Introduzione «I personaggi menzionati nel testo sono tutti

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Introduzione
«I personaggi menzionati nel testo sono tutti deceduti da molto
tempo. Ogni somiglianza con i nostri contemporanei è puramente casuale». Avremmo potuto scrivere queste righe come una sorta di preliminare avvertimento, ma non lo faremo. Le pagine che
seguono, infatti, rispondono a questioni estremamente attuali, a
preoccupazioni politiche e morali – tanto vale dirlo subito chiaramente – suscitate dalle posizioni e dalle azioni di coloro che ci
governano, nonché dalle convinzioni espresse da certe correnti
dell’opinione pubblica nei confronti dei nostri concittadini musulmani, degli immigrati provenienti dai paesi islamici e dei loro
discendenti. Preoccupazioni tanto piú serie in quanto l’Europa intera ha spesso offerto esempi, talvolta sanguinosi, di xeno- e islamofobia. Da qui la scelta dell’anacronismo che caratterizza questo
libro e di cui verranno strada facendo fornite spiegazioni.
Oggi l’Europa conta circa 17 milioni di musulmani, di cui un
terzo vive in Francia. Mentre la loro integrazione politica e sociale si sta realizzando solo parzialmente, in molti paesi proliferano i
movimenti xenofobi e le manifestazioni apertamente razziste che
fanno dei musulmani il proprio bersaglio prediletto. Molto diffusa,
l’idea che l’Islam e l’Occidente formino due civiltà incompatibili
è condivisa da cittadini sia di destra sia di sinistra. La famigerata espressione di Samuel Huntington, «lo scontro delle civiltà», è
diventata un luogo comune che, va da sé, oppone all’Occidente il
solo Islam, e non, per esempio, le civiltà cinese o indiana, contribuendo cosí a rafforzare, dall’altra parte del Mediterraneo, il fermento antioccidentale sia delle correnti fondamentaliste sia degli
ambienti nazionalisti. Lo storico non può restare indifferente a
questa situazione. «La storia, – scriveva Fernand Braudel nel maggio del 1946, meno di un anno dopo la fine della Seconda guerra
mondiale, – forse non è condannata a studiare soltanto giardini
ben chiusi da muri. Altrimenti, non verrebbe essa meno a uno dei
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suoi compiti presenti, di rispondere anche agli angosciosi problemi dell’ora […]?»1. Le pagine seguenti non pretendono di offrire
soluzioni, ma di scrivere alcuni dati su una lavagna – non necessariamente nera – per alimentare, se possibile, una riflessione sul
grado di estraneità dei musulmani europei.
In generale, si sostiene che l’immigrazione di massa delle popolazioni islamiche verso l’Europa abbia avuto inizio a partire dalla
Prima guerra mondiale, quando l’esercito aveva bisogno di soldati e le fabbriche di mano d’opera. La crescita economica successiva alla Seconda guerra mondiale, e la fine degli imperi coloniali,
avrebbero poi rinnovato e amplificato il fenomeno, facendo sí che
l’immigrazione approdasse a regioni dell’Europa che fino a quel
momento non erano state minimamente toccate da quel fenomeno.
Ma è proprio vero che, prima del xx secolo, non ci furono musulmani in Europa? È davvero questa la prima volta che i musulmani
si sono insediati stabilmente nel Vecchio Continente, intrattenendo rapporti quotidiani con il resto della popolazione? Relazioni di
questo tipo si erano già intrecciate nelle colonie dell’Impero francese (dal Ciad e dal Senegal, fino ai paesi del Maghreb), spagnolo
(in Marocco), olandese (in Indonesia) e italiano (in Libia). Ma come
andarono le cose nelle metropoli? Cosa succedeva prima dell’epoca coloniale? Se c’erano musulmani in Europa prima delle migrazioni innescate dalla colonizzazione e dall’integrazione dei pae­si
islamici nell’economia mondiale, quali furono le circostanze che
ve li condussero? Quali le ragioni che spingevano queste persone
ad andare nel Vecchio Continente di loro spontanea volontà? E
quale era la loro posizione nella società cristiana?
La risposta alle prime domande è evidentemente negativa: gruppi
di musulmani abitarono nell’Europa dell’Ancien Régime, tra il xvi
e il xviii secolo. Se fosse stato altrimenti, questo libro non avrebbe ragione di esistere. Il contesto ideologico e politico dell’epoca
non era, tuttavia, dei piú favorevoli. Sulle coste cristiane del Mediterraneo persisteva, infatti, l’idea medievale della crociata contro
l’infedele, della coalizione necessaria dei poteri cristiani allo scopo
di contenere i musulmani e riconquistare la Terra santa. Géraud
Poumarède parla, a questo proposito, di una «cultura dell’antagonismo», di una «logica del confronto», alla quale aderirono religiosi e
laici, membri dell’élite intellettuale o delle frange dirigenti e autori
1
f. braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, 2 voll., Einaudi,
Torino (1953) 20105, vol. I, p. xxviii (Prefazione alla prima edizione francese).
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anonimi2. Tra il xvi e il xvii secolo, i pontefici che si susseguirono
si sfiancarono a organizzare gli stati cattolici in leghe antiottomane. Il clero della Controriforma alimentava il mito della crociata
nelle cerimonie pubbliche, nelle processioni, durante le prediche e
le questue presso i fedeli. I generali che tornavano vincitori dalle
grandi battaglie contro gli Ottomani erano celebrati sia da vivi sia
dopo la loro morte; nelle chiese venivano esposti i trofei strappati ai Turchi. I protestanti non erano da meno: definivano i Turchi
«flagello di Dio» ed esortavano i fedeli all’azione. L’ideologia della
crociata prendeva cosí le forme piú svariate. Fiorivano profezie che
annunciavano la conversione del sultano e dei suoi sudditi, o anche
l’avvento di un nuovo imperatore che avrebbe distrutto l’Impero
ottomano e instaurato una monarchia universale, unita dalla fede
cristiana3. Tali profezie accompagnavano un fermento escatologico
ampiamente diffuso, si esprimevano in prosa e in versi e ispiravano
le rappresentazioni pittoriche4. Venivano elaborati progetti di conquista dei territori musulmani che assegnavano ai diversi sovrani
europei il compito di realizzarli. Paradossalmente la Francia prese
parte a questi piani, pur rimanendo estranea ai conflitti armati tra
gli stati cristiani e l’Impero ottomano. Le profezie antiottomane
annunciavano l’avvento di una monarchia universale e i proclami
circa la sua vocazione a dirigere tale impresa di conquista tornarono utili alla propaganda reale, passando il testimone di sovrano in
sovrano, dai Valois fino ai Borboni5.
Dall’altra parte del Mediterraneo, sulle coste musulmane, il
ǧiḥād (guerra santa) era all’ordine del giorno. L’imperativo dei cre2
g. poumarède, Il Mediterraneo oltre le crociate. La guerra turca nel Cinquecento e nel
Seicento tra leggende e realtà (2004 e 2009), a cura di F. Ieva, utet Libreria, Torino 2011.
Sulla retorica antiturca cfr. anche g. ricci, Ossessione turca. In una retrovia cristiana dell’Europa moderna, il Mulino, Bologna 2002; h. laurens, j. tolan e g. veinstein, L’Europe et
l’Islam. Quinze siècles d’histoire, Odile Jacob, Paris 2009, in particolare il cap. iii: Les figures de l’antagonisme, pp. 175-98.
3
Per il caso veneziano vedi l. valensi, Venezia e la Sublime Porta. La nascita del despota, il Mulino, Bologna 1989; poumarède, Il Mediterraneo oltre le crociate cit., pp. 7694, e la bibliografia corrispondente. Per il caso portoghese, l. valensi, Fables de la mémoire. La glorieuse bataille des Trois Rois (1578), Chandeigne, Paris 2009. k. m. setton,
Western Hostility to Islam and Prophecies of Turkish Doom, American Philosophical Society, Philadelphia 1992.
4
Cfr. g. le thiec, «Et il y aura un seul troupeau». L’imaginaire de la confrontation
entre turcs et chrétiens dans l’art figuratif en France et en Italie de 1453 aux années 1620, tesi di dottorato, Montpellier 1994.
5
poumarède, Il Mediterraneo oltre le crociate cit., pp. 94-115; a. y. haran, Le Lys et
le Globe. Messianisme dynastique et rêve impérial en France aux xvie et xviie siècles, Champ
Vallon, Seyssel 2000.
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denti e dei loro governanti era di combattere gli infedeli ovunque
si trovassero, e di far trionfare ovunque la legge dell’Islam. Due
concetti legali completavano questo precetto e definivano l’ordine
del mondo: il dār al-islām, «dimora dell’Islam», identificava tutti i
territori sottomessi all’Islam; il dār al-ḥarb, o «dimora della guerra», designava tutti i territori confinanti e non ancora sottomessi al
dominio islamico. Il dovere dei capi musulmani era, propriamente,
quello di inglobare queste zone nella propria sfera di influenza. È
vero, però, che con il tempo la categoria piú pragmatica del dār alṣulḥ, o «dimora della tregua», era venuta a interporsi tra le altre
due, designando quei territori che versavano un tributo agli stati
musulmani nell’attesa di essere islamizzati e incorporati nel dār alislām. Con questi stati, in pratica, era possibile concludere trattati di pace e stringere relazioni commerciali: per quanto riguarda i
secoli di cui stiamo parlando, erano le cosiddette «capitolazioni»
(letteralmente, capitoli dei trattati) che venivano accordate dal
sultano a un altro sovrano. Se i principi europei li percepivano come dei trattati bilaterali, per l’Impero ottomano, al contrario, esse
avevano un carattere unilaterale: potevano essere autorizzate solo
dal sultano, che era l’unico a esservi vincolato, e dovevano essere
rinnovate all’avvento di un nuovo sovrano6.
L’ideologia del conflitto non fu mai smentita neanche nel xvii
secolo. Nel cuore del mondo musulmano, il regno del sultano
Meḥmed IV (1648-87) si caratterizzò per una ripresa del ǧiḥād come ideologia e pratica bellica7. Alla sua periferia, Algeri era definita, fino alla conquista francese del 1830, come il «boulevard della
guerra santa» e, nella reggenza confinante, Tunisi era considerata «la ben munita città della guerra santa». I mercanti stranieri
venivano chiamati ḥarbī (originari del dār al-ḥarb). Da una parte
all’altra della frontiera religiosa, le due comunità vivevano in un
costante stato di guerra, latente o manifesto, e prevaleva l’idea che
la guerra fosse necessaria, non tanto per rispondere a interessi dinastici o economici, ma come imperativo religioso. E molte furo6
p. viorel, Western diplomacy, capitulations and Ottoman law in the Mediterranean
(16th-17th centuries). The diplomatic section of the manuscrit turc 130 from the Bibliothèque
Nationale in Paris, in s. kenan (a cura di), Osmanlilar ve Aurupa. Seyahat, Karslasma ve Etkilesim / The Ottomans and Europe. Travel, Encounter and Interaction, Isam, Istanbul 2008,
pp. 357-83. Le prime capitolazioni, per la Francia, risalgono al 1569, e non al 1536. Seguirono, per gli Inglesi, quelle del 1580-81, 1597 e 1604.
7
Per una nuova interpretazione del regno di Meḥmed IV, cfr. m. d. baer, Honored
by the Glory of Islam. Conversion and Conquest in Ottoman Europe, Oxford University
Press, Oxford 2008.
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no le guerre combattute tra il xvi e il xviii secolo, sia per mare sia
per terra: guerre tra gli Ottomani e la Repubblica di Venezia nel
xvi e xvii secolo, tra gli Ottomani e l’Impero austriaco, l’Ungheria e la Polonia nel xvii secolo, seguite dai conflitti con la Russia;
guerre navali incessanti tra gli stati cristiani e i corsari barbareschi,
dal Marocco alla Reggenza di Tripoli. Alcune di queste battaglie
sono rimaste impresse nella memoria collettiva europea: Lepanto
(1571), grande vittoria navale dei cristiani alleati contro l’Impero
ottomano; il secondo assedio di Vienna (1683), che si conclude con
la sconfitta ottomana da parte dell’Impero austriaco.
Ma fermiamoci un momento: la nostra memoria sarà per caso
difettosa, selettiva? Queste clamorose vittorie possono farci dimenticare che, in quegli stessi anni, nell’Europa cristiana ci si uccideva in nome della religione? Certo, l’esaltazione religiosa e la
violenza bellica vengono facilmente legittimate quando si tratta
del conflitto tra Cristianesimo e Islam, ma le guerre religiose deflagrarono violentemente nel cuore del mondo cristiano. Possiamo scommettere che le guerre intestine in ogni stato dell’Europa
e tra stati europei – guerre civili in Francia (sette tra il 1562 e il
1585), guerra tra Inghilterra e Irlanda nrgli anni Quaranta e Cinquanta del xviii secolo, guerre dinastiche tra il Regno di Francia e
la monarchia spagnola, guerra tra Spagna e Inghilterra, guerra dei
Trent’anni in tutta Europa – furono piú dispendiose e sanguinose
di quelle combattute contro l’Impero ottomano e gli stati barbareschi. Il re di Francia non partecipò allo scontro navale che condusse alla vittoria di Lepanto e non perse, dunque, alcun soldato. Ma
l’anno seguente, nella notte di San Bartolomeo, da duemila a tremila protestanti vennero massacrati nelle strade di Parigi, e chissà
quanti ancora nelle altre città del regno. Possiamo ipotizzare che
qualcosa del genere accadde anche nel mondo islamico: ossia che,
probabilmente, le guerre intestine e gli scontri tra gli stati causarono piú vite rispetto alla ǧiḥād contro i cristiani.
Cercheremo di analizzare queste ipotesi piú avanti. Innanzitutto, infatti, è importante rispondere alle domande formulate in
precedenza circa la presenza dei musulmani in Europa, per fornire ai lettori qualche indicazione preliminare. Nella trattazione che
segue i musulmani saranno denominati in diversi modi. I cristiani
li chiamavano «maomettani» quando volevano rimarcare la loro
affiliazione religiosa, parola che gli interessati respingevano fermamente per allontanare il sospetto di idolatria nei confronti del
profeta Maometto. Se noi la utilizzeremo in qualche circostanza,
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è per fedeltà ai documenti dell’epoca. Inoltre, un musulmano veniva molto spesso designat0 come «turco», qualunque fosse la sua
origine geografica. Ma «turco» poteva anche rimandare a una funzione: erano turchi tutti i membri della milizia e dell’élite politicomilitare nelle reggenze di Algeri, Tunisi e Tripoli. Essi si distinguevano quindi dai mori, cittadini musulmani e di lingua araba, e
dagli arabi, che abitavano le campagne. I turchi potevano essere
originari sia della Turchia asiatica sia dei Balcani, anch’essi sotto
la dominazione dell’Impero ottomano. Potevano anche essere originari dell’Europa cristiana, per quanto riguarda i cosiddetti «rinnegati» all’islam, per i quali convertirsi significava «farsi turco» o
«prendere il turbante». Per complicare le cose, se turco e musulmano erano sinonimi, un suddito non musulmano dell’Impero ottomano poteva essere designato come «turco di nazionalità», indipendentemente dal fatto che fosse armeno, ebreo o greco. Gli
abitanti dell’Africa settentrionale, invece, erano chiamati anche
barbareschi, come tutti quelli degli stati del Maghreb, denominazione che rimandava soprattutto all’esercizio della pirateria.
La polisemia del termine «turco» si ritrova un po’ ovunque, e si
accompagna in inglese a quella della parola moor, che designava
tanto i mori musulmani quanto i neri, blackamoor. La Penisola
iberica adottò altri termini per identificare i musulmani. Sebbene la Spagna si sia costituita a scapito dell’Islam – l’ultimo regno
musulmano, Granada, cadde nel 1492 –, la popolazione musulmana non scomparve cosí presto. Per questo motivo venne elaborato
un lessico proprio alla Penisola, di cui parleremo a tempo debito.
Incontreremo strada facendo anche altri termini dell’epoca. Il
lettore poco avvezzo a questioni islamiche saprà d’ora in avanti che
l’imperatore o sultano ottomano era il «Gran Signore» o «Gran
Turco»; che il sovrano marocchino, anche se meno potente, portava alternativamente il titolo di sultano, imperatore, o principe
dei credenti. Lo scià (šāh) di Persia era chiamato anche «Sofi», deformazione della parola sufi (mistico). Istanbul/Costantinopoli era
anche la Sublime Porta, e la Repubblica di Venezia era conosciuta
come la Serenissima. Il re di Francia il sovrano «Cristianissimo»
e quello di Spagna il «Re Cattolico»: entrambi avendo ricevuto
questi titoli dal papa, il secondo in occasione della caduta di Granada. I cavalieri dell’Ordine di San Giovanni in Gerusalemme, ordine religioso e militare impegnato nella lotta contro i musulmani,
conservarono il proprio titolo dopo essere stati cacciati dalla città
santa. Si insediarono allora a Rodi, e vennero chiamati cavalieri
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di Rodi (1310-1522). Quando l’isola cadde nelle mani degli Ottomani nel 1522, i cavalieri si stabilirono a Malta nel 1530, diventando cosí i cavalieri di Malta, fino alla loro espulsione da parte
di Napoleone nel 1798.
Gli avvenimenti descritti nelle pagine che seguono si svolgono
in Europa. All’epoca, questa nozione geografica e culturale veniva
usata maggiormente rispetto all’aggettivo europeo. Noi, per indicare il Vecchio Continente, faremo ricorso piú volentieri al concetto di Cristianità, in quanto simboleggia la formidabile frontiera
religiosa che lo separa dall’Islam. «Mondo cristiano», «repubblica cristiana», «popolo cristiano», «sangue cristiano»: sono tutte
espressioni adoperate dai contemporanei in opposizione a «turco», «nemico delle fede», «nemico dei cristiani». L’Islam, con la
I maiuscola, rimanda invece all’insieme dei territori in cui dominava la religione musulmana, l’islam con la i minuscola8. A partire
dal xviii secolo si affermò una certa laicizzazione delle pratiche e
delle idee: è solo da quel momento che si potrà parlare di Europa.
Questo saggio intende abbracciare tutto il continente europeo
lungo tre secoli della sua storia: ambizione smisurata che, naturalmente, non pretende di essere esaustiva e presuppone delle scelte e
implica anche un approccio ora sintetico, ora il piú vicino possibile
alle testimonianze delle vicende narrate. Nel primo caso abbiamo
fatto largo uso di studi recenti, e per questo motivo intendiamo dichiarare tutta la nostra gratitudine verso quegli autori che li hanno
realizzati. Ci baseremo quindi – e i riferimenti bibliografici citati
in nota non mancheranno di segnalarlo – sull’immenso lavoro di
ricerca svolto da una generazione di studiosi sulla schiavitú (non
la tratta dei neri, bensí il commercio e lo sfruttamento di esseri
umani nell’Europa cristiana fino all’inizio del xix secolo), sui musulmani spagnoli e sui loro discendenti o sulle pratiche della guerra
corsara nel Mediterraneo: grazie a loro, le nostre conoscenze sono state notevolmente accresciute e ricchi archivi sono venuti alla
luce. Nel secondo caso, la pubblicazione di alcune fonti di prima
mano e la digitalizzazione di numerosi testi dell’Ancien Régime
sono risultate un aiuto molto prezioso9.
8
«Cristianità» verrà scritto con l’iniziale maiuscola per designare il mondo cristiano, e
la minuscola per designare la fede cattolica. I termini «Ebreo» e «Armeno», invece, verranno scritti sempre con l’iniziale maiuscola, per indicare sia il popolo sia il gruppo religioso.
9
In questa sede riprenderò anche alcune argomentazioni oggetto delle mie prime pubblicazioni. «La storia dei barbareschi schiavi dei cristiani non è ancora stata scritta» è un’affermazione presente nel primo articolo che ho pubblicato per le «Annales» (Esclaves chré-
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La lettura diretta di antiche testimonianze e relazioni obbedisce a un’altra intenzione. Noi non siamo, infatti, alla ricerca
dell’«uomo musulmano» in Europa, ma di quegli uomini e donne,
identificabili come musulmani, che si sono mescolati, nella buona e nella cattiva sorte, ad altri uomini e donne, di fede cristiana.
Le loro parole restituiscono un tono, un accento di verità, che lo
storico tende a smorzare quando nasconde la voce della testimonianza diretta parlando al suo posto. Senza pretendere, con Jules
Michelet, che la storia debba puntare alla resurrezione dei morti,
vorremmo semplicemente lasciare la parola agli uomini e alle donne di quell’epoca lontana, in modo che possano rivolgersi a noi come fossero nostri contemporanei10. Inoltre rispettare, insieme alla
diversità dei luoghi, anche quella delle esperienze, evita di perdere in una massa anonima ciò che è stato vissuto dagli individui.
Come vedremo, i musulmani in Europa raramente hanno formato
dei gruppi compatti; anche quando si sono organizzati in comunità, come per esempio in Spagna, queste si rivelarono infinitamente piú variegate di quanto le autorità religiose e politiche potessero credere. Analizzando i casi di persone provenienti dai luoghi
piú disparati, saremo in grado di tracciare i confini dei fenomeni
studiati, e dunque di delineare una geografia della schiavitú, una
cartografia delle relazioni diplomatiche, nonché uno schema delle
relazioni tra le due sponde nemiche.
Ci occuperemo quindi dei musulmani presenti nella Cristianità. Non si tratterà tanto del riconoscimento o disconoscimento
dell’islam presso i cristiani europei; o delle rappresentazioni, anche pittoriche, di musulmani (a meno che queste siano il risultato
diretto della loro presenza). Non si tratterà neanche, e a maggior
ragione, dei contatti avvenuti fuori dall’Europa cristiana: non seguiremo il flusso costante dei comandanti e degli equipaggi delle
navi che assicuravano gli scambi tra le coste cristiane e musulmatiens et esclaves noirs à Tunis au xvi e siècle, in «Annales esc», n. 6, 1967, p. 1268) e costituiva parte di un progetto, come il resto del testo, volto ad approfondire la questione della
guerra corsara e della schiavitú nel mondo mediterraneo, al di là dei rapporti tra Islam e
Cristianità. Tale affermazione è stata richiamata in s. bono, Schiavi musulmani nell’Italia
moderna. Galeot­ti, vu’ cumpra’, domestici, Edizioni Scientifiche Italiane - Università degli
studi di Perugia, 1999: l’opera di Salvatore Bono colma magistralmente tale lacuna per il
caso italiano. Altre ricerche – sull’identità etnica e religiosa, e sui cambiamenti di identità – mi preparavano a riprendere successivamente ciò che costituisce l’oggetto di questo libro.
10
Purtroppo, non possiamo riportare integralmente tali testimonianze, di cui presenteremo solo degli estratti, con l’auspicio che il lettore venga comunque sollecitato a ricercarne il testo integrale.
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ne del Mediterraneo; né quello dei mercanti che soggiornavano in
Oriente, dei viaggiatori e pellegrini che vi erano di passaggio, o
dei consoli che vi restavano. Né, infine, quello degli orientali non
musulmani – Armeni, altri cristiani d’Oriente, Ebrei – che attraversavano l’Europa per raccogliere fondi, fare commerci, difendere
gli interessi di un qualche sultano del Marocco. Vestiti come i musulmani, da cui si distinguevano per alcuni segni, fecero conoscere
all’Europa qualcosa dell’Oriente musulmano, ne fecero sentire i
profumi, ne diffusero le pratiche, ma renderebbero il quadro piú
confuso e renderebbero ancora piú smisurata la ricerca condotta
per questo libro11.
11
Ultima annotazione, la stesura di questo lavoro era pressoché conclusa quando è
uscito il volume diretto da j. dakhlia e b. vincent (a cura di), Les musulmans dans l’histoire de l’Europe, t. I: Une intégration invisible, Albin Michel, Paris 2011. Segnaliamo in nota le informazioni complementari fornite da questo volume e le osservazioni scaturite dalla sua lettura.
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