule Ph positive, rilevate anche tardivamente dopo trapianto nell’ambito di una normale emopoiesi del donatore, vanno facilmente incontro a una remissione spontanea; un aumentato rischio di progressione ematologica è stato invece segnalato per una proporzione di cellule Ph positive >25% in associazione con una condizione di chimerismo misto presente nel compartimento emopoietico normale (111). Inoltre, l’evoluzione della recidiva citogenetica è influenzata dal regime impiegato per la profilassi della GVHD: pazienti riceventi midollo T depleto anche in presenza di una bassa percentuale di metafasi Ph positive quasi sempre evolvono in recidiva ematologica franca. Da un punto di vista terapeutico è ormai confermata l’indicazione terapeutica alla terapia con IFN. L’analisi retrospettiva eseguita dall’EBMT su 130 pazienti (108), dimostra che la terapia con IFN ritarda la progressione di malattia e induce pertanto un significativo aumento della sopravvivenza dei pazienti con LMC in recidiva sia ematologica sia soltanto citogenetica. Tale approccio terapeutico deve tuttavia essere attualmente riconsiderato alla luce delle nuove esperienze provenienti dall’infusione dei linfociti del donatore la cui potente attività GVL si traduce in elevata efficacia terapeutica come verrà meglio definito nel prossimo paragrafo. Del tutto preliminari sono i risultati relativi all’azione del G-CSF sulla recidiva di leucemia acuta e cronica recentemente riportati dal gruppo dell’M.D. Anderson: 3 di 7 pazienti trattati con G-CSF hanno ottenuto la RC mantenuta per un follow-up sufficientemente lungo. Infine, anche l’IL-2 sembra un agente potenzialmente attivo nel trattamento della recidiva dopo trapianto. 9.3 TRATTAMENTO IMMUNOMODULANTE MEDIANTE INFUSIONE DEI LINFOCITI DEL DONATORE Nei pazienti con recidiva di malattia dopo TMO il chimerismo e la conseguente tolleranza immunologica verso le specificità HLA del donatore costituiscono il presupposto necessario per l’impiego di una immunoterapia adottiva con i linfociti del donatore il cui obiettivo è quello di evocare un’attività GVL. Nello studio retrospettivo, multicentrico dell’EBMT (112) su 135 pazienti sottoposti a infusione di linfociti del donatore per LMC, LMA, LLA e MDS in recidiva post-TMO, la maggiore efficacia terapeutica in E 70 M A T O L O G I A termini di percentuale di RC si riscontra per i pazienti con LMC in recidiva citogenetica (82%) o ematologica in FC (74%). Tali percentuali si riducono al 22% per i pazienti con LMA, al 12% dei pazienti con LMC in FA, mentre nessuno dei pazienti con LLA risulta rispondente. Le complicanze più frequentemente osservate con l’infusione dei linfociti del donatore sono state la GVHD e la mielosoppressione osservate nel 50 e 35% rispettivamente dei pazienti. L’ottenimento della RC per effetto GVL indotto dal DLT è significativamente associato all’insorgenza della GVHD e/o della mielosoppressione. Allo stato attuale la terapia con DLT è da considerarsi elettiva per i pazienti in recidiva di LMC in FC post-trapianto, mentre per i pazienti con recidiva in fase avanzata è indicato un trattamento con chemioterapia seguita da infusione di DLT. Fondamentale è lo studio dello stato di chimerismo pre-DLT, infatti, in uno stato di chimerismo completo o misto l’aplasia midollare risulta transitoria o assente, mentre in assenza di chimerismo è più alto il rischio di sviluppare un’aplasia midollare grave (113). In quest’ultimo caso è indicato pertanto associare all’infusione di DLT anche cellule staminali del donatore mobilizzate previa somministrazione di G-CSF. Per i pazienti in recidiva citogenetica è proponibile una stratificazione, in base al numero di metafasi Ph + a ricevere o meno terapia con IFN; se il numero di metafasi Ph + è elevato (>40%) i pazienti possono essere randomizzati a ricevere DLT + IFN. Più aggressivo dovrebbe essere l’atteggiamento terapeutico e il monitoraggio citogenetico e molecolare per i pazienti che hanno ricevuto midollo T depleto in considerazione dell’elevato rischio di evoluzione ematologica in caso di recidiva citogenetica o molecolare di malattia. I L T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 71 9 BIBLIOGRAFIA GENERALE 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31. 32. 33. 34. 35. 36. I L 10 Quine WE et al., J Am Med Assoc 26: 1012; 1896. Osgood EE et al., Ann Intern Med 13: 357-367; 1939. Jacobson LO et al., Science 113: 510; 1951. Lorenz E et al., Radiology 58: 863-877; 1952. Mathè G et al., Br Med J 2: 1633-1635; 1963. Thomas ED et al., N Engl J Med 257: 491; 1958. Bach FH et al., Lancet ii: 1364-1366; 1968. Ferrari G. et al., Science 279:1528-1530; 1998. Arcese W et al., La trasfusione del sangue 41: 443-448; 1996. Gluckman E et al., N Engl J Med 321: 1174-1178; 1989. Wagner JE et al., Lancet 346: 214-219; 1995. Kurtzenberg J et al., N Engl J Med 335: 157-166; 1996. Wagner JE et al., Blood 88: 795-802; 1996. Gluckman E et al., N Engl J Med 337: 373-381; 1997. Weiden P et al., N Engl J Med 304: 1529; 1981. Sullivan K et al., Blood 72: 546-554; 1988. Sullivan K et al., Blood 73: 1720-1728; 1989. Collins Jr RH et al., Bone Marrow Transplant 10: 391-395; 1992. Suzuke R et al., Bone Marrow Transplant 20: 615-617; 1997. Gale R et al., Lancet ii: 28; 1984. Ringden O et al., Transplant Proc 21: 2989; 1989. Van Lochem E et al., Bone Marrow Transplant 10: 181; 1992. Neiderwieser D et al., Blood 81: 2200; 1993. Chen W et al., Proc Natl Acad Sci USA 89: 1468; 1992. Hausch M et al., Blood 75: 2250; 1990. Ferrara J et al., N Engl J Med 324: 667; 1991. Baron S et al., JAMA 266: 1375; 1991. Apperley J et al., Bone Marrow Transplant 1: 53; 1986. Maraninchi D et al., Lancet ii: 175; 1987. Goldmann JM et al., Ann Intern Med 108: 806; 1988. Champlin R et al., Blood 76: 418-423; 1990. Forman SE et al., Bone Marrow Transplantation, Boston: Blackwell Scientific Publications, 1994. Carella AM et al., Haematologica 82: 478-495; 1997. Armitage JO, N Engl J Med 330: 827-838; 1994. Appelbaum FR et al., Blood 72: 179-184; 1988. Schiller GJ et al., J Clin Oncol 10: 41-46; 1992. T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 73 37. 38. 39. 40. 41. 42. 43. 44. 45. 46. 47. 48. 49. 50. 51. 52. 53. 54. 55. 56. 57. 58. 59. 60. 61. 62. 63. 64. 65. 66. 67. 68. 69. 70. 71. 72. 73. 74. 75. 76. 77. 78. 79. 80. Cassileth PA et al., Blood 79: 1924-1930; 1992. Avvisati G et al., Blood 88: 1390-1398; 1996. Barret AJ et al., Blood 79: 3067-3070; 1992. Doney K et al., Bone Marrow Transplant 2: 355-363; 1987. Chao Nj et al., Blood 78: 1923-1927; 1991. Horowitz MM et al., Ann Intern Med 115: 13-17; 1991. Fiere D et al., J Clin Oncol 11: 1990-1991; 1993. Gluckman E et al., Blood 79: 269-275; 1992. Bacigalupo A et al., Br J Haematol 70: 177-182; 1988. Lucarelli G, N Engl J Med 322: 417-421; 1990. Lucarelli G et al., Blood 80: 1603-1607; 1992. Galimberti M et al., Bone Marrow Transplant 19 (Suppl. 2): 4547; 1997. Gluckman E et al., Br J Haematol 45: 557-564; 1980. Flowers MED et al., Bone Marrow Transplant 9: 167-173; 1992. Gatti RA et al., Lancet ii: 1366-1369; 1968. O’Reilly RJ et al., Immunodefic Rev 1: 273-309; 1989. O’Reilly RJ et al., N Engl J Med 297: 1311-1318; 1977. Sociè G et al., Lancet 348: 573-577; 1996. Rajantie J et al., Blood 67: 1693-1697; 1986. Appelbaum FR et al., Ann Intern Med 112: 590; 1990. Anderson JE et al., Blood 82: 677-681; 1993. De Witte T et al., Br J Haematol 74: 151-157; 1990. Michallet M et al., Bone Marrow Transplant 7: 275-279; 1991. Rabinowe SN et al., Blood 82: 1366-1376; 1993. Khouri IF et al., J Clin Oncol 12: 748-758; 1992 Osserman EF et al., Acta Hematol 68: 215-223; 1982. Gahrton G et al., N Engl J Med 325: 1267-1273; 1991. Armitage JO et al., Blood 73: 1749-1758; 1989. Appelbaum FR et al., J Clin Oncol 5: 1340-1347; 1987. Jones RJ et al., Blood 77: 649-653; 1991. Lundberg JH et al., J Clin Oncol 9: 1848-1859; 1991. Phillips GL et al., J Clin Oncol 7: 1039-1045; 1989. Aversa F et al., Blood 84: 3948-3955; 1994. Kernan NA et al., N Engl J Med 328: 593-602; 1993. Beatty PG et al., Blood 81: 249-253; 1993. Balduzzi A et al., Blood 86: 3247-3256; 1995. Sierra et al., Blood 89: 4226-4253; 1997. Davies SM et al., Bone Marrow Transplant 13: 51-57; 1993. Mehta J et al., Bone Marrow Transplant 13: 583-587; 1993. Anderson JE et al., Br J Haematol 93: 59-67; 1996. Marmont AM et al., Blood 79: 2120-2130; 1991. Hansen JA et al., Bone Marrow Transplant 15: 128-139; 1995. Beatty PG et al., Transplantation 2: 443-446; 1991. Hansen JA et al., Blood 86: 479 (Abs); 1995. E 74 M A T O L O G I A 81. 82. 83. 84. 85. 86. 87. 88. 89. 90. 91. 92. 93. 94. 95. 96. 97. 98. 99. 100. 101. 102. 103. 104. 105. 106. 107. 108. 109 110. 111. 112. 113. I L Korbling M et al., Blood 86: 2842-2848; 1995. Anderlini P et al., Transfusion 37: 507-512; 1997. Przepiorka D et al., Bone Marrow Transplant 19: 455-460; 1997. Azvedo WM et al., Bone Marrow Transplant 16: 647-653; 1995. Russell JA et al., Bone Marrow Transplant 17: 703-708; 1996. Anderlini P et al., Blood 86; 109 (Abs); 1995. Bacigalupo A et al., Blood 88: 353-357; 1996. Knudtzon S et al., Blood 43: 357-361; 1974. Broxmeyer HE et al., Proc Natl Acad Sci USA 86: 3828; 1989. Winston DJ et al., Exp Hematol 12: 205-215; 1984. Meyers JD, Am J Med 81 (Suppl. 1A): 27-38; 1984. Mandell GL, Douglas RG, Bennett JE. Principles and Practice in Infectious Diseases. Churchill Livingston, Fourth Edition, 1995. Weisdorf DJ et al., Blood 76: 624-629; 1990. Bearman S, Blood 85: 3005-3020; 1995. Sencer SF et al., Transplantation 56: 875-879; 1993. Bedi A et al., J Clin Oncol 13: 1103-1109; 1995. Fried RH et al., Ann Intern Med 116: 624-629; 1992. Springmeyer SC et al., in: Recent advances in bone marrow transplantation. Gale RP (ed). New York: Alan R Liss, 343-353; 1983. Rochelle E et al., N Engl J Med 336: 897-904; 1997. Barnes DW et al., Br J Haematol 3: 241; 1967. Thomas ED et al., Blood 49: 522-533; 1977. Goodman Jl et al., N Engl J Med 326: 845-851; 1992. Slavin MA et al. J Infect Dis 171: 1545-1552; 1995. Goodrich JM et al., Ann Intern Med 118: 173-178; 1993. Winston DJ et al., Ann Intern Med 118: 179-184; 1993. Weisdorf SA et al., Transplantation 43: 833-838; 1987. Giralt SA et al., Blood 84: 3603; 1994. Arcese W et al., Blood 82: 3211; 1993. Radich J et al., J Clin Oncol 11: 304; 1993. Radich JP et al., Blood 85: 2632; 1995. Offitt K et al., Blood 75: 1346; 1990. Kolb Hj et al., Blood 86: 2041; 1995. Rapanotti MC et al., Bone Marrow Transplant 19: 703-707; 1997. T R A P I A N T O D I C E L L U L E S T A M I N A L I A L L O G E N I C H E 75 10