IL PRIMO DOPO GUERRA
L’EUROPA E IL MONDO DOPO LA PRIMA GUERRA MONDIALE
© GSCATULLO
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Il primo dopoguerra
I problemi del dopoguerra
I trattati di pace
I trattati di pace di Parigi (1919-1920) cambiarono l’assetto geopolitico europeo alla ricerca di un nuovo
equilibrio dopo la guerra, ma che portò in realtà ad una diffusa insoddisfazione. La Germania si sentiva
umiliata dalla riduzione territoriale e dalla sua divisione con il corridoio di Danzica; l’Italia non si era vista
riconosciute Fiume e la Dalmazia, una vittoria mutilata secondo i nazionalisti.
Un altro problema irrisolto era quello della nazionalità: non si era infatti rispettato il principio di
autodeterminazione dei popoli proposto dal presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson, ma si erano
formati una serie di stati abitati da popolazione spesso in contrasto tra loro:
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la Iugoslavia costituita da una maggioranza di Serbi, Croati, Bosniaci, Sloveni e Montenegrini, diversi
per lingua e religione;
la Polonia, in cui convivevano minoranze tedesche, specialmente nell’area occidentale, e una forte
presenza russa, nell’area orientale.
Caso più eclatante fu però quello della Cecoslovacchia che comprendeva principalmente Cechi (Boemi e
Moravi), Slovacchi e una minoranza formata da circa tre milioni di Tedeschi, insediati nel territorio dei Sudeti.
Nel paese però la maggior parte delle cariche erano occupate dai Cechi e lo sviluppo dei loro territori –
rispetto quello degli altri – era più simile a quello dei paesi occidentali.
La Società delle Nazioni
Proposta da Wilson nei Quattordici punti, la Società delle Nazioni fu fondata a Ginevra nel 1920 con
l’obbiettivo di costituire un’organizzazione i cui interessi erano sopra quelli delle singole nazioni e che fosse
in grado di risolvere eventuali contrasti tra stati tramite la diplomazia. Nel giro di un decennio tutti gli Stati
del mondo entrarono a far parte della Società delle Nazioni, tuttavia quest’organizzazione non riuscì a
garantire una pace duratura:
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il Senato americano non approvò nel 1920 la proposta del presidente Wilson di far entrare gli Stati
Uniti nell’organizzazione;
non disponeva di una forza militare con la quale fermare chi non rispettasse le direttive.
Il calo demografico e l’influenza
La guerra aveva causato oltre 8 milioni e mezzo di morti, di cui 615 000 italiani, e 20 milioni di feriti gravi,
mutilati e invalidi. Ciò contribuì ad un forte calo demografico, causato anche da una diffusa epidemia, detta
influenza spagnola dal luogo in cui si riteneva si fossero verificati i primi casi. Questa malattia si era sviluppata
in realtà in Cina all’inizio del 1918 nella Marina giapponese e nel Nord America: in quell’anno erano stati
trasferiti in Europa dal resto del mondo oltre a soldati anche lavoratori, quest’ultimi diffusero il virus anche
a causa delle condizioni di miseria dove erano costretti a vivere.
Il contagio colpì complessivamente circa un miliardo di persone, più di metà della popolazione, e ne morirono
tra i 21 e i 22 milioni, più di tutte le vittime della prima guerra mondiale. L’elevata mortalità era dovuta a
cause diverse: la particolare virulenza del virus; la possibile concomitanza con un altro bacillo; la
malnutrizione già presente da anni nella popolazione dei paesi in guerra; la mancanza di antibiotici per le
complicazioni polmonari; le precarie condizioni igienico-sanitarie dei soldati in guerra.
La crisi economica
La guerra aveva chiesto all’industria di concentrare tutti gli sforzi produttivi per la creazione di materiale
bellico. Era dunque necessaria, terminata la guerra, una riconversione industriale, tornando al normale tipo
di produzione del tempo di pace. Ciò però richiedeva un impiego di risorse economiche che molte aziende,
in un’Europa impoverita dalle spese di guerra, non poteva permettersi. Si ebbe di conseguenza una crisi
dell’industria: le aziende iniziarono a licenziare o abbassarono i salari, diffondendo povertà e disoccupazione.
Inoltre i debiti contratti dai governi per le spese di guerra li indussero a stampare nuova carta moneta: ciò
provoco inevitabilmente l’inflazione ed i prezzi aumentarono in modo incontrollabile, a danno dei risparmi e
dei salari dei lavoratori dipendenti e di chi percepiva un reddito basso. A soffrire di questa particolare
situazione fu in particolare il ceto medio: mentre gli operai potevano contare sulle organizzazioni sindacali
che rivendicavano adeguamenti dei salari al costo della vita, lo stesso non si poteva dire per la piccola
borghesia e gli impiegati.
Nel complesso l’economia europea era in ginocchio: il territorio devastato, la produzione in crisi, i commerci
internazionali notevolmente ridotti, i debiti pubblici con l’estero – in particolare con gli Stati Uniti –
consistenti. Ciò rese l’Europa dipendente in qualche modo con gli Stati Uniti.
Il disagio sociale
Una società nuova
La guerra aveva trasformato radicalmente anche la società, e le generazioni che la combatterono vissero
un’esperienza senza uguali: per la prima volta dall’unificazione d’Italia i giovani del Sud si incontrarono con
quelli del Nord, per combattere dietro le trincee, e si erano mobilitati milioni di uomini. La guerra contribuì
cioè alla creazione di una coscienza collettiva e segnò il vero ingresso delle masse nella storia.
Dopo la guerra i conflitti sociali si acuirono: i sindacati e i partiti, consapevoli della propria forza, si unirono e
avanzarono nuove richieste:
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gli operai volevano aumenti di salario e più potere nelle fabbriche;
i contadini chiedevano la proprietà della terra che lavoravano;
il ceto medio manifestava il proprio disagio economico, avvicinandosi ai movimenti più autoritari.
II nuovo ruolo della donna
Con la guerra, che aveva visto lo spostamento degli uomini al fronte, si offrirono alle donne nuove possibilità
sociali ed economiche. Entrarono nel mondo del lavoro, per sostituire gli uomini nelle fabbriche, pagate in
tempo di guerra il doppio del salario che percepivano in tempo di pace, ottenendo una maggior indipendenza
e disponibilità di denaro, potendo spesso così emanciparsi da padri e fratelli, trascorrendo meno tempo in
casa e potendo vestire abiti più corti in luogo dei corpetti e della gonna.
L’assenza dei mariti gli conferiva anche un nuovo ruolo fondamentale nelle famiglie, prendendo in autonomia
le decisioni da capofamiglia che non doveva più solamente eseguire. Tutti questi mutamenti influenzarono
anche la politica e nel processo di emancipazione ottennero anche il diritto di voto in Inghilterra (1918),
Germania (1919) e Stati Uniti (1920). Terminato il conflitto si cercò di reinserire i reduci nei posti di lavoro,
così molte donne dovettero tornare ad essere casalinghe, ma il cambiamento che era iniziato non avrebbe
potuto essere arrestato né invertito.
Il problema dei reduci
Non fu semplice per colore che avevano combattuto la guerra reintegrarsi nella società, complice la crisi
economica che non garantiva posti di lavoro per tutti né tantomeno adeguate ricompense per persone che
erano disposti a dare la vita per la propria patria: ciò causò un certo risentimento. Questi uomini reduci si
riunirono in associazioni con un importante ruolo socio-politico nel dopoguerra, che ebbero come obbiettivo
quello di tutelare gli interessi degli ex combattenti e delle loro famiglie: chiedendo risarcimenti, pensioni,
previdenza sociale ecc. Queste organizzazioni, dallo schieramento politico vario, erano più pericolose che
altre: è il caso della Federazione Arditi d’Italia.
Gli Arditi
Gli Arditi, variante italiana delle Sturmtruppen (“truppe d’assalto”) tedesche, erano combattenti speciali che
vennero impiegati sul finire della guerra per azioni temerarie come assaltare le trincee per aprire la strada
alla fanterie. Erano stati sottoposti ad una dura preparazione, con violente simulazioni, e convinti di essere
diversi e più importanti delle altre truppe, eccitati con il mito della forza. L’Ardito era il simbolo della gioventù
eroica che sfidava tutto e tutti per la patria.
Terminata la guerra fecero talvolta fatica a rientrare nell’ordine, ritenendo che “la guerra pareva ormai
diventata la nostra seconda natura”, come scriveva uno di loro, e riuniti in associazione si erano convinti di
dover servire l’Italia liberandola dai nemici esterni ed interni: anzitutto i socialisti, ostili alla guerra, e i ministri
rinunciatari che avevano firmato il trattato di pace, che a loro vedere era iniquo per l’Italia. Nel 1921
l’arditismo entrò nelle file del fascismo, condividendone lo spirito eversivo.
La sfiducia nella democrazia liberale
Nella società l’insoddisfazione era diffusa e molti aspiravano ad un nuovo sistema politico che ponesse
termine alla crisi. Sempre più spesso le situazioni proposte dalle organizzazioni politiche furono rivoluzionarie
o fortemente autoritarie: in ogni caso mettendo in discussione i principi della democrazia e dello Stato
liberale.
Tra il 1919 e il 1920 il disagio della popolazione si tradusse in tutta Europa in una serie di scontri sociali. Gli
operai, i contadini e i ceti medi cittadini avviarono una stagione di lotte e manifestazioni; di contro i borghesi
moderati che temevano una rottura rivoluzionaria del sistema vigente si spostarono da posizioni liberali a
posizioni di estrema destra appoggiando quanti proponevano di utilizzare la forza in difesa dell’ordine sociale
esistente.
Così la democrazia liberale vacillò: attaccata contemporaneamente dall’estrema sinistra e dall’estrema
destra. Il disprezzo per le istituzioni parlamentari, giudicate troppo deboli, raggiunse un livello allarmante. Il
sistema politico resse solamente in paesi di antica tradizione liberale come la Francia e l’Inghilterra, mentre
negli altri paesi d’Europa si era aperta la strada a governi di tipo autoritario e alle dittature.
Il biennio rosso
L’Internazionale Comunista
Dopo la rivoluzione bolscevica del 1917 le democrazie europee si trovarono ad affrontare una nuova
minaccia: tra gli operai e i contadini si andava diffondendo il mito della rivoluzione come un sogno
realizzabile, su modello della Russia, da concretizzare in una dittatura del proletariato. I conservatori europei
temettero il contagio rivoluzionario, considerando anche l’impegno attivo del nuovo governo russo nella
propaganda del comunismo. Lenin e i bolscevichi promuovevano la formazione di partiti comunisti nel mondo
che avrebbero dovuto prendere le distanze dai socialisti democratici e rifiutare il sistema parlamenteredemocratico aspirando ad una rivoluzione sul modello russo.
Lenin riteneva necessario riunire i “veri” socialisti rivoluzionari in un’unica organizzazione: la Terza
Internazionale, detta anche Comintern (Internazionale Comunista) che sorse a Mosca nel marzo 1919. Lenin
era convinto che in Europa ci fossero le condizioni per avviare una rivoluzione da estendere al mondo intero,
sotto il coordinamento del Comintern.
Nel luglio 1920 si tenne a Mosca il Congresso dell’Internazionale Comunista, in occasione del quale Lenin fissò
in un documento ventun punti ritenuti essere le condizioni per l’adesione all’Internazionale, all’insegna di
una totale subordinazione del comunismo europeo al partito sovietico, chiedendo:
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l’estromissione da tutti i posti di responsabilità del movimento operaio di elementi riformisti e
centristi, sostituendoli con comunisti fidati;
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l’approvazione della rottura totale con il riformismo e la politica del “centro” e la propaganda di
questa rottura;
l’appoggio al movimento delle colonie per la cacciata degli imperialisti;
il sostegno senza riserve alle repubbliche sovietiche nella lotta ai controrivoluzionari;
l’assunzione della denominazione “Partito Comunista” di [nome paese], “sezione della Terza
Internazionale Comunista”;
l’espulsione dal partito di tutti i membri che rifiutano formalmente le norme e le condizioni della
Comintern.
Ne seguì una forte contrapposizioe tra socialisti riformisti e comunisti con la relativa scissione all’interno di
molti partiti socialisti. Tra il 1920 e il 1921 furono fondati partiti comunisti dai socialisti rivoluzionari in molti
paesi.
La crescita del movimento operaio
L’esperienza della guerra, la crisi economica, il mito della rivoluzione ed il desiderio di una società più giusta
rafforzarono il movimento operaio che si batteva per i diritti dei lavoratori e si diede un’organizzazione più
articolata. La politica smise di essere una questione elitaria appartenente ai notabili borghesi e la classe
operaia si rese conto del suo peso politico, partecipando attivamente con comizi, cortei e manifestazioni. I
partiti socialisti ottennero importanti successi elettorali mentre i sindacati raccoglievano il consenso dei
lavoratori.
Il biennio rosso
Trai il 1919 e il 1920 l’Europa fu toccata da un’ondata di scioperi e agitazioni operaie che chiedevano un
aumento dei salari e la giornata lavorativa di otto ore, quest’ultimo obbiettivo raggiunto quasi ovunque.
Questo periodo di lotte, chiamato biennio rosso, non si limitò a semplici rivendicazioni sindacali: gli operai si
organizzarono in consigli operai su modello dei soviet russi e fu messo in discussione il potere nello Stato e
nelle fabbriche. Questo periodo ebbe sviluppi diversi nei vari paesi:
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In Germania, ancor prima della fine della guerra i consigli degli operai e dei soldati, che avevano
occupato le fabbriche e le sedi dei giornali, prendevano decisioni nella gestione delle aziende e
avevano un peso politico. L’estrema sinistra era rappresentata dalla Lega di Spartaco, guidata da Karl
Liebknecht e Rosa Luxemburg, rifiutava la linea moderata del partito Socialdemocratico e, anche
dopo la proclamazione della repubblica, continuò con proteste in piazza e tentativi rivoluzionari.
In Austria, che dopo la proclamazione della repubblica era governata dai socialdemocratici, i
comunisti tentarono una rivoluzione ma senza successo.
In Ungheria nel marzo 1919 socialisti e comunisti diedero vita ad una Repubblica dei Consigli su
modello sovietico guidata dal comunista Bela Kun. Il progetto era di allargare l’esperienza all’Austria
ma senza successo a causa dell’isolamento dei comunisti ungheresi.
In Italia entro in crisi il sistema politico ma si divise anche il movimento operaio con lascissione del
Partito socialista.
Il fallimento delle rivoluzioni
L’esperienza rivoluzionaria in Europa fu un fallimento: in tutti i paesi i tentativi di sovversione furono stroncati
con la forza. In Germania intervenne l’esercito che arrestò ed uccise i principali responsabili; in Italia
l’iniziativa rivoluzionaria scemò in favore del fascismo; in Austria le elezioni furono vinte dai conservatori e
dai clericali, forti del sostegno delle masse contadine più reazionarie; infine in Ungheria il fallimento della
repubblica sovietica lasciò il potere alla controrivoluzione guidata da Miklos Horthy che eliminò fisicamente
l’opposizione comunista ed instaurò il primo regime autoritario europeo del dopoguerra nell’agosto 1919.
Dittature, democrazie e nazionalismi.
L’Europa delle dittature
La crisi economica degli anni Venti e Trenta permise cambiamenti radicali in gran parte del mondo. In Europa
sorsero dittature e regimi totalitari, con poche eccezioni: tra gli stati più importanti mantennero democrazie
liberali sono Francia e Gran Bretagna, dove le classi dirigenti riuscirono a controllare le frange massimaliste
dei partiti socialisti, tuttavia anche in questi stati si ebbe una forte affermazione delle forze moderate e
conservatrici.
Nel resto d’Europa invece il sistema parlamentare si rivelò fragile e non resse alle pressioni per una svolta
autoritaria. L’Ungheria fu il primo paese che sperimentò l’autoritarismo di destra con l’ammiraglio Horthy
che nell’agosto del 1919 impose la sua dittatura abolendo le libertà politiche e sindacali e reprimendo ogni
forma di opposizione. Nel 1922 Mussolini andò al governo in Italia ed organizzò in pochi anni un regime
dittatoriale che funse da modello per gli altri paesi. Seguirono la Bulgaria (1923), l’Albania (1924), il
Portogallo (1926), la Polonia, i paesi baltici, la Finlandia e la Spagna. La quasi totalità dell’Europa degli anni
Trenta era sottoposta ad un regime totalitario.
L’Europa democratica
La Francia nel primo dopoguerra fu guidata da governi di centro-destra cui seguirono nel 1924 alcuni anni di
radicali-socialisti, uniti nel “cartello delle sinistre” per vincere. Nel 1926 salì al potere Raymond Poincaré,
capo dei moderati, che guidò il governo sino al 1929 appoggiato dall’alta borghesia, dai ceti medi cittadini e
dai proprietari terrieri, riuscendo a risanare il bilancio dello Stato e superare le difficoltà economiche, al
prezzo di una forte pressione fiscale sulle classi popolari, che fu esercitata grazie anche alla debolezza dei
sindacati.
Anche la Gran Bretagna attraversò un periodo di difficoltà economica e sociale, perso il primato economico
in favore degli Stati Uniti e complice la diffusione del petrolio e delle nuove tecnologie che ridussero il
consumo di carbone di cui aveva il monopolio. Come conseguenze di questa situazione crebbe la
disoccupazione, quasi due milioni di persone, e l’impero coloniale iniziò a vacillare.
Nel 1924 ci fu una prima esperienza di governo laburista (partito inglese di ispirazione socialista) che durò
pochi mesi. Tornati al potere i conservatori attuarono una politica di rigore finanziario e contenimento dei
salari che scatenò le reazioni dei lavoratori: nel 1926 ci fu una grande ondata di scioperi, in particolare i
minatori condussero una lotta sindacale protrattasi per molti mesi a causa dell’irrigidimento del governo.
Atatürk, il “padre dei Turchi”
L’Impero turco dopo la guerra fu fortemente ridimensionato dai trattati di pace del 1919 e il suo territorio
spartito tra le potenze europee. Francia e Inghilterra avevano ottenuto il controllo di gran parte dell’area
mediorientale grazie al sistema dei mandati: forma di amministrazione territoriale che prevedeva
l’affidamento temporaneo degli Stati e dei popoli “non ancora in grado di reggersi da sé” ad una grande
potenza. In questo modo la Gran Bretana ottenne, alla stregua di colonie, i territori mediorientali che
appartenevano all’Impero Turco (Iran, Iraq e Palestina), la Francia la Siria, il Libano e il Camerun (ex colonia
tedesca).
I Turchi si ribellarono, ritenendo i mandati una nuova forma di colonialismo, guidati da Mustafà Kemal,
generale che aveva combattuto contro gli Inglesi nella prima guerra mondiale. Nel 1920 i nazionalisti turchi
ingaggiarono una vera e propria guerra contro il governo corrotto di Istanbul, sostenuto dagli Europei che
occupavano militarmente la capitale, e dopo due anni di conflitto gli Inglesi e i Francesi si ritirarono. Alla
Turchia fu così riconosciuta piena autorità e restituiti parte dei territori che gli erano stati sottratti.
Il 29 ottobre 1923 in Turchia fu proclamata la repubblica, Kemal – chiamato Atatürk, “padre dei Turchi” - ne
divenne presidente e la capitale trasferita ad Ankara. Il generale iniziò un programma di riforme per «fare
entrare la Turchia nella civiltà», come disse lui: nel 1922 soppresse il sultanato e nel 1924 il Califfato.
Con l’obbiettivo di creare uno stato laico, contrapposto al dominio precedente dell’Islam, chiuse le scuole
religiose e confiscò i beni delle comunità monastiche. Abbandonò la legislazione islamica in favore di una di
tipo occidentale, modificò la costituzione eliminando riferimenti all’Islam (1928) ed affermandovi il principio
di laicità (1937). Nel 1934 concesse alle donne il diritto di voto, vietò agli uomini di indossare il fez e il turbante
- simboli dell’antico Oriente – ed impose l’alfabeto latino su quello arabo, adottò il calendario gregoriano in
luogo di quello dell’egira e rese la domenica giorno di riposo al posto del venerdì.
Le colonie e i movimenti indipendentisti
Il nazionalismo nelle colonie
Francia e Inghilterra dovettero fronteggiare anche la crescita dei movimenti indipendentisti e nazionalisti
nelle colonie, in Africa e in Asia, che rivendicavano maggiore autonomia e la partecipazione politica nei propri
paesi. I fattori che determinarono un aumento di questi movimenti furono:
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la pretesa delle colonie di una ricompensa per aver partecipato alla Prima Guerra Mondiale al fianco
dell’Intesa;
quanti avevano preso parte alla guerra in Occidente aveva conosciuto la democrazia e si impegnò
per esportarla nel proprio paese;
i Quattordici Punti di Wilson (1919) avevano creato alcune illusioni poiché due di essi facevano
riferimento ai diritti degli indigeni delle colonie;
l’Unione Sovietica e il Comintern favoriva questi movimenti per liberare gli “schiavi d’Africa e d’Asia”.
Il primo dopoguerra vide dunque diffondersi il nazionalismo che avrebbe portato alla decolonizzazione dopo
la seconda guerra mondiale.
La riorganizzazione delle colonie inglesi
La crisi del dopoguerra porto ad una ristrutturazione dell’impero coloniale inglese: la Gran Bretagna rinunciò
a parte del controllo politico per garantirsi il dominio economico. Con lo Statuto di Westminster riconobbe
infatti la sovranità a quelle colonie caratterizzate da una forte componente di popolazione bianca, i dominions
(Canada, Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica), che entrarono spontaneamente nel Commonwealth, una
libera associazione di comunità autonome unite dalla fedeltà alla corona britannica e da vincoli economici.
Le altre colonie britanniche erano dei protettorati, ovvero stati dove l’Inghilterra esercitava un controllo nella
politica estera e a seconda dei casi anche in quella interna, su cui la Madre Patria volle instaurare soprattutto
un controllo economico: l’Egitto divenne regno autonomo ma fu mantenuto il controllo del Canale di Suez,
l’Iraq era sotto mandato e l’Arabia Saudita era controllata per i pozzi petroliferi. In India sorse un forte
movimento nazionalista guidato da Mohandas Karamchand Gandhi che agiva con proteste nonviolente per
l’indipendenza indiana. Infine anche la Palestina era una colonia Inglese, lì vi migravano numerosi coloni ebrei
con l’obbiettivo di fondarvi uno Stato ebraico (sionismo).
La politica coloniale francese
A differenza di quella britannica, la politica coloniale francese mirava ad assimilare le colonie ad una “grande
Francia”. Questa politica centralistica generò numerose opposizioni sia in Medio Oriente (Siria e Libano) che
in Africa settentrionale: in Marocco, Tunisia e soprattutto Algeria si diffusero movimenti anticolonialisti alle
cui richieste il governo reagì sempre con una dura repressione. Anche in Indocina venne chiesta una maggior
partecipazione alla vita politica, ma le riforme concesse si rivelarono inadeguate e vi furono tentativi
insurrezionali organizzati dai nazionalisti e dal Partito comunista indocinese, fondato nel 1930 da HO Chi
Minh.
L’America latina
Negli anni della prima guerra mondiale l’America latina, su cui i paesi europei evidentemente impegnati nello
sforzo bellico investivano meno, passò sotto l’influenza degli Stati Uniti che elargivano ingenti prestiti a
banche, stati e organizzazioni. Pur creandosi un rapporto di stretta dipendenza, anche considerando i forti
scambi commerciali che si intrattenevano tra i paesi, gli Stati Uniti fecero attenzione a non minare la stabilità
dei governi locali. In alcuni casi furono costretti ad intervenire militarmente in centroamerica per tutelare i
loro interessi.
Maggiore autonomia la avevano gli stati più ricchi del Sud America – Brasile, Argentina e Cile – che avevano
avviato nel corso della guerra uno sviluppo economico grazie ai capitali stranieri. Tuttavia, quando con la crisi
del 1929 gli investimenti furono ritirati e le esportazioni diminuirono a causa del protezionismo, anche qui
sorsero difficoltà economiche e tensioni sociali che permisero l’affermazione di regimi autoritari, dittatoriali
e populisti simili ai fascismi europei, retti da esponenti dell’esercito e appoggiati dalle oligarchie locali.
Il caso del Messico
Caso particolare di populismo è rappresentato dal Messico dove nel 1910 scoppiò una rivoluzione che pose
termine alla dittatura del generale Porfirio Díaz (1876-1910). Nel novembre del 1910 un proprietario libeale
del Nord, Francisco Madero, si mise a capo di un movimento insurrezionale cui aderirono gruppi di contadini
guidati da Pancho Villa ed Emiliano Zapata: fu l’inizio della rivoluzione messicana che esiliò Díaz e rese
presidente della Repubblica Madero.
Il movimento contadino chiese allora una riforma agraria che distribuisse la terra ai braccianti. Il nuovo
governo dovette fronteggiare da un lato i radicali di Villa e Zapata e dall’altro i nostalgici della dittatura.
Scoppiò una sanguinosa guerra civile tra conservatori e radicali, quest’ultimi sostenuti da contadini. La guerra
si risolse con la sconfitta dei radicali e l’elezione alla presidenza di Venustiano Carranza, un militare, già
seguace di Madero, che nel 1917 promulgò una Costituzione. Tre anni dopo, nel 1920, Carranza fu però
deposto e ucciso dai suoi generali, e fino al 1934 il Messico fu retto da governi militari e autoritari. Si consolidò
così il modello populista, caratterizzato dal partito unico al potere.
Realizzato il 6/1/16 da Paolo Franchi, 5BC A.S. 2015/2016.
AMDG