IL PRIMO DOPO GUERRA L’EUROPA E IL MONDO DOPO LA PRIMA GUERRA MONDIALE © GSCATULLO ( Il primo dopoguerra I problemi del dopoguerra I trattati di pace I trattati di pace di Parigi (1919-1920) cambiarono l’assetto geopolitico europeo alla ricerca di un nuovo equilibrio dopo la guerra, ma che portò in realtà ad una diffusa insoddisfazione. La Germania si sentiva umiliata dalla riduzione territoriale e dalla sua divisione con il corridoio di Danzica; l’Italia non si era vista riconosciute Fiume e la Dalmazia, una vittoria mutilata secondo i nazionalisti. Un altro problema irrisolto era quello della nazionalità: non si era infatti rispettato il principio di autodeterminazione dei popoli proposto dal presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson, ma si erano formati una serie di stati abitati da popolazione spesso in contrasto tra loro: la Iugoslavia costituita da una maggioranza di Serbi, Croati, Bosniaci, Sloveni e Montenegrini, diversi per lingua e religione; la Polonia, in cui convivevano minoranze tedesche, specialmente nell’area occidentale, e una forte presenza russa, nell’area orientale. Caso più eclatante fu però quello della Cecoslovacchia che comprendeva principalmente Cechi (Boemi e Moravi), Slovacchi e una minoranza formata da circa tre milioni di Tedeschi, insediati nel territorio dei Sudeti. Nel paese però la maggior parte delle cariche erano occupate dai Cechi e lo sviluppo dei loro territori – rispetto quello degli altri – era più simile a quello dei paesi occidentali. La Società delle Nazioni Proposta da Wilson nei Quattordici punti, la Società delle Nazioni fu fondata a Ginevra nel 1920 con l’obbiettivo di costituire un’organizzazione i cui interessi erano sopra quelli delle singole nazioni e che fosse in grado di risolvere eventuali contrasti tra stati tramite la diplomazia. Nel giro di un decennio tutti gli Stati del mondo entrarono a far parte della Società delle Nazioni, tuttavia quest’organizzazione non riuscì a garantire una pace duratura: il Senato americano non approvò nel 1920 la proposta del presidente Wilson di far entrare gli Stati Uniti nell’organizzazione; non disponeva di una forza militare con la quale fermare chi non rispettasse le direttive. Il calo demografico e l’influenza La guerra aveva causato oltre 8 milioni e mezzo di morti, di cui 615 000 italiani, e 20 milioni di feriti gravi, mutilati e invalidi. Ciò contribuì ad un forte calo demografico, causato anche da una diffusa epidemia, detta influenza spagnola dal luogo in cui si riteneva si fossero verificati i primi casi. Questa malattia si era sviluppata in realtà in Cina all’inizio del 1918 nella Marina giapponese e nel Nord America: in quell’anno erano stati trasferiti in Europa dal resto del mondo oltre a soldati anche lavoratori, quest’ultimi diffusero il virus anche a causa delle condizioni di miseria dove erano costretti a vivere. Il contagio colpì complessivamente circa un miliardo di persone, più di metà della popolazione, e ne morirono tra i 21 e i 22 milioni, più di tutte le vittime della prima guerra mondiale. L’elevata mortalità era dovuta a cause diverse: la particolare virulenza del virus; la possibile concomitanza con un altro bacillo; la malnutrizione già presente da anni nella popolazione dei paesi in guerra; la mancanza di antibiotici per le complicazioni polmonari; le precarie condizioni igienico-sanitarie dei soldati in guerra. La crisi economica La guerra aveva chiesto all’industria di concentrare tutti gli sforzi produttivi per la creazione di materiale bellico. Era dunque necessaria, terminata la guerra, una riconversione industriale, tornando al normale tipo di produzione del tempo di pace. Ciò però richiedeva un impiego di risorse economiche che molte aziende, in un’Europa impoverita dalle spese di guerra, non poteva permettersi. Si ebbe di conseguenza una crisi dell’industria: le aziende iniziarono a licenziare o abbassarono i salari, diffondendo povertà e disoccupazione. Inoltre i debiti contratti dai governi per le spese di guerra li indussero a stampare nuova carta moneta: ciò provoco inevitabilmente l’inflazione ed i prezzi aumentarono in modo incontrollabile, a danno dei risparmi e dei salari dei lavoratori dipendenti e di chi percepiva un reddito basso. A soffrire di questa particolare situazione fu in particolare il ceto medio: mentre gli operai potevano contare sulle organizzazioni sindacali che rivendicavano adeguamenti dei salari al costo della vita, lo stesso non si poteva dire per la piccola borghesia e gli impiegati. Nel complesso l’economia europea era in ginocchio: il territorio devastato, la produzione in crisi, i commerci internazionali notevolmente ridotti, i debiti pubblici con l’estero – in particolare con gli Stati Uniti – consistenti. Ciò rese l’Europa dipendente in qualche modo con gli Stati Uniti. Il disagio sociale Una società nuova La guerra aveva trasformato radicalmente anche la società, e le generazioni che la combatterono vissero un’esperienza senza uguali: per la prima volta dall’unificazione d’Italia i giovani del Sud si incontrarono con quelli del Nord, per combattere dietro le trincee, e si erano mobilitati milioni di uomini. La guerra contribuì cioè alla creazione di una coscienza collettiva e segnò il vero ingresso delle masse nella storia. Dopo la guerra i conflitti sociali si acuirono: i sindacati e i partiti, consapevoli della propria forza, si unirono e avanzarono nuove richieste: gli operai volevano aumenti di salario e più potere nelle fabbriche; i contadini chiedevano la proprietà della terra che lavoravano; il ceto medio manifestava il proprio disagio economico, avvicinandosi ai movimenti più autoritari. II nuovo ruolo della donna Con la guerra, che aveva visto lo spostamento degli uomini al fronte, si offrirono alle donne nuove possibilità sociali ed economiche. Entrarono nel mondo del lavoro, per sostituire gli uomini nelle fabbriche, pagate in tempo di guerra il doppio del salario che percepivano in tempo di pace, ottenendo una maggior indipendenza e disponibilità di denaro, potendo spesso così emanciparsi da padri e fratelli, trascorrendo meno tempo in casa e potendo vestire abiti più corti in luogo dei corpetti e della gonna. L’assenza dei mariti gli conferiva anche un nuovo ruolo fondamentale nelle famiglie, prendendo in autonomia le decisioni da capofamiglia che non doveva più solamente eseguire. Tutti questi mutamenti influenzarono anche la politica e nel processo di emancipazione ottennero anche il diritto di voto in Inghilterra (1918), Germania (1919) e Stati Uniti (1920). Terminato il conflitto si cercò di reinserire i reduci nei posti di lavoro, così molte donne dovettero tornare ad essere casalinghe, ma il cambiamento che era iniziato non avrebbe potuto essere arrestato né invertito. Il problema dei reduci Non fu semplice per colore che avevano combattuto la guerra reintegrarsi nella società, complice la crisi economica che non garantiva posti di lavoro per tutti né tantomeno adeguate ricompense per persone che erano disposti a dare la vita per la propria patria: ciò causò un certo risentimento. Questi uomini reduci si riunirono in associazioni con un importante ruolo socio-politico nel dopoguerra, che ebbero come obbiettivo quello di tutelare gli interessi degli ex combattenti e delle loro famiglie: chiedendo risarcimenti, pensioni, previdenza sociale ecc. Queste organizzazioni, dallo schieramento politico vario, erano più pericolose che altre: è il caso della Federazione Arditi d’Italia. Gli Arditi Gli Arditi, variante italiana delle Sturmtruppen (“truppe d’assalto”) tedesche, erano combattenti speciali che vennero impiegati sul finire della guerra per azioni temerarie come assaltare le trincee per aprire la strada alla fanterie. Erano stati sottoposti ad una dura preparazione, con violente simulazioni, e convinti di essere diversi e più importanti delle altre truppe, eccitati con il mito della forza. L’Ardito era il simbolo della gioventù eroica che sfidava tutto e tutti per la patria. Terminata la guerra fecero talvolta fatica a rientrare nell’ordine, ritenendo che “la guerra pareva ormai diventata la nostra seconda natura”, come scriveva uno di loro, e riuniti in associazione si erano convinti di dover servire l’Italia liberandola dai nemici esterni ed interni: anzitutto i socialisti, ostili alla guerra, e i ministri rinunciatari che avevano firmato il trattato di pace, che a loro vedere era iniquo per l’Italia. Nel 1921 l’arditismo entrò nelle file del fascismo, condividendone lo spirito eversivo. La sfiducia nella democrazia liberale Nella società l’insoddisfazione era diffusa e molti aspiravano ad un nuovo sistema politico che ponesse termine alla crisi. Sempre più spesso le situazioni proposte dalle organizzazioni politiche furono rivoluzionarie o fortemente autoritarie: in ogni caso mettendo in discussione i principi della democrazia e dello Stato liberale. Tra il 1919 e il 1920 il disagio della popolazione si tradusse in tutta Europa in una serie di scontri sociali. Gli operai, i contadini e i ceti medi cittadini avviarono una stagione di lotte e manifestazioni; di contro i borghesi moderati che temevano una rottura rivoluzionaria del sistema vigente si spostarono da posizioni liberali a posizioni di estrema destra appoggiando quanti proponevano di utilizzare la forza in difesa dell’ordine sociale esistente. Così la democrazia liberale vacillò: attaccata contemporaneamente dall’estrema sinistra e dall’estrema destra. Il disprezzo per le istituzioni parlamentari, giudicate troppo deboli, raggiunse un livello allarmante. Il sistema politico resse solamente in paesi di antica tradizione liberale come la Francia e l’Inghilterra, mentre negli altri paesi d’Europa si era aperta la strada a governi di tipo autoritario e alle dittature. Il biennio rosso L’Internazionale Comunista Dopo la rivoluzione bolscevica del 1917 le democrazie europee si trovarono ad affrontare una nuova minaccia: tra gli operai e i contadini si andava diffondendo il mito della rivoluzione come un sogno realizzabile, su modello della Russia, da concretizzare in una dittatura del proletariato. I conservatori europei temettero il contagio rivoluzionario, considerando anche l’impegno attivo del nuovo governo russo nella propaganda del comunismo. Lenin e i bolscevichi promuovevano la formazione di partiti comunisti nel mondo che avrebbero dovuto prendere le distanze dai socialisti democratici e rifiutare il sistema parlamenteredemocratico aspirando ad una rivoluzione sul modello russo. Lenin riteneva necessario riunire i “veri” socialisti rivoluzionari in un’unica organizzazione: la Terza Internazionale, detta anche Comintern (Internazionale Comunista) che sorse a Mosca nel marzo 1919. Lenin era convinto che in Europa ci fossero le condizioni per avviare una rivoluzione da estendere al mondo intero, sotto il coordinamento del Comintern. Nel luglio 1920 si tenne a Mosca il Congresso dell’Internazionale Comunista, in occasione del quale Lenin fissò in un documento ventun punti ritenuti essere le condizioni per l’adesione all’Internazionale, all’insegna di una totale subordinazione del comunismo europeo al partito sovietico, chiedendo: l’estromissione da tutti i posti di responsabilità del movimento operaio di elementi riformisti e centristi, sostituendoli con comunisti fidati; l’approvazione della rottura totale con il riformismo e la politica del “centro” e la propaganda di questa rottura; l’appoggio al movimento delle colonie per la cacciata degli imperialisti; il sostegno senza riserve alle repubbliche sovietiche nella lotta ai controrivoluzionari; l’assunzione della denominazione “Partito Comunista” di [nome paese], “sezione della Terza Internazionale Comunista”; l’espulsione dal partito di tutti i membri che rifiutano formalmente le norme e le condizioni della Comintern. Ne seguì una forte contrapposizioe tra socialisti riformisti e comunisti con la relativa scissione all’interno di molti partiti socialisti. Tra il 1920 e il 1921 furono fondati partiti comunisti dai socialisti rivoluzionari in molti paesi. La crescita del movimento operaio L’esperienza della guerra, la crisi economica, il mito della rivoluzione ed il desiderio di una società più giusta rafforzarono il movimento operaio che si batteva per i diritti dei lavoratori e si diede un’organizzazione più articolata. La politica smise di essere una questione elitaria appartenente ai notabili borghesi e la classe operaia si rese conto del suo peso politico, partecipando attivamente con comizi, cortei e manifestazioni. I partiti socialisti ottennero importanti successi elettorali mentre i sindacati raccoglievano il consenso dei lavoratori. Il biennio rosso Trai il 1919 e il 1920 l’Europa fu toccata da un’ondata di scioperi e agitazioni operaie che chiedevano un aumento dei salari e la giornata lavorativa di otto ore, quest’ultimo obbiettivo raggiunto quasi ovunque. Questo periodo di lotte, chiamato biennio rosso, non si limitò a semplici rivendicazioni sindacali: gli operai si organizzarono in consigli operai su modello dei soviet russi e fu messo in discussione il potere nello Stato e nelle fabbriche. Questo periodo ebbe sviluppi diversi nei vari paesi: In Germania, ancor prima della fine della guerra i consigli degli operai e dei soldati, che avevano occupato le fabbriche e le sedi dei giornali, prendevano decisioni nella gestione delle aziende e avevano un peso politico. L’estrema sinistra era rappresentata dalla Lega di Spartaco, guidata da Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, rifiutava la linea moderata del partito Socialdemocratico e, anche dopo la proclamazione della repubblica, continuò con proteste in piazza e tentativi rivoluzionari. In Austria, che dopo la proclamazione della repubblica era governata dai socialdemocratici, i comunisti tentarono una rivoluzione ma senza successo. In Ungheria nel marzo 1919 socialisti e comunisti diedero vita ad una Repubblica dei Consigli su modello sovietico guidata dal comunista Bela Kun. Il progetto era di allargare l’esperienza all’Austria ma senza successo a causa dell’isolamento dei comunisti ungheresi. In Italia entro in crisi il sistema politico ma si divise anche il movimento operaio con lascissione del Partito socialista. Il fallimento delle rivoluzioni L’esperienza rivoluzionaria in Europa fu un fallimento: in tutti i paesi i tentativi di sovversione furono stroncati con la forza. In Germania intervenne l’esercito che arrestò ed uccise i principali responsabili; in Italia l’iniziativa rivoluzionaria scemò in favore del fascismo; in Austria le elezioni furono vinte dai conservatori e dai clericali, forti del sostegno delle masse contadine più reazionarie; infine in Ungheria il fallimento della repubblica sovietica lasciò il potere alla controrivoluzione guidata da Miklos Horthy che eliminò fisicamente l’opposizione comunista ed instaurò il primo regime autoritario europeo del dopoguerra nell’agosto 1919. Dittature, democrazie e nazionalismi. L’Europa delle dittature La crisi economica degli anni Venti e Trenta permise cambiamenti radicali in gran parte del mondo. In Europa sorsero dittature e regimi totalitari, con poche eccezioni: tra gli stati più importanti mantennero democrazie liberali sono Francia e Gran Bretagna, dove le classi dirigenti riuscirono a controllare le frange massimaliste dei partiti socialisti, tuttavia anche in questi stati si ebbe una forte affermazione delle forze moderate e conservatrici. Nel resto d’Europa invece il sistema parlamentare si rivelò fragile e non resse alle pressioni per una svolta autoritaria. L’Ungheria fu il primo paese che sperimentò l’autoritarismo di destra con l’ammiraglio Horthy che nell’agosto del 1919 impose la sua dittatura abolendo le libertà politiche e sindacali e reprimendo ogni forma di opposizione. Nel 1922 Mussolini andò al governo in Italia ed organizzò in pochi anni un regime dittatoriale che funse da modello per gli altri paesi. Seguirono la Bulgaria (1923), l’Albania (1924), il Portogallo (1926), la Polonia, i paesi baltici, la Finlandia e la Spagna. La quasi totalità dell’Europa degli anni Trenta era sottoposta ad un regime totalitario. L’Europa democratica La Francia nel primo dopoguerra fu guidata da governi di centro-destra cui seguirono nel 1924 alcuni anni di radicali-socialisti, uniti nel “cartello delle sinistre” per vincere. Nel 1926 salì al potere Raymond Poincaré, capo dei moderati, che guidò il governo sino al 1929 appoggiato dall’alta borghesia, dai ceti medi cittadini e dai proprietari terrieri, riuscendo a risanare il bilancio dello Stato e superare le difficoltà economiche, al prezzo di una forte pressione fiscale sulle classi popolari, che fu esercitata grazie anche alla debolezza dei sindacati. Anche la Gran Bretagna attraversò un periodo di difficoltà economica e sociale, perso il primato economico in favore degli Stati Uniti e complice la diffusione del petrolio e delle nuove tecnologie che ridussero il consumo di carbone di cui aveva il monopolio. Come conseguenze di questa situazione crebbe la disoccupazione, quasi due milioni di persone, e l’impero coloniale iniziò a vacillare. Nel 1924 ci fu una prima esperienza di governo laburista (partito inglese di ispirazione socialista) che durò pochi mesi. Tornati al potere i conservatori attuarono una politica di rigore finanziario e contenimento dei salari che scatenò le reazioni dei lavoratori: nel 1926 ci fu una grande ondata di scioperi, in particolare i minatori condussero una lotta sindacale protrattasi per molti mesi a causa dell’irrigidimento del governo. Atatürk, il “padre dei Turchi” L’Impero turco dopo la guerra fu fortemente ridimensionato dai trattati di pace del 1919 e il suo territorio spartito tra le potenze europee. Francia e Inghilterra avevano ottenuto il controllo di gran parte dell’area mediorientale grazie al sistema dei mandati: forma di amministrazione territoriale che prevedeva l’affidamento temporaneo degli Stati e dei popoli “non ancora in grado di reggersi da sé” ad una grande potenza. In questo modo la Gran Bretana ottenne, alla stregua di colonie, i territori mediorientali che appartenevano all’Impero Turco (Iran, Iraq e Palestina), la Francia la Siria, il Libano e il Camerun (ex colonia tedesca). I Turchi si ribellarono, ritenendo i mandati una nuova forma di colonialismo, guidati da Mustafà Kemal, generale che aveva combattuto contro gli Inglesi nella prima guerra mondiale. Nel 1920 i nazionalisti turchi ingaggiarono una vera e propria guerra contro il governo corrotto di Istanbul, sostenuto dagli Europei che occupavano militarmente la capitale, e dopo due anni di conflitto gli Inglesi e i Francesi si ritirarono. Alla Turchia fu così riconosciuta piena autorità e restituiti parte dei territori che gli erano stati sottratti. Il 29 ottobre 1923 in Turchia fu proclamata la repubblica, Kemal – chiamato Atatürk, “padre dei Turchi” - ne divenne presidente e la capitale trasferita ad Ankara. Il generale iniziò un programma di riforme per «fare entrare la Turchia nella civiltà», come disse lui: nel 1922 soppresse il sultanato e nel 1924 il Califfato. Con l’obbiettivo di creare uno stato laico, contrapposto al dominio precedente dell’Islam, chiuse le scuole religiose e confiscò i beni delle comunità monastiche. Abbandonò la legislazione islamica in favore di una di tipo occidentale, modificò la costituzione eliminando riferimenti all’Islam (1928) ed affermandovi il principio di laicità (1937). Nel 1934 concesse alle donne il diritto di voto, vietò agli uomini di indossare il fez e il turbante - simboli dell’antico Oriente – ed impose l’alfabeto latino su quello arabo, adottò il calendario gregoriano in luogo di quello dell’egira e rese la domenica giorno di riposo al posto del venerdì. Le colonie e i movimenti indipendentisti Il nazionalismo nelle colonie Francia e Inghilterra dovettero fronteggiare anche la crescita dei movimenti indipendentisti e nazionalisti nelle colonie, in Africa e in Asia, che rivendicavano maggiore autonomia e la partecipazione politica nei propri paesi. I fattori che determinarono un aumento di questi movimenti furono: la pretesa delle colonie di una ricompensa per aver partecipato alla Prima Guerra Mondiale al fianco dell’Intesa; quanti avevano preso parte alla guerra in Occidente aveva conosciuto la democrazia e si impegnò per esportarla nel proprio paese; i Quattordici Punti di Wilson (1919) avevano creato alcune illusioni poiché due di essi facevano riferimento ai diritti degli indigeni delle colonie; l’Unione Sovietica e il Comintern favoriva questi movimenti per liberare gli “schiavi d’Africa e d’Asia”. Il primo dopoguerra vide dunque diffondersi il nazionalismo che avrebbe portato alla decolonizzazione dopo la seconda guerra mondiale. La riorganizzazione delle colonie inglesi La crisi del dopoguerra porto ad una ristrutturazione dell’impero coloniale inglese: la Gran Bretagna rinunciò a parte del controllo politico per garantirsi il dominio economico. Con lo Statuto di Westminster riconobbe infatti la sovranità a quelle colonie caratterizzate da una forte componente di popolazione bianca, i dominions (Canada, Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica), che entrarono spontaneamente nel Commonwealth, una libera associazione di comunità autonome unite dalla fedeltà alla corona britannica e da vincoli economici. Le altre colonie britanniche erano dei protettorati, ovvero stati dove l’Inghilterra esercitava un controllo nella politica estera e a seconda dei casi anche in quella interna, su cui la Madre Patria volle instaurare soprattutto un controllo economico: l’Egitto divenne regno autonomo ma fu mantenuto il controllo del Canale di Suez, l’Iraq era sotto mandato e l’Arabia Saudita era controllata per i pozzi petroliferi. In India sorse un forte movimento nazionalista guidato da Mohandas Karamchand Gandhi che agiva con proteste nonviolente per l’indipendenza indiana. Infine anche la Palestina era una colonia Inglese, lì vi migravano numerosi coloni ebrei con l’obbiettivo di fondarvi uno Stato ebraico (sionismo). La politica coloniale francese A differenza di quella britannica, la politica coloniale francese mirava ad assimilare le colonie ad una “grande Francia”. Questa politica centralistica generò numerose opposizioni sia in Medio Oriente (Siria e Libano) che in Africa settentrionale: in Marocco, Tunisia e soprattutto Algeria si diffusero movimenti anticolonialisti alle cui richieste il governo reagì sempre con una dura repressione. Anche in Indocina venne chiesta una maggior partecipazione alla vita politica, ma le riforme concesse si rivelarono inadeguate e vi furono tentativi insurrezionali organizzati dai nazionalisti e dal Partito comunista indocinese, fondato nel 1930 da HO Chi Minh. L’America latina Negli anni della prima guerra mondiale l’America latina, su cui i paesi europei evidentemente impegnati nello sforzo bellico investivano meno, passò sotto l’influenza degli Stati Uniti che elargivano ingenti prestiti a banche, stati e organizzazioni. Pur creandosi un rapporto di stretta dipendenza, anche considerando i forti scambi commerciali che si intrattenevano tra i paesi, gli Stati Uniti fecero attenzione a non minare la stabilità dei governi locali. In alcuni casi furono costretti ad intervenire militarmente in centroamerica per tutelare i loro interessi. Maggiore autonomia la avevano gli stati più ricchi del Sud America – Brasile, Argentina e Cile – che avevano avviato nel corso della guerra uno sviluppo economico grazie ai capitali stranieri. Tuttavia, quando con la crisi del 1929 gli investimenti furono ritirati e le esportazioni diminuirono a causa del protezionismo, anche qui sorsero difficoltà economiche e tensioni sociali che permisero l’affermazione di regimi autoritari, dittatoriali e populisti simili ai fascismi europei, retti da esponenti dell’esercito e appoggiati dalle oligarchie locali. Il caso del Messico Caso particolare di populismo è rappresentato dal Messico dove nel 1910 scoppiò una rivoluzione che pose termine alla dittatura del generale Porfirio Díaz (1876-1910). Nel novembre del 1910 un proprietario libeale del Nord, Francisco Madero, si mise a capo di un movimento insurrezionale cui aderirono gruppi di contadini guidati da Pancho Villa ed Emiliano Zapata: fu l’inizio della rivoluzione messicana che esiliò Díaz e rese presidente della Repubblica Madero. Il movimento contadino chiese allora una riforma agraria che distribuisse la terra ai braccianti. Il nuovo governo dovette fronteggiare da un lato i radicali di Villa e Zapata e dall’altro i nostalgici della dittatura. Scoppiò una sanguinosa guerra civile tra conservatori e radicali, quest’ultimi sostenuti da contadini. La guerra si risolse con la sconfitta dei radicali e l’elezione alla presidenza di Venustiano Carranza, un militare, già seguace di Madero, che nel 1917 promulgò una Costituzione. Tre anni dopo, nel 1920, Carranza fu però deposto e ucciso dai suoi generali, e fino al 1934 il Messico fu retto da governi militari e autoritari. Si consolidò così il modello populista, caratterizzato dal partito unico al potere. Realizzato il 6/1/16 da Paolo Franchi, 5BC A.S. 2015/2016. AMDG