SULLO HEGEL DI FINELLI Procedo in modo del tutto rapsodico. 1° Non mi convince e mi pare che pesi la presenza tacita di un ‘principio antropico’, non solo e non tanto nel riferimento evidente alla lettura marxiana di Epicureo (i princìpi della realtà materiale, gli atomi, intesi come proiezioni del modo in cui l’uomo rappresenta se stesso: insomma una cosmologia come metafora antropologica: in particolare, cfr. pp. 49, 50, 63): la centralità umanistica dell’umanesimo e dei suoi macroscopici ‘residui’ nello storicismo tedesco, in Hegel e nel giovane Marx mi sembra molto chiara: il mondo della natura (fisico-naturale, vegetale, animale), del quale l’uomo (sia della ‘ragione’ che dell’’inconscio’) è parte non separabile (se non per astrazione intellettiva: cioè come punto di vista speciale di un sapere, che direi scientifico), non dovrebbe essere relegato, in una filosofia che vuole essere una completa Weltanschauung, nel basso regno del puro empirico, del finito, della falsa infinità, quando poi il destino dell’uno è anche quello dell’altro (a meno di non escludere dalle ipotesi un regno sovra-naturale, appunto, per l’uomo nel suo al-di-là). Questa ‘presunzione’ dell’uomo dovrebbe finire, io credo, con l’abbandono del punto di vista classicamente umanistico, anche e specialmente perché è proprio questo mondo della natura che pone e porrà in modo sempre più pressante le sue ‘istanze’ al genere-uomo. 2° Al di là delle considerazioni che si debbono fare nel merito della logica hegeliana, su cui vorrei poi tentare di cogliere il suo nocciolo effettivo, mi pare che sia presente un uso continuo molto forte della logica stessa come metafora del ‘reale’: quando (poniamo a p. 103) si dice che nella fenomenologia hegeliana la ‘circolarità’ (forse, meglio, la ‘spirale’) della soggettività – per la capacità di apertura e di rapporto con l’altro, ed insieme di conservazione e di accrescimento del suo essere ‘identitario’, propria della sua spiritualità – è (per quanto detto) alla base di una concezione circolare (spirale) della verità, si opera una metafora: la verità (appartenente solo alla logica e non alla semantica, cioè non alla relazione di parola-pensiero e cosa) viene proiettata sui procedimenti effettivi del reale e fatta partecipe di essi: lo spirito, arricchito di rapporti con l’altro da sé, vuole allora più di una sua descrizione: vuole quella descrizione, ma affidata ad una logica, ad un meccanismo astratto, metafora di quel che è il contenuto della descrizione, e solo così vede la sua verità arricchirsi di contenuto e sopravanzare se stessa. In questa metafora, la logica è, per così dire, la legge della realtà, cioè una sua descrizione, ma ‘necessaria’ e costante. 3° Quello che mi sembra il nocciolo della logica hegeliana è il modo del suo superamento della logica ‘formale’: questo superamento viene affidato, ancora una volta, ad una ‘metafora’ della logica, che (se avesse senso dirlo) è una nuova logica che ha bisogno di un motore interno (e pertanto su di esso si fonda o ad esso si affida), che, se ciò fosse consentito dai tempi, ne farebbe a sua volta una metafora della psicanalisi. La negazione, che è logico-formale, può in effetti assumere il ruolo di principio del superamento quando si introduca in essa un motore che non le appartiene in quanto logica, essendo invece una pulsione della soggettività (pulsione, per conservare una ‘omologia’, chiamata ancora logica della negazione della negazione). Il mistero sarebbe come e perché ciò possa accadere, se questa operazione, in sè descrittiva, non fosse affidata ad una concretamente e vitalmente umana operazione cui partecipa tutto il soggetto. (pp. 106-7) Ma allora viene il dubbio: se il motore è pulsionale, quale utilità c’è nella sua ‘riduzione’ logicistica? Cosa resta della negazione della negazione quando un accadere del profondo soggettivo viene introdotto dentro una procedura solo formale come quella logica? Quando la chiarificazione dovesse venire affidata alla psicanalisi, si potrebbe dire che la dialettica non sia più necessaria. O viceversa: se la logica della negazione dovesse avere in sé il potere motore della Aufhebung, la psicanalisi (almeno in quanto ‘medicina motrice’ sarebbe già stata superata. Insomma: o dialettica hegeliana o psicanalisi. Ciò non significa che un’antropologia neo-marxiana non debba fare i conti sia con Hegel che con Freud. Vediamo meglio (pp. 103-9). Quando il Sé (lo Spirito) sta per un ‘divenire se stesso attraverso il rapporto con l’altro’ e quando ‘infinità vera’ è quella della soggettività che si universalizza, il processo che compie questo percorso è la dialettica, il cui motore è quella negazionecontraddizione che non genera ‘confini di differenza e di coesistenza indifferente’. Come si manifesta questa qualità in quel motore? Ogni negazione determinata è condizione di auto-superamento per sua intrinseca inadeguatezza: questo riconoscimento autocosciente assegna tuttavia alla negazione una potenza non-logica: la contraddizione, nella compresenza di ‘opposti’, è infatti psico-dinamica (e non logica-linguistica) e, in quanto tale, capace di proiezione del finito nella relazione, di rimozione e quindi di superamento del finito e dell’opposizione nell’unità più alta (l’Assoluto altro non è che il finito stesso, cioè è immanente alla realtà). Il superamento conserva il finito, non lo annulla, ma si arricchisce dell’altro, trapassa nei modi ulteriori delle sue autorappresentazioni (processo a spirale) e raggiunge un’identità come esito del suo prodursi (cfr. pp. 11112). Il motore è pertanto una realtà psico-dinamica che proietta, rimuove, supera: anche qui mi pare che si ripresenti la metafora, che ora è passata dal piano naturalisticocosmologico a quello antropologico, proiettando descrizioni pulsionali-vitali sul piano meta-descrittivo di una logica ad hoc. Da sottolineare la presunzione umanistica assoluta del principio ‘identitario’ e della sua infinita crescita. 4° Antropologia della penuria, fondata su un materialismo e su un egualitarismo dei bisogni, e recupero di un nuovo umanesimo o suo superamento in un nuovo umanesimo tale da comprendere anche l’universalismo delle differenze? Qui non riesco a vedere quanto segue: a) perché si devono mediare o unificare queste due antropologie, cioè derivarle, mediante un unico ‘motore’ (non logico, peraltro) da una sola filosofia, quella dello Spirito (unica antropologia universale, le altre essendo solo parti da superare)? Proprio perché l’analisi economica può bene evidenziare l’alienazione del lavoro, ma non tutte le altre forme d’alienazione, evidenziate da altri tipi di analisi, cosa aggiunge ad una completa loro connessione la ‘derivabilità’ logica da un unico principio? L’analisi economica deve farsi carico di tutte le altre forme di alienazione, trascendendo in tal modo, da analisi dell’economia, a filosofia totalizzante dell’essenza umana? La ‘comprensione’ può essere solo ‘totale’ e ‘del tutto’ oppure non essere affatto? b) come giustificare, nello specifico unico e singolare contesto ‘logicofenomenologico’ di Hegel, l’eterogenea aggiunta di Freud? c) come può accadere che il principio ‘economico’ di produzione materiale sia ‘insieme’ principio di produzione simbolica (soggetto-maschera e ricchezza quantitativa che manipola il mondo qualitativo; cioè: alienazione e dissimulazione) e che questo apra all’inconscio come processo ‘necessario’ di comprensione, per cui materiale e simbolico stanno insieme, il tutto essendo sempre presente in ogni sua parte, in base a quel ‘motore’, di cui s’è detto? Perché non, piuttosto, una comprensione che apre (necessariamente) ad altra comprensione e questa ad altra ancora, fino a mettere insieme tasselli senza dover anche supporre che ciascuno di essi sia ‘insieme’ tutti gli altri e che il tutto misticamente sia presente nella parte? Non ne nascerebbe forse una filosofia della storia tutta implicita nella iniziale comprensione del tutto da parte di un soggetto-Spirito, per se stesso infinito? La teoria di questa Weltanschauung non avrebbe già di per sé prodotto e raggiunto il ‘senso della storia’? Se il senso sta in un divenire ‘nella’ società-storia (e non ‘della’ società-storia (p. 161), non cade forse del tutto la teorizzazione del percorso? 5° Infine: perché la pulsione di ‘universalità’ deve essere necessariamente positiva (cfr. p. 161)? Io penso il contrario. 6° Notare che la tesi del presupposto-posto o immediato-mediato non può partire dal posto o dal mediato perché intanto c’è un mediato di una mediazione in quanto c’è un immediato da mediare e in tanto si pone qualcosa (che così viene posto) in quanto c’è un presupposto da porre: solo nella forma del circolo, conoscere dell’intelletto e sapere della ragione risolvono il problema del ‘cominciamento’: l’immediato è a sua volta un mediato antecedente: nella epistemologia scientifica di oggi ciò è ben chiaro; ma nel percorso pratico della storia? 7° Una causalità interna (p. 28), come approfondimento di una realtà, non pone il problema, tutto da dimostrare, di un percorso psicanalitico fondato sulla causalità? 8° C’è, mi pare, l’equivoco della dualità teoria-prassi: a) in un senso specifico ogni teoria è anche la prassi per realizzare tale teoria (e questo l’epistemologia della scienza lo ha ben compreso); b) in un altro senso specifico, la teoria è teoria in quanto oggetto ipotetico, fatto di postulati, protocolli ecc., che non è prassi: quindi i due aspetti vanno tenuti distinti e separati. Proprio nel circolo dell’autoriflessività il soggetto è in grado di distinguere: una scienza fondata sulla prassi, in senso stretto, è un non-senso. E parimenti: una cosa è la teoria di Freud e altra cosa è il suo contenuto (inconscio ecc). Non si può commisurare la teoria in base al suo oggetto: p. es. la teoria del lutto in base al lutto o come prodotto del lutto. E ancora: la teoria, poniamo, dell’alienazione non si commisura con l’alienazione stessa, come prodotto della stessa alienazione, cioè come teoria alienata; se è sbagliato un contenuto della teoria, questa può invece essere ancora valida cambiando il contenuto; oppure può accadere che la critica di un contenuto possa mettere in causa tutta la teoria, che va allora cambiata (p. es. la caduta tendenziale del saggio di profitto, rispetto alla teoria generale del Capitale). 9° Raccolta di dati senza unificazione o con unificazioni solo astratte? Questo però non accade nelle scienze empiriche. 10° Questa realizzazione ‘identitaria’ la vedo però come un’assoluta presunzione, perché il finito sembra essere in grado di cogliere ‘tutto’ l’infinito del suo percorso di opposizione-contraddizione all’altro, sia spaziale che temporale, senza residui: e questo è fuori anche della dinamica motrice psicanalitica. 11° Ho la sensazione che la dialettica sia come una scorza formale per contenere in un meccanismo tutta la realtà. 12° Ho la sensazione che la critica filosofica in realtà non sia altro che uno spazio (logico) che l’oppositore si crea per poter affermare la sua antropologia (o Weltanschauung). 13° Il passaggio all’antropologia del finito aprirebbe a me il problema del nesso tra finito e finito, perché non riuscirei a vedere come la molla motrice potrebbe essere ancora l’universale spirituale immanente nel soggetto. 14° Ho la sensazione che ogni filosofo tedesco, per la sua formazione (per lo più) protestante, sia un potenziale teologo. Allora, anti-gramscianamente, vorrei sottolineare l’importanza della ‘controriforma’, in tal senso! 15° Temo che l’unificazione statuale sia sempre più impossibile perché impossibile è proprio l’unificazione della società civile. Proprio l’analisi del profondo di questa nega tale sua unità (o è la proprietà privata?). Solo uno sbocco violento potrebbe ‘unificarla’, ma negando con ciò lo scopo. 16° Il proletariato esige la negazione della proprietà privata (p. 298): ma questo è proprio vero? Lo dice l’intellettuale Marx. Caro Roberto, al di là di questi miei dubbi (o convinzioni) di fondo, che peraltro già ben conosci, debbo dirti che hai scritto un libro molto bello, che ho letto con molto piacere e interesse. Questo libro apre molte prospettive per un rinnovo del marxismo e della politica di sinistra. Un abbraccio fraterno. Alberto