l`abuso di ufficio / aspetti generali

Scuola di Specializzazione per le professioni legali - Anno Accademico 2010/2011
DIRITTO PENALE II
Lezione dell’8 marzo 2011: l’abuso di ufficio
dott. Michele Toriello
L’ABUSO DI UFFICIO / ASPETTI GENERALI
LA NORMA INCRIMINATRICE – ART. 323 C. P.
Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio
che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero
omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi
prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri
un danno ingiusto è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni
La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità
Competenza: Tribunale in composizione collegiale
Arresto in flagranza e fermo di indiziato di delitto: non consentiti
Custodia cautelare in carcere: non consentita
Altre misure cautelari personali: art. 289 c. p. p. (sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio)
Procedibilità: di ufficio
IL BENE TUTELATO ED IL SOGGETTO PASSIVO DEL REATO
L’abuso di ufficio è delitto che lede gli interessi, tutelati dall’articolo 97 della Costituzione, al buon
andamento ed all’imparzialità della pubblica amministrazione, laddove può definirsi il buon
andamento come la capacità della pubblica amministrazione di perseguire i fini che ad essa
vengono assegnati dalla legge, di essere efficiente, e l’imparzialità come l’interesse a che la pubblica
amministrazione, nell’adempimento dei propri compiti, non alteri la par condicio civium (ossia il
diritto alla eguaglianza dei cittadini di fronte alla PA), e non avvantaggi sé stessa in danno dei
consociati.
Nel solo caso di abuso di ufficio finalizzato ad arrecare ad altri un danno ingiusto, il delitto è posto
anche a tutela dell’interesse del privato a non essere turbato nei suoi diritti (costituzionalmente
garantiti) dal comportamento illegittimo e ingiusto del pubblico ufficiale: dunque la consolidata ed
univoca giurisprudenza della Suprema Corte qualifica quello in esame come delitto plurioffensivo,
e il cittadino leso dal comportamento delittuoso del pubblico ufficiale come persona offesa dal
reato.
Il reato di abuso di ufficio finalizzato ad arrecare ad altri un danno ingiusto ha natura plurioffensiva,
in quanto è idoneo a ledere, oltre all'interesse pubblico al buon andamento e alla trasparenza della P.A.,
il concorrente interesse del privato a non essere turbato nei suoi diritti dal comportamento illegittimo
e ingiusto del pubblico ufficiale. Ne consegue che il privato danneggiato riveste la qualità di persona
offesa dal reato ed è legittimato a proporre opposizione avverso la richiesta di archiviazione del
pubblico ministero (Cassazione penale, sez. VI, 10 aprile 2008, n. 17642).
CASO PRATICO (sentenza n. 1231/2010, allegato n. 1)
Il Gip, accogliendo la richiesta del pubblico ministero, emette decreto di archiviazione di un procedimento per abuso di ufficio
avviato dalla denuncia di un cittadino. Il denunciante ricorre in Cassazione deducendo di non aver ricevuto alcun avviso
della richiesta di archiviazione, nonostante in sede di denuncia lo avesse espressamente richiesto ex art. 409 c. p. p.
La Corte statuisce che “il reato di abuso d'ufficio è idoneo a ledere, oltre all'interesse pubblico al buon andamento e alla
trasparenza della pubblica amministrazione e all'imparzialità dei pubblici funzionari, anche l'interesse del privato a non
essere turbato nei propri diritti costituzionalmente garantiti e a non essere danneggiato dal comportamento illegittimo e
ingiusto del pubblico ufficiale”: da ciò consegue che il soggetto al quale la condotta abusiva abbia arrecato un danno riveste
la qualità di persona offesa dal reato, legittimato non solo a costituirsi parte civile quando il processo abbia inizio - diritto
spettante anche al solo danneggiato - ma anche a proporre opposizione avverso la richiesta di archiviazione del pubblico
ministero.
IL SOGGETTO ATTIVO DEL REATO ED IL CONCORSO DI PERSONE NEL REATO
L’abuso di ufficio è reato proprio, potendone essere soggetto attivo solo il pubblico ufficiale
ovvero (per effetto della novella introdotta dall’art. 13 della L. 86/1990) l’incaricato di pubblico
servizio. Non occorre una formale investitura, essendo sufficiente anche l’esercizio di fatto di
pubbliche funzioni con il concorso o con l’acquiescenza della pubblica amministrazione. Tra le più
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recenti pronunce della Suprema Corte, si segnalano quelle che hanno ritenuto che possa essere
soggetto attivo del reato in argomento:
- un notaio (la qualifica di pubblico ufficiale spetta al notaio non solo nell'esercizio del suo potere
certificativo in senso stretto, ma in tutta la sua complessa attività, disciplinata da norme di diritto
pubblico (legge notarile) e diretta alla formazione di atti pubblici (negozi giuridici notarili): Cassazione
penale, sez. V, 16 ottobre 2009, n. 47178);
- il medico specialista di una struttura pubblica (la condotta del medico specialista di una struttura
pubblica, il quale per conseguire un vantaggio patrimoniale, in violazione del dovere di astensione di cui
al D.M. 31 marzo 1994, art. 6, indirizzi un paziente verso il laboratorio di cui egli sia socio, per
l'espletamento di un esame che si sarebbe potuto eseguire anche presso una struttura pubblica della
stessa città, integra il delitto di abuso di ufficio: Cassazione penale, sez. VI, 24 aprile 2008, n. 27936);
- un dipendente di Poste Italiane spa (integra il delitto di abuso d'atti d'ufficio la condotta del
dipendente di Poste Italiane s.p.a. addetto ad una struttura di accettazione della corrispondenza,
funzione da cui deriva la sua qualifica di incaricato di pubblico servizio, il quale invii indebitamente alla
rete di distribuzione pubblica la stessa corrispondenza priva della richiesta affrancatura - Fattispecie
in cui l'agente aveva fatto recapitare a varie persone corrispondenza del sindacato cui apparteneva
priva della necessaria affrancatura: Cassazione penale, sez. VI, 7 ottobre 2010, n. 37775).
Nel reato in argomento possono tuttavia concorrere anche i privati, secondo il tradizionale
schema del concorso di persone nel reato: dimostrata la responsabilità dell’intraneus (e, dunque,
integrata la fattispecie legale), è configurabile il concorso nel reato del privato, destinatario dei
benefici conseguenti all’atto abusivo, qualora questi abbia posto in essere una condotta tale da
avere svolto un ruolo causalmente rilevante nella realizzazione del reato, e sempre che egli fosse a
conoscenza della qualità dell’intraneus.
La partecipazione dell’extraneus all’abuso posto in essere dal soggetto qualificato può, quindi,
comprendere la determinazione, l’istigazione e l’accordo criminoso; non può tuttavia ravvisarsi il
concorso nella sola e semplice istanza relativa ad un atto che nel concreto risulti illegittimo e,
nonostante ciò, venga adottato: va infatti considerato che il privato, contrariamente al pubblico
funzionario, non è tenuto a conoscere le norme che regolano l’attività di quest’ultimo, né,
soprattutto, è tenuto a conoscere le situazioni attinenti all’ufficio che possono condizionare la
legittimità dell’atto richiesto; in una tale ottica, pertanto, al fine di affermare la sussistenza del
concorso del privato, la prova che un atto amministrativo è il risultato della collusione tra privato e
pubblico funzionario non può essere dedotta dalla mera coincidenza tra la richiesta del primo ed il
provvedimento posto in essere dal secondo, essendo invece necessario che il contesto fattuale, i
rapporti personali tra le parti o altri dati di contorno dimostrino che la presentazione della
domanda è stata preceduta, accompagnata o seguita da un’intesa col pubblico funzionario o,
comunque, da pressioni dirette a sollecitarlo, ovvero a persuaderlo al compimento dell’atto
illegittimo.
In tema di abuso d'ufficio, deve escludersi il concorso nel caso in cui il privato si limiti alla mera
presentazione di un'istanza relativa ad un atto che, in concreto, risulti illegittimo, essendo invece
necessaria la prova che la presentazione della domanda sia stata preceduta, accompagnata o seguita da
un'intesa o da pressioni dirette a sollecitare o persuadere il pubblico funzionario - Fattispecie in cui è
stata ritenuta l'esistenza di un accordo collusivo tra il responsabile di un ufficio tecnico comunale ed il
beneficiario di un'autorizzazione edilizia, desunto dall'esistenza di rapporti di natura politica e
dall'omissione di qualsiasi attività istruttoria in ordine alla richiesta del privato, basata su una falsa
rappresentazione della situazione dei luoghi (Cassazione penale, sez. VI, 14 giugno 2007, n. 37531).
Nello stesso senso Cassazione penale, sez. VI, 1 dicembre 2003, n. 2844, che ha annullato senza rinvio
la sentenza di condanna di un privato che aveva presentato una domanda volta ad ottenere l'indennità
di accompagnamento per infermità ed aveva avuto contatti telefonici con uno dei componenti della
commissione medica, che gli aveva spiegato quali erano le condizioni per ottenere l'indennità; era stato
poi detto componente a tentare di far ottenere all'istante l'indennità pur mancandone le condizioni,
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senza un effettivo e concreto contributo causale del privato: le risultanze fattuali, mentre non
attestano quale sia stata la condotta colpevole del privato, né che lo stesso conoscesse le norme che
consentivano la concessione del beneficio dell'accompagnamento, evidenziano, invece, che fu il pubblico
ufficiale, nella sua qualità di componente della commissione medica preposta al riconoscimento
dell'infermità, ad adoperarsi personalmente per far risultare la patologia richiesta ai fini
dell'ottenimento di detto beneficio, anche se, poi, non riuscì nell'intento di far modificare il
convincimento negativo della commissione medica. Ciò posto, nel difetto probatorio di un effettivo
contributo causale, la eventuale mera consapevolezza da parte della prevenuta di poter essere favorita
dalla illegittimità dell'atto, o la sua semplice accettazione dell'ingiusto vantaggio patrimoniale
eventualmente derivatole, sono circostanze del tutto inidonee a configurare una responsabilità a titolo
concorsuale.
CASO PRATICO (sentenza n. 43020/2003 e nota di commento, allegato n. 2)
Nella fattispecie in esame la Corte conferma la sentenza di condanna anche dei privati richiedenti, evidenziando che gli stessi
non si limitarono alla presentazione di una istanza, ma agirono in concorso con il pubblico ufficiale apportando un
contributo causale alla adozione di un atto illegittimo, “agendo in perfetta mala fede e nella consapevolezza di non avere
maturato alcun diritto”: è dunque configurabile una “concreta, positiva condotta di determinazione e istigazione che
risponde ad una ragionevole e completa ricostruzione dei fatti da parte del giudice d'appello”.
L’ELEMENTO OGGETTIVO
LO SVOLGIMENTO DELLE FUNZIONI O DEL SERVIZIO
Secondo la descrizione contenuta nella norma incriminatrice, l’abuso di ufficio è reato che può
essere commesso esclusivamente nello svolgimento delle funzioni o del servizio. Si è dunque parlato di
questo come di un necessario presupposto del reato; si è altresì evidenziato che tanto rende
penalmente irrilevante l’abuso della qualità da parte del pubblico ufficiale, inteso come uso
indebito della propria qualifica indipendentemente ed al di fuori dell’effettivo esercizio delle
mansioni dell’ufficio: se dunque manca lo svolgimento delle funzioni o del servizio, ovvero se il
pubblico ufficiale agisce del tutto al di fuori dell’esercizio delle stesse, non è configurabile il delitto
di cui all’art. 323 c. p.
CASO PRATICO (sentenza n. 6489/2008, allegato n. 3)
La Corte annulla senza rinvio la sentenza di condanna di un funzionario dell'Agenzia del Demanio che (avvalendosi di
informazioni conosciute per ragione del suo ufficio) aveva presentato ad un diverso settore dell'amministrazione finanziaria
di appartenenza una proposta di acquisto di beni confiscati, così cercando di aggiudicarseli ad un prezzo inferiore a quello di
mercato: nelle motivazioni si evidenzia tra l’altro che l'art. 323 c. p., con il richiamo alla locuzione "nello svolgimento della
funzione o del servizio", richiede che il funzionario realizzi la condotta illecita agendo nella sua veste di pubblico ufficiale o
di incaricato di pubblico servizio, con la conseguenza che rimangono privi di rilievo penale quei comportamenti, che, anche
ove posti in essere in violazione del dovere di correttezza, siano tenuti come soggetto privato senza servirsi in alcun modo
dell'attività funzionale svolta.
Tanto ovviamente non implica che il comportamento illecito debba necessariamente essere
tradotto in atti e provvedimenti amministrativi tipici della funzione o del servizio, poiché esso può
consistere anche in comportamenti e attività comunque espressivi dell’azione dell’ufficio o del
servizio, e quindi riconducibili al loro svolgimento.
Inoltre, poiché la condotta incriminata deve essere realizzata nello svolgimento delle funzioni e non
a causa di queste, si ritiene che non sia richiesta la competenza del soggetto pubblico, essendo
sufficiente una competenza generica o di fatto.
LA VIOLAZIONE DI LEGGE
Attraverso la nuova formulazione dell’art. 323 c. p. il legislatore ha inteso, attraverso il riferimento
alla legge ed al regolamento, introdurre un parametro certo e rigoroso di qualificazione della
condotta, quale è il contrasto con prescrizioni normative di fonte determinata, anche al fine di
scongiurare il rischio di sanzionare penalmente ipotesi di eccesso o sviamento di potere, da
confinare più correttamente nel quadro degli illeciti amministrativi.
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La violazione di principi costituzionali: in particolare, gli articoli 97 e 111.
Si è dibattuto, in dottrina ed in giurisprudenza, circa la possibilità di includere alcune particolari
fonti nel novero delle leggi rilevanti ex art. 323 c. p.
Quanto alle norme costituzionali, si è osservato che in linea di principio anche la Costituzione
deve considerarsi legge: il problema si è posto principalmente in relazione all’art. 97 Cost., poiché
ci si è chiesti se possa integrare una violazione di legge la violazione dei principi di buon andamento
e imparzialità della pubblica amministrazione.
Parte anche autorevole della dottrina (cfr. per tutti Fiandaca-Musco) ritiene che detta norma abbia
un carattere programmatico, privo di immediata portata precettiva, e rileva altresì che l’opposta
opzione interpretativa dilaterebbe a dismisura l’ambito del penalmente rilevante (imparzialità e
buon andamento sono elementi “vaghi”, che conferiscono in capo al giudice una sorta di arbitrio,
non risultando idonei a fondare un autentico parametro univoco di valutazione in merito alla
rilevanza penale del fatto concreto), così realizzando un risultato opposto a quello avuto di mira
dal legislatore del 1997, consentendo in ultima analisi al giudice penale di sindacare finanche la
generica corrispondenza dell’atto del pubblico ufficiale ai principi di buon andamento e
imparzialità della pubblica amministrazione (laddove invece la L. 234/1997 aveva invece inteso
creare – attraverso la rielaborazione della fattispecie nei termini di un reato a forma vincolata - i
presupposti perché sulla pubblica amministrazione cessasse di incombere il pericolo di interventi
più o meno “esplorativi” – ed inevitabilmente intrusivi - del potere giudiziario).
Trattasi tuttavia di posizione minoritaria, poiché è oggi opinione consolidata che la nozione di
legge e di regolamento di cui all'art. 323 c. p. sia nozione tecnica: leggi sono dunque sia le leggi in
senso formale (leggi costituzionali, leggi ordinarie, leggi regionali e delle province autonome) sia le
leggi in senso materiale (decreti legislativi e decreti legge), così che non vi è alcun ostacolo
strettamente formale alla possibilità che la violazione di norme di legge possa consistere nella
violazione dell'art. 97 Cost.
Il problema attiene invece al contenuto della predetta norma costituzionale: fermo il suo carattere
precettivo, è stato invero rilevato che essa è norma che si rivolge all’amministrazione non in
quanto svolga la sua attività istituzionale, bensì in quanto svolga attività di organizzazione di sé
stessa con atti generali o particolari (l’art. 97 statuisce infatti che i pubblici uffici sono organizzati
secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità
dell’amministrazione).
Dunque la norma in questione, pur elevando l’imparzialità ed il buon andamento a principi
generali, sotto il profilo precettivo si rivolge solo ai soggetti preposti ad organizzare i pubblici
uffici: questa interpretazione non esclude dunque il carattere precettivo dell’art. 97 Cost., ma ne
riduce la portata nei termini della lettera della norma costituzionale, limitando la sua rilevanza ai
soli casi di attività della pubblica amministrazione relativa alla autorganizzazione dei propri uffici.
Per lungo tempo la giurisprudenza della Suprema Corte ha dato risposta negativa al problema.
In tema di abuso d'ufficio, la norma di cui al comma 1 dell'art. 97 Cost. .. non ha carattere precettivo e
ha valore meramente programmatico, sicché tali principi per il carattere generale che li distingue non
sono idonei a costituire oggetto della violazione di norme di legge che può dare luogo all'integrazione
del reato previsto dall'art. 323 c.p. - Fattispecie in cui la Corte ha peraltro rigettato il ricorso avverso
la sentenza di condanna per il reato di abuso d'ufficio pronunciata a carico di un funzionario pubblico
cui era stato contestato di avere inibito a una dipendente l'esercizio delle funzioni corrispondenti alla
sua qualifica, attribuendole ad altro dipendente di grado inferiore, e di avere revocato altresì alla
stessa dipendente le funzioni vicarie in assenza del dirigente, nonostante le sollecitazioni dei superiori
e una decisione del giudice amministrativo che aveva annullato il provvedimento di revoca; e ciò sul
rilievo che tale comportamento risultava avere violato, a prescindere dall'art. 97 cost., altre specifiche
disposizioni di legge, stavolta di contenuto precettivo (Cassazione penale, sez. VI, 10 aprile 2007, n.
22702).
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In tema di abuso d'ufficio, la norma di cui al comma 1 dell'art. 97 cost., secondo la quale i pubblici
uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge in modo da assicurare il buon andamento e
l'imparzialità dell'amministrazione, non ha carattere precettivo ed ha valore meramente
programmatico, sicché tali principi per il carattere generale che li distingue non sono idonei a costituire
oggetto della violazione che può dar luogo alla integrazione del reato previsto dall'art. 323 c.p. Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che non si potesse configurare il reato di abuso d'ufficio a carico
di un amministratore per non aver ritenuto come redatti da soggetto non abilitato alcuni progetti e per
non essersi astenuto dal procedere oltre nell'"iter" burocratico pur in difetto di un presupposto
essenziale (Cassazione penale, sez. VI, 8 maggio 2003, n. 35108).
Da ultimo tuttavia alcune pronunce hanno riconosciuto un limitato spazio di immediata
precettività alla norma costituzionale in argomento. Il revirement è stato inaugurato dalla
pronuncia n. 25162 del 2008.
CASO PRATICO (sentenza n. 25162/2008 e nota di commento, allegato n. 4)
Il Procuratore della Repubblica ricorre in Cassazione contro la sentenza di non luogo a procedere emessa dal Giudice
dell’udienza preliminare nei confronti di un funzionario della motorizzazione civile cui si contestava di aver procurato un
ingiusto profitto ai gestori di un’agenzia di pratiche automobilistiche, attraverso il disbrigo preferenziale delle pratiche
avviate da quest’ultima in relazione a richieste di nazionalizzazione di veicoli acquistati all’estero, con evidente danno per le
altre agenzie di pratiche automobilistiche indebitamente “pretermesse”.
La Corte conviene circa il rischio che “l'inserimento del citato art. 97 Cost. fra le disposizioni di legge violabili e rilevanti per
l'abuso d'ufficio avrebbe come effetto quello di dilatare eccessivamente l'ambito di applicazione della norma incriminatrice,
finendo con l'incidere anche sul principio di precisione di cui all'art. 25 Cost.”, e tuttavia rileva che “possono essere
identificate ipotesi residuali in cui l'art. 97 Cost., nel suo significato più precettivo, relativo all'imparzialità dell'azione
amministrativa, può costituire parametro di riferimento per il reato di abuso d'ufficio”.
Nel caso di specie la Corte rileva che si è in presenza non di una attività di mera organizzazione, ma di una attività
esecutiva in cui la decisione viene adottata alla fine di un procedimento amministrativo in cui il criterio di imparzialità
comporta che vengano acquisiti gli interessi e gli elementi utili ad una deliberazione il più possibile ponderata: “in questo
caso, l'imparzialità amministrativa intesa come divieto di favoritismi ha i caratteri e i contenuti precettivi richiesti dall'art.
323 c.p., in quanto impone all'impiegato o al funzionario pubblico una vera e propria regola di comportamento, di immediata
applicazione. Nel caso in esame, dal capo di imputazione emerge una condotta del funzionario pubblico volta a realizzare
sistematicamente "il preferenziale disbrigo di pratiche" avviate da una sola agenzia, a discapito delle altre agenzie di pratiche
automobilistiche: si tratta di una chiara ipotesi di favoritismo in violazione del principio fissato dall'art. 97 Cost., che, in
quanto riferibile non solo all'organizzazione dell'ufficio, ma alla condotta della persona fisica del funzionario, può essere
presa in considerazione come violazione di legge ai sensi dell'art. 323 c.p.”
Dunque l’art. 97 Cost. non è necessariamente una sorta di “norma di mero principio”, inidonea ad
integrare una norma penale incriminatrice senza determinare il venir meno della sufficiente
determinatezza di quest’ultima. In particolare è il principio di imparzialità ex art. 97, comma 1,
Cost. che può avere un significato immediatamente precettivo (il principio di buon andamento
rimane invece concetto generico e di mero orientamento della condotta del pubblico funzionario),
laddove la “imparzialità” della pubblica amministrazione va intesa come capacità della stessa,
nell’espletamento delle proprie funzioni, di raggiungere un grado di astrazione tale da far
prevalere l’interesse pubblico (di cui è portatrice) solo se necessario, e soprattutto solo all’esito di
un’attenta ponderazione delle posizioni e dei valori potenzialmente confliggenti rispetto ad esso.
Questa imparzialità porta con sé due corollari: da un lato, in negativo, si traduce nel divieto di
discriminazione fra i soggetti portatori degli interessi in giuoco; dall’altro, in positivo, si configura
quale obbligo di identificazione e valutazione di tutti gli interessi coinvolti, nonché di
configurazione del provvedimento finale in coerenza con la rappresentazione completa dei fatti e
degli interessi.
Così delineato, il principio di imparzialità è destinato a permeare la P. A. sotto un duplice profilo.
Un primo aspetto è quello afferente all’organizzazione della Pubblica Amministrazione, che dovrà
assumere connotati e caratteristiche tali da consentire un’adeguata - e non superficiale ponderazione degli interessi in esame.
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Un secondo aspetto è quello più propriamente correlato all’attività amministrativa, il cui dipanarsi
comporterà l’acquisizione – procedimentalizzata – degli elementi utili ad una decisione ponderata.
Ma mentre difficilmente il principio di imparzialità potrà assumere immediato contenuto
precettivo con riferimento all’aspetto organizzativo (in tale sede, infatti, risulterà inevitabile la
mediazione e specificazione da parte di ulteriori disposizioni di legge, attraverso le quali il
principio troverà reale traduzione concreta), esso deve ritenersi dotato di portata precettiva
laddove calato nell’attività amministrativa. Infatti, «la decisione avviene alla fine di un
procedimento amministrativo in cui il criterio di imparzialità comporta che vengano acquisiti gli
interessi e gli elementi utili ad una deliberazione il più possibile ponderata», cosicché «in questo
caso l’imparzialità amministrativa intesa come divieto di favoritismi ha i caratteri e i contenuti
precettivi richiesti dall’art. 323 c.p., in quanto impone all’impiegato o al funzionario pubblico una
vera e propria regola di comportamento, di immediata applicazione». In tale ottica, quindi, il reato
di abuso d’ufficio si presta ad essere integrato – per quanto concerne il requisito della “violazione
di legge” – anche dal “solo” art. 97, comma 1, Cost., nella parte in cui esso impone all’impiegato o
al funzionario – quale traduzione “in negativo” del principio di imparzialità – il divieto di svolgere
attività discriminatoria ponendo in essere – come nel caso di specie – degli evidenti favoritismi a
(indebito) vantaggio di taluno ed a correlato discapito di tutti gli altri soggetti portatori di interessi
confliggenti.
Il principio è stato successivamente ribadito da altra pronuncia del 2008 …
… La Corte territoriale dubita che la condotta incriminata contenga i presupposti della nuova
fattispecie incriminatrice sotto il profilo dell'espressa indicazione delle norme di legge o di
regolamento violate nell'esercizio della funzione pubblica, rilevando che il richiamo alla norma di cui
all'art. 97 Cost., non avrebbe immediato valore precettivo. Tale tesi, che richiama una risalente teoria
sul valore non precettivo di talune norme costituzionali, non può essere condivisa .. Non può dubitarsi ..
che nell'esercizio delle funzioni pubbliche, la violazione del dovere di imparzialità, sancito dall'art. 97
Cost., comma 1, realizzi il requisito della "violazione di norme di legge" indispensabile per integrare la
condotta punibile nel reato di abuso di atti d'ufficio, di cui all'art. 323 c.p., come novellato dalla L. n.
234 del 1997 (Cassazione penale, sez. II, 10 giugno 2008, n. 35048).
… e ripreso da una pronuncia del 2009 relativa al principio di imparzialità sancito, in relazione
all’attività giudiziaria, dall’art. 111 Cost.: il caso di specie era quello di un giudice di pace al quale
era stato contestato di aver abusato delle sue funzioni e dei conseguenti poteri, trasmettendo la
copia di una propria sentenza, prima del deposito, alla parte convenuta vittoriosa tramite un fax
diretto al difensore, fax che per un disguido materiale perveniva anche allo studio del difensore
della parte attrice soccombente. La Corte, annullando con rinvio la sentenza con la quale il Gup
(pur in presenza di un accordo tra imputato e pm per l’applicazione della pena) aveva dichiarato il
non luogo a procedere perché il fatto non sussiste, statuisce tra l’altro che:
secondo il tradizionale orientamento della giurisprudenza, non è idonea a rendere configurabile la
violazione di legge rilevante ai fini dell'integrazione del delitto di abuso d'ufficio la sola inosservanza di
norme di carattere generale, aventi valore meramente programmatico .. Tuttavia .. non può non
attribuirsi una valenza cogente al principio di imparzialità sancito, in relazione all'attività giudiziaria,
dall'art. 111 Cost., in quanto tale principio, inteso come divieto di favoritismi o di trattamenti
persecutori, impone al giudice una vera e propria regola di comportamento, di immediata applicazione, e
possiede, quindi, i contenuti precettivi richiesti dall'art. 323 c.p.. E, nella fattispecie in esame, non par
dubbio che la comunicazione a una parte, da parte del giudice investito di una controversia civile, del
contenuto di una sentenza non ancora depositata e pubblicata, costituisca espressione di un
atteggiamento di favore deviante dal canone di imparzialità che deve presiedere in ogni momento
l'esercizio della funzione giurisdizionale e che vuole il giudice assestato in una posizione di assoluta
equidistanza dai soggetti coinvolti nel processo (Cassazione penale, sez. VI, 20 gennaio 2009, n. 9862).
È di tutta evidenza che la condotta di un giudice che comunichi anticipatamente ad una delle parti
l'esito della causa costituisce macroscopica violazione dei doveri del giudice. La condotta è
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talmente abnorme che non si trova nell'ordinamento giuridico alcuna norma che la vieti in modo
espresso. È per questo motivo che, nella ricerca di una norma di legge la cui violazione consenta di
ritenere operativo il reato di cui all'art. 323 c.p., si è ipotizzata nel caso di specie la diretta
violazione dell'art. 111, comma 2, Cost., norma che prevede che il processo si svolga nel
contraddittorio delle parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale.
Ritiene dunque la Cassazione che la norma dell'art. 111, comma 2, Cost., intesa come divieto di
favoritismi o di trattamenti persecutori, sia immediatamente precettiva ai fini che ci interessano:
fra i principi informatori del processo e dell'attività del giudice (il c.d. giusto processo),
l'imparzialità del giudice ha effettivamente immediata precettività ed è norma che rileva non nella
prospettiva di una comparazione fra l'interesse dell'amministrazione giudiziaria e quello dei terzi
bensì come parametro di equiparazione fra gli interessi dei vari soggetti terzi con i quali
l'amministrazione giudiziaria si rapporta (le parti del processo), ovvero, in sintesi, come divieto di
favoritismi per una parte processuale in danno dell'altra.
La violazione di norme procedimentali
Ci si è chiesti se possa concorrere ad integrare l’elemento oggettivo del reato in questione la
violazione di norme solo procedimentali, destinate a disciplinare l’iter da osservare, senza dettare
tuttavia i criteri sostanziali alla cui stregua il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio
sono tenuti a definire la vicenda amministrativa sottoposta al loro vaglio.
Per una prima impostazione, va esclusa la rilevanza penale della violazione di norme meramente
procedimentali, volte semplicemente a disciplinare dall’interno il dispiegarsi del procedimento
amministrativo, come ad esempio le disposizioni che impongono all’amministrazione di
comunicare l’avvio del procedimento amministrativo (artt. 7 e 8, l. n. 241/1990) o il preavviso di
rigetto nei procedimenti ad istanza di parte (art. 10-bis, l. n. 241/1990) ovvero, ancora, di tener
conto delle memorie e dei documenti prodotti dal privato o di motivare l’atto amministrativo.
In tema di abuso di ufficio, vengono in rilievo solo le violazioni di norme che si trovino in diretto
rapporto causale con il vantaggio o il danno previsti dall'art. 323 c.p., norme che, essendo
specificamente orientate a vietare il comportamento sostanziale del soggetto pubblico, dispiegano i
loro effetti su posizioni soggettive. Non integrano pertanto l'elemento materiale del delitto sopra
indicato quei comportamenti che si sostanziano nella inosservanza di norme procedurali, destinate a
svolgere la loro funzione solo all'interno del procedimento, senza incidere sulla fase decisoria di
composizione del conflitto di interessi materiali, oggetto della valutazione amministrativa (Cassazione
penale, sez. VI, 28 aprile 1999, n. 9961).
Si osserva, a sostegno di questo primo indirizzo, che altrimenti opinando si corre il rischio di
ascrivere rilievo penale a mere illegittimità formali o procedimentali, inidonee a giustificare la
stessa caducazione dell’atto amministrativo ad opera del giudice amministrativo, chiamato a dare
applicazione al meccanismo sanante delineato dall’art. 21-octies, co. 2, l. n. 241/1990, introdotto
dalla legge n. 15/2005.
La norma violata, pertanto, non deve essere strumentale alla mera regolarità dell’azione
amministrativa, ma deve viceversa vietare una certa condotta o fornire il criterio sostanziale di
soluzione della vicenda amministrativa.
Per contrapposta posizione interpretativa, che fa leva direttamente sul dettato normativo del 323
c.p., il legislatore non distingue tra norma e norma, sicché devono reputarsi penalmente rilevanti
anche le violazioni di disposizioni meramente procedimentali.
E’ oggi prevalente anche in giurisprudenza una tesi intermedia, integrante una puntualizzazione
di quella appena illustrata, secondo cui ben può l’abuso di ufficio essere integrato per effetto della
violazione di disposizioni anche semplicemente procedimentali, ferma tuttavia la necessità che il
giudice volta per volta verifichi la derivazione logico-causale del danno o del vantaggio ingiusto
dalla violazione della norma procedimentale.
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DIRITTO PENALE II
Lezione dell’8 marzo 2011: l’abuso di ufficio
dott. Michele Toriello
Ai fini della sussistenza del reato di cui all'art. 323 c.p. la violazione di legge rilevante è solo quella
riferita a disposizioni dotate di uno specifico contenuto prescrittivo, con esclusione delle norme
meramente procedimentali, da intendersi rigorosamente come quelle destinate a svolgere la loro
funzione all'interno del procedimento, senza incidere in modo diretto ed immediato sulla decisione
amministrativa - Nella specie, la Corte ha ritenuto che l'omessa istruttoria, diretta ad individuare un
adeguato numero di aspiranti al conferimento di un incarico esterno alla Asl e a verificarne l'idoneità,
integrasse una violazione procedimentale ex art. 7 l. 7 agosto 1990 n. 241, in grado di incidere sulla
decisione finale (Cassazione penale, sez. VI, 7 aprile 2005, n. 18149).
Nella motivazione della sentenza appena indicata la Suprema Corte statuisce che la violazione
normativa rilevante sotto il profilo dell'art. 323 c.p. è solo quella riferita a disposizioni dotate di
uno specifico contenuto prescrittivo, per cui deve essere esclusa dall'area della punibilità l'inosservanza
di norme meramente programmatiche o di norme procedurali destinate a svolgere la loro funzione solo
all'interno del procedimento senza incidere in modo diretto ed immediato sulla fase decisoria, ed evidenzia
che nel caso di specie non sembra si possa affermare che la violazione procedurale sia stata senz'altro priva
di effetto sulla decisione, atteso che la carenza di una vera e propria attività istruttoria, diretta a individuare
un adeguato numero di potenziali aspiranti al conferimento dell'incarico e a verificarne l'idoneità, e la
mancanza di una congrua motivazione sulla scelta adottata hanno innegabilmente avuto effetto sulla
decisione, precludendo l'esame di altre possibili candidature, nel raffronto con le quali la scelta avrebbe
dovuto essere motivata; e si debbono pertanto ritenere in connessione diretta col vantaggio ingiusto in cui
l'evento del reato consiste.
Analogo principio era stato affermato da altra pronuncia dei giudici di legittimità
In tema di abuso di ufficio, è idonea a integrare la violazione di legge, rilevante ai fini della sussistenza
del reato, l'inosservanza da parte dell'amministratore pubblico del dovere di compiere una adeguata
istruttoria diretta ad accertare la sussistenza delle condizioni richieste per il rilascio di una
autorizzazione; infatti, l'istruttoria amministrativa è comunque imposta da una norma generale sul
procedimento, cioè dall'art. 3 l. 7 agosto 1990 n. 241, ed incide direttamente nella fase decisoria in cui
i diversi interessi, pubblici e privati, devono essere ponderati. (Nell'affermare tale principio, in una
fattispecie in cui il vice sindaco aveva omesso l'istruttoria per il rilascio di una autorizzazione sanitaria
in favore di una società di cui faceva parte anche il sindaco, la Corte ha precisato che l'inosservanza
del dovere di istruttoria non può essere considerata violazione di semplici norme interne relative al
procedimento e, in quanto tali, prive del carattere formale e del regime giuridico della legge o del
regolamento cui si riferisce l'art. 323 c.p. (Cassazione penale, sez. VI, 4 novembre 2004, n. 69).
Dunque, è necessario accertare se l’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento abbia
costituito, anche nelle intenzioni del pubblico ufficiale, lo strumento attraverso cui arrecare il
danno ingiusto o provocare l’ingiusto vantaggio:
non rileva soltanto la violazione di norme che fanno espresso divieto di un determinato atto o
comportamento, ma anche le norme che, pur dettando regole procedimentali integrano, se vulnerate, le
condizioni per la riparazione del danno ingiustamente sofferto ex art. 2043 c.c., secondo la più recente
interpretazione delle Sezioni unite civili della Corte di cassazione. (Fattispecie di primario ospedaliero
che negava sistematicamente l'attività in sala operatoria ad un suo assistente, nonostante la normativa
imponesse che il servizio relativo ai pazienti dovesse rispettare i "criteri oggettivi di competenza, di
equa ripartizione del lavoro, di rotazione nei vari settori di pertinenza" (Cassazione penale, sez. VI, 24
febbraio 2000, n. 4881).
CASO PRATICO (sentenza n. 37531/2007, allegato n. 5)
La Corte conferma la condanna del responsabile di un Ufficio Tecnico Comunale che aveva rilasciato uno strumento
concessorio senza prima svolgere una adeguata attività istruttoria, basandosi esclusivamente sulla insufficiente ed in parte
falsa documentazione prodotta dal richiedente assolutamente insufficiente: l’inosservanza del dovere di compiere
un’adeguata istruttoria diretta ad accertare la sussistenza delle condizioni richieste per il rilascio di un’autorizzazione è
idonea ad integrare la violazione di legge, rilevante ai fini della sussistenza del reato di abuso di ufficio, sia perché imposta
da una norma generale sul procedimento amministrativo (art. 3 L. 241/1990), sia perché costituisce una fase procedimentale
essenziale e incidente direttamente sul momento finale della decisione, in cui i diversi interessi, pubblici, collettivi e privati,
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DIRITTO PENALE II
Lezione dell’8 marzo 2011: l’abuso di ufficio
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devono essere ponderati. Quindi l’inosservanza del dovere di istruttoria non può essere considerata violazione di semplici
norme interne al procedimento, prive del carattere formale e del regime giuridico della legge o del regolamento, in quanto ogni
procedimento amministrativo e, in particolar modo, quelli attinenti alla materia urbanistica, sono regolati da norme primarie
generali o di settore che prevedono necessariamente un’attività di natura istruttoria preliminare alla decisione finale da parte
dell’amministrazione, che deve essere assunta sulla base di una piena conoscenza dei dati di fatto e delle situazioni
giuridiche.
Dunque, anche la violazione di una norma procedimentale può integrare l’elemento materiale del
reato in commento, tutte le volte che si accerti la sussistenza di un nesso di derivazione causale o
concausale tra la violazione posta in essere dall’agente pubblico e l’evento di vantaggio o di danno
conseguenza dell’abuso.
LA VIOLAZIONE DI REGOLAMENTI
Un ampio dibattito ha riguardato l’esatta individuazione dei regolamenti la cui violazione è idonea
ad integrare la fattispecie incriminatrice in oggetto: secondo la migliore interpretazione, il richiamo
alla nozione di regolamento operato nell’art. 323 è rigorosamente tecnico, dovendosi considerare
tale solo quello che ne abbia il carattere formale ed il conseguente regime giuridico, di guisa che il
regolamento statale, la cui violazione può rilevare ai fini dell’abuso d’ufficio, è solo quello che
rientra nella previsione della l. n. 400/88. Relativamente agli enti locali territoriali, invece, si può
parlare di regolamento solo quando si sia in presenza di un testo normativo adottato nell’esercizio
della potestà regolamentare tratteggiata dall’art. 5 della l. n. 142/90, ovvero, dopo l’entrata in
vigore del nuovo testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, dall’art. 7 del D. Lvo n.
267/00.
La giurisprudenza della Suprema Corte ha avallato questa interpretazione restrittiva e formale,
ritenendo che il regolamento la cui violazione può rilevare ai fini dell’abuso d’ufficio è solo quello
che rientra nella previsione della legge 23 agosto 1988 n. 400, dalla quale si ricava appunto, sul
piano formale, la nozione di regolamento (v. art.17 della legge citata; per gli enti locali v. anche
l’art.5 della legge 142/1990); in particolare, al comma 4 dell’art. 17 della L. 400/1988 è stabilito che
sia i provvedimenti governativi che quelli ministeriali e interministeriali devono recare la nozione
di "regolamento", e sono adottati previo parere del Consiglio di Stato e sottoposti al visto ed alla
registrazione della Corte dei Conti. Pertanto, si deve escludere la configurabilità del reato di abuso
d’ufficio in relazione ad una condotta assunta in violazione delle norme di un decreto ministeriale
non qualificabile come regolamento nei termini suesposti.
In tema di reato di abuso d'ufficio, le disposizioni contenute nelle circolari ministeriali atte a
regolamentare l'uso delle auto di servizio non assumono né il carattere formale e sostanziale di cogenza
autonoma uti universi, tipicizzante le norme di legge né quello del regolamento, per difetto di contenuto
di efficacia primaria o secondaria "erga omnes", risolvendosi in disposizioni regolamentanti il
funzionamento interno dell'ufficio e, come tali, correttamente qualificabili come normativa ad efficacia
interna che non può essere ricompresa nella sfera di tipica violazione di legge e regolamento di cui
all'art. 323 c.p. (Cassazione penale, sez. VI, 13 maggio 2003, n. 27007).
In altro caso, nel quale le parti civili avevano impugnato la sentenza di assoluzione degli imputati,
deducendo tra l’altro che nel caso di specie era configurabile una violazione di regolamento
rilevante ex art. 323 c. p., non essendo state osservate le prescrizioni di un decreto ministeriale, la
Suprema Corte, nel rigettare il ricorso, ha statuito che
il decreto del Ministro della Sanità 30.1.1982, dedotta dalle ricorrenti parti civili a supporto del
secondo motivo di ricorso .. non ha natura di regolamento perché non rientra nella previsione della legge
23.8.1988" n. 400, dalla quale si ricava sul piano formale la nozione di regolamento. Tale legge,
disciplinando al capo III la potestà normativa del Governo, all'art. 17 indica quali sono le materie nelle
quali possono essere emanati regolamenti e stabilisce che essi sono emanati con decreto del Presidente
della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri e sentito il parere del Consiglio di
Stato. Al comma 3 consente altresì l'emanazione di decreti ministeriali nelle materie di competenza di
ciascun ministro; ma al comma 4 stabilisce che gli uni e gli altri provvedimenti normativi devono recare
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Lezione dell’8 marzo 2011: l’abuso di ufficio
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la denominazione di regolamento, sono adottati previo parere del Consiglio di Stato" e "sottoposti al
visto e alla registrazione della Corte dei Conti", condizioni. queste che non risultano rispettate dal d.m.
30.1.1982 del ministro della sanità. Essendo per le ragioni anzidette di stretta interpretazione la
formula attuale dell'art. 323 c.p., le violazioni di dette norme o di qualsiasi altra norma di tale decreto,
ove sussistenti, sono irrilevanti al fine di configurare il reato di abuso d'ufficio (Cassazione penale, sez.
VI, 3 novembre 1998, n. 12793).
In applicazione di questo principio si è sostenuto che il rilascio di concessioni edilizie in
violazione di prescrizioni del Piano Regolatore non è idonea a configurare il delitto in esame,
poiché lo strumento urbanistico non ha natura regolamentare (pur contenendo previsioni
pianificatorie generali ed astratte, destinate a trovare concreta attuazione solo con l’adozione dei
successivi piani attuativi): per l’orientamento prevalente il PRG ha invero natura mista, contenente
al contempo previsioni generali e astratte, nonché prescrizioni concrete ed immediatamente lesive.
Si tratta - si sostiene - di provvedimenti amministrativi generali a contenuto precettivo, per i quali
possono individuarsi elementi propri degli atti amministrativi puri, laddove contengono
istruzioni, norme e prescrizioni di concreta definizione, destinazione e sistemazione di singole
parti del comprensorio urbano; in parte qua, gli strumenti di programmazione e pianificazione
urbanistica vanno, quindi, tenuti distinti dai regolamenti in senso proprio e collocati tra gli atti che
costituiscono manifestazione tipica di potestà amministrativa, in quanto volti a realizzare esigenze
specifiche e concrete della P.A.
In tema di abuso d'ufficio, l'integrazione della fattispecie può venire soltanto dalla violazione di norme
di legge o di regolamento, che contengano in sè in modo concluso la disposizione ritenuta violata.
Cosicché, non configura il reato in questione il rilascio di una concessione edilizia in violazione delle
prescrizioni del piano regolatore generale e di altri strumenti urbanistici (Cassazione penale, sez. VI, 2
ottobre 1998, n. 11984).
La oramai univoca giurisprudenza della Suprema Corte è tuttavia pervenuta all’identico risultato
della incriminazione ex art. 323 c. p. di uno strumento concessorio rilasciato in violazione di
prescrizioni del PRG seguendo altra via: si è invero sostenuto che in un caso del genere il contrasto
non è solo con le prescrizioni del Piano Regolatore, ma anche con la normativa primaria di settore,
che impone l’obbligo di conformarsi alle previsioni degli strumenti urbanistici: è dunque
configurabile una violazione di legge rilevante ex art. 323 c. p. (in particolare dell’art. 31 della legge
urbanistica n. 1150/1942 e degli artt. 1 e 4 della l.n. 10/1978 che prescrivono all’amministrazione di
attenersi alle norme del piano in sede di rilascio della concessione edilizia).
Si sostiene che non si pone un problema di violazione del principio di legalità: nell’art. 323 c.p.,
invero, il legislatore, nell’indicare il parametro dell’abusività della condotta, prevede la violazione
di legge. L’art. 31 della legge urbanistica è norma di legge chiara e precisa che pone un obbligo
puntuale all’amministrazione: quello di attenersi al piano nel rilascio di concessioni edilizie (oggi
permessi di costruire); ogni atto contrario alle previsioni del p.r.g. è dunque compiuto in
violazione di legge, e può quindi integrare, nel rispetto delle altre condizioni stabilite dal codice
penale, la fattispecie di abuso di ufficio, senza che i principi di tassatività e determinatezza ne
siano compromessi.
.. anche se non si dovessero configurare gli strumenti urbanistici quali norme di legge o regolamentari, il
rilascio di titoli abilitativi in contrasto con le previsioni in essi contenute costituisce il presupposto di
fatto della violazione della normativa legale in materia urbanistica, alla quale deve farsi riferimento
quale dato strutturale della fattispecie delittuosa prevista dall'art. 323 c. p. .. Nel caso in esame .. le
concessioni edilizie e le autorizzazioni amministrative .. risultano in contrasto, tra l'altro, con il Piano
integrato di recupero e riqualificazione urbana dei quartieri, in quanto nelle aree interessate dal
predetto Piano potevano essere realizzate esclusivamente le opere di cui alle schede A1 e A2 del
progetto generale di massima, "opere tra le quali non rientra una struttura di vendita di livello
superiore, avente le caratteristiche tecniche e la consistenza di cui al progetto assentito" (Cassazione
penale, sez. III, 9 aprile 2008, n. 22134).
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Lezione dell’8 marzo 2011: l’abuso di ufficio
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Si è ad esempio sostenuto, in applicazione di tale principio, che integra il delitto di abuso di ufficio
il rilascio di una concessione edilizia in sanatoria di manufatto contrastante con le previsioni del
piano regolatore generale che impediva la realizzazione in zona a "verde privato", nella quale insisteva
il manufatto, di strutture a destinazione commerciale. Ciò ha costituito una evidente violazione dell'art.
13 della legge n. 47 del 1985, che, nel comma primo, consente la concessione in sanatoria a condizione
che l'opera sia "conforme agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati" .. È vero che la
norma rinvia alle previsioni di strumenti urbanistici, non aventi, secondo un orientamento, natura
normativa; ma, a prescindere da tale questione, deve osservarsi che il principio di legalità, che deve
assistere la fattispecie penale, non può dirsi leso qualora il precetto faccia esplicito riferimento alla
violazione di ben identificabili provvedimenti amministrativi costituenti il presupposto di legittimità
dell'azione amministrativa e che trovano nella legge la loro fonte di validità (Cassazione penale, sez. VI,
2 aprile 2001, n. 16241).
La violazione delle previsioni di un contratto collettivo
CASO PRATICO (sentenza n. 5026/2008 ed allegata nota, allegato n. 6)
La Corte ha annullato la sentenza di condanna degli imputati, ai quali era stato contestato il delitto di abuso di ufficio
consistito nella adozione di una delibera in violazione delle prescrizioni di un contratto collettivo del personale degli enti
locali relative al patrocinio legale del dipendente per fatti connessi all'espletamento dei compiti d'ufficio.
Osserva la Corte che “nel meccanismo legislativo adottato il contratto collettivo come tale - per la sua natura di istituto di
diritto privato, riconducibile all'autonomia negoziale delle parti contraenti, e non perché recepito nella legge in senso formale
con conseguente attribuzione di efficacia normativa erga omnes - assume il valore e funzione di fonte regolatrice primaria del
rapporto di pubblico impiego. Conseguenza della disciplina contrattualistica del rapporto è che l'inosservanza o la mancata o
erronea applicazione delle norme di contratto collettivo per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche non costituisce
violazione di legge o di regolamento, idonea a integrare la fattispecie del reato di abuso d'ufficio.
Violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere
La violazione di legge può consistere anche in una violazione delle norme sulla competenza, a
condizione che si tratti di una ipotesi di incompetenza relativa (il soggetto ha esorbitato dai limiti
della propria competenza, invadendo quella di altro soggetto), per grado (ad esempio un
provvedimento disciplinare adottato dal Prefetto anziché dal Ministro dell’Interno) o per materia
(ad esempio la requisizione di un immobile disposta dal Provveditore alle opere pubbliche anziché
dal Prefetto): questo perché l’atto emesso in condizioni di incompetenza assoluta non è idoneo a
produrre alcun effetto giuridico, è tamquam non esset.
Integra l'elemento oggettivo del delitto di abuso d'ufficio la violazione delle norme di legge relativa al
vizio di incompetenza cosiddetta "relativa", prevista dall'art. 21-octies L.. n. 241 del 1990, che
determina l'illegittimità del provvedimento adottato e non la sua nullità che si verifica nell'ipotesi di
difetto assoluto di attribuzione - Fattispecie relativa all'approvazione, da parte della giunta comunale,
di un atto riservato al consiglio ai sensi dell'art. 42 T.U. enti locali, e all'adozione, da parte di un
assessore comunale, di un provvedimento di competenza del dirigente a norma dell'art. 6 L. n. 127 del
1997 (Cassazione penale, sez. VI, 29 gennaio 2009, n. 7105).
L’eccesso di potere (o meglio, l’eccesso di potere come tale), non rientra più nel fatto tipico dell’art.
323 vigente: con le precedenti versioni dell’art. 323, imperniate su un dolo specifico di vantaggio o
di danno, la giurisprudenza aveva ritenuto l’esistenza del reato già ove nell’atto discrezionale il
pubblico ufficiale avesse utilizzato il potere per un fine diverso da quello previsto dalla legge; così
l’abuso d’ufficio veniva ravvisato in qualsiasi forma di strumentalizzazione dell’ufficio per finalità
non consentite, con la conseguenza che la linea di demarcazione tra illiceità amministrativa e
illiceità penale rimaneva affidata ad un dato labile e di problematico accertamento processuale.
Oggi invece le sentenze di legittimità tendono ad escludere la rilevanza di un mero eccesso di
potere, così recependo il mutamento intercorso con la formula usata della “violazione di norme” :
vi è rilevanza penale dell’abuso soltanto nella misura in cui il giudice accerti che esiste una precisa
norma legislativa o regolamentare, della cui violazione il pubblico funzionario possa essere
chiamato a rispondere.
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In realtà, la “violazione di legge” quale requisito caratterizzante l’abuso punibile, richiama la
categoria amministrativistica della violazione di legge quale vizio tipico (allo stesso modo
dell’eccesso di potere) dell’atto amministrativo, la cui latitudine è evidentemente assai ampia
potendo ricomprendere vizi attinenti al soggetto, ovvero al contenuto, alla forma o all’iter stesso
del procedimento.
La “separazione” a volte è più teorica che pratica in quanto il rischio di una “sovrapposizione” tra
violazione di legge ed eccesso di potere è elevato. Si è pertanto affermata in giurisprudenza una
prospettiva interpretativa idonea ad un sindacato dell’eccesso di potere in modo autonomo e
diretto, un orientamento che, prescindendo dalle patologie dell’atto amministrativo, evidenzia che
la condotta lecita deve inerire all’esercizio del potere attribuito dalla normativa di base dell’ufficio
di cui fa parte il pubblico ufficiale, che il potere è attribuito in vista di uno scopo pubblico, e che
dunque può esservi violazione di legge (oltre che nelle ipotesi di violazione di forme, procedure e
requisiti) anche quando la condotta non si sia conformata ai presupposti stessi da cui trae origine il
potere, e precisamente la tipicità e la stretta legalità funzionale. Da qui il “ritorno” al concetto di
“sviamento di potere” che ancora oggi consente la configurabilità dell’abuso d’ufficio allorquando
il comportamento dell’agente, pur formalmente corrispondente alla norma che regola l’esercizio
dei suoi poteri, sia tenuto in assenza delle ragioni d’ufficio che lo legittimerebbero e produce così
intenzionalmente un danno alla persona offesa (Cass. Pen., sez. VI, 13 febbraio 2006, n. 22242,
fattispecie in cui il reato di abuso d’ufficio è stato ritenuto relativamente a provvedimenti di
trasferimento del personale in servizio presso un comune, sul rilievo, tra l’altro, che trattavasi di
trasferimenti ispirati a esigenze personalistiche degli agenti e non disposti per esigenze di
efficienza e di buona amministrazione).
L’OMISSIONE DELL’OBBLIGO DI ASTENSIONE
La riforma introdotta dalla L 234/1997 ha previsto che la condotta di abuso dell’agente possa
caratterizzarsi alternativamente, oltre che per la violazione di norme di legge o di regolamento,
anche per l’omissione dell’obbligo di astensione “in presenza di un interesse proprio o di un
prossimo congiunto o negli altri casi prescritti”.
Attraverso l’esplicitazione della violazione dell’obbligo di astensione, in realtà, il legislatore ha
fatto emergere come tipologia di condotta a sé stante un’ipotesi del tutto pacifica di violazione di
legge, poiché è la legge a dettare il principio generale dell’obbligo di astensione dall’attività
amministrativa in presenza di interesse proprio, del coniuge o di parenti e affini fino al quarto
grado (principio ora riprodotto per le amministrazioni locali dall’art. 78, co. 2 del D. Lvo 18.8.00, n.
267, testo unico degli enti locali).
La lettera della norma configura due ipotesi in cui sussiste l’obbligo di astensione.
La prima si ha allorché sussiste un interesse proprio o di un prossimo congiunto, dovendosi in
proposito chiarire che:
* agli effetti della legge penale sono prossimi congiunti (art. 307, quarto comma, c. p.) gli
ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii ed i
nipoti; non rientra nel novero dei prossimi congiunti il convivente more uxorio;
* l’interesse può essere di qualsiasi natura, e dunque anche di natura non patrimoniale (ad es.
interesse affettivo).
La seconda si ha allorché ricorre uno degli altri casi prescritti: in questo caso manca il riferimento
alla legge ed al regolamento, di talché rileverà il dovere di astensione previsto da qualunque
norma amministrativa, purché il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio siano tenuti al
rispetto di detta norma.
In applicazione di tale principio la Suprema Corte ha ad esempio sostenuto che in tema di abuso di
ufficio, non integra la fattispecie criminosa, per difetto di ricorrenza di un dovere di astensione, la
condotta del direttore di un pubblico ente di ricerca che vada a comporre la commissione giudicatrice
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DIRITTO PENALE II
Lezione dell’8 marzo 2011: l’abuso di ufficio
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di un concorso per l'assunzione di personale presso l'ente stesso, al quale partecipino, come candidati,
soggetti già ivi impiegati con qualifiche inferiori a quella relativa al posto messo a concorso.
Nella motivazione della sentenza di evidenzia che la direttiva sulla quale l’accusa aveva fondato il
dovere di astensione fa specifico richiamo alla normativa per l'incompatibilità prevista per l'esercizio delle
funzioni giurisdizionali, stabilendo che il direttore del Centro non possa presiedere la commissione
esaminatrice solo nel caso in cui ricorrano ragioni di incompatibilità previste dall'art. 51 c.p.p., "per rapporti
non riconducibili a ragioni d'ufficio".. Ciò posto e considerato che i Giudici del merito hanno accertato in
punto di fatto la collegialità delle decisione e l'assenza di parzialità nelle determinazioni adottate dallo Z. .. si
conclude nel senso che non vi era una commistione di interessi economici e/o personali di intensità tale da
comportare, di per sè ed oggettivamente, il venire meno delle garanzie di trasparenza, serenità ed
imparzialità di giudizio, non rientrando neppure tra le cause di astensione tassativamente indicate dall'art.
51 c.p.p.
CASO PRATICO (sentenza n. 27936/2008 ed allegata nota, allegato n. 7)
La Corte ha confermato la sentenza di condanna del medico specialista di una struttura sanitaria pubblica che, dopo aver
effettuato una visita ambulatoriale, in violazione del dovere di astensione invitò il paziente a recarsi nel suo laboratorio
privato per un approfondimento diagnostico, invece che indirizzarlo ad uno dei contigui presidi ospedalieri.
In caso di provvedimenti collegiali, dottrina e giurisprudenza amministrativa ritengono che
l’obbligo di astensione non investa solo la fase della discussione e della votazione, poiché l’agente
pubblico deve astenersi dal partecipare alla seduta; si è tuttavia ragionevolmente puntualizzato
che la mera presenza può essere di per sé del tutto neutra, e che occorrerà accertare se il soggetto
interessato abbia influenzato i membri del collegio così incidendo sul risultato della deliberazione.
LA CONDOTTA
La novella del 1997 della norma incriminatrice ha trasformato l’abuso di ufficio da reato di pura
condotta a reato di evento, poiché il reato può dirsi integrato solo se e solo quando l’agente
pubblico procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno
ingiusto: nessuna ulteriore specificazione circa la condotta viene fornita dalla norma, che pretende
solo che il danno o il vantaggio siano arrecati con violazione di norma di legge o di regolamento.
Ne consegue che la condotta può estrinsecarsi in atti interni ovvero esterni, in atti decisionali
ovvero meramente consultivi, in atti preparatori ovvero in mere attività tecniche o materiali, e più
in generale in qualsiasi comportamento del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio
che costituisca una illecita deviazione dai fini istituzionali della pubblica amministrazione.
Nel caso di procedimento amministrativo complesso - caratterizzato dal concorso di diversi atti
amministrativi - il pubblico ufficiale che abbia partecipato solo ad una fase del procedimento,
limitandosi ad adottare un atto legittimo, non può rispondere del delitto di abuso di ufficio,
neppure quando l’atto da lui emesso si ponga in rapporto di causalità materiale col provvedimento
finale illegittimo: diversamente opinando, infatti, si giungerebbe ad un’affermazione di colpevolezza
basata su una sorta di responsabilità oggettiva, imputandosi all’agente che abbia operato nel rispetto
delle norme di legge o di regolamento l’illegittimità del comportamento altrui (Cassazione penale, sez.
VI, 20 giugno 2000, n. 7290).
Nel silenzio della legge, la condotta costituente reato potrà essere anche una condotta omissiva,
naturalmente a condizione che l'azione comandata, il cui mancato compimento integra la condotta,
sia prevista da una norma di legge o di regolamento: si deve trattare cioè del mancato esercizio di
un potere esplicitamente attribuito al funzionario, non essendo altrimenti una mera inattività
sufficiente, da sola, a configurare la fattispecie abusiva.
L'elemento materiale del delitto di abuso d'ufficio può essere realizzato anche attraverso una
condotta omissiva, purché si tratti del mancato esercizio di un potere esplicitamente attribuito al
pubblico funzionario da una norma di legge o regolamentare (Cassazione penale, sez. VI, 9 novembre
2010, n. 41697).
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DIRITTO PENALE II
Lezione dell’8 marzo 2011: l’abuso di ufficio
dott. Michele Toriello
Rimane da chiarire che in casi del genere, alla luce della più severa pena edittale, l’abuso di ufficio
non rimarrà assorbito nell’altro reato, astrattamente ipotizzabile, di omissione di atti di ufficio, ma
accadrà proprio il contrario
Il delitto di abuso d'atti d'ufficio può essere integrato anche attraverso una condotta meramente
omissiva, rimanendo in tal caso assorbito il concorrente reato di omissione d'atti d'ufficio in forza
della clausola di consunzione contenuta nell'art. 323, comma 1, c.p. - Fattispecie in cui è stata ritenuto
configurabile il reato di abuso d'atti d'ufficio in relazione alla condotta del sindaco e di alcuni
funzionari comunali che avevano deliberatamente omesso di dare esecuzione all'ordinanza di
demolizione di un immobile al fine di procurare un indebito vantaggio ai proprietari (Cassazione penale,
sez. VI, 22 gennaio 2010, n. 10009).
L’EVENTO: in particolare la doppa ingiustizia
La condotta posta in essere dall’agente pubblico in violazione di leggi o di regolamenti deve aver
procurato a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale (donde l’irrilevanza penale del vantaggio
non patrimoniale) ovvero deve aver arrecato ad altri un danno ingiusto (in questo caso manca il
riferimento alla patrimonialità, e dunque il danno ingiusto potrà essere anche un danno morale).
Si ha il vantaggio quando dall’atto abusivo dell’agente pubblico derivi – al medesimo agente
ovvero ad un terzo - una posizione più favorevole rispetto a quella che sarebbe derivata dall’atto
legittimo (indipendentemente dalla circostanza, del tutto irrilevante, che a questo vantaggio
corrisponda un altrui danno): ha in proposito precisato Cassazione penale, sez. VI, 27 ottobre 2009,
n. 43302, che il vantaggio patrimoniale sussiste non solo quando l’abuso sia volto a procurare
denaro o beni materiali, ma anche quando sia inteso a creare un accrescimento della situazione
giuridica soggettiva a favore di colui nel cui interesse l’atto è stato posto in essere (Fattispecie
relativa al rilascio illegittimo di autorizzazione di autonoleggio con conducente).
Si ha il danno quando dall’atto abusivo dell’agente pubblico derivi ad un terzo una posizione più
sfavorevole rispetto a quella che sarebbe derivata dall’atto legittimo (indipendentemente dalla
circostanza, del tutto irrilevante, che l’agente ovvero un terzo traggano vantaggio dall’altrui
danno). Ad esempio Cassazione penale, sez. V, 27 novembre 2008, n. 46509 ha ravvisato il danno
ingiusto nella illegittima lesione del diritto alla privacy (il caso di specie riguardava un ufficiale di
p.g., il quale, avuto l'incarico del suo dirigente di mostrare ad alcuni giornalisti il luogo ove
sarebbe stato consumato un reato di abuso sessuale e - dall'esterno - l'abitazione dell'indagato, di
sua iniziativa faceva entrare i giornalisti all'interno dell'abitazione dell'indagato, consentendo loro
di scattare fotografie di tali locali e degli oggetti ivi presenti).
La norma incriminatrice espressamente fa discendere la configurabilità del reato alla ingiustizia del
danno o del vantaggio: il danno o il vantaggio causati devono dunque essere valutati come ingiusti
in sé, ovvero non semplicemente come frutto della attività illegittima, ma in quanto non dovuti in
base al diritto oggettivo regolante la materia. Non è dunque sufficiente che il pubblico ufficiale
compia una attività di per sé illegittima, poiché occorre verificare che si sia verificato anche un
vantaggio od un danno ingiusti in sé.
Il requisito dell'ingiustizia fu introdotto nella formulazione dell’art. 323 c. p. con la novella del 1990,
che qualificava la fattispecie in termini di dolo specifico («al fine di procurare a sé o ad altri un
ingiusto vantaggio ...»), anche se in dottrina e giurisprudenza si era già in precedenza sostenuto che
tale requisito fosse implicitamente contenuto nella fattispecie.
L'elemento dell'ingiustizia venne poi ribadito dalla L. 16 luglio 1997, n. 234, che trasferì tale
requisito dall'elemento soggettivo all'elemento oggettivo, nella sfera dell'evento.
Ciò posto, secondo parte della dottrina quando l'atto posto in essere dal pubblico ufficiale è
illegittimo, il profitto o il danno che ne conseguono non possono che essere ingiusti, e dunque il
requisito dell'ingiustizia è, nella formulazione normativa, meramente pleonastico.
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DIRITTO PENALE II
Lezione dell’8 marzo 2011: l’abuso di ufficio
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Altra parte della dottrina ha invece ritenuto che se il legislatore ha usato il termine "ingiustizia", a
tale termine si deve dare autonoma rilevanza rispetto alla illegittimità (per violazione di norme di
legge o di regolamento) della condotta del pubblico ufficiale, per evitare una interpretatio abrogans.
Alla prima tesi (della illiceità cd. espressa) si contrappone pertanto quella della illiceità cd. speciale
(caratteristica di quei casi nei quali un dato elemento della fattispecie si realizza se ed in quanto vi
sia un contrasto con una norma extrapenale cui fa rinvio la norma incriminatrice): il danno o
vantaggio causati con la condotta di cui all'art. 323 c.p. per essere ingiusti devono essere prodotti
non iure ed essere anche contra ius; la illegittimità della condotta qualifica la stessa come non iure
data, ma il danno od il vantaggio devono essere contra ius, nel senso che se ne deve autonomamente
valutare, con riferimento al risultato ottenuto in sé, l'ingiustizia (ben potendo accadere che una
condotta illegittima non produca un ingiusto profitto: si pensi al caso di scuola del sindaco che
rilasci una concessione edilizia senza aver acquisito il parere della commissione edilizia, in favore
di un soggetto che ne aveva comunque diritto).
Ne consegue la necessità di effettuare due distinte valutazioni: la prima sulla abusività-illegittimità
della condotta, per contrasto con norme di legge o di regolamento, la seconda sull'ingiustizia del
danno; solo ove entrambe le indagini diano esito positivo potrà dirsi integrato il delitto di abuso di
ufficio, scaturito da una condotta posta in essere in violazione di una norma di legge o di
regolamento, che ha provocato un risultato (vantaggioso o dannoso) a sua volta in contrasto con
una norma vigente.
È proprio su questi presupposti che la giurisprudenza della Suprema Corte ha sviluppato il filone
interpretativo della cd. doppia ingiustizia dell'abuso d'ufficio, perfettamente riassunto in Cassazione
penale, sez. VI, 24 aprile 2008, n. 27936: ai fini dell'integrazione del reato di abuso d'ufficio, è
necessario che sussista la cosiddetta doppia ingiustizia, nel senso che ingiusta deve essere la condotta,
in quanto connotata da violazione di legge, e ingiusto deve essere l'evento di vantaggio patrimoniale, in
quanto non spettante in base al diritto oggettivo regolante la materia. Ne consegue che occorre una
duplice distinta valutazione in proposito, non potendosi far discendere l'ingiustizia del vantaggio
conseguito dalla illegittimità del mezzo utilizzato e quindi dalla accertata esistenza dell'illegittimità
della condotta, ed essendo possibile, in teoria, che il reato non rimanga integrato se, pur essendo
illegittimo il mezzo impiegato, l'evento di vantaggio (o di danno) non sia di per sé ingiusto
Mentre dunque secondo la più risalente giurisprudenza era sufficiente che il vantaggio non fosse
dovuto (iniuste datum), non richiedendosi che fosse anche turpiter datum, l’orientamento oramai
univocamente seguito dai giudici di legittimità si è consolidato sull'affermazione della necessità
della "doppia ingiustizia", determinando una evidente restrizione dell'area tutelata dall'illecito
penale, non risultando puniti gli abusi finalizzati a procurare un vantaggio lecito.
L’ingiustizia dell’evento rappresenta allora la nota di disvalore che differenzia ciò che è penalmente
rilevante dal mero illecito amministrativo: verificata la violazione di norme di legge o regolamento,
è proprio l'ingiustizia del risultato ad attribuire rilevanza penale alla condotta.
Resta da chiarire che, secondo la preferibile interpretazione giurisprudenziale, può ritenersi
ingiusto il profitto (o il danno) che si presenti come contrario all’ordinamento giuridico, che non
abbia fondamento in un corrispondente diritto sostanziale, e che non può ritenersi di per sé solo
ingiusto il maggior guadagno del privato, ossia il vantaggio consistente nel diritto alla retribuzione
per l’opera prestata (che costituisce il giusto corrispettivo per una attività effettivamente espletata).
Il vantaggio patrimoniale e/o il danno non devono dunque costituire il riflesso della condotta
illegittima, ma devono essere ingiusti “in sé”, in base al diritto oggettivo regolante la materia e
secondo una valutazione rapportata alla situazione esistente al momento della condotta: cfr. in
termini, tra le tante, Cassazione penale, sez. VI, 27 giugno 2006, n. 35381, secondo cui ingiusto deve
essere l'evento di vantaggio patrimoniale, in quanto non spettante in base al diritto oggettivo regolante
la materia. Ne consegue che occorre una duplice distinta valutazione in proposito, non potendosi far
discendere l'ingiustizia del vantaggio conseguito dalla illegittimità del mezzo utilizzato e quindi dalla
accertata esistenza dell'illegittimità della condotta. Ed ancora, tra le più recenti, Cassazione penale,
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Lezione dell’8 marzo 2011: l’abuso di ufficio
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sez. VI, 23 febbraio 2010, n. 21357, secondo cui ai fini dell'integrazione del reato di abuso d'ufficio,
anche nel caso di violazione dell'obbligo di astensione, è necessario che a tale omissione si aggiunga
l'ingiustizia del vantaggio patrimoniale perseguito, con conseguente duplice distinta valutazione da parte
del giudice, che non può far discendere l'ingiustizia del vantaggio dall'illegittimità del mezzo utilizzato.
Il principio ha formato oggetto di numerose recenti pronunce della Suprema Corte, le più
interessanti delle quali hanno approfondito il significato della ingiustizia del vantaggio
patrimoniale, ritenendo erronee le considerazioni relative alla liceità (e dunque alla non ingiustizia)
della remunerazione di una prestazione professionale resa possibile dalla condotta abusiva.
CASO PRATICO (sentenza n. 21357/2010, allegato n. 8)
Il giudice di merito aveva assolto l’imputato, medico specialista presso una struttura ospedaliera pubblica, al quale
si contestava di avere indirizzato, dopo la visita presso la struttura pubblica, una paziente verso il proprio studio
medico privato, prospettandole di potere in tal modo abbreviare, rispetto alla struttura pubblica, i tempi di attesa
necessari per effettuare gli accertamenti, così compiendo atti idonei diretti univocamente a procurarsi un ingiusto
vantaggio patrimoniale, non riuscendo nell'intento per il rifiuto della paziente.
Aveva ritenuto sussistente la violazione del dovere di astensione, ma aveva rilevato che il vantaggio patrimoniale
avuto di mira, consistente nel compenso delle prestazioni professionali private, pur essendo frutto di quella
violazione, non poteva considerarsi contra ius, in quanto non era in contrasto con alcuna norma dell'ordinamento.
La Corte annulla con rinvio la sentenza, rilevando che “il vantaggio patrimoniale immediatamente perseguito non
va identificato nella remunerazione (in sè giustificata dal sinallagma funzionale) della (futura) prestazione
professionale bensì nella acquisizione della "occasione" della prestazione stessa. E' dunque con riferimento a questa
acquisizione che andava e va verificata l'ingiustizia o meno del vantaggio. Tale verifica deve essere condotta alla
luce dell'ordinamento e, in particolare, delle norme che regolavano la pubblicità delle professioni sanitarie e dei
presidi medici al momento dei fatti”…
Secondo Cassazione penale, sez. II, 11 dicembre 2009, n. 2754, il delitto di abuso d'ufficio è integrato
dalla doppia e autonoma ingiustizia, sia della condotta che deve essere connotata da violazione di legge,
che dell'evento di vantaggio patrimoniale in quanto non spettante in base al diritto oggettivo, con la
conseguente necessità di una duplice distinta valutazione in proposito, non potendosi far discendere
l'ingiustizia del vantaggio dalla illegittimità del mezzo utilizzato e, quindi, dall'accertata illegittimità
della condotta. (Nella fattispecie, relativa all'asserito ingiusto vantaggio tratto da due componenti del
consiglio direttivo di una Fondazione in virtù della cessazione di una lite civile in corso con la Fondazione
medesima, la Corte ha specificato che il danno ingiusto è quello contrario al diritto oggettivo, e tale non
può definirsi l'ipotesi di soluzione tecnica, per quanto opinabile, di una controversia giudiziale che
conduce a un dato risultato, in se stesso non contrario all'ordinamento seppure non soddisfacente).
Cassazione penale, sez. II, 27 ottobre 2009, n. 47978 ha confermato la sentenza di assoluzione di un
vice procuratore onorario tratto a giudizio per essere intervenuto come pubblico ministero in
udienza dibattimentale nel procedimento a carico di un soggetto del quale egli stesso, proprio in
quel procedimento, era stato in precedenza difensore, prima d'ufficio e poi di fiducia, con palese
violazione dunque del dovere di astensione. Rileva la Corte che correttamente il giudice di merito
ha escluso la sussistenza del reato, in quanto non ha ritenuto ravvisabile il danno ingiusto nei confronti
delle persone offese, .. In particolare, il giudice ha sostenuto che in atti non fossero rinvenibili elementi
per affermare che gli esami testimoniali .. fossero stati condotti dal pubblico ministero onorario
d'udienza con "ingiustificata ostilità" ovvero con "modalità vessatorie", nè che tali esami fossero stati
"palesemente strumentalizzati" al fine di far cadere in contraddizione i testimoni, compromettendo le
prove a carico dell'imputato M., rilevando anzi che le domande rivolte ai due testi dell'accusa sono state
"assolutamente legittime e funzionali all'accertamento della verità e all'imprescindibile vaglio in merito
all'attendibilità dei testimoni stessi". A quanto sostenuto dalla sentenza impugnata deve solo aggiungersi
che non è ravvisabile neppure il vantaggio ingiusto in favore dell'imputato, dal momento che non vi è
traccia di qualsiasi elemento patrimoniale, specificamente richiesto dalla norma. Invero, secondo una
giurisprudenza ormai pacifica, anche nell'ipotesi dell'omessa astensione prevista dall'art. 323 c.p. è
necessario per la sussistenza del reato che si realizzi l'evento dell'abuso, cioè il danno ingiusto ovvero
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l'ingiusto vantaggio patrimoniale. In conclusione, deve riconoscersi che correttamente è stato escluso il
reato di abuso d'ufficio
Cassazione penale, sez. VI, 15 aprile 2009, n. 25537 nel confermare la sentenza di condanna di un
Prefetto che aveva disposto e consentito l'utilizzo di autovetture e personale di servizio per scopi
estranei ai compiti d'istituto, in particolare per accompagnamenti della moglie in vari viaggi, ha
puntualizzato che non poteva spiegare alcuna rilevanza l’argomento, sviluppato dai difensori nel
ricorso, della irrilevanza economica degli sporadici utilizzi dell’autovettura di servizio, posto che ai
fini del delitto ex art. 323 c.p., non rilevano le disfunzioni o l'entità del danno in sè per la P.A. .. ma solo
un (ingiusto) vantaggio patrimoniale procurato dall'agente a sè o a terzi, sulla cui sussistenza nella
specie non possono nutrirsi dubbi, tenuto conto dell'oggettivo e non irrilevante valore economico (dal
punto di vista del fruitore) del consumo di carburante, del costo di mercato dell'utilizzo del mezzo e
delle ore di impegno del personale.
Cassazione penale, sez. V, 2 dicembre 2008, n. 16895, nel confermare la sentenza di condanna di un
pubblico ministero che aveva affidato in circa sette mesi oltre 50 incarichi di consulenza tecnica ad
alcuni soggetti, così ha rigettato l’argomento dedotto dai difensori in sede di ricorso, afferente la
insussistenza dell’estremo dell’ingiusto vantaggio patrimoniale: ricorre il requisito dell'ingiustizia
del vantaggio patrimoniale, essendo i compensi liquidati ai consulenti contra jus. Al riguardo, la corte
territoriale ha bene evidenziato che "l'abnorme concentrazione di incarichi nelle mani di un ristretto
gruppetto di consulenti .. aveva comportato il sostanziale aggiramento del precetto di cui alla L. n. 319
del 1980, art. 4". "Infatti, la maggior parte dei consulenti .. arrivavano a cumulare in un periodo
piuttosto limitato di tempo ben oltre dieci consulenze contemporaneamente". Conseguentemente,
"seppure per ogni singola consulenza non vi erano state difformità rispetto a quanto previsto dalla
normativa (8 vacazioni al giorno), tuttavia, in concreto, la contemporaneità per alcuni consulenti di un
ingente numero di incarichi (anche oltre dieci incarichi) aveva comportato un numero di vacazioni non
concedibili" (anche 80 vacazioni al giorno pari a L. 1.099.200). Pertanto, la corte territoriale ha
correttamente rigettato la tesi difensiva (riproposta vanamente con il secondo motivo di ricorso),
secondo cui "i consulenti ed in particolare l' A. avevano comunque svolto gli incarichi ed avevano, quindi,
diritto al pagamento degli onorari". Invero, deve essere considerato, innanzitutto, che gli onorari
richiesti dai consulenti non corrispondevano al lavoro effettivamente svolto, "stante l'abnorme numero
di vacazioni dovute all'accavallarsi degli incarichi (anche oltre 80 vacazioni al giorno)" e, in secondo
luogo, che detti onorari (costituenti il vantaggio patrimoniale) erano illegittimi, in quanto violavano il
limite, normativamente stabilito, delle 8 vacazioni giornaliere (4 vacazioni aumentabili fino al doppio per
la speciale complessità dell'incarico).
Merita da ultimo di essere analizzata Cassazione penale, sez. VI, 20 gennaio 2009, n. 9862, che, nel
trattare il caso di un giudice di pace che aveva trasmesso copia di una propria sentenza, prima del
deposito, alla parte convenuta vittoriosa tramite un fax diretto al difensore (fax che per un disguido
materiale perveniva anche allo studio del difensore della parte attrice soccombente), ha statuito che
l'anticipata conoscenza dell'esito della causa può determinare un ingiusto profitto sia per la parte
vittoriosa (possibilità di anticipata programmazione dei propri affari economici e conseguente
indiretta monetizzazione di tale situazione), sia per il difensore della parte vittoriosa (aumentato
prestigio innanzi al cliente e conseguente indiretta monetizzazione professionale).
Come si è innanzi accennato, la prevalente interpretazione giurisprudenziale ritiene che il
vantaggio ingiusto, che l'art. 323 c.p. specifica dover essere necessariamente patrimoniale, possa
essere non solo di natura meramente economica (patrimonio come complesso di beni, suscettibili di
effettiva ed immediata valutazione economica, facenti capo ad un soggetto), ma anche di natura
giuridica (patrimonio come complesso di rapporti giuridici a contenuto patrimoniale di cui sia
titolare lo stesso soggetto).
E’ dunque superata la concezione meramente economica, secondo la quale vantaggio e danno
corrisponderebbero ad incrementi o diminuzioni effettive del patrimonio: secondo la concezione
giuridica, vantaggio e danno patrimoniali si verificano tutte le volte che i soggetti acquistano diritti
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o assumono obbligazioni, anche in assenza di effettivi incrementi o diminuzioni patrimoniali,
poiché rientra nel concetto di vantaggio patrimoniale anche il prodursi di una situazione di favore
economicamente valutabile, anche se non comportante un immediato ed effettivo incremento di
valore economico.
Proprio per questo la Corte annulla con rinvio la sentenza di non luogo a procedere emessa dal
giudice di merito, non essendo negabile che a una parte del giudizio possa derivare un concreto
vantaggio dall'anticipata conoscenza della decisione adottata dal giudice; vantaggio la cui suscettibilità
ad essere tradotto in termini economici non può essere esclusa a priori, ove solo si tenga conto dei
possibili risvolti posti in evidenza nel ricorso (in ragione della possibilità per l'interessato, a causa
assicurata come vinta, di effettuare un'anticipata programmazione dei propri affari economici e
dell'indiretta monetizzazione di tutto ciò, nonché dell'evidente prestigio derivante al difensore dinanzi
al cliente, con indiretta monetizzazione professionale), che avrebbero meritato quanto meno una più
approfondita riflessione e verifica.
L’ELEMENTO SOGGETTIVO
Per effetto della novella introdotta dalla legge 234/1997, in punto di elemento soggettivo del reato
occorre che l’agente abbia commesso l’abuso proprio allo scopo di avvantaggiare o di danneggiare;
se pertanto il pubblico ufficiale agisce per un fine diverso dal vantaggio o dal danno ingiusto, il
reato è escluso, quand’anche egli abbia agito con dolo diretto, ossia rappresentandosi con certezza
tutti gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice, e rendendosi conto che la sua condotta
sicuramente l’avrebbe integrata (ed a maggior ragione ove abbia agito con dolo eventuale, ossia
rappresentandosi con certezza tutti gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice ed
accettando il rischio della loro verificazione)1.
La vigente formulazione dell’art. 323 c. p. non delinea più, come in passato, un reato a dolo specifico
e a consumazione anticipata, ma bensì un reato di evento a dolo generico, un dolo che, rispetto
all’evento che ne completa la struttura, assume la necessaria forma del dolo intenzionale: l’avverbio
intenzionalmente utilizzato dal legislatore del 1997 rappresenta un vero e proprio novum giuridico,
non presente in alcuna altra fattispecie incriminatice, il che porta ad escludere una funzione
meramente pleonastica e ridondante della locuzione, ma evidenzia al contrario il chiaro intento del
legislatore di restringere e contenere in ipotesi tassativamente prefissate la sfera di operatività della
norma.
L’intenzionalità oggi richiesta dalla norma incriminatrice rende penalmente perseguibili
esclusivamente quelle condotte ispirate, in via immediata, dalla prava voluntas del favoritismo
privatistico e che sono proiettate ad assicurare ed assicurano la realizzazione dello stesso. E’
richiesto un acclarato e provato grado di partecipazione dell’agente al reato, commisurabile sia al
quantum del fatto, sia al quantum di coscienza dello stesso, essendosi voluto escludere l’evocazione
del dolus in re ipsa, connesso alla mera illegittimità dell’atto amministrativo o del comportamento del
pubblico ufficiale: cfr. per tutte Cassazione penale, sez. II, 2 dicembre 2003, secondo cui in tema di
abuso d’ufficio, la prova certa che la volontà dell’agente è mirata proprio alla realizzazione del vantaggio
patrimoniale o del danno ingiusto non può essere desunta dalla semplice violazione di una norma di legge o
In tema di elemento soggettivo del reato, possono individuarsi vari livelli crescenti di intensità del dolo. Nell'azione
posta in essere con accettazione del rischio dell'evento, si richiede all'agente un'adesione di volontà, maggiore o minore,
a seconda che egli consideri maggiore o minore la probabilità di verificazione dell'evento; in tale ipotesi, il dolo va
qualificato come eventuale. Nel caso di evento ritenuto altamente probabile o certo, l'agente non si limita ad accettare il
rischio, ma accetta l'evento stesso, cioè lo vuole e con un'intensità maggiore di quella precedente: si è in presenza del
dolo c.d. diretto, che, a sua volta, assume connotazioni di differente gravità. Deve, infatti, distinguersi fra un evento
voluto come mezzo necessario per raggiungere uno scopo finale, ed un evento perseguito come scopo finale: nella prima
ipotesi, si ha il dolo diretto in senso stretto o di secondo grado, nella seconda il dolo intenzionale o diretto di primo
grado, in forza del quale assume rilievo determinante la rappresentazione dell'evento normativamente previsto nella
struttura dell'illecito.
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di regolamento, dalla quale certamente consegue un provvedimento illegittimo, ma non necessariamente
un atto illecito e penalmente rilevante, essendo necessario che la prova del dolo venga fornita grazie ad
ulteriori elementi, diversi da quello citato, idonei a dimostrare che l'evento realizzato costituiva il fine
precipuo preso di mira dal soggetto agente.
Il legislatore, nella prospettiva di limitare il sindacato del giudice penale sullo svolgimento della
funzione amministrativa, ha inteso certamente porre quest’ultima al riparo dal rischio di sanzione
penale ove si muova nell’ambito di interessi dell’Amministrazione: il che non significa che attività e
prassi amministrative contra ius, scelte come mezzo per il raggiungimento di uno scopo ritenuto
meritevole, siano esenti da controllo e da tutela (si pensi ai rimedi apprestati in sede di giustizia
amministrativa), ma più semplicemente che le si escludono dalla sfera di cognizione del giudice
penale.
Avendo il legislatore voluto rimarcare il dolo dell’abuso d'ufficio con un avverbio rafforzativo, è
evidente che ciò è stato fatto con il fine di restringere l’ambito dell’elemento soggettivo del reato di
cui all'art. 323 c. p.: il disvalore della fattispecie, incentrato oggettivamente sul verificarsi
dell’evento, rappresentato dal procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero
dall’arrecare ad altri un danno ingiusto, richiede necessariamente, sotto il profilo soggettivo, che il
soggetto attivo agisca proprio per perseguire l’uno o l’altro evento normativamente previsto.
E’ necessario cioè che il soggetto pubblico commetta l’abuso proprio allo scopo di procurare un
ingiusto vantaggio patrimoniale o di arrecare un danno ingiusto: l’evento deve rappresentare lo scopo
finale della condotta e, quindi, l’oggetto di una rappresentazione intenzionale; l’agente non soltanto
deve avere la coscienza e la volontà dell’abuso che compie, ma deve anche, consapevolmente,
perseguire la realizzazione delle suddette finalità di vantaggio o di danno in via diretta ed
immediata (il dolo intenzionale riguarda peraltro solo l'evento di danno o di vantaggio, mentre tutti
gli altri elementi della fattispecie costituiscono oggetto di dolo generico: tanto si ricava dal fatto che
l’avverbio intenzionalmente è relativo alla sola condotta del procurare o dell’arrecare).
Se il detto evento tipico è invece una semplice conseguenza accessoria dell’operato dell’agente, che
persegue in via primaria l’obiettivo dell’interesse pubblico, difetta il dolo intenzionale: l’evento
tipico è certamente voluto, ma non intenzionale, occupa una posizione defilata e rappresenta
soltanto un effetto secondario della condotta posta in essere; è l’interesse pubblico ad occupare una
posizione di supremazia nella mente del pubblico ufficiale, al quale l’ordinamento affida la cura del
medesimo interesse; ovviamente, per scongiurare di confrontarsi con inafferrabili motivazioni
interne all’imputato, deve trattarsi di un interesse di preminente rilievo, riconosciuto
dall’ordinamento e idoneo ad oscurare il concomitante favoritismo privato, degradato ad elemento
privo di valenza penale.
Come si è osservato in dottrina, attraverso la novella del 1997 il legislatore ha dunque imposto al
giudice di individuare e provare che cosa in concreto si è prefisso l’agente con la sua condotta, ritenendo
sussistente il reato solo se tale scopo si identifichi nel procurare un danno ad altri o un vantaggio ingiusto, ed
escludendolo, in caso contrario, indipendentemente dalla eventuale prevedibilità e occorrenza in concreto di
simili effetti (SEMINARA).
Ne consegue che, come nella fattispecie previgente il dolo specifico andava ricostruito alla luce del
finalismo immediato della condotta, così oggi, per essere puniti, l’evento dovrà rappresentare
proprio lo scopo preso di mira dall’agente, restando estranei all’ambito di operatività dell’art. 323 c.
p. quei casi nei quali l’agente si rappresenti con certezza l’evento, si renda conto che la sua condotta
molto probabilmente lo realizzerà, ma ponga in essere la condotta per un fine diverso: come, ad
esempio, i casi nei quali il pubblico ufficiale abbia agito per il perseguimento di un preminente
interesse pubblico, ciò che nella concreta applicazione giurisprudenziale degli ultimi anni della
norma in esame ha consentito di superare a favore dell’agente molte situazioni in cui siano venuti a
coincidere interesse pubblico ed interesse privato (cfr., ad esempio, Cassazione penale, sez. VI, 8
ottobre 2003, n. 708: nel reato di abuso d’ufficio, l’uso dell’avverbio "intenzionalmente" per qualificare il
dolo implica la sussistenza del reato solo quando l’agente si rappresenta e vuole l’evento di altrui danno o
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di vantaggio patrimoniale proprio o altrui come conseguenza diretta e immediata della sua condotta e
come obiettivo primario perseguito, e non invece quando egli intende perseguire l'interesse pubblico
come obiettivo primario).
La stessa Suprema Corte ha tuttavia avuto modo di specificare da ultimo le caratteristiche che il
concomitante interesse pubblico deve presentare per essere meritevole di tutela al punto tale da
annullare il disvalore insito nella volontarietà dell'ingiusto danno o vantaggio patrimoniale: si deve
trattare, ha precisato la Corte, esclusivamente di un fine pubblico, non essendo sufficiente né un fine
collettivo, né un fine privato di un ente pubblico e neppure un fine politico; ed ancora, si deve
trattare del fine pubblico che l’agente è legittimato a poter perseguire in quanto proprio a lui ne sia
affidata la cura, in modo tale che questi non abbia usurpato attribuzioni o compiti di altre pubbliche
entità; infine, è necessario che tra il pubblico ufficiale e il privato beneficiario non sussista un
rapporto personalistico tale da far divenire pretesto il raggiungimento del fine pubblico, altrimenti
preminente (onde circoscrivere, il più possibile, i casi in cui difetta l'elemento psicologico del reato,
per non legittimare comportamenti che altro non sono se non favoritismi occultati da "millantati"
interessi pubblici); in tema di abuso di ufficio - ha statuito Cassazione penale, sez. VI, 6 maggio 2003,
n. 33068 - l'uso dell'avverbio "intenzionalmente" per qualificare il dolo ha voluto limitare il sindacato del
giudice penale a quelle condotte del pubblico ufficiale dirette, come conseguenza immediatamente
perseguita, a procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale o ad arrecare, un ingiusto danno; appare
evidente che, qualora nello svolgimento della funzione amministrativa il pubblico ufficiale si prefigga di
realizzare un interesse pubblico legittimamente affidato all’agente dall’ordinamento (non un fine privato
per quanto lecito, non un fine collettivo, né un fine privato di un ente pubblico e nemmeno un fine
politico), pur giungendo alla violazione di legge e realizzando un vantaggio al privato, deve escludersi la
sussistenza del reato.
In tema di prova dell’elemento soggettivo, Cassazione penale, sez. VI, 4 dicembre 1997, n. 11204 ha
statuito che assume rilievo non solo l’atto o il comportamento del pubblico ufficiale singolarmente
valutato, ma altresì ogni altro elemento che, apparentemente estrinseco all’atto o al comportamento,
consenta comunque una verifica maggiormente significativa e, pertanto, anche gli atteggiamenti
antecedenti, contestuali e successivi all’attività che di per sé realizza l’abuso
In applicazione dei principi fin qui illustrati, Cassazione penale, sez. VI, 8 ottobre 2003, n. 708 ha
annullato senza rinvio (perché il fatto non costituisce reato) la sentenza di condanna del Sindaco di un
Comune, tratto a giudizio per aver illegittimamente rilasciato uno strumento concessorio per la
realizzazione di una balconata: rileva la Corte da un lato che è emersa la prova che si trattava di un
manufatto di minimale incidenza sull'assetto del territorio che si inseriva nel progetto, perseguito
dalla amministrazione comunale, di favorire l’approvazione di interventi volti alla riqualificazione
del borgo antico, attraverso un incremento delle capacità recettive degli esercizi pubblici che ivi
operavano; dall’altro che il dibattimento non aveva consentito di acquisire elementi sintomatici di
rapporti interpersonali sospetti tra il M. e il B., per ritenere che il comportamento del primo fu
orientato, in via immediata, a favorire il secondo. Anzi, il giudice di merito non ha mancato di
sottolineare, richiamando precise risultanze processuali .., la conflittualità caratterizzante i rapporti
tira i due predetti, militanti in contrapposti schieramenti politici. Dunque l'obiettivo primario e finale
perseguito non fu certo quello del favoritismo personale, effetto meramente accessorio dell'azione e,
quindi, estraneo all'intenzionalità dell'imputato .. l'evento dell'ingiusto vantaggio derivato al B.
dall'azione posta in essere dal prevenuto fu certamente presente nella volontà di quest'ultimo, ma non
fu sicuramente obiettivo perseguito dal medesimo e rimase, quindi, estraneo alla sfera
dell'intenzionalità. Ne consegue che deve ritenersi non integrata la contestata fattispecie criminosa,
per difetto dell'elemento psicologico.
Più di recente, Cassazione penale, sez. VI, 9 novembre 2006, n. 41365 ha elencato alcuni elementi
sintomatici da cui è desumibile il dolo intenzionale richiesto per il reato di cui all'art. 323 c.p.:
a) nell'evidenza della violazione di legge, come tale perciò immediatamente riconoscibile dall'agente;
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b) nella specifica competenza professionale dell'agente, tale da rendergli anch'essa senza possibile
equivoco riconoscibile la violazione;
c) nella motivazione del provvedimento, nel caso in cui essa sia qualificabile come meramente apparente
o come manifestamente pretestuosa;
d) nei rapporti personali eventualmente accertati tra l'autore del reato e il soggetto che dal
provvedimento illegittimo abbia tratto ingiusto vantaggio patrimoniale.
L'applicazione di tali principi consentirà dunque un approfondimento effettivo della volontà
dell'autore della condotta incriminata, ed il rifiuto di ogni presunzione ed affermazione apodittica
di responsabilità.
della remunerazione di una prestazione professionale resa possibile dalla condotta abusiva.
CASO PRATICO (sentenza n. 38259/2007 ed allegata nota, allegato n. 9)
Il Presidente del 10^ Municipio di Roma aveva emesso provvedimenti di natura contingibile e urgente per assegnare alcuni
alloggi privati a soggetti bisognosi raggiunti da un provvedimento di sfratto. Il giudice per l’udienza preliminare dichiarava
il non luogo a procedere in relazione all’accusa di abuso di ufficio, ritenendo che, a prescindere dalla effettiva sussistenza di
una violazione di legge, difettava comunque l'elemento soggettivo del reato, atteso che il presidente del municipio aveva
comunque inteso perseguire una finalità pubblica, quale, nella specie, quella di risolvere il problema contingente e urgente di
sovvenire alle immediate esigenze abitative di famiglie in condizioni economiche disagiate nei confronti delle quali era
imminente l'esecuzione dello sfratto.
La Corte rigetta il ricorso del Procuratore Generale, convenendo con il giudice di merito circa il fatto che “la intenzione del
M. non è stata quella di procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale ad altri; nonostante egli fosse certamente consapevole
che dai provvedimenti adottati sarebbe conseguito anche un effetto vantaggioso per le famiglie che correvano il rischio di
rimanere prive di alloggio. Al riguardo, va ribadito che ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo del delitto di abuso di
ufficio non è sufficiente la rappresentazione dell'evento (di vantaggio o di danno per altri) ma occorre che questo costituisca
l'obiettivo diretto e immediato della condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio. Sicchè se l'evento
tipico è una semplice conseguenza accessoria o indiretta dell'operato dell'agente, mosso dalla finalità di perseguire un
obiettivo di interesse pubblico di preminente rilievo, il dolo intenzionale non è configurabile”.
CASO PRATICO (sentenza n. 39371/2010 ed allegata nota, allegato n. 10)
Il direttore generale del Comune di Messina ed il presidente e il vicepresidente della società sportiva F.C. Messina Peloro
s.r.l., erano tratti a giudizio per il reato di abuso d’ufficio in relazione ad un accordo procedimentale tra il Comune e la
società sportiva per l’affidamento diretto a quest’ultima degli stadi comunali e delle aree pertinenziali, in violazione delle
procedure concorrenziali e di evidenza pubblica prescritte dal TUEL e dalla l. n. 109/1994, in tal modo procurando alla
società un ingiusto vantaggio patrimoniale con corrispondente danno per l’ente locale.
Il Gup dichiarava il non luogo a procedere, evidenziando che, pur essendo palese l'illegittimità della procedura adottata in
violazione delle regole sull'evidenza pubblica, ed evidente il corrispondente vantaggio dei privati, l'approdo all'accordo
procedimentale era da considerarsi legittimo, giacché dipeso da una precisa scelta politica dell'ente, maturata a seguito di una
vera e propria trattativa con la società sportiva, e che la conclusione in tempi ristretti di un accordo che assicurasse le risorse
finanziarie reclamate dalla squadra rispondeva ad una ferma intenzione del Consiglio Comunale di garantire la
sopravvivenza della squadra di calcio cittadina, impegnata nel torneo di massima divisione e di dare prestigio alla città di
Messina.
La Corte, accogliendo il ricorso del Procuratore Generale, annulla con rinvio la sentenza, censurando la confusione operata
dal giudice di merito tra l’interesse pubblico, il cui perseguimento sarebbe astrattamente idoneo ad escludere la configurabilità
del reato, con il fine politico, asseritamente seguito dai rappresentanti delle locali forze politiche.
La sentenza presta tuttavia il fianco ad una condivisibile critica: posto che l’elemento soggettivo
deve necessariamente assumere le forme del dolo intenzionale, posto che dunque l’obiettivo
primario della condotta del pubblico ufficiale deve essere stato l’evento di ingiusto danno o
vantaggio, è legittimo chiedersi se è solo il perseguimento di un interesse pubblico ad escludere
una tale forma di dolo, o se più correttamente deve ritenersi che il perseguimento in via primaria
di qualunque altro fine, diverso da quello di procurare un ingiusto danno o vantaggio (e dunque
anche un fine politico come quello perseguito dagli imputato della sentenza 39371/2010), escluda la
sussistenza del dolo intenzionale (interpretazione, questa, rafforzata dalla considerazione che la
norma incriminatrice non contiene alcun riferimento neppure indiretto ad una possibile rilevanza
esimente del perseguimento dell’interesse pubblico da parte del pubblico ufficiale).
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IL MOMENTO CONSUMATIVO DEL REATO
Il delitto si consuma nel luogo e nel momento in cui si realizza l’evento dell’ingiusto vantaggio o
danno; se il danno si approfondisce progressivamente, o se il vantaggio si accresce
progressivamente (ad es. si procura al soggetto avvantaggiato un’utilità economica da
corrispondersi in varie tranches) il momento consumativo si sposta in avanti, fino al massimo
approfondimento dell’offesa tipica.
Non hanno invece rilievo ai fini dell’individuazione del momento consumativo del reato gli effetti
eventualmente permanenti che questo abbia prodotto; si pensi, ad esempio, all’abuso di ufficio
consistito nel favorire l’illegittima assunzione di un soggetto: in questo caso il reato si consuma al
momento dell’assunzione, rimanendo del tutto irrilevante la circostanza che il soggetto continui in
seguito a svolgere l’attività ed a percepire gli emolumenti.
RAPPORTI CON ALTRI REATI
L’art. 323 c. p. è norma tipicamente residuale: la clausola di riserva “salvo che il fatto non costituisca
un più grave reato" comporta che il reato è configurabile solo quando non sussistano gli estremi di
altro e più grave reato, come ad esempio nel caso dell’appropriazione commessa dal pubblico
ufficiale di denaro o cose possedute per ragione del suo ufficio, che integra il reato di peculato.
Così come formulata, la disposizione finisce per sancire un concorso apparente di norme,
precludendo in radice il concorso formale di reati tra abuso d’ufficio e qualsiasi altro reato punito
più severamente.
In dottrina si sono sostenute due tesi:
-da un lato, quella di chi sottolinea il carattere di sussidiarietà, ancorché limitata, della clausola
(Romano), evidenziandone l’aspetto di “disponibilità in aiuto” (l’abuso opera se e quando nel fatto
non siano presenti anche gli estremi di un altro e più grave reato);
- dall’altro, quella di chi ha parlato di principio di consunzione assorbendo il reato più grave
l’intero disvalore soggettivo ed oggettivo dell’abuso (Pagliaro, Giordano, Leoni).
Affinché la clausola di riserva operi, il fatto deve integrare gli estremi (anche) del reato di cui
all’art. 323. Questo in realtà non avviene quando il comportamento dell’agente pubblico non violi
una norma propriamente attinente alla funzione o al servizio tendente a disciplinare le modalità di
svolgimento dell’azione amministrativa, bensì una norma penale generale, destinata a prevenire e
reprimere la condotta criminosa di chiunque, e detto comportamento l’agente abbia tenuto
sfruttando la posizione di potere che pure gli derivi dalla funzione o dal servizio esercitati (si ha in
tal caso reato comune aggravato a norma dell’art. 61 n. 9 c.p. ovvero da aggravanti previste da
specifiche norme incriminatici, senza che rilevi la maggiore o minore gravità rispetto al delitto di
abuso).
Parimenti, nessuna portata ha la clausola nei casi in cui il fatto che costituisce l’abuso d’ufficio
contenga anche gli estremi di altro reato punito con pena uguale o meno grave.
Fuori dall’indicazione espressa, dunque, riprendono a valere le regole ordinarie. Sarà quindi da
ammettere un concorso formale di reati tra l’abuso d’ufficio ed altro delitto (o contravvenzione),
ma solo sino a che non debbano trovare applicazione i criteri usuali in tema di concorso apparente
di norme.
Uno spazio particolare occuperà il principio di specialità che potrà condurre all’applicazione
dell’art. 323 oppure di altra norma incriminatrice quando la descrizione del diverso delitto consista
in uno specifico abuso di poteri propri della funzione o del servizio che cagioni un vantaggio o un
danno ingiusto: e così il pubblico ufficiale che compia una perquisizione personale arbitraria
risponderà di tale delitto e non anche di abuso d’ufficio (e neppure di solo abuso d’ufficio perché
reato più grave); ma lo stesso varrà anche per un arresto illegale, un’indebita limitazione di libertà
personale o per un abuso di autorità contro arrestati o detenuti.
Soluzione differente si avrà nelle ipotesi di rifiuto od omissione di atti d’ufficio che, già rilevanti
come tali, sono per così dire “sopravanzati” dall’abuso del pubblico ufficiale che, omettendo di
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adempiere un dovere imposto dalla legge, abbia intenzionalmente procurato un vantaggio o un
danno ingiusto: in tali casi si avrà pertanto applicazione del solo art. 323 in quanto disposizione
speciale, a prescindere dalla maggiore gravità dell’abuso
Il delitto di abuso d'atti d'ufficio può essere integrato anche attraverso una condotta meramente
omissiva, rimanendo in tal caso assorbito il concorrente reato di omissione d'atti d'ufficio in forza
della clausola di consunzione contenuta nell'art. 323, comma 1, c.p. - Fattispecie in cui è stata ritenuto
configurabile il reato di abuso d'atti d'ufficio in relazione alla condotta del sindaco e di alcuni
funzionari comunali che avevano deliberatamente omesso di dare esecuzione all'ordinanza di
demolizione di un immobile al fine di procurare un indebito vantaggio ai proprietari (Cassazione penale,
sez. VI, 22 gennaio 2010, n. 10009).
Diversi ancora sono i casi in cui la condotta che costituisce l’abuso d’ufficio si ricolleghi
“funzionalmente” ad altra distinta condotta, precedente o successiva che integri gli estremi di altro
e più grave reato: qui sussisterà di regola il concorso materiale di reati (con possibile vincolo della
continuazione) anche se non si può aprioristicamente escludere l’operatività del principio di
consunzione allorquando, secondo una pur implicita valutazione legislativa, il (diverso) reato più
grave possa dirsi assorbire l’intero disvalore soggettivo ed oggettivo dell’abuso. Questa
conclusione, ancorché non disciplinata espressamente dal testo della riserva, è suggerita dal suo
significato sostanziale in virtù di un’applicazione analogica che impone di non diversificare i
regimi alla luce della sola diversità cronologica dei due comportamenti.
Si avrà così assorbimento nell’abuso d’ufficio nel caso di corruzione propria, quando alla
stipulazione del patto tra il pubblico ufficiale e il privato abbia poi effettivamente fatto seguito
l’atto contrario ai doveri; e lo stesso si avrà quando l’abuso d’ufficio sia la diretta conseguenza di
una concussione a danno del privato ovvero quando il soggetto pubblico preposto ad una pubblica
gara “consolidi” la turbativa d’asta da lui compiuta con un ulteriore abuso d’ufficio.
Atteso il carattere sussidiario del reato di abuso di ufficio previsto dall'art. 323 c.p., deve escludersi il
concorso con il reato più grave di turbata libertà di incanti, soprattutto quando vi è assorbimento del
primo nel secondo a causa della coincidenza delle condotte (Cassazione penale, sez. VI, 11 dicembre
2002, n. 14380).
Quanto ai rapporti tra l’abuso di ufficio ed il falso ideologico, la clausola di consunzione impone di
escludere l'applicazione del precetto penale dell’art. 323 c. p. nel caso in cui il fatto materiale,
ovvero il "comportamento" abusivo, sia consistito in una falsa attestazione dell’agente pubblico (a
nulla rilevando, in senso contrario, la diversità dei beni giuridici eventualmente protetti dalle
diverse norme incriminatrici o la circostanza che mediante la condotta integrante il reato più grave
il soggetto abbia altresì realizzato un proprio o altrui vantaggio patrimoniale ovvero abbia
intenzionalmente arrecato ad altri un danno).
Alla regola della consunzione dell'abuso nel più grave reato si fa eccezione, ovviamente, solo se la
condotta abusiva sia stata realizzata mediante attività o comportamenti produttivi di effetti
giuridici "ulteriori" rispetto alla commissione della condotta integrante il reato più grave.
In applicazione di tale principio, Cassazione penale, sez. V, 10 novembre 2005, n. 11147 ha ritenuto
il reato di abuso d'ufficio assorbito in quello più grave di falso materiale in atto pubblico,
contestato in concorso, al Comandante della Polizia Municipale che aveva alterato l’importo di tre
verbali di infrazione, così contestualmente cagionando ai proprietari delle vetture un ingiusto
vantaggio patrimoniale: in presenza di contestazioni che concernono la medesima condotta, a nulla
rileva la diversità dei beni giuridici protetti dalle due norme incriminatrici o la circostanza che
mediante la falsificazione il pubblico ufficiale abbia altresì realizzato un proprio o altrui vantaggio
patrimoniale ovvero abbia intenzionalmente arrecato ad altri un danno … La clausola contenuta nell'art.
323 c.p. istituisce una regola espressa di "consunzione" … essa esplicitamente impone, in presenza di
un'unica sola azione abusiva, l'applicabilità della sola fattispecie più grave. Il "medesimo fatto" cui si
riferisce la clausola non può che essere inteso perciò che come medesimo fatto "storico", mentre il
bene giuridico oggetto di tutela, concernendo "la premessa maggiore o normativa", è estraneo
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all'ambito di operatività della riserva e "non rientra nella nozione di fatto costitutivo di reato, perché
non è un elemento della premessa minore o storica del sillogismo di condanna.
Cassazione penale, sez. V, 15 novembre 2005, n. 1491 ha ritenuto sussistere una ipotesi di concorso
materiale nel caso di false attestazioni in ordine alla regolarità di richieste di rimborso inoltrate da
cliniche convenzionate cui consegua l'erogazione di indebiti compensi, in quanto, in tal caso, il falso è
destinato ad occultare l'abuso, evidenziando che in questo caso la condotta del delitto di abuso
d'ufficio non si esaurisca in quella del delitto di cui all'art. 479 c.p. ma vi siano due distinte condotte
Cassazione penale, sez. VI, 22 settembre 2009, n. 42577 ha ritenuto assorbito nel deltito di falso in
certificazioni il reato di abuso di ufficio contestato ad un dirigente amministrativo di un istituto
scolastico che aveva comunicato ai competenti uffici finanziari di avere percepito compensi
accessori per somme inferiori rispetto a quelle effettivamente ritirate, così attestando circostanze
false in certificazioni amministrative: il reato di abuso d'ufficio non sussiste in quanto è assorbito in
quello di falso ideologico. Infatti, secondo una giurisprudenza assolutamente prevalente, atteso il
carattere sussidiario e residuale del reato di abuso d'ufficio deve ritenersi che qualora la condotta
addebitata si esaurisca nella commissione di una falsificazione - nel caso in esame, di un falso ideologico
in certificati - l'agente debba rispondere solo di tale reato e non anche dell'abuso d'ufficio, da
considerare assorbito nell'altro, nulla rilevando in contrario la diversità dei beni giuridici protetti dalle
due norme incriminatrici
CASO PRATICO (sentenza n. 31256/2009, allegato n. 11)
I componenti di una commissione edilizia erano stati tratti a giudizio in relazione:
1) ad un parere favorevole al rilascio di una concessione edilizia, rilasciato in violazione del regolamento edilizio comunale e
nonostante le indicazioni contrarie espresse dall'ufficio tecnico comunale
2) al parere emesso un anno dopo favorevole al rilascio di nuova concessione edilizia in variante della precedente concessione,
nonostante il motivato parere contrario dell'ufficio tecnico comunale
Oltre all’abuso di ufficio era stato loro contestato il delitto di falso ideologico in atto pubblico, in rapporto alla conclamata
falsità dei presupposti e dei contenuti descrittivi dello stato dei luoghi enunciati nei due atti collegiali.
La Suprema Corte conferma la sentenza di condanna dei giudici di merito, rilevando che “sussiste il concorso materiale, e non
l'assorbimento tra il reato di abuso di ufficio in quello, più grave, di falso ideologico in atto pubblico, nel caso in cui la
condotta dell'abuso di ufficio non si esaurisca in quella del reato di falso, ma vi siano due diverse condotte .. Non occorre
diffondersi troppo per dimostrare .. che l'atto collegiale costituito dal parere .. è scindibile in due ben separate e autonome, né
necessariamente interdipendenti, condotte criminose produttive di effetti giuridici diversi. Quella dichiarativa concernente la
mendace attestazione della esistenza di opere di urbanizzazione primaria nell'area oggetto delle richieste di concessione
edilizia prima e di concessione in variante poi, attinente ad uno degli eventuali presupposti legittimanti l'emissione degli
invocati atti di autorizzazione dell'ente pubblico. Quella, diversa, di esternazione di un parere favorevole privo di
fondamento perché in contrasto con il regolamento edilizio comunale e destinato ad assicurare un indebito vantaggio
patrimoniale ai richiedenti beneficiari, atto di manifestazione di un giudizio tecnico - valutativo discrezionale e, quindi,
motivabile anche in ragione di referenti diversi da quelli integranti l'attestazione dichiarativa (nella specie falsa) presente nel
preambolo del parere finale.
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L’ABUSO DI UFFICIO / RASSEGNA DI GIURISPRUDENZA
E DI DOTTRINA
1
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE - SEZIONE SESTA PENALE – 16 dicembre 2010, n. 1231
FATTO E DIRITTO
Con decreto del 25 novembre 2009, il Gip del Tribunale di Campobasso ha disposto de plano l’archiviazione
del procedimento promosso a carico di M.G. e R.D., indagati per il delitto di cui all’art. 323 c.p. su denuncia
di B.L., facendo proprie le ragioni enunciate dal PM presso quel tribunale nella richiesta. Ricorre per
cassazione il B. e denuncia, con un unico ed articolato motivo inosservanza dell’art. 408 c.p.p., comma 2 in
relazione a quanto previsto dall’art. 409 c.p.p., comma 6 e art. 127 c.p.p., commi 1 e 5 con conseguente nullità
del provvedimento adottato de plano.
Il Procuratore Generale presso questa Corte ha depositato requisitoria scritta chiedendo l’annullamento
senza rinvio del provvedimento.
Il ricorrente, con la denuncia presentata innanzi al PM, ha esplicitamente chiesto di essere avvisato in caso di
richiesta di archiviazione.
E’ certo che il PM procedente ha, del tutto, omesso l’avviso di cui al secondo comma dell’art. 408 c.p.p.,
nonostante che al B. dovesse riconoscersi la qualitaa di parte offesa. Infatti, il reato di cui all’art. 323 cod.
pen., è un reato di evento, che consiste nel vantaggio del pubblico ufficiale o di altri oppure nel danno
ingiusto arrecato ad altri. Ciò significa che l’abuso è idoneo a ledere oltre all’interesse pubblico al buon
andamento ed alla trasparenza della P.A. ed alla imparzialità dei pubblici funzionari, anche l’interesse del
privato a non essere "turbato nei suoi diritti costituzionalmente garantiti" e a non essere danneggiato dal
comportamento illegittimo ed ingiusto del pubblico ufficiale.
Ne consegue che il soggetto al quale tale condotta abbia arrecato un danno riveste la qualità di persona
offesa dal reato, legittimato non solo a costituirsi parte civile quanto il processo abbia inizio (diritto spettante
anche al solo danneggiato), ma anche a proporre opposizione avverso la richiesta di archiviazione del P.M.
in applicazione degli artt. 409 e 410 cod. proc. pen... Secondo il consolidato orientamento della
giurisprudenza di legittimità, tale omissione configura una nullità deducibile con ricorso per cassazione. Si
tratta, invero, della violazione del disposto dell’art. 127 c.p.p., comma 5, ovvero della violazione del
principio del contraddittorio e del diritto della parte offesa ad avere accesso al procedimento di
archiviazione (tra le tante tutte conformi da ultimo Sez. 1^ sent. n. 18666 del 2008): Il provvedimento
impugnato deve essere, pertanto, annullato senza rinvio e gli atti debbono essere trasmessi al Procuratore
della Repubblica presso il Tribunale di Campobasso per il corso ulteriore.
P.Q.M.
LA CORTE annulla senza rinvio il provvedimento impugnato e dispone trasmettersi gli atti al Procuratore
della Repubblica presso il Tribunale di Campobasso per l’ulteriore corso.
Cosii deciso in Roma, il 16 dicembre 2010. Depositato in Cancelleria il 18 gennaio 2011
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2
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE - SEZIONE SESTA PENALE – 14 OTTOBRE 2003, n. 43020
FATTO E DIRITTO
I difensori di P. A., D. P. N., e R. C. propongono ricorso contro la sentenza 8 novembre 2002, con la quale la
Corte d'appello Napoli, in riforma della decisione 5 febbraio 2001 del Tribunale di Avellino, ha dichiarato i
predetti P. A., D. P. N., e R. C. colpevoli del delitto di abuso di ufficio previsto dall'art. 323 c.p. e di non
doversi procedere nei loro confronti per la contravvenzione di cui all'art. 20 lett. b) legge n. 47 del 1985,
perché estinto per intervenuta amnistia.
La Corte territoriale, non condivisa la pronuncia del Tribunale di assoluzione degli imputati dal delitto di
abuso perché il fatto non costituisce reato e dalla contravvenzione edilizia per insussistenza del fatto, ha
ritenuto che le risultanze processuali offrissero la prova di colpevolezza di P. A. per avere rilasciato, in
violazione di leggi e regolamenti urbanistici, una prima concessione e, poi, altro atto in sostituzione e
modifica della prima, in tal modo intenzionalmente favorendo i beneficiari degli atti de quo, N. D. P.,
proprietario dell'erigendo fabbricato, e C. R., legale rappresentante della Meridionale fabbricati, entrambi
dichiarati responsabili ex art. 110 c.p. del reato di abuso per avere sollecitato il rilascio della originaria
concessione e di quella successiva e modificativa della prima mediante la produzione di documentazione
giustificativa della propria richiesta.
….
Propone ricorso la difesa di C. R. e di N. D. P. e deduce …. che il giudice d'appello avrebbe dichiarato
colpevoli N. D. P. e C. R., a titolo di concorso con il vice sindaco P., soltanto sulla circostanza che l'uno
avrebbe richiesto ab origine la concessione e l'altro avrebbe presentato istanza di modifica della stessa con la
quale era richiesta l'abolizione la prescrizione apposta all'originaria concessione, nonostante avesse dato atto
dell'inesistenza di collusione tra i beneficiari della concessione ed il pubblico ufficiale e non avesse contestato
gli argomenti posti in risalto dal giudici di primo grado circa l'assenza di rapporti che avrebbero potuto
giustificare favoritismi; che il concorso degli estranei nel delitto proprio del pubblico ufficiale non potrebbe
essere dimostrato unicamente sulla coincidenza tra la richiesta dell'atto ed il provvedimento adottato dal
pubblico ufficiale, alla stregua dell'indirizzo della stessa giurisprudenza di legittimità…..
Il ricorso di C. R. è inammissibile, oltre che per essere volto a censurare le scelte del giudice di merito circa la
ricostruzione dei fatti oggetto dell'imputazione, anche per manifesta infondatezza.
Alla logica ricostruzione dell'intera vicenda effettuata dalla Corte di appello di Napoli, che non si è limitato a
fare riferimento alla presentazione dell'istanza da parete di R., il ricorrente oppone una diversa versione dei
fatti evocando a sostegno della stessa un precedente principio di diritto enunciato da questa Corte con
specifico riferimento a tutt'altra fattispecie concreta.
Nella fattispecie in esame, la condotta della persona favorita dall'abuso non si è concretizzata nella sola
presentazione di un'istanza alla quale abbia fatto seguito un provvedimento del pubblico ufficiale
corrispondente al contenuto della richiesta formulata, bensì R. - afferma la Corte di merito - «... ribadendo
quanto già esposto nella lettera con la quale era stata presentata la domanda di rilascio della concessione,
chiedeva l'emissione di un provvedimento che eliminasse le prescrizioni imposte, adducendo che attraverso
l'atto di cessione bonaria del 5 aprile 1996 da lui esibito la società aveva sostanzialmente adempiuto a quelle
prescrizioni e che appariva eccessivamente penalizzante per la società da lui rappresentata il mantenimento
di quelle prescrizioni che dovevano essere rispettate pena la nullità della concessione ...». Il provvedimento
richiesto fu predisposto dagli uffici amministrativi «... sulla base di un'annotazione a penna a firma del P. ...»
e sottoscritto dal predetto P., nonostante lo specifico parere del capo dell'ufficio tecnico e della seconda
Commissione del Comune adottati entrambi prima del rilascio della prima concessione in favore della
società M. f. che - come accertato dal consulente tecnico del pubblico ministero e «.. riconosciuto dallo stesso
giudice di primo grado ..» - era da ritenere illegittima per essere stata adottata in base ad un progetto «... non
solo carente del calcolo planivolumetrico, ma soprattutto implicante in concreto un aumento di volumetria
superiore a quello preesistente e comunque non consentito dalla normativa vigente in materia ...».
Non solo, dunque, mera presentazione di un istanza da parte di C. R., bensì consapevole richiesta di
adozione di un atto palesemente contrastante con un precedente parere degli uffici tecnici e che, oltre ad
inserirsi in una procedura amministrativa illegittima riconducibile al rilascio della originaria concessione, si
era esteriorizzata con una sollecitazione «... attraverso la produzione di documentazione giustificativa della
legittimità della ... richiesta assolutamente non idonea (e cioè un atto di cessione bonaria al Comune di arre
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appartenenti al proprietario dell'erigendo fabbricato anziché permuta delle arre effettuata attraverso la
stipulazione di un atto pubblico come imposto dalle prescrizioni) agendo in perfetta mala fede e nella
consapevolezza di non avere maturato alcun diritto ...».
Il quid pluris posto in risalto dalla Corte di merito è elemento che non contraddice la giurisprudenza evocata
dal ricorrente circa la insufficienza di una mera richiesta, bensì ne fa corretta applicazione. Il concorso di C.
R. nel reato proprio commesso dal pubblico ufficiale ha fondamento su una concreta, positiva condotta di
determinazione e istigazione che risponde ad una ragionevole e completa ricostruzione dei fatti da parte del
giudice d'appello.
La prova che un atto amministrativo sia il risultato di collusione tra privato e pubblico funzionario non può
essere dedotta di per sé sola dalla mera coincidenza tra la richiesta del primo e il provvedimento posto in
essere dal secondo, essendo, invece, necessario che - secondo il principio di diritto enunciato dà questa Corte
(Sez. VI, 29 maggio 2000, Margini rv. 216719) - il contesto fattuale desunto, al di là dei rapporti personali tra
le parti, da un quid pluris il quale dimostri che la presentazione della domanda è stata preceduta,
accompagnata o seguita da un'intesa col pubblico funzionario o, comunque, da sollecitazioni che possono
essersi concretizzate, come è accaduto nel caso in esame attraverso la produzione di documentazione
giustificativa della legittimità della richiesta assolutamente non idonea e tale da dimostrare la
consapevolezza di non avere maturato diritto alcuno al rilascio dell'atto richiesto.
Non sussiste, dunque, la mancanza e il vizio logico della motivazione denunciati dal ricorrente e
manifestamente infondato è il vizio di violazione di legge.
3. - I ricorsi di A. P. e C. R., dunque, sono inammissibili ….
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi di P. A. e R. C. che condanna al pagamento in solido delle spese processuali e
ciascuno della somma di euro 1000, 00 alla cassa delle ammende. Condanna altresì i predetti in solido alla
rifusione delle spese in favore della parte civile che liquida in complessivi euro 1.650,00, di cui euro 1.500 per
onorario….
Così deciso in Roma, 14 ottobre 2003. depositata in cancelleria il 11 novembre 2003.
ABUSO D'UFFICIO E CONCORSO DI PERSONE
(IN TEMA DI CONCORSO DELL'EXTRANEUS NEL REATO PROPRIO).
Gigliola Bridda - Dottoranda di ricerca in Scienze penalistiche, Università di Trieste – in Cassazione penale,
2004, 10, 398.
1. La sentenza che si annota affronta la disciplina del concorso di persone nel reato proprio d'abuso d'ufficio
ed offre lo spunto alla Cassazione per sottolineare gli elementi legittimanti la configurabilità del concorso
dell'extraneus nel reato proprio.
Certo il tema non è nuovo, anche se la Corte giunge a porre l'attenzione non solo sulla condotta materiale
assunta dall'extraneus, ma altresì sull'atteggiamento psicologico da questi mantenuto nella vicenda,
applicando i principi generali che la dottrina ha elaborato in merito.
La vicenda processuale trae lo spunto da una costruzione realizzata in violazione di norme edilizie (art. 20
della legge n. 47 del 1985), per la quale il proprietario di un terreno, in concorso con il legale rappresentante
di un'agenzia immobiliare, aveva chiesto e ottenuto dal vice sindaco una concessione edilizia,
successivamente modificata, presentando una documentazione giustificativa non idonea e contraria alla
normativa vigente.
Mentre il tribunale in primo grado assolveva gli imputati dal concorso nel reato proprio con il p.u. ex artt.
110 e 323 c.p., perché il fatto non costituiva reato, e dalla contravvenzione edilizia di cui all'art. 20 lett. b)
della l. n. 47 del 1985 per insussistenza del fatto, la corte d'appello riconosceva l'esistenza del concorso con il
p.u. e dichiarava la prescrizione dell'illecito contravvenzionale. Non riusciva però a dimostrare la collusione
tra i beneficiari della concessione e il p.u., argomento su cui si fonderà il ricorso per Cassazione stante la
mancata dimostrazione dell'elemento soggettivo.
Appare opportuno in via preliminare soffermarci sul complesso tema del concorso dell'estraneo nel reato
proprio, così come delineato dagli artt. 110 e, soprattutto, 117 c.p..
2. Requisiti oggettivi perché si possa realizzare il concorso in un reato proprio sono, da un canto, che almeno
uno dei concorrenti rivesta la qualità richiesta dalla norma e, dall'altro, che si verifichi la fattispecie di parte
speciale del reato proprio, ossia quel fatto di reato che può essere commesso solo da chi rivesta una
particolare qualifica richiesta dalla legge (c.d. intraneus): e quest'ultima esprimerebbe la posizione del
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soggetto attivo nei confronti del bene o dell'interesse tutelato (1), fondando una sorta di legittimazione ad
agire del soggetto qualificato (2).
Infatti, sulla scorta della teoria della fattispecie plurisoggettiva eventuale , anche gli estranei possono
determinare, agevolare - materialmente o moralmente - l'intraneo ad offendere il bene, rendendosi
altrettanto meritevoli di pena : se infatti si volesse escludere la possibilità del concorso del soggetto privo di
qualifica, si limiterebbe la responsabilità penale al solo soggetto qualificato, rischiando di lasciar andare
impunito l'estraneo, o di incriminarlo, qualora sia possibile, per una fattispecie diversa che presenti il
medesimo nucleo di condotta mantenibile da «chiunque», creando una evidente disparità di trattamento con
il compartecipe qualificato.
L'art. 117 c.p., a sua volta, non specifica se il reato debba essere commesso materialmente dall'intraneus o
dall'extraneus e quali siano le circostanze in cui avviene il mutamento del titolo di reato: bisogna allora
preliminarmente capire se la posizione rivestita dal concorrente esterno nella commissione della fattispecie
di reato sia determinante in tal senso.
Parte della dottrina tende a fare delle distinzioni a seconda delle singole fattispecie di parte speciale,
ritenendo in via generale che l'intraneo debba avere nella fattispecie di concorso lo stesso ruolo che nella
corrispondente fattispecie individuale era necessaria per la sussistenza del reato proprio.
Richiamandosi sempre alla teoria già accennata (6), la medesima dottrina ritiene che la condotta principale
connotante il reato debba essere tenuta dall'intraneo solo in presenza di reati propri esclusivi o c.d. di mano
propria, quali l'abuso d'ufficio e il peculato, per i quali dalla descrizione letterale della condotta materiale o
da altri elementi significativi, si ricaverebbe che non possono essere realizzati da una terza persona: autore è
necessariamente l'intraneus.
Nei reati propri non esclusivi, come evidenziato anche dalla giurisprudenza di legittimità (7), non è
indispensabile che proprio l'intraneo sia l'esecutore dell'azione tipica, che può quindi materialmente essere
realizzata da un altro concorrente, purché quello qualificato dia, secondo le regole generali, il suo contributo
efficiente in qualsiasi forma, compresa quindi quella omissiva della volontaria e concreta astensione
dall'impedire l'evento (8).
Conformemente all'insegnamento della giurisprudenza (9), l'apporto dato dall'estraneo andrà valutato allora
nei termini di una partecipazione morale di istigazione al reato o di una partecipazione materiale di
agevolazione al reato, che abbia offerto un'effettiva incidenza causale nell'ambito della condotta principale
tipica riservata all'intraneo (10).
Dal punto di vista della normativa applicabile, qualora vi sia una situazione di compartecipazione in cui
l'estraneo è consapevole di concorrere con altri in un reato proprio, egli risponderà del concorso nel reato in
modo pieno ex art. 110 c.p., tanto quanto il p.u.: qui non c'è mutamento del titolo di reato previsto invece
dall'art. 117 c.p., perché l'estraneo conosce la qualifica dell'intraneo ed è consapevole dell'apporto materiale o
psicologico che la sua condotta offrirà alla realizzazione del reato proprio (11). Infatti il concorso «pieno» nel
reato ex art. 110 c.p. postula la semplice rappresentazione e volizione di cooperare con altri nella
realizzazione di un fatto tipico: l'extraneus deve conoscere qualifica soggettiva dell'intraneus, poiché questa
rientra nell'oggetto del dolo nei limiti in cui si ripercuote sul fatto di reato di cui contribuisce a realizzare lo
specifico disvalore penale (12).
L'ipotesi dell'art. 117 c.p. opera invece quando l'estraneo ignori la qualifica posseduta dall'intraneo e abbia
tenuto una condotta che costituisca comunque un illecito penale: in tale situazione non c'è quindi
un'incriminazione ex novo di un fatto altrimenti lecito, ma il cambiamento della qualificazione giuridica del
fatto costituente comunque un illecito penale (13).
Dall'analisi dell'elemento soggettivo del reato risulta evidente la struttura di responsabilità oggettiva
presente nell'art. 117 c.p. L'art. 1081, comma 1, c. nav., rubricato Concorso di estranei in un reato previsto dal
presente codice (14), viene proprio utilizzato da autorevole dottrina a conferma di quanto evidenziato: dalla
disposizione si ricaverebbe infatti il principio secondo cui la conoscenza della qualifica soggettiva è
imprescindibile per la punibilità a titolo di dolo, tenuto conto del fatto che la conoscenza richiesta comunque
in capo all'intraneo per l'esistenza del dolo e quindi la configurabilità della fattispecie propria, non deve
avere ad oggetto l'astratta qualificazione giuridico-penale di cui egli è portatore, in quanto a questa
conclusione osterebbe l'art. 5 c.p., ma esclusivamente i substrati di fatto della qualifica soggettiva (15).
Nel caso dell'art. 117 c.p. invece la responsabilità del concorrente è di natura oggettiva e ciò risulta evidente
dal fatto che, se è vero che un reato è comunque voluto da tutti i compartecipi, anche la qualità personale
rivestita dall'intraneo non è limitata strettamente alla sua persona, ma si riverbera sul fatto di reato, dovendo
diventare così oggetto del dolo dell'estraneo: il che non è richiesto se la sua condotta costituisce comunque
un illecito (16).
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Diversa è la situazione qualora la qualità costitutiva dell'intraneo determini nel fatto il carattere di illecito
penale: la sua mancata conoscenza manderà l'estraneo esente da pena, non sussistendo un reato comune sul
quale poter far operare il mutamento del titolo di reato (17).
Parte della dottrina cerca di riportare la norma entro i parametri del principio di soggettività della
responsabilità penale, sostenendo che il concorso nel reato proprio verrebbe disciplinato in via esclusiva
dall'art. 117 c.p., qualora vi sia la conoscenza da parte dell'estraneo della qualifica dell'intraneo, e il suo
comportamento costituisca comunque un illecito penale, al di là del mutamento del titolo. L'impostazione in
esame trae il proprio spunto da un'elaborazione sistematica degli artt. 65 e 66 del Codice Zanardelli (18), in
cui l'inasprimento di pena seguiva alla conoscenza dell'elemento aggravante la situazione; lo stesso principio
si ritroverebbe nell'attuale art. 117 c.p. in cui la mancanza di ogni indicazione in merito all'elemento
psicologico vorrebbe significare l'implicita assunzione dei normali principi in tema di elemento psicologico.
Risponderebbe pertanto del reato proprio solo l'estraneo consapevole della qualifica: altrimenti ai sensi
dell'art. 47 comma 2 tornerebbe ad applicarsi la norma per il reato comune (19), evitando così una grave
disparità di trattamento tra l'intraneo, il quale risponde secondo i principi per dolo e colpa, e l'estraneo, che
risponde in modo obiettivo.
Di fatto avremmo due norme l'una analoga all'altra, con la possibilità per l'estraneo di andare impunito
qualora, in assenza di conoscenza della qualifica del soggetto qualificato, abbia tenuto una condotta atipica
che non costituisca illecito (20): e sarebbe l'elemento soggettivo a tenere unite tra di loro le varie condotte ed
a porsi come essenziale nel determinare la rilevanza penale di condotte di partecipazione atipica (21).
In realtà tale impostazione forza il dato normativo del Codice Rocco: l'art. 117 c.p., infatti, si differenzia
dall'art. 110 c.p. in quanto, mentre quest'ultimo presuppone il dolo dell'estraneo anche rispetto le condizioni
e le qualità personali volute dalla legge per aversi il reato proprio, la prima disposizione limita la
responsabilità dell'estraneo, in assenza della conoscenza di tali elementi, ai soli casi di mutamento del titolo
(22).
Un'impostazione sui generis, più attinente alla struttura voluta dal codice Rocco, è quella sostenuta da
ulteriore dottrina, che ritiene operare comunque la fattispecie dell'art. 117, al di là del fatto che il soggetto
estraneo conosca la qualifica dell'intraneo (23): infatti, la clausola di riserva posta a favore dell'art. 117 c.p.
dall'art. 1081 c. nav. andrebbe letta nel senso che il 117 c.p. abbraccia sia l'ipotesi di conoscenza e di non
conoscenza della qualifica.
Entrambe le impostazioni non sono accettabili: da un lato, l'argomento tratto dal Codice Rocco della
derivazione dell'art. 117 non è probante in quanto gli stessi lavori preparatori non offrono alcun spunto in tal
senso (24); dall'altro lato, occorre pur sempre rilevare come l'articolo in questione si rivelerebbe un semplice
doppione dell'art. 110 c.p. (25).
Anche il dato letterale della norma offre spunti nel senso della sua peculiarità rispetto l'art. 110 c.p. L'art. 117
infatti delinea tre tipologie di concorrenti ben caratterizzate: da un lato si parla di colpevole (l'intraneo) il
quale possiede determinate caratteristiche in relazione al bene protetto, dall'altro di «taluno di coloro che vi
sono concorsi», che sono gli estranei privi delle condizioni e delle qualità personali sussistenti in capo
all'intraneo, ma che ne hanno comunque conoscenza, e di «altri», ossia coloro che non conoscono la qualifica
richiesta dalla legge e sussistente di fatto in capo all'intraneo e per i quali muterebbe il titolo di reato (26). È
proprio questa la peculiarità della norma rispetto l'art. 110 c.p.: solo pensando che gli altri si differenzino da
coloro che hanno subito il mutamento del titolo del reato in senso pieno per la mancanza della conoscenza
della qualifica dell'intraneo, si comprende l'estensione dell'imputazione, con ciò facendo salvo il principio
dell'unitarietà del titolo del reato (27).
3. La sentenza in commento ha avuto modo di occuparsi del concorso nel reato proprio dell'abuso d'ufficio:
fattispecie che sicuramente ha vissuto delle vicende normative importanti, passando tra le forche caudine di
due riforme (28). Da un lato la legge 86 del 1990 che, operando in seno ad un più ampio progetto di riforma
dei reati contro la p.a., ha provveduto ad una riformulazione dell'art. 323 c.p. con l'intento di garantire una
maggiore tassatività della fattispecie e di evitare una eccessiva ingerenza del giudice penale in aree riservate
alla esclusiva competenza delle autorità amministrative; dall'altro la legge 234 del 1997 che ha operato sul
profilo strutturale della fattispecie oltre che a quello sistematico-funzionale.
Sul versante strutturale, attraverso un'incisiva rivisitazione degli elementi costitutivi del reato, abbiamo una
maggiore determinazione dell'incriminazione: l'intervento legislativo infatti ha trasposto sul piano oggettivo
il contenuto del dolo specifico, previsto nella legge del '90, trasformando l'abuso da reato di condotta a reato
d'evento, per il perfezionamento del quale viene richiesta la realizzazione dell'ingiusto danno o il
conseguimento dell'ingiusto vantaggio. Di conseguenza il reato è diventato di danno, anziché delitto a
consumazione anticipata incentrato sul dolo specifico, con l'ulteriore conseguenza che il reato è ipotizzabile
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anche nelle forme del tentativo: il conseguimento del vantaggio patrimoniale o il prodursi del danno
ingiusto segnano il momento consumativo della fattispecie, e non sono più una componente dell'elemento
psicologico. Infatti la fattispecie è ora prevista a dolo intenzionale, il che comporta la non punibilità
dell'agente qualora difetti la prova che l'evento realizzato non costituiva l'oggetto precipuo della sua
condotta.
Sotto il profilo sistematico-funzionale il legislatore ha ritenuto di dover ascrivere rilievo alle sole condotte di
abuso dalle quali possa derivare un vantaggio patrimoniale o un danno ingiusto, risultando di fatto abrogata
la condotta che comporti un vantaggio non patrimoniale (c.d. condotta favoreggiatrice).
Sul versante processuale il ridimensionamento del trattamento sanzionatorio è stato tale da escludere
l'applicabilità di misure custodiali coercitive, in particolare alla misura della custodia cautelare se pur in
presenza dei presupposti di cui all'art. 273 c.p.p. Risulta poi preclusa la possibilità di utilizzare un rilevante
strumento di ricerca della prova costituito dalle intercettazioni telefoniche, attesi i limiti di pena costituiti
dall'art. 266 c.p.p.
Infine il nuovo limite edittale massimo della pena comporta una minore prescrizione del reato (sette anni e
mezzo, anziché quindici, nell'ipotesi di cui all'art. 160 comma 2 c.p.).
4. La Cassazione, in linea con quanto finora esposto, con riferimento alla posizione del legale rappresentante
dell'agenzia immobiliare, statuisce esserci un concorso nel reato proprio, in quanto egli avrebbe
positivamente stimolato la condotta del vice sindaco, presentando un'istanza palesemente in contrasto con i
vincoli urbanistici e corredata da una documentazione non idonea, volta ad ottenere una prestazione dal
Comune non dovuta perché mancante la situazione giuridica di fatto.
La suprema Corte analizza la condotta del privato dapprima sotto il punto di vista dell'elemento oggettivo:
ci troviamo di fronte ad una condotta di istigazione-determinazione, ossia una partecipazione morale al
reato proprio. Perché ci sia concorso occorre però che ci sia un'influenza causale dell'istigazione
nell'indirizzare la volontà del vice sindaco, unico soggetto che poteva tenere la condotta descritta nella
fattispecie di cui all'art. 323 c.p., data la formulazione stessa della norma.
La Corte, in conformità con i precedenti giurisprudenziali (29) e la dottrina suesposta, al proposito esclude
che la mera accettazione dell'atto abusivo, che si riveli vantaggioso per il privato, sia indice di una
corresponsabilità. Questa non è nemmeno ravvisabile qualora questi si sia semplicemente limitato a chiedere
un provvedimento che nel concreto si riveli illegittimo (30): difatti al privato, contrariamente al pubblico
ufficiale, non è richiesta la conoscenza delle norme che regolano l'attività amministrativa, né tanto meno egli
è in grado di rappresentarsi quelle situazioni inerenti al pubblico ufficio che possano condizionarne la
legittimità (31).
Occorre infatti un quid pluris, ravvisabile nell'elemento soggettivo, dato dal fatto che «il contesto fattuale, i
rapporti personali tra le parti o altri dati di contorno dimostrino che la presentazione della domanda da
parte del privato è stata preceduta, accompagnata o seguita dalla collusione di un'intesa con il pubblico
funzionario o, comunque da pressioni dirette a sollecitarlo o a persuaderlo al compimento dell'atto
illegittimo» (32).
Non essendoci a monte un accordo tra i privati e il vice sindaco, è importante stabilire l'effettiva incidenza
causale della sollecitazione posta in essere dai privati nel processo formativo dell'atto illegittimo da parte del
p.u., in linea con la dottrina che evidenzia, secondo la teoria della causalità agevolatrice o di rinforzo, come
non possa esserci partecipazione penalmente rilevante a prescindere da un influsso effettivo sull'azione
tipica o sull'evento costitutivo del reato, accertabile ex post.
Infatti, secondo i criteri generali dell'imputazione dolosa, la responsabilità del partecipe estraneo
presuppone, accanto alla rappresentazione e volizione di concorrere con altri alla realizzazione del fatto
tipico, anche la consapevolezza di concorrere con altri nel reato proprio, e quindi la conoscenza della
qualifica posseduta dal soggetto rispetto la quale muta il titolo del reato. In tal caso la sua partecipazione è
piena e perfetta e risponderà ai sensi dell'art. 110 c.p. di concorso doloso nel reato proprio: quanto quivi
accaduto.
E lo sforzo della Corte è tanto di più apprezzabile in quanto, se il privato si fosse limitato ad accettare un atto
illegittimo, pur nella consapevolezza di trarne un vantaggio non dovuto, non si sarebbe potuto dire fondato
il concorso per mancanza dell'elemento oggettivo della condotta.
Gli stessi principi suesposti ci hanno dimostrato come al di là di una condotta che possa essere valutata come
tipica o principale, quella cioè di chi possa definirsi autore del reato, occorre che il partecipe dia un
contributo positivamente riscontrabile tramite un nesso di causalità tra tale condotta atipica e l'evento del
vantaggio patrimoniale non dovuto.
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Ed è proprio in relazione a tale aspetto che la Corte stavolta fa un lieve passo in avanti: dagli elementi
probatori, attestanti la presenza di un concorso materiale, passa ad analizzare l'elemento soggettivo del
reato, richiedendo espressamente, a differenza delle precedenti pronunce in tema di concorso dell'estraneo
nel reato proprio, che il soggetto sia consapevole dell'illiceità della pretesa avanzata. Questa consapevolezza
deve necessariamente accompagnare la condotta istigatrice di cui si è detto, altrimenti, in mancanza
dell'elemento soggettivo doloso, non avremo una condotta tipica, in quanto il contributo morale da solo non
sarebbe sufficiente a fondare alcuna ipotesi di concorso.
È difficile scindere i due piani: da un lato l'elemento soggettivo della consapevolezza della condotta abusiva
del privato e dall'altro dell'elemento oggettivo di istigazione della condotta del pubblico ufficiale. La stessa
Corte ricava quest'ultimo elemento da alcuni dati di contorno che dimostrano la pressione psicologica
esercitata sul p.u., non essendo provata una precedente intesa: il privato infatti aveva inviato delle istanze
scritte a sostegno della propria pretesa assolutamente inveritiera rispetto al diritto che egli pretendeva di
aver maturato nei confronti dell'amministrazione comunale, documentazione in contrasto con un precedente
parere dei competenti uffici tecnici di cui egli era a conoscenza. Dallo stesso contesto indiziario si ricava poi
anche la presenza dell'elemento soggettivo ovviamente doloso e tale da far scaturire una condanna piena nel
reato dell'intraneo ex art. 110 c.p.: la condotta positiva tenuta dal privato infatti ha costituito una vera e
propria sollecitazione sul pubblico ufficiale, il quale ha agito intenzionalmente per procurare un vantaggio
patrimoniale ai privati coinvolti.
Nel suo complesso la pronuncia, per quanto non innovativa rispetto al passato, si inserisce in quel filone
ristretto che dal 1995 si preoccupa di analizzare il concorso dell'estraneo nel reato proprio d'abuso d'ufficio.
La presa di posizione in merito alla presenza dell'elemento soggettivo, se da un lato vale a dimostrare la
piena coincidenza delle condotte in concorso tra di loro ex art. 110 c.p., dall'altro è pur sempre significativa,
in quanto, per sostenere l'esistenza del dolo non va ad indagare minuziosamente la volontà del colpevole,
sottolineando come l'organo giudicante debba piuttosto guardare a tutte quelle circostanze che possono
assumere un valore sintomatico rispetto l'esistenza della volontà stessa, essendo oggetto del dolo il fatto di
reato in sè, come preveduto e voluto nel suo insieme dall'agente.
La coincidenza indiziaria da cui si ricava l'esistenza dell'elemento oggettivo e dell'elemento soggettivo allora
non è semplicemente causale: essa si palesa quale esplicazione dei principi in materia, che all'interno della
logica processuale valgono a dimostrare la collusione tra i beneficiari della concessione e il p.u.
(1) Pedrazzi, Il concorso di persone nel reato, Priulla, 1952, p. 15.
(2) Pagliaro, Concorso dell'estraneo nei delitti contro le pubblica amministrazione, in Dir. pen. proc., 1995, p. 975.
L'Autore propone poi una distinzione particolare parlando di una legittimazione ad agire che può essere legata o
direttamente al tipo di qualifica posseduta o alla presenza di una particolare situazione di fatto, la presenza della quale
fa scaturire un obbligo particolare (come avviene ad esempio nell'omissione di soccorso): nel primo caso egli parla di
reati propri a struttura diretta, nel secondo caso a struttura inversa.
(6) La teoria della fattispecie plurisoggettiva eventuale è una teoria sicuramente importante che, tuttavia, secondo
l'Antolisei violerebbe vistosamente il principio di tassatività della fattispecie penale, frazionandola in condotte che di per
se potrebbero essere irrilevanti dal punto di vista di una sanzione penale: cfr. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte
generale, 15ª ed., Giuffrè, 2000, p. 551.
(7) V. Sez. I, 30 aprile 1991, Aceto e altro, in Giust. pen., 1992, II, c. 49: «Nel caso di concorso i soggetti non qualificati
nella commissione di un reato proprio non è indispensabile che proprio l'intraneo sia l'esecutore dell'azione tipica [...].
Nei reati propri cosiddetti esclusivi (o di propria mano) occorre invece che il soggetto qualificato (o intraneo),
concorrente con altri, sia il personale esecutore del fatto tipico (ad esempio, nel reato di incesto), essendo questa
l'indispensabile condizione per la sussistenza del reato proprio, prospettandosi, in difetto, reato comune ovvero nessun
reato».
(8) In dottrina, v. Fiore, Diritto penale. Parte generale, vol. II, Utet, 1995, p. 122; Mantovani, op. cit., p. 480.
(9) Cfr. ex pluribus, Sez. VI , 17 giugno 1982, Favilla e altro, in Giust. pen., 1982, II, c. 677 ss.; Sez. I, 5 maggio 1986,
Borelli, in questa rivista, 1987, p. 1722, n. 1418; Sez. V, 15 novembre 1983, Santambrogio, ivi, 1985, p. 347, n. 173, in cui si
afferma la responsabilità concorsuale di coloro che «abbiano agito per il medesimo fine, sia intervenendo all'atto e
firmando fuori dalla presenza del notaio, sia istigando quest'ultimo o rafforzandone il proposito delittuoso». Più di
recente si veda: sez. VI, 9 ottobre 1990, Perrella e altro, ivi, 1992, p. 1302, n. 700; Sez. V, 19 ottobre 2000, Mattioli e altro,
ivi, 2001, p. 2494, n. 1262.
(10) Antolisei, op. cit., p. 562; Fiandaca-Musco, Diritto penale. Parte generale, 4ª ed., Zanichelli, 2001 p. 455; Insolera,
Profili di tipicità del concorso: causalità colpevolezza e qualifiche soggettive nella condotta di partecipazione, in Riv. it.
dir. e proc. pen., 1998, p. 443.
(11) Nuvolone, Il sistema del diritto penale, Cedam, 1982, p. 404; Nuvolone, Pluralità di delitti e pluralità di delinquenti,
in Riv. it. dir. e proc. pen., 1959, p. 1085
(12) Marini-La Monica-Mazza, sub artt. 1-49, in Commentario al codice penale, vol. I., Giappichelli, 2002, p. 832.
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(13) Antolisei, Manuale, cit., p. 575; Nuvolone, Il sistema del diritto penale, cit., p. 403.
(14) L'art. 1081 c. nav. così recita: «Fuori dal caso regolato nell'art. 117 del codice penale, quando per l'esistenza di un
reato previsto dal presente codice è richiesta una particolare qualità personale, coloro che, senza rivestire tale qualità,
sono concorsi nel reato, ne rispondono se hanno avuto conoscenza della qualità personale inerente al colpevole. Tuttavia
il giudice può diminuire la pena rispetto a coloro per i quali non sussiste la predetta qualità».
(15) Pelissero, Consapevolezza della qualifica dell'intraneus e dominio finalistico sul fatto nella disciplina del mutamento
del titolo di reato, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1996, p. 332.
(16) In tal senso si muove la dottrina maggioritaria Bettiol-Pettoello Mantovani, op. cit., p. 675; Bettiol, op. cit., p. 614;
Fiandaca-Musco, Diritto penale, loc. cit.;Insolera, Concorso, cit., p. 492; Insolera, Profili di tipicità, cit., p. 449; Mantovani,
op. cit., p. 482; Ranieri, Il concorso di più persone in un reato, 2ª ed., Giuffrè, 1948, p. 145; Padovani, op. cit., p. 110.
(17) Nuvolone, op. loc. ult. cit.
(18) L'art. 66 del codice Zanardelli prevedeva che «le circostanze materiali che aggravano la pena, ancorché facciano
mutare il titolo del reato, stanno a carico anche di coloro che le conoscevano al momento in cui sono incorsi nel reato»,
mentre l'art. 65 dello stesso codice, «le circostanze o le qualità inerenti alla persona, permanenti o accidentali, per le quali
si aggrava la pena di alcuno di quelli che sono concorsi nel reato, ove abbiano servito ad agevolare l'esecuzione, stanno a
carico anche di coloro che le conoscevano nel momento in cui vi sono concorsi», con facoltà per il giudice di diminuire la
pena.
(19) La ricostruzione storica viene formulata in primis da Latagliata, I principi del concorso di persone nel reato, 2ª ed.,
Morano, 1964, p. 216 ss.
(20) Fiore, op. cit., p. 121 ss.; Latagliata; I principi, cit., p. 213 ss.
(21) Tale rilievo segue all'impostazione dottrinale seguita e dettata in tema da Latagliata, op. loc. ult. cit..
(22) Antolisei, op. cit., p. 575; Manzini, Trattato di diritto penale italiano, V ed. aggiornata da Nuvolone e Pisapia, vol. II,
Utet, 1981, p. 608; Padovani, op. cit., p. 111.
(23) Caraccioli, Manuale di diritto penale, Cedam, 1998, p. 643.
(24) Si noti a tal proposito lo spunto critico offerto da Padovani, op. cit., p. 112: se si fosse veramente voluto contrapporre
il regime delle circostanze a quello della modificazione del titolo del reato, sarebbe stato più logico mantenere
espressamente il riferimento alla necessità della conoscenza, come avveniva per l'art. 66 Cod. Zanardelli, mentre il
legislatore si è limitato a parlare di un mutamento del titolo di reato per il concorrente estraneo comunque già in dolo.
(25) Seminara, Tecniche normative e concorso di persone nel reato, Giuffrè, 1987, p. 395.
(26) Il rilievo sistematico è di Pelissero, op. cit., p. 334.
(27) Antolisei, op. cit., p. 576; Insolera, Concorso, cit.; Pagliaro, Diversi titoli di responsabilità, cit., p. 3. Contra:Donini, La
partecipazione al reato tra responsabilità per fatto proprio e per fatto altrui, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1984, p. 234; M.
Gallo, Lineamenti, cit., p. 78.
(28) Ci limitiamo a richiamare l'ampia dottrina in tema di abuso d'ufficio, riepilogando brevemente quelle che sono state
le vicende normative e le principali modifiche in tema. Si veda quindi tra la dottrina più importante: AA.VV., I delitti dei
pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, a cura di D'Avirro, Cedam, 1999, p. 265 ss.; AA.VV., I delitti contro
la pubblica amministrazione, a cura di Fortuna, Giuffrè, 2002, p. 100 ss.; D'Avirro, L'abuso d'ufficio, la legge di riforma
16 luglio 1997, n. 234, vol. II, Giuffrè, 1997; Benussi, Il nuovo delitto di abuso d'ufficio, Cedam, 1998; CacciavillaniCalderone, I delitti dei pubblici ufficiali nell'attività amministrativa, Cedam, 2001, p. 165 ss.; Leoni, Il nuovo reato di
abuso d'ufficio, Cedam, 1998; Iadecola, La riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione,
Giappichelli, 1991, p. 66 ss.; Manna, Luci ed ombre nella nuova fattispecie dell'abuso d'ufficio, in Ind. pen., 1998, p. 13 ss.;
Pittaro, La nuova disciplina dell'abuso d'ufficio, in Le nuove leggi penali. Problemi attuali della giustizia penale, Cedam,
1998, p. 20 ss.; Segreto-De Luca, Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Giuffrè, 1999, p. 473;
Tesauro, Violazione di legge e abuso d'ufficio, Giappichelli, 2002.
(29) La giurisprudenza sul punto è abbastanza limitata e recente ed è tutta elaborata dalla VI sezione penale. Si veda
infatti Sez. VI, 15 febbraio 1996, Ariagno e altro, in questa rivista, 1997, p. 982, n. 583; Sez. VI, 17 ottobre 1997, Vitarelli e
altri, ivi, 1998, p. 1616, n. 952; Sez. VI, 11 febbraio 1999, Morgagni e altro, ivi, 2000, p. 867, n. 531; Sez. VI, 29 maggio 2000,
Margini e altro, ivi, 2001, p. 839, n. 378.
(30) Sez. VI, 17 ottobre 1997, cit.
(31) Amato, La Cassazione comincia a precisare i profili normativi del nuovo abuso d'ufficio, in questa rivista, 1998, p.
1358, n. 793; Amato, Puntualizzazioni giurisprudenziali sul 'nuovo' abuso d'ufficio,ivi, p. 1623, n. 952.
(32) Nello stesso modo si era espressa la Sez. VI, 29 maggio 2000, Margini e altro, cit., richiamata dalla pronuncia che
oggi si analizza, ma il principio è rinvenibile già nella pronuncia del 15 febbraio 1996, Ariagno e altro, cit.
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CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE - SEZIONE SESTA PENALE – 4 NOVEMBRE 2008, n. 6489
FATTO E DIRITTO
La Corte d'Appello di Milano, con sentenza 27/11/2006, confermava quella in data 4/10/2005 del locale
Tribunale nella parte in cui aveva dichiarato A.G.G. colpevole del delitto di abuso d'ufficio nella forma
tentata .. perché, quale operatore professionale in servizio presso l'Agenzia del Demanio di Milano, per
procurare a sé o ad altri un indebito profitto patrimoniale, si era avvalso illegittimamente di notizie di
ufficio, che dovevano rimanere segrete, nel tentativo di acquistare per sè o per persona da nominare - a
prezzo inferiore a quello di mercato - quattro autocarri confiscati ex L. n. 575 del 1965 e nella disponibilità
dell'Agenzia del Demanio, inviando a tale scopo .. all'amministratrice finanziaria una proposta d'acquisto di
tali beni .. proposta però non andata a buon fine, perché i veicoli erano stati acquistati da altra persona.
Il Giudice distrettuale .. riteneva che la condotta tenuta dall' A. era inquadrarle nel paradigma di cui agli artt.
56 e 323 c.p., ricorrendo tutti gli elementi strutturali di tale illecito: a) aveva violato il divieto di svolgere
attività connesse ai propri compiti istituzionali e incidenti sull'adempimento corretto e imparziale dei doveri
di ufficio, agendo in una palese situazione d'incompatibilità e di conflitto d'interessi (D.P.R. n. 18 del 2002,
art. 4); b) aveva agito nell'esercizio delle sue funzioni di dipendente dell'Agenzia del Demanio e, in tale
veste, aveva preso piena coscienza dell'appartenenza all'Ente predetto dei veicoli che intendeva acquistare;
c) la proposta d'acquisto era chiaramente finalizzata a conseguire un vantaggio patrimoniale ingiusto.
Ha proposto ricorso per Cassazione l'imputato, deducendo: 1) vizio di motivazione connesso al travisamento
della prova, perché, pur essendosi accertato che egli si occupava di devoluzioni allo Stato di beni provenienti
da eredità giacenti o ceduti per debiti d'imposta, si era infondatamente ritenuto che avrebbe trattato anche
procedure relative alla vendita di beni confiscati; 2) vizio di motivazione ed erronea applicazione della legge
penale sotto più profili: a) difetto di qualunque collegamento funzionale tra l'ufficio e l'attività oggetto di
contestazione; b) difetto di qualunque incompatibilità o conflitto di interessi con l'Agenzia del Demanio,
posto che la previsione di cui al D.P.R. n. 18 del 2002, art. 4 attiene al divieto per il personale delle Agenzie
fiscali di svolgere attività lavorative di consulenza e di assistenza in questioni fiscali; c) insussistenza
dell'ingiusto vantaggio patrimoniale o dell'ingiusto danno…
Il ricorso è fondato.
La sentenza impugnata, invero, pur dando atto, sulla base della ricostruzione dei fatti, che l' A. era addetto
ad un settore dell'Agenzia del Demanio diverso da quello che si occupava della vendita dei beni confiscati e
che, quale privato cittadino, si era interessato all'acquisto di alcuni automezzi confiscati, attingendo notizie
dal custode degli stessi e dall'amministratrice finanziaria, inducendosi quindi a formulare la relativa
proposta, perviene alla conclusione di ravvisare in tale condotta gli estremi del tentativo di abuso d'ufficio,
facendo sostanzialmente leva soltanto sull'incompatibilità connessa alla posizione soggettiva rivestita
dall'imputato (dipendente dell'Agenzia del Demanio), senza però farsi carico di verificare e dimostrare la
sussistenza degli elementi strutturali dell'illecito in esame.
Osserva, in contrario, la Corte che, proprio alla luce dei dati fattuali accertati in sede di merito, deve
escludersi che la condotta addebitata all' A. integri gli estremi del tentativo di abuso d'ufficio, esponendosi la
medesima - al limite - a soli rilievi di natura disciplinare.
Si è precisato che l'imputato, dopo essere stato occasionalmente informato della vendita di alcuni automezzi
confiscati, aveva manifestato il suo interesse all'acquisto ed aveva formulato la relativa proposta, facendola
pervenire - Via, fax - all'amministratrice finanziaria. Tale iniziativa pacificamente era stata assunta nella
veste di privato cittadino e non nell'ambito dell'esercizio funzionale dell'ufficio pubblico ricoperto in seno
all'Agenzia del Demanio.
Difetta quindi il presupposto della condotta di abuso. L'art. 323 c.p. infatti, col richiamo alla locuzione "nello
svolgimento delle funzioni o del servizio", richiede che il funzionario realizzi la condotta illecita agendo
nella sua veste di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, con la conseguenza che rimangono
privi di rilievo penale quei comportamenti tenuti come soggetto privato, senza servirsi in alcun modo
dell'attività funzionale svolta. I comportamenti non correlati all'attività funzionale dell'agente possono
integrare una mera violazione del dovere di correttezza, non rilevante per integrare il reato di cui all'art. 323
c.p. …La sentenza impugnata, pertanto, deve essere annullata senza rinvio, perché il fatto non sussiste.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il fatto non sussiste.
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Così deciso in Roma, il 4 novembre 2008. Depositato in Cancelleria il 13 febbraio 2009.
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CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE - SEZIONE SESTA PENALE – 12 FEBBRAIO 2008, n. 25162
FATTO E DIRITTO
Con la sentenza in epigrafe il G.u.p. del Tribunale di Viterbo dichiarava non luogo a procedere ex art. 425
c.p.p., comma 3, nei confronti di S.S., B.M.A., L.B.I. e L.B.M., imputati del reato di abuso d'ufficio, per avere il
primo, in qualità di funzionario della motorizzazione civile di Viterbo e responsabile del settore
"nazionalizzazione dei veicoli e patenti nautiche", procurato un ingiusto profitto agli altri tre imputati,
titolari e gestori di fatto dell'agenzia di pratiche automobilistiche Sprint, compiendo atti contrari ai doveri
d'ufficio e in violazione di disposizioni di legge, consistiti nel preferenziale disbrigo delle pratiche avviate
dalla Sprint in relazione a richieste di nazionalizzazione di veicoli acquistati all'estero, tra l'altro evadendo
pratiche ancorchè incomplete della documentazione richiesta, eludendo i meccanismi interni previsti per il
protocollo e la presentazione delle domande di nazionalizzazione, rilasciando il permesso provvisorio di
circolazione in luogo della carta di circolazione….
Contro questa decisione il Procuratore della Repubblica di Viterbo ha proposto ricorso per cassazione.
Con un primo motivo ha dedotto l'erronea applicazione dell'art. 97 Cost., avendo il giudice di merito escluso
che la sua violazione possa integrare il reato in contestazione. Secondo parte ricorrente la norma
costituzionale citata non avrebbe solo un carattere programmatico, ma - interpretata come rivolta ad
assicurare l'imparzialità delle condotte dei funzionali pubblici - porrebbe una serie di divieti aventi una
portata direttamente precettiva, quali il divieto di realizzare comportamenti oggettivamente irregolari diretti
ad avvantaggiare o danneggiare gli utenti della pubblica amministrazione, ovvero di stravolgere
completamente la funzione amministrativa esercitata….
I ricorsi devono essere accolti, sebbene per motivi parzialmente diversi da quelli dedotti….
In materia di abuso di ufficio, la condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio che
risulti lesiva del buon funzionamento e della imparzialità dell'azione amministrativa rileva alla duplice
condizione che contrasti con norme specificamente mirate ad inibire o prescrivere la condotta stessa e che
dette norme presentino i caratteri formali ed il regime giuridico della legge o del regolamento….
Nel caso in esame deve ritenersi che ai fini della sussistenza del reato di cui all'art. 323 c.p., possa trovare
applicazione anche l'art. 97 Cost., che stabilisce che i pubblici uffici devono essere organizzati secondo
disposizioni di legge in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione.
Si tratta di principi il cui contenuto non è univoco. Ed infatti la giurisprudenza non è favorevole a
considerare che il reato di abuso d'ufficio possa sussistere nella forma della violazione di uno dei principi di
cui all'art. 97 Cost., in quanto norma generale che non fissa regole di comportamento precise, ma semplici
principi privi di immediato contenuto precettivo (Sez. 6^, 12 ottobre 2005, n. 12769, P.G. in proc. Fucci; Sez.
6^, 8 maggio 2003, n. 35108, Zardini). L'inserimento del citato art. 97 Cost., fra le disposizioni di legge
violabili e rilevanti per l'abuso d'ufficio avrebbe come effetto quello di dilatare eccessivamente l'ambito di
applicazione della norma incriminatrice, finendo con l'incidere anche sul principio di precisione di cui all'art.
25 Cost..
Tali preoccupazione manifestate dalla giurisprudenza e da parte della dottrina appaiono sicuramente
legittime, in quanto è reale il rischio paventato di estendere eccessivamente la portata dell'art. 323 c.p.,
mentre la norma presuppone che l'abuso sia collegato all'inosservanza di previsioni specifiche. Tuttavia, si
osserva che possono essere identificato ipotesi residuali in cui l'art. 97 Cost., nel suo significato più
precettivo, relativo all'imparzialità dell'azione amministrativa, può costituire parametro di riferimento per il
reato di abuso d'ufficio.
Nella sua essenzialità il significato del principio di imparzialità risiede nel diretto riferimento al criterio degli
interessi tutelati.
L'amministrazione deve essere imparziale assicurando tutela ad un interesse nel confronto con l'insieme
degli altri interessi pubblici e privati con i quali deve essere "ponderato". In questo senso l'imparzialità
dell'amministrazione non corrisponde al senso comune del termine, cioè come soggetto al di sopra delle
parti, in quanto la sua azione è rivolta al perseguimento di obiettivi specifici.
Per questo l'imparzialità di cui parla l'art. 97 Cost., si traduce, nel suo nucleo essenziale, nel divieto di
favoritismi, quindi nell'obbligo per l'amministrazione di trattare tutti i soggetti portatori di interessi
tutelabili con la medesima misura. Inteso in questa limitata accezione il principio di imparzialità finisce con
realizzarsi attraverso strumenti diversi, a seconda che venga calato nell'attività della pubblica
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amministrazione ovvero nella sua organizzazione. In quest'ultimo caso, riferito cioè all'aspetto
organizzativo, il principio di imparzialità non avrà mai un immediato contenuto precettivo ai fini del rilievo
in ordine alla sussistenza del reato di abuso d'ufficio, in quanto dovrà essere necessariamente mediato dalla
legge; non così per quanto riguarda l'attività dell'amministrazione, in cui la decisione avviene alla fine di un
procedimento amministrativo in cui il criterio di imparzialità comporta che vengano acquisiti gli interessi e
gli elementi utili ad una deliberazione il più possibile ponderata. In questo caso, l'imparzialità
amministrativa intesa come divieto di favoritismi ha i caratteri e i contenuti precettivi richiesti dall'art. 323
c.p., in quanto impone all'impiegato o al funzionario pubblico una vera e propria regola di comportamento,
di immediata applicazione.
Nel caso in esame, dal capo di imputazione emerge una condotta del funzionario pubblico volta a realizzare
sistematicamente "il preferenziale disbrigo di pratiche" avviate da una sola agenzia, a discapito delle altre
agenzie di pratiche automobilistiche: si tratta di una chiara ipotesi di favoritismo in violazione del principio
fissato dall'art. 97 Cost., che, in quanto riferibile non solo all'organizzazione dell'ufficio, ma alla condotta
della persona fisica del funzionario, può essere presa in considerazione come violazione di legge ai sensi
dell'art. 323 c. p.
Pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata, con rinvio degli atti al Tribunale di Viterbo, perchè,
in persona di un diverso giudice per l'udienza preliminare, proceda ad un nuovo giudizio facendo
applicazione dei principi sopra indicati.
P.Q.M.
annulla la sentenza impugnata e rinvia al Tribunale di Viterbo per nuovo giudizio.
Così deciso in Roma, il 12 febbraio 2008. Depositato in Cancelleria il 19 giugno 2008
IL PRINCIPIO DI IMPARZIALITÀ NELLA CONDOTTA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
DETTATO DALL'ART. 97, COMMA 1, COST. PUÒ AVERE EFFICACIA PRECETTIVA
AI FINI DEL REATO DI ABUSO D'UFFICIO
Mario De Bellis - in Cassazione penale, 2009, 03, 1027.
Sommario: 1. I termini della questione. - 2. La ratio politico-giuridica del problema. - 3. La prospettiva della
Corte costituzionale. - 4. La violazione di norme di legge può consistere nella violazione di cui all'art. 97
della Costituzione? - 5. Considerazioni conclusive.
1. I TERMINI DELLA QUESTIONE
Con la sentenza che si annota (Sez. VI, 12 febbraio 2008, Sassara), la suprema Corte, esaminando la
contestazione fatta ad un funzionario della motorizzazione civile, al quale era contestato il reato di abuso
d'ufficio di cui all'art. 323 c.p. (1) per aver favorito una agenzia di pratiche auto, curando il disbrigo
preferenziale delle pratiche provenienti da tale agenzia a discapito di quelle provenienti da altre agenzie, la
cui trattazione veniva postergata, dopo avere evidenziato la vigenza di norme di legge ordinaria (rectius
regolamento) che impongono al pubblico impiegato di trattare gli affari tempestivamente e secondo il loro
ordine cronologico (art. 13, comma 5, d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3), afferma il principio che detta alterazione
dell'ordine corretto di trattazione delle pratiche amministrative costituisce comunque anche violazione del
principio di imparzialità dettato dall'art. 97, comma 1, Cost. e che tale norma deve ritenersi immediatamente
precettiva per il dipendente pubblico, e dunque la sua inosservanza realizza immediatamente la violazione
di norma di legge o di regolamento di cui all'art. 323 c.p.
Che l'elemento costitutivo della fattispecie di cui all'art. 323 c.p. consistente nella violazione di legge o di
regolamento possa essere integrato dalla mera violazione del precetto di cui all'art. 97, Cost. è questione
molto controversa in giurisprudenza ed in dottrina, e la Cassazione, nel dare innovativamente con la
sentenza che si annota una risposta positiva al problema, enuncia alcuni ulteriori interessanti corollari:
- nell'ambito dei principi di comportamento del pubblico funzionario enunciati dall'art. 97 Cost., le regole
immediatamente precettive occupano un'area definita dalla suprema Corte come "residuale";
- costituisce infatti violazione di legge immediatamente rilevante ai fini dell'integrazione del reato di cui
all'art. 323 c.p. solo la violazione del precetto di imparzialità dettato dalla norma costituzionale, ma non
anche quella del principio di buon andamento della pubblica amministrazione, pure presente nel testo
dell'art. 97 Cost., e ciò perché solo al principio di imparzialità può essere attribuita una efficacia
immediatamente precettiva (il tutto risolvendosi nel concetto che le varie pratiche devono essere trattate
secondo ordine cronologico e senza favoritismi), laddove il principio di buon andamento della
amministrazione rimane concetto generico e di mero orientamento della condotta del pubblico funzionario;
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- il principio di imparzialità assume tale valenza immediatamente precettiva non nella prospettiva della
attività di organizzazione interna della amministrazione stessa, ma solo nei rapporti fra amministrazione e
terzi, e non nella prospettiva di una comparazione fra l'interesse dell'amministrazione e quello dei terzi bensì
come parametro di equiparazione fra gli interessi dei vari soggetti terzi con i quali l'amministrazione si
rapporta, ovvero, in sintesi, come divieto di favoritismi.
2. LA RATIO POLITICO-GIURIDICA DEL PROBLEMA
La norma dell'art. 323 c.p., nella formulazione originaria del Codice Rocco, sanzionava la condotta del
pubblico funzionario il quale, abusando del suo ufficio e per arrecare danno o vantaggio ad altri,
commetteva qualsiasi fatto non preveduto da una particolare disposizione di legge.
Si trattava di una norma di chiusura del sistema dei delitti dei pubblici funzionari ai danni
dell'amministrazione, caratterizzata ontologicamente dalla mancata precisazione dei fatti capaci di integrarli,
non a caso definita dai commentatori come "abuso innominato".
Il legislatore del 1990, nel modificare la norma nel senso di sanzionare il pubblico funzionario il quale, al fine
di arrecare danni o vantaggi, abusava del suo ufficio, non aveva di certo migliorato il livello di tassatività
della fattispecie.
Ne era nata l'esigenza di una ulteriore modifica di formulazione della fattispecie (si ricordi, per
contestualizzare la situazione, che erano gli anni di "Tangentopoli"), a fronte dell'esigenza di evitare
applicazioni di eccessiva estensione di una norma definita da alcuni "elastica" e "gigantesco contenitore" (2) e
del concreto rischio di sanzionare penalmente ipotesi di eccesso o sviamento di potere da confinare più
correttamente nel quadro degli illeciti amministrativi.
Vari giudici di merito avevano in effetti sollevato questione di legittimità costituzionale di dell'art. 323 c.p.
(nel testo del 1990) per contrasto con l'art. 25, comma 2, Cost., ovvero per l'indeterminatezza della norma
penale. La Corte costituzionale non ebbe modo di pronunciarsi nel merito, in conseguenza delle modifiche
normative intervenute medio tempore (3).
Si arrivava infatti nel frattempo alla riformulazione del testo dell'art. 323 c.p. frutto della l. 16 luglio 1997, n.
234, e veniva inserito quale elemento costitutivo del reato la violazione di una norma di legge o di
regolamento (da individuarsi precisamente nel caso concreto), violazione che doveva avere efficacia causale
specifica rispetto all'evento di danno o di vantaggio.
Si volle dunque impedire una indebita penetrazione del giudice penale nella sfera di discrezionalità della
amministrazione, circoscrivendo l'ambito di operatività della norma.
3. LA PROSPETTIVA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
La Corte costituzionale venne di lì a poco chiamata a valutare la legittimità costituzionale del nuovo testo
dell'art. 323 c.p. (quello introdotto nel 1997) in relazione all'art. 97, comma 1, Cost. (4).
La prospettiva è diversa (il nostro tema di indagine riguarda la questione se la violazione di legge di cui
all'art. 323 c.p. possa consistere nella violazione tout court dell'art. 97 Cost.; alla Corte costituzionale fu
chiesto di valutare se il testo dell'art. 323 c.p. fosse conforme ai principi costituzionali di cui all'art. 97 Cost.),
ma le norme in discussione sono le stesse, per cui merita soffermarsi un attimo su tale passaggio
interpretativo.
Le censure mosse dai giudici remittenti erano volte a lamentare che il legislatore, nel ridefinire nel 1997 la
fattispecie dell'abuso d'ufficio, lo avesse fatto in senso eccessivamente restrittivo, escludendo dall'ambito
operativo della norma condotte che, a loro giudizio, avrebbero invece richiesto di essere sanzionate
penalmente.
In particolare si sosteneva che i principi costituzionali di imparzialità e di buon andamento della pubblica
amministrazione di cui all'art. 97, comma 1, Cost., sarebbero stati violati a causa dell'esclusione di taluni tipi
di condotte dall'ambito di applicazione della fattispecie di reato di cui all'art. 323 c.p.
La Corte costituzionale, pronunciandosi sulla questione di legittimità costituzionale così proposta, ebbe a
ricordare che principio essenziale in campo penale, e garanzia fondamentale per la persona, è che non si può
addebitare a titolo di reato alcuna condotta diversa ed ulteriore rispetto a quelle in tal senso esplicitamente
qualificate da una legge in vigore al momento della commissione del fatto (art. 25, comma 2, Cost.).
Solo il legislatore, dunque, può, nel rispetto dei principi della Costituzione, individuare i beni da tutelare
mediante la sanzione penale e le condotte, lesive di tali beni, da assoggettare a pena, nonché stabilire qualità
e quantità delle relative pene edittali.
È il principio nullum crimen nulla poena sine lege, a cui si riconducono sia la riserva di legge vigente in
materia penale sia il principio di determinatezza delle fattispecie penali (non potendosi lasciare che
l'individuazione della condotta incriminata dipenda da valutazioni discrezionali del giudice e quindi non sia
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prevedibile da parte del destinatario della legge penale), sia il divieto di applicazione analogica delle norme
incriminatrici.
Al di fuori dei confini delle fattispecie di reato, come definiti dalla legge, riprende vigore il generale divieto
di incriminazione, anche là dove siano configurabili altre ipotesi di illecito e di responsabilità non sanzionate
penalmente.
Discende da ciò che l'eventuale addebito al legislatore di avere omesso di sanzionare penalmente
determinate condotte, in ipotesi socialmente riprovevoli o dannose, o anche illecite sotto altro profilo, ovvero
di avere troppo restrittivamente definito le fattispecie incriminatrici, lasciandone fuori condotte siffatte, non
può, in linea di principio, tradursi in una censura di legittimità costituzionale della legge, e tanto meno in
una richiesta di "addizione" alla medesima mediante una pronuncia della Corte costituzionale.
Né vale invocare, in contrario, l'ipotetico pregiudizio che potrebbe discendere a beni costituzionalmente
tutelati, quali, nella specie, l'imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione (peraltro
evocati dall'art. 97 Cost. - secondo la Corte - in relazione alla organizzazione dei pubblici uffici).
Le esigenze costituzionali di tutela non si esauriscono infatti nella (eventuale) tutela penale, ben potendo
invece essere soddisfatte con diverse forme di precetti e di sanzioni; ché anzi l'incriminazione costituisce una
extrema ratio, cui il legislatore ricorre quando, nel suo discrezionale apprezzamento, lo ritenga necessario
per l'assenza o l'insufficienza o l' inadeguatezza di altri mezzi di tutela.
4. LA VIOLAZIONE DI NORME DI LEGGE PUÒ CONSISTERE NELLA VIOLAZIONE DI CUI ALL'ART.
97 DELLA COSTITUZIONE?
È opinione consolidata che la nozione di legge e di regolamento di cui all'art. 323 c.p. (nel testo attualmente
vigente) sia nozione tecnica, e dunque ci si debba riferire non alle fonti del diritto in genere bensì a quelle che
possono qualificarsi come leggi e regolamenti in senso proprio.
Leggi sono dunque sia le leggi in senso formale (leggi costituzionali, leggi ordinarie, leggi regionali e delle
province autonome) sia le leggi in senso materiale (decreti legislativi e decreti legge).
Non vi è dunque alcun ostacolo strettamente formale alla possibilità che la violazione di norme di legge
possa consistere nella violazione dell'art. 97 Cost.
Il problema attiene invece al contenuto della predetta norma costituzionale che sembra dettare solo principi
privi di immediato contenuto precettivo.
In dottrina si sono sostenute tanto la tesi favorevole quanto la tesi contraria all'utilizzazione dell'art. 97 Cost.
come violazione di norma di legge rilevante ai sensi dell'art. 323 c.p.
A chi lo ritiene possibile (5), se del caso con la specificazione che ciò sarebbe possibile per i soli casi di attività
di auto-organizzazione dei propri uffici (6), si contrappone l'orientamento contrario, che fa leva, come si
diceva, sull'assenza di contenuto precettivo dell'art. 97 Cost. e sul rischio di una violazione del precetto di
tassatività della norma penale di cui all'art. 25 Cost. (7).
La giurisprudenza si è espressa più volte per la soluzione negativa, per le medesime ragioni enunciate in
dottrina (8).
Merita tuttavia di essere segnalata una sentenza (9), con la quale la suprema Corte ebbe a riconoscere
l'immediata precettività - ai fini di cui all'art. 323 c.p. - dell'art. 97 Cost.: si trattava però del terzo comma
della norma costituzionale, che prevede che si debba accedere al pubblico impiego tramite concorsi, norma
considerata dalla Cassazione di valore programmatico per il legislatore ma immediatamente precettiva per
la pubblica amministrazione.
Va altresì ricordata altra sentenza (10) con la quale la Cassazione riconobbe efficacia immediatamente
precettiva - sempre agli effetti di cui all'art. 323 c.p. - ad una norma che ha indubbiamente un contenuto
generico, quale è quella dell'art. 2043 c.c., riconosciuta, secondo il più recente orientamento della
giurisprudenza civilistica, come norma primaria e non meramente sanzionatoria.
La sentenza in esame compie dunque un revirement rispetto al consolidato indirizzo finora seguito dalla
Cassazione, avendo affermato il principio che i favoritismi nella trattazione delle pratiche amministrative
costituiscono violazione del principio di imparzialità dettato dall'art. 97, comma 1, Cost. e che tale norma
deve ritenersi immediatamente precettiva per il dipendente pubblico, e dunque la sua inosservanza realizza
immediatamente la violazione di norma di legge o di regolamento di cui all'art. 323 c.p.
5. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Dovendo trarre le somme dell'analisi finora effettuata, si può dire che la sentenza in esame propone
un'interpretazione sicuramente innovativa rispetto allo stato della giurisprudenza finora prodottasi sul
punto.
È però vero che la Cassazione si muove con estrema circospezione nella questione controversa, ribadendo
che la norma dell'art. 97 Cost., globalmente intesa, ha carattere puramente programmatico, ma che tuttavia,
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Lezione dell’8 marzo 2011: l’abuso di ufficio
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all'interno della stessa, possono individuarsi aree di precettività, ovvero regole immediatamente e
concretamente vincolanti per i pubblici funzionari.
In questi termini, l'attribuzione del carattere di precettività al divieto di favoritismi nella trattazione delle
pratiche amministrative è affermazione sicuramente da condividere.
Tale enunciazione non comporta infatti alcuna rottura del sistema né presta la norma dell'art. 323 c.p. a
contestazioni di illegittimità costituzionale in relazione al principio di tassatività della norma penale
costituzionalmente garantito dall'art. 25 Cost.
La sentenza in esame riesce infatti, a parere di chi scrive, a trovare un adeguato punto di equilibrio tra le
varie istanze da un lato di tassatività della fattispecie dall'altro di capacità della norma di sanzionare in
modo adeguato le condotte illecite dei pubblici amministratori.
(1) Sull'abuso d'ufficio, in generale, v. i richiami di dottrina riportati nella nota 2 della decisione sub n. 278.
(2) Le espressioni sono di PAGLIARO, in Principi di diritto penale, parte speciale (Delitti dei pubblici ufficiali contro le
pubbliche amministrazioni), Giuffrè, 2000, p. 46 e ss.
(3) C. cost., 7 novembre 1997, n. 327, in G.U., Iª ser. spec., n. 46 del 12 novembre 1997, la quale, preso atto dello ius
superveniens del 1997, restituì gli atti ai giudici rimettenti per una nuova valutazione della rilevanza della questione.
(4) C. cost., 28 dicembre 1998, n. 447, in Giur. cost., 1999, p. 3271.
(5) LAUDI, L'abuso d'ufficio, luci ed ombre di un'attesa riforma. Profili sostanziali, in Dir. pen. proc., 1997, p. 1050;
GROSSO, Condotte ed eventi del delitto di abuso d'ufficio, in Foro it., 1999, V, c. 329 ss.; MANNA, Luci ed ombre nella
nuova fattispecie di abuso d'ufficio, in Ind. pen., 1998, p. 13; PAGLIARO, Principi, cit., p. 243.
(6) SEGRETO-DE LUCA, Delitti, cit. p. 498.
(7) Così BENUSSI, Il nuovo delitti di abuso d'ufficio, Cedam, 1198, p. 67; CARMONA, La nuova figura di abuso d'ufficio:
aspetti di diritto intertemporale, in questa rivista, 1998, pag. 1843; MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, vol. I,
1998, p. 155; PAVAN, La nuova fattispecie di abuso d'ufficio e la norma di cui all'art. 97, comma 1, Cost., in Riv. trim dir.
pen. econ., 1999, p. 283; in questo senso sembrerebbe anche DE FRANCDESCO, La fattispecie dell'abuso d'ufficio: profili
ermeneutici e di politica criminale, in questa rivista, 1999, p. 1633: sostiene infatti l'autore che, nonostante il rango della
fonte da cui promana, sarebbe problematico porre una siffatta statuizione (quella dell'art. 97 Cost.) a fondamento della
struttura e del contenuto di una fattispecie incriminatrice; i principi costituzionali, per quanto vincolanti rispetto alle
fonti subordinate, non possono, proprio in quanto principi e non regole, fornire il sostrato tipico ad una condotta
penalmente rilevante.
(8) Ex plurimis, Sez. II, 4 dicembre 1997, Tosches, in questa rivista, 1998, p. 2332; Sez. VI 24 settembre 2001, Nicita, ivi,
2003, p. 121.
(9) Sez. VI, 26 febbraio 2002, Marcello, in questa rivista, 2003, p. 771.
(10) Sez. VI, 24 febbraio 2000, Genazzani, in questa rivista, 2003, p.511.
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CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE - SEZIONE SESTA PENALE – 14 GIUGNO 2007, n. 37531
FATTO E DIRITTO
Con la sentenza in epigrafe la Corte d'appello di Salerno ha confermato la decisione con cui il Tribunale di
Vallo della Lucania aveva condannato D.L.F. e S.M.L., ciascuno, alla pena di un anno di reclusione per il
reato di abuso di ufficio, nonchè D.A. alla pena di sei mesi di reclusione per il reato di falso di cui all'art. 481
c.p. Con la stessa sentenza il giudice di primo grado aveva disposto la confisca degli immobili e la
distruzione dei grafici allegati al progetto in quanto falsi, nonchè dichiarato non doversi procedere nei
confronti della S. in ordine alle contravvenzioni urbanistiche per intervenuta prescrizione.
Il reato di abuso d'ufficio è stato attribuito al D.L., nella sua qualità di responsabile dell'Ufficio Tecnico del
Comune di Centola, per avere rilasciato in favore della S., a cui sarebbe stato legato da rapporti di natura
politica, un'autorizzazione edilizia per la realizzazione di lavori di manutenzione dei servizi igienici e dei
bungalows nel villaggio turistico (OMISSIS), in carenza di una vera e propria attività istruttoria, sulla base di
una documentazione assolutamente insufficiente, attestante tra l'altro l'esistenza di immobili in realtà
inesistenti, procurando così un ingiusto vantaggio patrimoniale alla stessa S., partecipe del reato proprio del
pubblico funzionario….
2. Contro la sentenza d'appello hanno presentato ricorso per Cassazione i tre imputati, tramite i loro
rispettivi difensori…. In particolare, in ordine alla violazione di legge o di regolamento si rileva:
- che erroneamente i giudici di merito hanno affermato la sussistenza del reato ritenendo violato il
regolamento edilizio comunale, le cui disposizioni aventi ad oggetto i documenti e gli elaborati da allegare
alle istanze non hanno come destinatario il pubblico ufficiale che deve rilasciare l'atto abilitativo, ma semmai
il richiedente, la commissione edilizia e il responsabile del procedimento;…
- che la sentenza risulta sprovvista di motivazione sotto il profilo del necessario nesso di condizionamento
causale tra la violazione di legge e il vantaggio ingiusto che ne sarebbe derivato…
Per quanto riguarda l'individuazione delle norme di legge o di regolamento violate dall'imputato nello
svolgimento delle sue funzioni di responsabile dell'Ufficio tecnico del Comune di Centola può convenirsi
con le conclusioni dei giudici di merito che hanno ritenuto illegittima l'autorizzazione in questione perché
rilasciata in presenza di una domanda gravemente lacunosa e comunque non conforme alle norme del
regolamento edilizio: in sostanza, l'illegittimità del provvedimento autorizzatorio deriverebbe da una palese
carenza nell'attività istruttoria, che avrebbe omesso addirittura di acquisire i necessari pareri degli organi
comunali (commissione edilizia integrata e commissione edilizia comunale) trattandosi di interventi su zona
vincolata.
Questa Corte ha avuto modo di affermare che l'inosservanza del dovere di compiere un'adeguata istruttoria
diretta ad accertare la sussistenza delle condizioni richieste per il rilascio di un'autorizzazione è idonea ad
integrare la violazione di legge, rilevante ai fini della sussistenza del reato di abuso di ufficio, chiarendo che
l'istruttoria amministrativa è comunque imposta da una norma generale sul procedimento amministrativo,
prevista dalla L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, costituendo una fase procedimentale essenziale e incidente
direttamente sul momento finale della decisione, in cui i diversi interessi, pubblici, collettivi e privati,
devono essere ponderati (Sez. 6^, 4 novembre 2004, n. 69, Palascino; Sez. 6^, 7 aprile 2005, n. 18149, Fabbri).
In sostanza, l'inosservanza del dovere di istruttoria non può essere considerata violazione di semplici norme
interne al procedimento, prive del carattere formale e del regime giuridico della legge o del regolamento,
come sostiene il ricorrente, in quanto ogni procedimento amministrativo e, in particolar modo, quelli
attinenti alla materia urbanistica, sono regolati da norme primarie generali o di settore che prevedono
necessariamente un'attività di natura istruttoria preliminare alla decisione finale da parte
dell'amministrazione, che deve essere assunta sulla base di una piena conoscenza dei dati di fatto e delle
situazioni giuridiche. … Nella specie, risulta che sia stata omessa una seria e completa attività istruttoria,
tanto che il provvedimento finale ha autorizzato la ristrutturazione di immobili che figuravano descritti nella
richiesta, ma che in realtà erano inesistenti: la sentenza d'appello ha messo in rilievo la carenza della
documentazione allegata, in cui le stesse particelle oggetto della richiesta erano indicate senza alcuna
specificazione circa la localizzazione dei manufatti da ristrutturare, mancando inoltre la sezione dei
fabbricati, indicazioni che invece erano espressamente richieste dal regolamento edilizio …
P.Q.M.
… rigetta i ricorsi di D.A. e D.L.F. che condanna in solido al pagamento delle spese processuali.
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Così deciso in Roma, il 14 giugno 2007. Depositato in Cancelleria il 11 ottobre 2007
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6
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE - SEZIONE SESTA PENALE – 25 SETTEMBRE 2008, n. 5026
FATTO E DIRITTO
Con sentenza dell'8 ottobre 2004 n. 786 il Tribunale di Trapani assolveva perché il fatto non costituisce reato
(gli imputati) dall'imputazione di abuso d'ufficio in concorso (artt. 110 e 323 c.p.), commesso in Calatafimi il
12 settembre 2001, perché X quale vicesegretario del Comune di Calatafimi-Segesta e autore del parere sulla
regolarità della proposta di delibera, gli altri imputati come membri del Consiglio comunale, violando le
norme contenute nell'art. 16 D.P.R. n. 191/79, nell'art. 67 D.P.R. n. 268/87 e nell'art. 28 C.C.N.L. del comparto
Regioni e Autonomie locali 14 settembre 2000, regolanti il patrocinio legale in favore dei dipendenti di enti
locali, procuravano intenzionalmente un ingiusto vantaggio a OMISSIS, determinando l'approvazione della
delibera n. 65 del 12 settembre 2001 avente ad oggetto Esame e riconoscimento debiti fuori bilancio per
rimborso spese legali .. e la conseguente liquidazione in favore degli stessi delle intere somme sostenute a
titolo di spese legali in relazione al procedimento penale instaurato nei loro confronti per i reati di tentato
abuso d'ufficio e di tentata truffa ex art. 640 bis c.p. per complessive lire 215.865 nonostante che la Corte di
Cassazione avesse stabilito con sentenza n. 2953 del 15 settembre 1999 che il reato di tentato abuso d'ufficio
si fosse nel frattempo prescritto, affermando nel contempo la piena responsabilità degli imputati per lo
stesso fatto, autorizzavano con l'approvazione della predetta delibera la liquidazione per intero delle spese
legali, procurando ai richiedenti un ingiusto vantaggio patrimoniale.
Il Procuratore Generale presso la Corte d'appello di Palermo appellava la sentenza, sostenendo che la
macroscopica illegittimità della delibera costituiva la prova dell'esistenza della coscienza e volontà richieste
dalla norma incriminatrice a titolo intenzionale e chiedendo che tutti gli imputati fossero dichiarati colpevoli
del reato loro ascritto.
Con sentenza del 17 febbraio 2006 n. 552 la Corte d'appello di Palermo, in riforma della sentenza appellata,
dichiarava gli imputati colpevoli del reato loro ascritto e, previo riconoscimento delle attenuanti generiche, li
condannava alla pena di sei mesi di reclusione, con la sospensione condizionale, nonché alla pena accessoria
dell'interdizione dai pubblici uffici per sei mesi. Avverso la sentenza tutti gli imputati hanno proposto
ricorso per cassazione, chiedendone l'annullamento
….
La L. 23 ottobre 1992 n. 421 delegava al Governo la razionalizzazione e la revisione delle discipline in
materia di pubblico impiego, autorizzandolo, fra l'altro, a prevedere, con uno o più decreti legislativi, salvi i
limiti collegati al perseguimento degli interessi generali cui l'organizzazione e l'azione delle pubbliche
amministrazioni sono indirizzate, che i rapporti di lavoro e di impiego dei dipendenti delle amministrazioni
dello Stato e degli altri enti di cui agli artt. 1 c. 1 e 26 c. 1 L. 29 marzo 1983 n. 93 (legge quadro sul pubblico
impiego) - ossia le amministrazioni dello Stato, anche a ordinamento autonomo, delle regioni a statuto
ordinario e speciale, le province autonome di Trento e di Bolzano, le province, i comuni e tutti gli altri enti
pubblici non economici nazionali, regionali e locali - fossero ricondotti sotto la disciplina del diritto civile e
fossero regolati mediante contratti individuali e collettivi. In attuazione della delega, il secondo comma
dell'art. 2 del D.L.vo 3 febbraio 1993 n. 29, concernente la razionalizzazione dell'organizzazione delle
amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego a norma dell'art. 2 L.
23 ottobre 1992 n. 421, modificato dal D.L.vo. 31 marzo 1998 n. 80 e poi trasfuso nell'art. 2 del D.L.vo. 30
marzo 2001 n. 165, ha stabilito che i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono
disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del Libro V del codice civile e dalle leggi sul rapporto di
lavoro subordinato nell'impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto, così
privatizzando il rapporto di pubblico impiego.
In conformità con l'inquadramento privatistico di tale rapporto lo stesso comma sancisce la prevalenza delle
disposizioni della contrattazione collettiva rispetto alle norme di legge, di regolamento o di statuto
successivamente emanate, che introducano discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai
dipendenti delle amministrazioni pubbliche o a categorie di essi, prevedendone la derogabilità da parte di
successivi contratti o accordi collettivi, e, per la parte derogata, la non ulteriore applicabilità, salvo che la
legge disponga espressamente in senso contrario.
Nel meccanismo legislativo adottato il contratto collettivo come tale - per la sua natura di istituto di diritto
privato, riconducibile all'autonomia negoziale delle parti contraenti, e non perché recepito nella legge in
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senso formale con conseguente attribuzione di efficacia normativa erga omnes - assume il valore e funzione
di fonte regolatrice primaria del rapporto di pubblico impiego.
Conseguenza della disciplina contrattualistica del rapporto è che l'inosservanza o la mancata o erronea
applicazione delle norme di contratto collettivo per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche non
costituisce violazione di legge o di regolamento, idonea a integrare la fattispecie del reato di abuso d'ufficio
(Cass., Sez. 6, 3 novembre 2005 n. 13511, ric. De Gaetano).
Nel quadro della disciplina contrattualistica dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche rientra la norma
relativa al patrocinio legale del dipendente per fatti connessi all'espletamento dei compiti d'ufficio, che, già
presente nell'art. 16 D.P.R. 1 giugno 1979 n. 191 sulla disciplina del rapporto di lavoro del personale degli
enti locali e nell'art. 67 D.P.R. 13 maggio 1987 n. 268, recante norme risultanti dalla disciplina prevista
dall'accordo sindacale, per il triennio 1985-87, relativo al comparto del personale degli enti locali, è stata
successivamente recepita nell'art. 28 C.C.N.L. 14 settembre 2000 e, in conformità alla disposizione del citato
art. 2 D.L.vo 1993 n. 29 e succ. mod., trova in questo la sua fonte regolatrice, la cui violazione non riguarda
pertanto una norma di legge o di regolamento, bensì una disposizione di natura patrizia di diritto privato,
inidonea come tale a costituire il presupposto per la configurazione del reato di abuso d'ufficio.
Nella specie viene meno, di conseguenza, il presupposto giuridico individuato nella sentenza impugnata per
ritenere la sussistenza dell'abuso d'ufficio contestato, per cui in ordine alla relativa censura il ricorso risulta
fondato, restando superato l'esame degli altri motivi, subordinati rispetto a quello che ha trovato
accoglimento. Pertanto la sentenza impugnata dev'essere annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste.
P.Q.M.
la Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.
ABUSO D'UFFICIO: INOSSERVANZA DEL C.C.N.L. E VIOLAZIONE DI NORMA DI LEGGE
Francesco Emanuele Salamone - in Cassazione penale, 2009, 12, 4687.
Sommario 1. La decisione. - 2. I temi d'indagine. - 3. Il concetto di norma di legge (cenni). - 4. La
"controversa" natura del C.C.N.L. - 5. Conclusioni.
1. LA DECISIONE
La sentenza in commento rappresenta l'ultima di una serie di pronunzie giurisprudenziali (non moltissime
per la verità) concernenti il dibattuto tema relativo alla possibilità di ritenere o meno sussistente il reato di
abuso d'ufficio nel caso di violazione di norme contenute in un Contratto collettivo nazionale di Lavoro
(C.C.N.L.) (1).
Nella decisione in epigrafe, la Corte di cassazione ha infatti chiarito che l'inosservanza di una disposizione
contenuta nel C.C.N.L., non integrando una violazione di legge o di regolamento, non sarebbe idonea a
configurare il delitto di abuso d'ufficio punito dall'art. 323 c.p.
In tale ipotesi, difatti, il reato in esame non sarebbe prefigurabile per mancanza del presupposto necessario
al verificarsi dell'abuso stesso, ossia la «violazione di norme di legge o di regolamento», come testualmente
recita l'art. 323 c.p. (2).
Ed invero, secondo i giudici di legittimità, l'insussistenza, nel caso di specie, di una violazione di norma di
legge costituirebbe una conseguenza diretta della c.d. "privatizzazione" del pubblico impiego, introdotta nel
nostro ordinamento dal d.lg. n. 29 del 1993 successivamente trasfuso nel d.lg. n. 165 del 2001.
In particolare, a detta della Corte, l'art. 2 del d.lg. n. 29 del 1993 (oggi art. 2 d.lg. n. 165 del 2001), prevedendo,
da un lato, l'applicabilità ai rapporti di lavoro dei dipendenti della p.a. delle disposizioni previste dal Capo I,
titolo II, del libro V del codice civile e delle leggi sul rapporto subordinato nell'impresa, nonché, dall'altro
lato, la consequenziale derogabilità (o addirittura "la prevalenza" secondo le motivazioni della sentenza)
delle disposizioni contenute nei C.C.N.L. rispetto alle norme di legge o di regolamento in materia di
pubblico impiego, avrebbe creato un "meccanismo legislativo" in virtù del quale il C.C.N.L. (che rappresenta
la fonte regolatrice primaria dei rapporti di lavoro privatistici) assumerebbe valore e funzione di fonte
regolatrice primaria anche del rapporto di pubblico impiego.
In altri termini, la capacità riconosciuta direttamente dalla citata normativa ai C.C.N.L. di derogare alle
norme di legge afferenti al rapporto di pubblico impiego si porrebbe come conseguenza logica
dell'inquadramento privatistico del rapporto di pubblico impiego e non conferirebbe alcuna attribuzione di
forza di legge ai C.C.N.L., che rimarrebbero, quindi, atti di natura pattizia (3).
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Ne discenderebbe, dunque, che la violazione di norme contenute all'interno di un C.C.N.L. (ovvero di un
atto non avente forza di legge) non integrerebbe alcuna violazione di norma di legge idonea a configurare il
delitto di abuso d'ufficio.
Sulla base di tale ragionamento la Corte ha pertanto annullato senza rinvio la sentenza del giudice di merito
che aveva ritenuto responsabili del delitto di cui all'art. 323 c.p. alcuni consiglieri comunali, i quali, violando
l'art. 28 del C.C.N.L. del comparto delle Regioni e delle Autonomie locali relativo al patrocinio legale dei
dipendenti della p.a., avrebbero intenzionalmente procurato ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale.
L'annotata sentenza, soffermandosi sul tema in esame, consente dunque di analizzare funditus i più recenti
orientamenti giurisprudenziali concernenti le conseguenze penalistiche della violazione dei C.C.N.L. relativi
al pubblico impiego.
2. I TEMI D'INDAGINE
Una corretta analisi di tale problematica richiede, a nostro avviso, la risposta a due quesiti.
Il primo concerne la definizione degli esatti confini di cosa debba intendersi per norma di legge. Ai fini della
configurabilità del delitto di abuso d'ufficio non è infatti sufficiente la violazione di una "norma" (intesa
generalmente come regola, comando, atto vincolante), ma è necessario che quella violata sia una norma di
legge (o di regolamento), ovvero un comando astratto, rivolto ad una generalità di destinatari e dotato di
determinati requisiti formali.
Ne deriva pertanto che la violazione di norme non riconducibili al rango di legge o di regolamento (ad es. le
norme contrattuali, vincolanti solo fra le parti stipulanti) non possa essere ritenuta, di per sé, idonea ad
integrare la «violazione di norme di legge o di regolamento» che - come sopra accennato - rappresenta il
presupposto necessario per la configurabilità dell'abuso d'ufficio.
Il secondo quesito attiene, invece, alla possibilità di ricondurre o meno le disposizioni contenute nei C.C.N.L.
inerenti al pubblico impiego fra le norme di legge o di regolamento.
Solo infatti nell'ipotesi in cui si concluda a favore della possibilità di ricomprendere le disposizioni contenute
in un C.C.N.L. fra le norme di legge potrà ritenersi sussistente il presupposto giuridico dell'abuso d'ufficio
nel caso di un'eventuale violazione della disciplina contenuta nel C.C.N.L.
Viceversa, laddove si ritenga, in linea con la sentenza commentata, che quanto previsto nel C.C.N.L. non
possa assurgere al rango di norma di legge, allora, pur in presenza di una violazione di tale disciplina
contrattuale, non potrà comunque ritenersi configurabile il presupposto giuridico del delitto di abuso della
«violazione di norme di legge» e, dunque, lo stesso reato di cui all'art. 323 c.p.
Tale ultima tematica appare inoltre di particolare pregio anche in considerazione del fatto che su questo
punto, che a nostro avviso avrebbe dovuto costituire il fulcro dell'intero ragionamento giuridico affrontato
dalla Corte, il supremo Collegio "glissa" in maniera forse un po' troppo tranciante, senza prendere atto
dell'esistenza di un vivace contrasto giurisprudenziale e dottrinale in merito alla natura del C.C.N.L. che,
invece, avrebbe richiesto qualche ulteriore riflessione da parte della suprema Corte.
3. IL CONCETTO DI NORMA DI LEGGE (CENNI)
Rimandando sin d'ora all'ampia ed esaustiva letteratura sui concetti di norma di legge e di violazione di
norma di legge richiamati dall'art. 323 c.p. (4), si cercherà qui di sintetizzare quali siano i tratti salienti del
concetto di "norma di legge", la cui comprensione costituisce un elemento fondamentale per meglio
comprendere non solo la natura del C.C.N.L. del settore pubblico, di cui si dirà più approfonditamente oltre,
ma anche (e forse soprattutto) gli eventuali elementi di distinzione fra la norma di legge e le disposizioni
contenute all'interno dei contratti collettivi.
Tradizionalmente, la giurisprudenza ha chiarito che la violazione di norma legge può integrare, insieme con
gli altri elementi richiesti dall'art. 323 c.p., il delitto di abuso di ufficio qualora sussistano due distinti
presupposti (5).
Il primo di essi è che la norma violata non sia genericamente strumentale alla regolarità dell'attività
amministrativa, ma vieti puntualmente il comportamento sostanziale del pubblico ufficiale o dell'incaricato
di un pubblico servizio.
Sarà dunque escluso il delitto di abuso d'ufficio allorché la condotta dell'agente risulti in contrasto con
norme aventi mero carattere procedurale, destinate a svolgere la loro funzione solo all'interno del
procedimento amministrativo (6).
Il secondo presupposto è identificato, invece, nella violazione, da parte del soggetto attivo, di leggi e
regolamenti che di questi atti abbiano i caratteri formali ed il regime giuridico, non essendo sufficiente un
qualunque contenuto materialmente normativo della disposizione trasgredita.
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Ne deriva, pertanto, che, come osservato da autorevole dottrina, per "legge", nell'accezione di cui all'art. 323
c.p., debba intendersi esclusivamente la legge in senso "formale" quale fonte di produzione, e più
precisamente la legge costituzionale, le leggi ordinarie e le leggi regionali (7).
Contro tale impostazione di tipo "formalistico", che tende a distinguere il concetto di "legge" da quello di
"norma" (concetti, per la verità, molte volte fungibili fra di loro), si registra un'interessante giurisprudenza
(di merito) propensa ad ampliare il concetto di legge, arrivando a sostenere che possa rientrare "nell'ampio
concetto di violazione di legge" non solo la legge formale ma anche qualunque altro atto normativo
riconducibile al concetto di legge in senso "materiale" (8).
Tale concezione, contrariamente alla prima, più che soffermarsi sull'aspetto "formalistico" del concetto di
legge, tende invece a ritenere prevalente quello che potremmo definire l'aspetto "sostanzialistico" del
concetto di legge: la generalità e l'astrattezza del precetto in essa contenuto.
Tuttavia, una risalente ma rigorosa giurisprudenza del supremo Collegio ha evidenziato che il tentativo di
qualificare un atto produttore di regole sulla base della sola natura di queste ultime può restare lontano dal
dare risultati sicuri.
In realtà, infatti, secondo la Corte, l'astrattezza e la generalità delle disposizioni contenute in un
provvedimento, pur essendo un indizio importante della forza di legge dell'atto, non rappresentano, di per
sé, un elemento decisivo.
Esistono infatti leggi che contengono meri provvedimenti ed esistono provvedimenti che contengono norme
astratte e generali (come, ad esempio, i piani regolatori generali) (9).
Rimane, pertanto, pur sempre l'esigenza di far riferimento anche (e forse soprattutto) ai dati formali.
Portando alle estreme conseguenze il suesposto orientamento, sarebbero dunque norme di legge solo quelle
contenute in atti che secondo l'ordinamento debbano essere definiti come tali.
Tale ragionamento, del resto, non stupisce in un ordinamento come il nostro in cui (contrariamente agli
ordinamenti anglosassoni) vige il principio di tipicità nella sua accezione più "rigida".
Inoltre, in linea con precedente dottrina, non può nascondersi che i problemi emersi in ordine all'esatta
definizione di cosa debba intendersi per "norma di legge" dipendano pure dal sempre mutevole rapporto fra
potere legislativo e potere esecutivo?(10).
In conclusione, tenuto conto anche di tale "imprevedibile rapporto", parrebbe opportuno non ancorare la
definizione del concetto di norma di legge, rilevante ai sensi dell'art. 323 c.p., ad aspetti esclusivamente
formali, sembrando, al contrario, maggiormente auspicabile la creazione di un sistema "misto", che prenda in
considerazione anche le caratteristiche sostanziali dell'atto violato.
In tal modo, conferendo al concetto di norma di legge un assetto meno statico e più dinamico, si
conseguirebbe infatti un duplice vantaggio.
Da un lato, si eviterebbe una rischiosa "cristallizzazione" del concetto in esame, con indiscutibili vantaggi
sotto il profilo della valutazione della reale portata offensiva della condotta posta in essere dall'agente. Si
eviterebbe difatti di considerare violazione di legge l'inosservanza di atti che, seppur formalmente dotati
delle forme della legge, viceversa, se valutati sul piano sostanziale (o materiale) non ne presentano alcuna
caratteristica. In altri termini, si ovvierebbe al pericolo di considerare violazione di legge comportamenti che,
pur violando una "Legge", in realtà non violano alcuna "legge".
Dall'altro lato, invece, una visione più dinamica del concetto di norma di legge, "alleggerendo" il legame fra
tale concetto ed i "sottili" equilibri sottesi al predetto rapporto fra potere legislativo e potere esecutivo,
consentirebbe di arrivare ad una definizione "meno aleatoria" di cosa debba nella sostanza intendersi per
norma di legge.
4. LA "CONTROVERSA" NATURA DEL C.C.N.L.
Chiarito cosa debba intendersi per norma di legge, rimane aperta la seconda delle due domande poste in
apertura: le disposizioni contenute all'interno di un C.C.N.L. concernente il pubblico impiego, debbono
ritenersi norme di legge (o comunque ad esse equiparabili) o, viceversa, non possono assolutamente essere
ricondotte in tale ambito?
Come premesso, infatti, la risposta a tale quesito appare, sul piano pratico, tutt'altro che irrilevante.
Qualora difatti si dovesse concludere a favore della prima tesi, per l'effetto, si dovrà ritenere che il C.C.N.L.,
in quanto norma di legge, ben possa rientrare nello specchio applicativo dell'art. 323 c.p. e che, dunque, una
violazione del C.C.N.L., ponendosi come una violazione di norma di legge, possa dar vita ad un'ipotesi di
abuso d'ufficio.
Al contrario, laddove si escluda che il C.C.N.L. abbia forza normativa, si dovrà conseguentemente ritenere
non configurabile il delitto di abuso d'ufficio nel caso di violazione del C.C.N.L.
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Lezione dell’8 marzo 2011: l’abuso di ufficio
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In tale ipotesi, infatti, mancherebbe il presupposto giuridico del reato di cui all'art. 323 c.p., rappresentato
dall'esistenza di una violazione di norme di legge.
Sul tema appena prospettato, pur registrandosi la prevalenza della tesi che tende ad escludere l'abuso
d'ufficio in presenza di una violazione del C.C.N.L., le posizioni dottrinali e giurisprudenziali appaiono
varie e tutte sostenute da argomenti, quantomeno prima facie, validi.
Se infatti, durante il periodo fascista, non vi erano dubbi circa la riconducibilità dei C.C.N.L. (c.d. contratti
"corporativi") fra le fonti di diritto in virtù dell'espresso richiamo di cui al n. 3 dell'art. 1 del codice civile, con
la caduta del sistema corporativo e con l'introduzione della contrattazione collettiva di diritto comune,
numerosi dubbi sono rimasti in ordine alla possibilità di continuare a ricomprendere fra le fonte di diritto le
disposizioni contenute nei C.C.N.L.
Ed invero, a favore della possibilità di ricondurre il C.C.N.L. tra le fonti di diritto sembrerebbero militare
diverse ragioni.
La prima prende le mosse dal dettato dal già citato d.lg. n. 29 del 1993, il quale all'art. 45 prevede, per un
verso, al V comma che "mediante contratti collettivi quadro possono essere disciplinate, in modo uniforme
per tutti i comparti e le aree di contrattazione collettiva, la durata dei contratti collettivi e specifiche materie";
per altro verso invece, al comma 9, che "le amministrazioni pubbliche osservano gli obblighi assunti con i
contratti collettivi di cui al presente articolo".
Ebbene, secondo un'isolata giurisprudenza di merito, sarebbero proprio tali previsioni legislative a
riconoscere al C.C.N.L. del settore pubblico valore di fonte giuridica primaria sin dalla sua sottoscrizione
definitiva (11).
In particolare, a detta di tale giurisprudenza, a suffragio del predetto orientamento deporrebbe anche la
sentenza n. 309 del 1997 della Corte costituzionale, nella quale la Consulta avrebbe chiarito che il contratto
collettivo assumerebbe forza normativa in base alla previsione legislativa di cui al comma 9 dell'art. 45 e che
le pubbliche amministrazioni avrebbero per questa ragione l'obbligo di osservarlo, per cui, in sostanza, le
pubbliche amministrazioni, qualora non dovessero dare seguito ai suoi contenuti precettivi, violerebbero la
legge (12).
Tuttavia, prendendo spunto da attenta dottrina, il riferimento alla citata sentenza della Corte costituzionale
appare non del tutto appropriato.
In tale pronunzia, difatti, la Corte costituzionale ebbe a stabilire che, se dal lato del datore di lavoro
effettivamente opererebbe il meccanismo previsto dall'art. 45, comma 9, del d.lg. n. 29 del 1993, dal lato del
lavoratore, invece, l'obbligo di conformarsi al contratto di settore deriverebbe pur sempre dalle pattuizioni
con le quali il datore di lavoro ed il singolo lavoratore concordano, in modo libero ed in piena autonomia, di
far proprio il contenuto del contratto collettivo (13).
Conseguenza di siffatta ricostruzione sarebbe dunque l'assoggettamento del settore pubblico alle generali
regole ermeneutiche previste dal codice civile dagli artt. 1362 e seguenti, utilizzate per l'interpretazione non
di atti normativi ma di atti di negoziazione, certamente non dotati dell'efficacia erga omnes, tipica, invece,
delle fonti di diritto oggettivo (14).
Contro la posizione tendente a ricondurre il C.C.N.L. del settore pubblico fra le fonti di diritto oggettivo
militerebbero inoltre, a nostro parere, ulteriori argomenti oltre a quelli illustrati nella sentenza in commento
ed in precedenza approfonditi.
In primis, giova sottolineare come il comma 5 dell'art. 45 del d.lg. n. 29 del 1993 si limiti esclusivamente a
contemplare un apposito sistema di contrattazione collettiva decentrata da adottarsi all'interno della p.a.,
senza nulla prevedere in merito al valore ed all'efficacia dei C.C.N.L.
Come visto, infatti, la norma non fa alcun riferimento diretto (né, per la verità, indiretto) alla portata ed al
valore delle disposizioni contenute all'interno del C.C.N.L.
In secundis, la previsione normativa della contrattazione collettiva, nazionale e decentrata, da adottarsi
nell'ambito della p.a., come in altri settori, non vale, di per sé, ad attribuire ad un accordo stipulato dai
soggetti interessati (parte pubblica e parte sindacale) il valore di fonte di diritto oggettivo.
Al contrario, l'accordo raggiunto è e resta fonte non di diritto oggettivo, bensì di diritti soggettivi ed obblighi
limitatamente alle parti che lo sottoscrivono (15).
A dimostrazione di ciò basti peraltro considerare quanto disposto dal legislatore al già citato comma 9
dell'art. 45, laddove è testualmente previsto che "le amministrazioni pubbliche osservano gli obblighi assunti
con i contratti collettivi di cui al presente articolo".
Ne deriva dunque che, in un quadro normativo dal quale sembrerebbe emergere il difetto di efficacia erga
omnes dei C.C.N.L., diventa assai arduo (se non addirittura impossibile) configurare il delitto di abuso
d'ufficio.
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Riepilogando, si potrebbe concludere sul punto sostenendo che è proprio la carenza del requisito della
generalità che, unitamente a quello dell'astrattezza, qualifica e distingue gli atti normativi da quelli di
negoziazione. Questa è una delle ragioni in forza delle quali non sembra possibile ricondurre il C.C.N.L.
concernente il pubblico impiego fra le fonti di diritto oggettivo (e, dunque, fra le norme di legge) (16).
Per l'effetto, la violazione del C.C.N.L., non integrando violazione di norma di legge, non potrà dar luogo al
reato di abuso d'ufficio.
Tutt'al più, secondo apprezzabile giurisprudenza di legittimità, la violazione del C.C.N.L. potrebbe dar vita
alla figura, tipica dei vizi dell'atto amministravo, dell'"eccesso di potere", patologia in presenza della quale secondo l'orientamento maggioritario - non sarebbe comunque ipotizzabile il delitto di abuso d'ufficio (17).
5. CONCLUSIONI
Quanto sinora osservato, unitamente ai già esposti argomenti individuati dalla sentenza in commento,
secondo cui l'impossibilità di ritenere che l'inosservanza del C.C.N.L. costituisca una violazione di legge
rappresenta una delle conseguenze dirette della c.d. "privatizzazione" del pubblico impiego (18), consente di
poter affermare che le disposizioni contenute all'interno di un C.C.N.L. del settore pubblico non possano
essere annoverate fra le norme di legge.
Appare dunque condivisibile il principio di diritto in forza del quale la mera inosservanza del C.C.N.L., non
costituendo violazione di norma di legge, non possa integrare gli estremi del delitto di abuso d'ufficio.
Posto, difatti, che il concetto di norma di legge al quale fa riferimento l'art. 323 c.p. richiede, fra l'altro, che
l'atto oggetto di violazione presenti il duplice connotato dell'astrattezza e della generalità della fonte e che invece - il C.C.N.L., per sua stessa natura, non dà luogo ad atti normativi ma ad atti di negoziazione privi di
efficacia generale e vincolanti solo per le parti stipulanti, sembra assai arduo attribuire al C.C.N.L. la valenza
di norma di legge.
Ciò anche in considerazione, per un verso, della ratio seguita dal legislatore di parificare sempre di più il
pubblico impiego a quello privato disciplinato da atti non aventi efficacia erga omnes, per altro verso, del
complesso impianto normativo dal quale, come visto, non emerge alcuna attribuzione di forza di legge in
favore dei contratti collettivi.
A nostro parere, tuttavia, tali conclusioni, seppur nella sostanza corrette, avrebbero forse richiesto un
maggiore sforzo argomentativo da parte della Corte, tenuto soprattutto conto del vivace dibattito
sviluppatosi in dottrina ed in giurisprudenza intorno alla "controversa" natura delle disposizioni contenute
nei CCNL concernenti il pubblico impiego.
(1) Sul tema si segnalano Sez. VI, 3 novembre 2005, S., in Dir. e giust., 2006, p. 109; Sez. VI, 16 dicembre 2002, S., in questa
rivista, 2003, p. 863; Sez. lav., 17 agosto 2000, Ferr. St. c/o Gentili, in Giust. civ. Mass., 2000, p. 1810; C. cost., 16 ottobre
1997, Snals c/o Pres. Cons., in Mass. giur. lav., 1998, p. 9. Vedasi, anche, Sez. VI, 17 ottobre 2007, C., in Foro it., 2008, c.
473. Fra la giurisprudenza di merito, App. Napoli, 8 giugno 2006, G.L., inedita; Trib. Caltanissetta, 2 marzo 2004, T., in
Foro it., 2005, II, c. 62.
(2) Sul punto, in particolare, App. Napoli, 8 giugno 2006, G.L., inedita.
(3) Sez. VI, 3 novembre 2005, S., in Dir. e giust., 2006, p. 109. In forza di tale ragionamento, la Corte, nell'occasione, ha
quindi ritenuto non condivisibili le conclusioni del giudice di merito, secondo il quale fosse proprio la previsione ex lege
della derogabilità del C.C.N.L. alle norme di legge o di regolamento a conferire al C.C.N.L. forza di legge. La previsione
della derogabilità del C.C.N.L. alla legge - a detta del giudice di merito - avrebbe infatti conferito al C.C.N.L. un rango di
pari dignità rispetto a quello di una fonte legislativa ordinaria.
(4) Sul tema, in dottrina, si segnalano, in particolare D'AVIRRO, L'abuso d'ufficio, Giuffré, 1997, p. 51 ss.;
GAMBARDELLA, Considerazioni sulla "violazione di legge" nel nuovo delitto di abuso d'ufficio, in questa rivista, 1998,
p. 2335 ss.; GAMBARDELLA, Abuso d'ufficio e concessione edilizia illegittima: il problema delle norme di legge a
precetto generico o incompleto, in questa rivista, 2000, p. 350 ss.; MANES, Abuso d'ufficio, violazione di legge ed eccesso
di potere, in Foro it., 1998, II, c. 390 ss.; PAGLIARO, Principi di diritto penale, Giuffré, 1998, p. 239 ss.; SANTANGELO,
L'abuso d'ufficio, in Giur. merito, 2003, p. 1021 ss.
(5) Sez. II, 4 dicembre 1997, Toshes, in questa rivista, 1998, p. 2332, con nota di GAMBARDELLA. Sul tema, in dottrina,
anche LA GRECA, La nuova figura di abuso d'ufficio: questioni applicative, in Foro it., 1998, II, c. 381 ss.; MANES,
Abuso d'ufficio, violazione di legge ed eccesso di potere, ivi, 1998, II, c. 390 ss.
(6) Sez. VI, 28 aprile 1999, Nacci, in questa rivista, 2000, p. 2241; Sez. VI, 1° marzo 1999, Scarsi, in questa rivista, 2000, p.
867. Ancora, di recente, Sez. VI, 7 aprile 2005, F.L., ivi, 2007, p. 178.
(7) BARILE, CHELI, GRASSI, Istituzioni di diritto pubblico, Cedam, 1955, p. 5.
(8) Trib. Milano, 21 ottobre 1998, Scuderi, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2000, p. 789, con nota di MAZZINI.
(9) Sez. VI, 2 ottobre 1998, Tilesi, in questa rivista, 1999, p. 2114.
(10) TANDA, Abuso d'ufficio: eccesso di potere e violazione di legge o regolamento, in questa rivista, 1999, p. 2128.
Secondo l'Autore basti infatti pensare al caso dei decreti legge e dei decreti legislativi, per la cui emanazione il Governo,
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al quale il potere legislativo è di norma alieno, necessita di una doppia approvazione da parte del Parlamento, unico
vero titolare del potere legislativo, affinché - in tal modo - si possa sanare la frattura che la procedura di approvazione
dei decreti legge e dei decreti legislativi apportano alla "normale" ripartizione delle funzioni dello Stato.
(11) Trib. Caltanissetta, 2 marzo 2004, T., in Foro it., 2005, II, c. 62.
(12) C. cost., 16 ottobre 1997, Snals c/o Pres. Cons., in Lav. nelle p.a., 1998, p. 131.
(13) VIDIRI, L'interpretazione del contratto collettivo nel settore privato e nel settore pubblico, in Riv. it. dir. lav., 2003, p.
81 ss.
(14) A favore della natura "privatistica" del C.C.N.L. del settore pubblico e della sua riconducibilità fra i C.C.N.L. di
diritto comune si segnala, in dottrina, VALLEBONA, Le questioni di interpretazione, validità ed efficacia dei contratti
collettivi nazionali del settore pubblico, in Giur. cost., 1998, p. 257. In particolare, tale autorevole dottrina esclude che i
C.C.N.L. del settore pubblico possano essere considerati fonte di diritto oggettivo in quanto rimangono, per il loro
meccanismo di formazione, contratti privatistici. Nello stesso senso, anche, VACCARELLA, Appunti sul contenzioso del
lavoro dopo la privatizzazione del pubblico impiego e sull'arbitrato in materia di lavoro, in Annuario, in Dir. lav., 1998,
p. 715.
(15) Nello stesso senso, App. Napoli, 8 giugno 2006, G.L., inedita.
(16) Si segnala Sez. lav., 17 agosto 2000, Ferr. St. c/o Gentili, in Giust. civ. Mass., 2000, p. 1810.
(17) Sez. VI, 16 dicembre 2002, S., in questa rivista, 2004, p. 863. In particolare, la Corte, in applicazione del predetto
principio, ha ritenuto insussistente l'ipotesi delittuosa a carico del capo di un ente pubblico economico il quale, non
potendo stipulare contratti di lavoro a tempo indeterminato, si era avvalso dei rinnovi di contratti di lavoro a tempo
determinato, condotta sintomatica rilevante solo sotto il profilo amministrativistico. Contra, Trib. Napoli, 24 settembre
1997, Federico, ivi, 1998, p. 1242. In dottrina, PAGLIARO, L'antico problema dei confini fra eccesso di potere ed abuso
d'ufficio, in Dir. pen. proc., 1999, p. 108 ss. In generale, sul tema, Gambardella, Considerazioni sulla "violazione di norme
di legge" nel nuovo delitto di abuso d'ufficio, in questa rivista, 1998, p. 2341 ss.; TANDA, Abuso d'ufficio: eccesso di
potere e violazione di legge o regolamento, ivi, 1999, p. 2119.
(18) Sul punto si rinvia al paragrafo sub 1.
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7
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE - SEZIONE SESTA PENALE – 24 APRILE 2008, n. 27936
FATTO E DIRITTO
Va preliminarmente osservato, ai fini di una corretta comprensione dei termini della vicenda, che nei capi di
imputazione per cui vi è stata duplice conforme affermazione di responsabilità (capo a.esclusi i fatti del 1995
e capo b la violazione dell'art. 323 c.p.:
- non è stata fatta derivare dalla mera violazione delle norme di cui al D.M. 31 marzo 1994, come sostituito
dal D.M. 28 dicembre 2000 (Codice di comportamento dei dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni), ed
in particolare dalla specifica e reale inottemperanza ai principi di imparzialità e indipendenza, nonchè alla
regola dell'obbligo dell'astensione, così come fissati dai disposti del D.M. 28 dicembre 2000, artt. 2 e 6;
- ma è stata fondata pure sull'inottemperanza al dovere di astensione, il quale si imponeva - a giudizio della
Corte toscana - anche e indipendentemente da norme specifiche che (come quelle citate) prevedessero tale
obbligo di astensione, ogniqualvolta si potesse profilare in concreto un conflitto patente tra interessi pubblici
e privati.
In buona sostanza, per i giudici di merito, l'interesse privato del Dr. S. è entrato in stridente conflitto con
quello pubblico "atteso che, quand'anche le attrezzature del presidio ospedaliero di Nottola non avessero
consentito l'esecuzione dell'esame del fondo dell'occhio, nulla autorizzava il ricorrente ad indirizzare i
pazienti al suo studio privato (pag.10 sentenza Corte di appello), con ciò perseguendo e lucrando
intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale, rappresentato dalle somme versategli dai clienti,
visitati nel suo studio privato.
Con un primo motivo di impugnazione la ricorrente difesa deduce la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1,
lettera b) per inosservanza o erronea applicazione della legge penale, con riferimento all'art. 323 c.p. (abuso
d'ufficio), art. 357 c.p. (nozione di pubblico ufficiale), art. 358 c.p. (nozione di persona incaricata di pubblico
servizio), trattandosi di fatti avvenuti nell'ordinaria gestione del suo rapporto di lavoro con l'azienda
sanitaria.
L'errore in diritto, che si censura nella motivazione dei giudici di merito, sarebbe consistito nell'affermazione
che il dr. S., invitando alcuni dei pazienti - che aveva visitato presso la struttura pubblica- a recarsi nel suo
laboratorio privato, avrebbe in tal modo formato e manifestato, sia pure deviandola, la volontà della
Pubblica Amministrazione in materia di pubblica assistenza sanitaria, nei confronti dei pazienti stessi.
Secondo la tesi del ricorrente, l'indicazione del proprio laboratorio privato, quale sede di successivi
approfondimenti diagnostici (non realizzabili in quella struttura pubblica per assenza dei corrispondenti
strumenti sanitari), proprio perché manifestata a prestazione pubblicistica esaurita, rientrerebbe "pieno jure"
nelle legittime facoltà del medico dipendente dell'AUSL. Né sotto tale profilo soccorrerebbe il Codice di
comportamento dei dipendenti pubblici, in punto di violazione dell'obbligo di astensione, dato che tale
codice, secondo la migliore dottrina, non concretizza un regolamento pubblicistico. Da ciò la ricorrenza di
una condotta che ha semmai violato disposizioni di diritto privato, nell'ambito di un rapporto di lavoro
pacificamente disciplinato dal diritto privato stesso.
Con un secondo motivo di impugnazione la ricorrente difesa deduce la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma
1 lettera b) per inosservanza o erronea applicazione degli artt. 323 c.p., D.Lgs. n. 509 del 1992, 15 quater,
quinquies e sexies come modificati dal D.Lgs. n. 229 del 1999 e D.Lgs. n. 254 del 2000, per ciò che attiene alla
pretesa violazione del dovere di astensione. Ribadisce sul punto il ricorso che, essendo stata la condotta
contestata al S., realizzata dopo il compimento dell'atto d'ufficio, più che di "dovere di astensione", si versa
in ipotesi di "conflitto di interessi sorto nell'esercizio dell'attività lavorativa" che è realtà concettualmente ed
ontologicamente diversa dal dovere di astensione e comunque estranea alla fattispecie tipica dell'art. 323
c.p., il tutto considerando:
a) che l'imputato non ha deviato i pazienti dalla struttura pubblica alla privata con ciò omettendo
dolosamente atti del proprio ufficio;
b) che l'imputato era autorizzato ad esercitare l'attività professionale privata extramuraria in due ambulatori,
uno dei quali nel territorio della ASL n. (OMISSIS) dal quale egli dipendeva;
c) che il legislatore ha previsto siffatto conflitto di interessi stabilendo all'art. 15 sexies che le ASL stabiliscono
sia i volumi che le tipologie di attività che i singoli dirigenti sono tenuti ad assicurare, nonchè le sedi
operative in cui le stesse devono essere effettuate;
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d) che pertanto in tale contesto non ha più rilievo il connotato della "esclusività" e rimane attenuato quello
della "fedeltà, non- concorrenza".
Il non aver tenuto conto di tali coordinate avrebbe quindi determinato un'apodittica ed immotivata
asserzione di violazione del dovere di astensione.
I due motivi, naturalmente collegati, appaiono entrambi del tutto infondati.
Va ricordato infatti che, nel testo del novellato art. 323 c.p., l'abuso è fattispecie criminosa di evento, essendo
necessario che la condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio (concretantesi in
violazione di legge o di regolamenti, ovvero nell'omissione del dovere di astensione) provochi, secondo
l'intenzione dell'agente, un danno ingiusto ad altri, oppure un vantaggio ingiusto necessariamente
patrimoniale al soggetto pubblico o ad altri (Cass. Penale sez. sez. 6, U.P. 25.3.98 Urso): la nuova
formulazione della norma incriminatrice ha infatti trasformato il delitto, da reato di mera azione, in reato di
azione e di evento (Cass. Penale sez. sez. 6, U.P. 27.4.98 P.G. e Celico).
Inoltre, la locuzione "nello svolgimento della funzione o del servizio", mentre elimina alcune incertezze e
ambiguità proprie della precedente formulazione, risulta tale da includere tutte le condotte che siano
comunque espressione dell'attività pubblica affidata all'agente (Cass. Penale sez. 6, U.P. 7.4.98 Caporale).
Orbene, sostiene il ricorso, che il dr. S., nell'ambito della sua attività di lavoro e fuori di ogni esercizio di
potestà pubbliche, quando la prestazione istituzionale era stata ultimata, ha sì dato indicazioni ai pazienti
(circa la praticabilità dell'approfondimento diagnostico nel suo laboratorio privato), ma tali "indicazioni"
"costituirebbero manifestazioni di volontà privata che, inserendosi nell'ordinaria attività di lavoro, con mero
rapporto di occasionante, apparterrebbero all'ambito del rapporto di lavoro - di diritto privato e comune quale novellato dal D.Lgs. n. 29 del 1993 e successive modifiche".
L'assunto non è convincente ed è contrario ad una corretta percezione e collocazione dogmatica, ai fini
penalistici, del rapporto medico-paziente, nonchè dello sviluppo dinamico di detta relazione "asimmetrica",
notoriamente connotata da una posizione psicologicamente dominante del sanitario.
Invero, l'accettazione del paziente in una struttura deputata a fornire assistenza sanitario-ospedaliera, ai fini
del ricovero, oppure, come nella specie, per una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un
contratto di prestazione d'opera atipico di spedalità, in base al quale la struttura pubblica, tramite i suoi
organi, è tenuta ad una prestazione complessa, la quale:
a) non si esaurisce nella effettuazione delle cure mediche e di quelle chirurgiche (generali e specialistiche) già
prescritte dalla L. n. 132 del 1968, art. 2;
b) ma si estende ad una serie di altre prestazioni, quali la messa a disposizione di personale medico
ausiliario e di personale paramedico, di medicinali, e di tutte le attrezzature tecniche necessarie, nonchè di
quelle "lato sensu" alberghiere (cfr. in termini: Cassazione Civile, Sez. 3, Sentenza n. 8826 del 13/04/2007 Rv.
599205, Presidente: Vittoria P. Estensore: Scarano).
In tale quadro, di "contratto di prestazione d'opera atipico di spedalità", "la visita ambulatoriale", nella
struttura pubblica di assistenza sanitario-ospedaliera, va rettamente intesa come condotta che esprime
l'attività pubblica affidata al sanitario, e che non si esaurisce con il mero accertamento diagnostico e/o
strumentale del medico, accompagnato dalla comunicazione dei risultati e la programmazione dell'eventuale
intervento terapeutico.
La condotta di rilievo pubblico, infatti, sì estende, di necessità, alla fase del "dopo visita" nella misura in cui come nell'odierna vicenda - con tale fase successiva, che può comportare calendarizzazione di nuove visite o
di altri e diversi accertamenti di verifica e di controllo della stessa diagnosi, o di monitoraggio dell'efficacia
dei rimedi apprestati:
a) si porta a completamento il programma di diagnosi-cura del paziente stesso originato dall'esame clinico,
la definizione della patologia e del suo grado;
b) se ne verifica l'efficacia, o se ne correggono le linee, in funzione della risposta individuale;
c) si danno sul punto le opportune indicazioni (ad es.
approfondimenti tecnico-strumentali, come nella fattispecie) che vengono a saldarsi inscindibilmente, senza
fratture logiche o pragmatiche, con la visita medica stessa.
Quindi, "il cosa fare ancora, dopo la visita" non può essere estraneo alla nozione stessa "visita", la quale
appunto non si conclude affatto con la definizione formale dell'esame clinico in ospedale, ma si accompagna
a tutto ciò che si possa rendere ulteriormente necessario, come già detto, in funzione dell'utile perfezione
dell'atto medico (nella specie l'esame del fondo oculare), della conferma della diagnosi-terapia, nonchè della
garanzia del suo buon esito.
Il dopo-visita, in tale contesto, costituisce pertanto un "unicum" e non frammentabile segmento dell'operare
del medico, preposto al pubblico servizio sanitario.
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Da ciò consegue che la prestazione pubblicistica del dr. S., quale organo medico dell'Asl (OMISSIS), non si
era per nulla esaurita nel momento in cui egli invitava i pazienti (che visitava presso il Presidio Ospedaliero
di Nottola) nel suo ambulatorio privato di (OMISSIS), per l'esame - non potuto eseguire in quella struttura
del "fondo oculare", essendo egli nel pieno svolgimento delle sue funzioni, quali disciplinate da norme di
diritto pubblico.
Va quindi ribadito il principio, in linea con la giurisprudenza di questa Sezione, che la condotta del medico
specialista di una struttura pubblica, il quale per conseguire un vantaggio patrimoniale, in violazione del
dovere di astensione di cui al D.M. 31 marzo 1994, art. 6, indirizzi un paziente verso il laboratorio di cui egli
sia socio, per l'espletamento di un esame che si sarebbe potuto eseguire anche presso una struttura pubblica
della stessa città, integra il delitto di abuso di ufficio (Sez. 6, 240666/2001 Rv. 219578, Caminati; conformi: N.
3391 del 1996 Rv. 204495, N. 6839 del 1999 Rv. 214310, N. 11831 del 1999 Rv. 214554).
Nè nella specie può sostenersi che, essendo il Presidio di Nottola privo della strumentazione specifica per
svolgere l'esame del fondo oculare, il S. era autorizzato ad inviare i pazienti nel suo ambulatorio, posto che il
medesimo identico esame ben poteva essere espletato nei contigui presidi ospedalieri della stessa ASL
(OMISSIS), ben noti al ricorrente, e raggiungibili senza particolari disagi dai pazienti, attesa la prossimità
territoriale.
In tale contesto operativo, appare del tutto irrilevante, ai fini della sussistenza del delitto de quo, la
circostanza che l'imputato fosse autorizzato ad esercitare attività professionale privata extramuraria in due
ambulatori, uno dei quali sito nel territorio della Ausl (OMISSIS), tenuto conto che tale "licenza" non lo
esimeva affatto dall'assicurare sempre l'interesse della Pubblica Amministrazione dalla quale dipendeva (cfr.
su tale principio: Cass. Penale sez. 5, 3704/1999, Rv. 213027 imputato Sanna).
La prospettata attenuazione dell'obbligo di "fedeltà" e di "non concorrenza" non può essere infatti
paradossalmente dilatata sino a comprendere l'intenzionale e provocato sviamento dei pazienti (in
violazione dell'obbligo di astensione), i quali invece, in un auspicabile e nella specie non realizzato quadro di
ricercata liceità, dovevano essere "inviati" in uno dei vicini Presidi ospedalieri, dotati appunto dello
strumento ritenuto dal dr. S. funzionale per il completamento dell'intervento diagnostico- terapeutico di
competenza…
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna altresì il ricorrente
a rimborsare alla parte civile A.U.S.L. n. (OMISSIS) di Siena le spese del grado che liquida in complessivi
Euro 2.497,50 oltre I.V.A. e C.P.A.
Così deciso in Roma, il 24 aprile 2008. Depositato in Cancelleria il 8 luglio 2008
I CONSIGLI INTERESSATI DEL MEDICO PUBBLICO SUBITO DOPO UNA VISITA OSPEDALIERA
Mario De Bellis - in Cassazione penale, 2009, 03, 1019.
Sommario: 1. I termini della questione. - 2. La fine della visita non segna la fine dello svolgimento della
funzione pubblica. - 3. La doppia ingiustizia dell'abuso d'ufficio.
1. I TERMINI DELLA QUESTIONE
Con la sentenza che si commenta (Sez. VI, 24 aprile 2008, Simone), la Cassazione affronta la questione della
illiceità del dirottamento di pazienti da struttura medica pubblica a struttura privata e della configurabilità
del reato di abuso d'ufficio (1).
È orientamento giurisprudenziale consolidato che tale condotta integri il reato di cui all'art. 323 c.p. (2).
Antecedentemente alla riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione operata dalla l. 26 aprile 1990
n.86, la condotta era altrettanto pacificamente ricondotta alla fattispecie dell'interesse privato in atti d'ufficio,
di cui all'art. 324 c.p. (3).
La sentenza in esame si caratterizza tuttavia per l'innovatività degli argomenti affrontati su sollecitazione
dell'imputato ricorrente.
In sostanza la suprema Corte ha affermato essere irrilevante che:
- il consiglio di recarsi presso struttura privata sia stato dato dopo la fine della visita, non venendo meno
l'esercizio della funzione pubblica con la mera comunicazione dell'esito del singolo esame diagnostico;
- il medico fosse autorizzato allo svolgimento di attività libero professionale cosiddetta extra moenia;
- gli ulteriori accertamenti non fossero espletabili nella stessa struttura dove si era svolta la visita, potendo
però essere svolti (oltre che presso lo studio privato dell'imputato) in altro presidio della stessa A.S.L.
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La Cassazione ha inoltre agganciato la consumazione del reato al fatto che i pazienti avessero dovuto pagare
nella struttura privata ove erano stati dirottati somme maggiori di quelle che avrebbero pagato presso la
A.S.L.
2. LA FINE DELLA VISITA NON SEGNA LA FINE DELLO SVOLGIMENTO DELLA FUNZIONE
PUBBLICA
La difesa dell'imputato aveva dunque sostenuto che la singola visita medica finisce nel momento in cui viene
comunicato al paziente l'esito dell'accertamento compiuto. Dopo tale momento il medico cesserebbe di
svolgere una funzione pubblica e sarebbe penalmente irrilevante il fatto che lo stesso consigli al paziente di
recarsi presso il suo studio per ulteriori approfondimenti diagnostici.
L'argomento appare ictu oculi insostenibile, ma la suprema Corte ha compiuto un apprezzabile sforzo
interpretativo per dare una risposta giuridicamente esauriente al rigetto della tesi difensiva.
Ci si è così ricollegati all'inquadramento civilistico della fattispecie (l'accettazione del paziente in una
struttura deputata a fornire assistenza sanitario-ospedaliera, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale,
comporta la conclusione di un contratto di prestazione d'opera atipico di spedalità, in base alla quale la
stessa è tenuta ad una prestazione complessa, che non si esaurisce nella effettuazione delle cure mediche e di
quelle chirurgiche - generali e specialistiche - già prescritte dall'art. 2 legge n. 132 del 1968, ma si estende ad
una serie di altre prestazioni, quali la messa a disposizione di personale medico ausiliario e di personale
paramedico, di medicinali, e di tutte le attrezzature tecniche necessarie, nonché di quelle lato sensu
alberghiere) (4).
Da tale qualificazione (che nella giurisprudenza civile valeva a dire il vero soprattutto a segnare i profili
della concorrente responsabilità del singolo medico e della struttura pubblica) la sentenza in esame trae la
conseguenza che, una volta che un paziente si sia affidato alla struttura pubblica per effettuazione di un
esame diagnostico, il rapporto contrattuale così instauratosi non cessa con l'espletamento dell'esame stesso,
in quanto la struttura pubblica si deve fare carico della programmazione ed effettuazione di tutti gli ulteriori
accertamenti e cure conseguentemente necessari.
Si tratta di un'affermazione del tutto condivisibile, che ha il pregio di dare veste giuridica ad una evidenza di
fatto.
3. LA DOPPIA INGIUSTIZIA DELL'ABUSO D'UFFICIO
Altra innovativa affermazione presente nell'esposizione argomentativa della sentenza che si annota (rispetto
alle precedenti sentenze che comunque qualificavano come abuso d'ufficio la condotta del medico pubblico
che dirottava pazienti verso strutture private) è l'osservazione che, ai fini della ravvisabilità del delitto di
abuso d'ufficio, occorre non solo che il pubblico ufficiale abbia posto in essere una condotta illegittima, ma
anche che il danno o vantaggio causati siano suscettibili di essere valutati come ingiusti in sé, ovvero non
semplicemente come frutto della attività illegittima, ma in quanto non dovuti in base al diritto oggettivo
regolante la materia.
Detto in altri termini: il pubblico ufficiale che dirotta pazienti presso il proprio ambulatorio privato compie
un'attività illegittima, ma questo non basta per dire che sussiste il reato di abuso d'ufficio; occorre verificare
che si sia verificato anche un vantaggio od un danno ingiusti in sé.
La necessità di un approfondimento della questione nasce dal fatto che l'imputato era autorizzato a svolgere
anche attività libero professionale (c.d. extra moenia), e dunque si potrebbe anche ipotizzare che quanto
ricavato a fronte di una attività in sé legittima non costituisca un vantaggio ingiusto.
Il requisito dell'ingiustizia è stato introdotto nella formulazione della norma dell'art. 323 c.p. frutto della l. 26
aprile 1990 n. 86, ove qualificava la fattispecie in termini di dolo specifico ("al fine di procurare a sé o ad altri
un ingiusto vantaggio ...") anche se in dottrina e giurisprudenza si era già in precedenza sostenuto che tale
requisito fosse implicitamente contenuto nella fattispecie.
L'elemento dell'ingiustizia del vantaggio viene poi ribadito nella formulazione dell'art. 323 c.p. conseguente
alla l. 16 luglio 1997, n. 234, che ha trasferito tale requisito dall'elemento soggettivo all'elemento oggettivo,
nella sfera dell'evento.
In dottrina si è sostenuto da parte di autorevoli autori (5) che quando l'atto posto in essere dal pubblico
ufficiale risulta illegittimo, il profitto o il danno che ne conseguono non possono che essere ingiusti, e
dunque il requisito dell'ingiustizia è, nella formulazione normativa, meramente pleonastico. Si parla a tale
proposito di una c.d. illiceità espressa.
Altra parte della dottrina (6) ritiene che se il legislatore ha usato il termine "ingiustizia", a tale termine si
deve dare autonoma rilevanza rispetto alla illegittimità (per violazione di norme di legge o di regolamento)
della condotta del pubblico ufficiale, per evitare una interpretatio abrogans. Alla tesi dell'illiceità espressa si
contrappone pertanto quella della illiceità speciale (caratteristica di quei casi nei quali un dato elemento della
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fattispecie si realizza se ed in quanto via sia un contrasto con una norma extrapenale cui fa rinvio la norma
incriminatrice). Si dice infatti, con ciò mediando elaborazioni civilistiche, che il danno o vantaggio causati
con la condotta di cui all'art. 323 c.p. per essere ingiusti devono essere prodotti non iure ed essere anche
contra ius; la illegittimità della condotta qualifica la stessa come non iure data, il danno od il vantaggio
devono essere contra ius, nel senso che se ne deve autonomamente valutare, con riferimento al risultato
ottenuto in sé, l'ingiustizia. Si esemplifica avendo a mente fattispecie nelle quali a fronte di una condotta
illegittima, non si ravvisa un'ingiustizia del profitto, come nel caso del sindaco che rilasci una concessione
edilizia senza aver acquisito il parere della commissione edilizia, in favore di un soggetto che ne aveva
comunque diritto. Si possono d'altronde ipotizzare anche casi di condotte legittime che producono vantaggi
ingiusti. Ne consegue la necessità di effettuare due distinte valutazioni, la prima sulla abusività-illegittimità
della condotta, per contrasto con norme di legge o regolamento, la seconda sull'ingiustizia del danno. È
proprio su questi presupposti che la giurisprudenza ha elaborato il requisito della "doppia ingiustizia"
dell'abuso d'ufficio (ingiusta deve essere la condotta, ingiusto deve essere l'evento di vantaggio patrimoniale
che ne consegue).
Se dunque in alcune risalenti sentenze (7) si era detto che era sufficiente che il vantaggio non fosse dovuto
(iniuste datum), non richiedendosi che fosse anche turpiter datum, le sentenze successive (8) si consolidano
sull'affermazione della necessità della "doppia ingiustizia". Nel ragionamento giurisprudenziale si determina
una restrizione dell'area tutelata dall'illecito penale, non risultando puniti gli abusi finalizzati a procurare un
vantaggio lecito.
Si è pertanto affermato in dottrina (9) che l'ingiustizia dell'evento rappresenta la nota di disvalore che
differenzia ciò che è penalmente rilevante dal mero illecito amministrativo: verificata la violazione di norme
di legge o regolamento, è proprio l'ingiustizia del risultato ad attribuire rilevanza penale alla condotta.
Ulteriore passo ermeneutico richiede l'accertamento di cosa sia l'ingiustizia del profitto conseguito. È
maturata sul punto un'interpretazione che tende a dare all'ingiustizia un significato diverso dalla mera
violazione di norme dell'ordinamento giuridico. Infatti, se per l'ingiustizia della condotta, la norma dell'art.
323 c.p. specifica chiaramente che la stessa si risolve nella violazione di leggi o regolamenti, per l'ingiustizia
dell'evento, la norma parla di un'ingiustizia tout court, senza delimitazioni.
Si è conseguentemente ritenuto che siano ingiusti profitti o danni che contrastano (non tanto con singole
norme di legge quanto) con i principi generali dell'ordinamento o con norme di carattere generale che
stabiliscono principi di carattere sostanziale. Tali possono essere anche principi costituzionali, quali quelli
enunciati dall'art. 97 Cost.
Non si può tuttavia arrivare a ravvisare l'ingiustizia secondo canoni di mera coscienza sociale, valutazioni
politiche o personali, né ricercare una antigiuridicità materiale (10).
Per una più restrittiva interpretazione, si veda invece altra sentenza (11), secondo la quale deve considerarsi
ingiusto il vantaggio che non abbia fondamento in un corrispondente diritto sostanziale.
Secondo certa dottrina (12) il requisito dell'ingiustizia varrebbe a garantire l'irrilevanza penale della condotta
illegittima del pubblico ufficiale che abbia agito nell'esclusivo interesse della pubblica amministrazione.
In questo senso altra dottrina (13) ha ritenuto che il requisito dell'ingiustizia permetta di valutare
correttamente la rilevanza penale della condotta di chi agisca per la tutela di "interessi zonali" (di una zona
geografica, di un ceto sociale, di una categoria professionale ...) e dunque operi come parametro di
valutazione del rapporto fra l'interesse del gruppo e quello generale dell'intera collettività. Si noti però che
l'ipotesi dell'atto illegittimo del pubblico ufficiale, concretante abuso d'ufficio, che comporti per un terzo
privato l'ingiusto vantaggio correlato allo svolgimento di una attività (che altrimenti lo stesso non avrebbe
potuto svolgere) non trova soluzioni pacifiche in giurisprudenza.
La Cassazione ha recentemente dato interpretazioni opposte della questione con riferimento a casi simili a
quello in esame, nei quali cioè, pur a seguito di attività illegittima, veniva comunque posta in essere una
prestazione suscettibile di corrispettivo.
In un caso (14) si è affermato che il vantaggio ingiusto sta nel conseguimento del diritto alla retribuzione per
l'opera prestata, indipendentemente dal pregio e dall'effettività della prestazione.
In un altro caso (15) si è al contrario affermato che non vi è ingiusto vantaggio nel guadagno del privato, se
costituisce giusto corrispettivo di attività effettivamente espletata.
Nella sentenza in esame si sceglie una terza via, più articolata: l'ingiustizia del vantaggio percepito
dall'imputato e del correlativo danno per i pazienti viene agganciata al fatto che i pazienti, se avesse
effettuato l'esame presso la struttura pubblica, avrebbero pagato di meno di quanto hanno effettivamente
pagato all'imputato rivolgendosi a lui privatamente (rectius in regime di convenzione con la A.S.L.).
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A parere di chi scrive, trattasi di soluzione del tutto accettabile e che trova un corretto punto di equilibrio fra
le tesi contrapposte.
(1) Sull'abuso d'ufficio, in generale, v. i richiami di dottrina riportati nella nota 2 della decisione sub n. 278.
(2) Sez. VI, 8 febbraio 2007, Trua, in C.E.D. Cass., n. 236833; Sez. VI, 9 aprile 2001, Caminati, ivi, n. 219578; Sez. V, 12
febbraio 1999, Sanna, ivi, n. 213027.
(3) Sez. VI, 20 gennaio 1989, Mariani, in C.E.D. Cass., n. 181172; Sez. VI, 28 maggio 1973, Fois, ivi, n. 125508.
(4) Così Sez. III civ., 13 aprile 2007, in Responsabilità civile e previdenza, 2007, p. 1824, con nota di GORGONI, Le
conseguenze di un intervento chirurgico rivelatosi inutile, citata nella sentenza in esame; ma già prima Sez. un. civ., 1°
luglio 2002, in Foro it., 2002, c. 3060, con nota di PALMIERI, Risarcimento del danno morale per la compromissione di un
incenso legame affettivo con la vittima di lesioni personali.
(5) PADOVANI, L'abuso d'ufficio ed il sindacato del giudice penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1989, p. 76 ss.;
FIANDACA, Questioni di diritto transitorio, in seguito alla riforma dei reati di interesse privato e abuso innominato
d'ufficio, in Foro it., 1990, II, c. 642; RAMPIONI, L'abuso d'ufficio, in Reati contro la Pubblica Amministrazione, a cura di
Coppi, Utet, 1993, p. 122.
(6) BENUSSI, I delitti, cit., p. 609 ss.; M. ROMANO, I delitti contro la Pubblica Amministrazione,cit., p. 270; PAGLIARO,
Principi di diritto penale, Parte Speciale, Delitti contro la Pubblica Amministrazione, Giuffrè, 2000, p. 238 ss.; SEGRETODE LUCA, Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Giuffrè, 1999, p. 534 ss.
(7) Ad esempio Sez. VI, 9 luglio 1993, n. 6871, Morello, in Giust. pen., 1994, II, c. 257.
(8) Si vedano ad esempio Sez. VI, 19 dicembre 1994, Medea, in questa rivista, 1996, p. 1776; Sez. VI, 14 dicembre 1995,
Marini, in Riv. pen., 1996, p. 979.
(9) BENUSSI, I delitti, cit. p. 610.
(10) Così Sez. VI, 7 marzo 1995, n. 4183, Bussolati, in Riv. pen., 1995, p. 1452.
(11) Sez. VI, 13 maggio 1996 n. 6047, Tuozzi, in Giust. pen., 1997, II, c. 235.
(12) D'AVIRRO, L'abuso d'ufficio - La legge di riforma 16 luglio 1997 n. 234, Giuffrè, 1997, vol. II., p. 105.
(13) PAGLIARO, Principi, cit., p. 240
(14) Sez. VI, 7 aprile 2005, n. 18149, Fabbri, in www.italgiure.giustizia.it.
(15) Sez. VI, 5 maggio 2005, Granella, in www.italgiure.giustizia.it.
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8
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE - SEZIONE SESTA PENALE – 23 FEBBRAIO 2010, n. 21357
FATTO E DIRITTO
Con la sentenza di cui in epigrafe il Tribunale di Torino assolveva per insussistenza del fatto C.S., medico
specialista presso la ASL (OMISSIS) di Chivasso, da due reati (commessi, rispettivamente, il 03.12.2004 e il
28.01.2005) di cui agli artt. 56 e 323 c.p., consistiti:
A)- nell'avere, omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio in violazione del D.M. 31 marzo
1994, art. 6, indirizzato, dopo la visita presso la struttura pubblica, la paziente G. A. (senza peraltro ottenere
il risultato per il comportamento negativo della stessa) verso il proprio studio medico privato in (OMISSIS),
prospettandole di potere in tal modo abbreviare, rispetto alla struttura pubblica, i tempi di attesa necessari
per effettuare gli accertamenti;
B)- nell'avere, nella qualità di sanitario presso la ASL (OMISSIS), nello svolgimento delle funzioni, visitando
presso l'ambulatorio specialistico di (OMISSIS) la signora G.R., rappresentato alla stessa che i tempi tecnici
richiesti dalla struttura pubblica erano decisamente lunghi, mentre erano pressochè nulli all'interno del
proprio laboratorio privato, così compiendo atti idonei diretti univocamente a procurarsi un ingiusto
vantaggio patrimoniale, non riuscendo nell'intento per il rifiuto della paziente.
Secondo il Giudice di merito, il comportamento dell'imputato concretava gli estremi della violazione
dell'obbligo di astensione prescritto dal D.M. 31 marzo 1994, art. 6, ma il risultato di vantaggio patrimoniale
perseguito, consistente nel compenso delle prestazioni professionali private, pur essendo frutto della detta
violazione, non poteva considerarsi contra ius, in quanto non era in contrasto con alcuna norma
dell'ordinamento: con il che veniva a mancare il requisito della ingiustizia del vantaggio stesso, che doveva
ricorrere, ai fini della sussistenza del reato, autonomamente e aggiuntivamente rispetto alla mera ingiustizia
della condotta.
Propone ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino, deducendo che
l'ingiustizia del vantaggio patrimoniale sussiste anche se la remunerazione della prestazione sanitaria non è
in sè contra ius, in quanto ciò che rileva è che contrastano con il diritto le modalità con cui si determina la
decisione di rivolgersi alla struttura sanitaria privata.
Il ricorso è fondato nei sensi e per i motivi di cui appresso.
Va premesso in diritto che, secondo la giurisprudenza di questa Corte .. ai fini dell'integrazione del reato di
abuso di ufficio, anche nel caso di violazione dell'obbligo di astensione, è necessario che a tale omissione si
aggiunga l'ingiustizia del vantaggio patrimoniale perseguito, con conseguente duplice distinta valutazione
da parte del giudice, che non può far discendere l'ingiustizia del vantaggio dalla illegittimità del mezzo
utilizzato. Nella fattispecie in esame il Tribunale, dopo aver ravvisato la sussistenza della violazione
dell'obbligo di astensione, ha rilevato che essa non basta a far ritenere "ingiusto" anche il vantaggio
patrimoniale perseguito, posto che lo stesso, risolvendosi nella congrua remunerazione di una prestazione
professionale, non presenta in sè autonomi profili di antigiuridicità.
Senonchè, nella specie, come risulta dagli stessi capi d'imputazione, il vantaggio patrimoniale
immediatamente perseguito non va identificato nella remunerazione (in sè giustificata dal sinallagma
funzionale) della (futura) prestazione professionale bensì nella acquisizione della "occasione" della
prestazione stessa.
E' dunque con riferimento a questa acquisizione che andava e va verificata l'ingiustizia o meno del
vantaggio. Tale verifica deve essere condotta alla luce dell'ordinamento e, in particolare, delle norme che
regolavano la pubblicità delle professioni sanitarie e dei presidi medici al momento dei fatti (L. 5 febbraio
1992, n. 175, come modificata dalla L. 26 febbraio 1999, n. 42, art. 3, dalla L. 14 ottobre 1999, n. 362, art. 12,
comma 1, e dalla L. 3 maggio 2004, n. 112, art. 7), verificatisi anteriormente alla revisione "liberalizzatrice" di
cui al D.L. 4 luglio 2006, n. 223, conv. in L. 4 agosto 2006, n. 248. .. La sentenza impugnata deve, pertanto,
essere annullata, con rinvio alla Corte d'appello di Torino, che procederà a nuovo giudizio, attenendosi alle
indicazioni suenunciate.
P.Q.M.
visti gli artt. 615 e 623 c.p.p., annulla la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d'appello di Torino per nuovo
giudizio.
Così deciso in Roma, il 23 febbraio 2010. Depositato in Cancelleria il 4 giugno 2010
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CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE - SEZIONE SESTA PENALE – 25 SETTEMBRE 2007, n. 38259
FATTO E DIRITTO
In data 3 novembre 2005 il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma richiedeva al Giudice
per le indagini preliminari in sede il sequestro preventivo di alcuni immobili di proprietà della Immobiliare
Trea s.r.l. siti in (OMISSIS), via (OMISSIS), assegnati con ordinanze emesse in data 29 settembre e 24 ottobre
2005 dal Presidente del 10^ Municipio di Roma, M. S., ad usi abitativi di soggetti bisognosi raggiunti da un
provvedimento di sfratto.
Il pubblico ministero ravvisava a carico del M. il reato di cui all'art. 323 c.p., ritenendo che detti
provvedimenti, di natura contingibile e urgente, rientrassero nella competenza esclusiva del sindaco, il quale
comunque non aveva a ciò delegato il presidente del municipio….
All'esito dell'udienza preliminare, con la sentenza in epigrafe, il G.u.p. dichiarava non luogo a procedere
perché il fatto addebitato al M. non costituisce reato, ritenendo che, a prescindere dalla effettiva sussistenza
di una violazione di legge, difettava comunque l'elemento soggettivo del reato, atteso che il presidente del
municipio aveva comunque inteso perseguire una finalità pubblica, quale, nella specie, quella di risolvere il
problema contingente e urgente di sovvenire alle immediate esigenze abitative di famiglie in condizioni
economiche disagiate nei confronti delle quali era imminente l'esecuzione dello sfratto.
Ricorre per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, che deduce il vizio di
motivazione e la inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, osservando che, prima di
affrontare il tema dell'elemento soggettivo del reato, il G.u.p. avrebbe dovuto risolvere quello della oggettiva
illegittimità della condotta ascritta all'imputato.
Nella specie, il presidente del municipio non poteva adottare le ordinanze contingibile e urgenti di cui si
tratta, dato che, come ricavabile dal D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 54, tale attribuzioni spettano esclusivamente
al sindaco, e ciò anche qualora il presidente del municipio sia stato, come nella specie, delegato a esercitare le
funzioni in materia di igiene e sanità pubblica quale ufficiale del Governo.
Inoltre, sotto il profilo soggettivo, era irrilevante che l'imputato fosse mosso dall'intento di perseguire una
finalità pubblica, una volta accertato che egli era pienamente consapevole di avere procurato un ingiusto
vantaggio ai beneficiari dell'assegnazione degli alloggi requisiti, in violazione dei criteri di assegnazione
delle case popolari.
Il ricorso appare infondato.
… Il M., che ha agito nella sua qualità di Presidente del 10^ Municipio del Comune di Roma, è
effettivamente incorso, per più profili, in una violazione di legge.
Innanzi tutto, deve dirsi che il sindaco non è legittimato a requisire case di abitazione per fare fronte, come
nella specie, alle esigenze abitative di famiglie colpite da un provvedimento di sfratto… In secondo luogo, il
potere di emettere ordinanze contingibili e urgenti, attribuito al sindaco nei casi specificamente previsti dalla
legge, non è comunque delegabile nè ai presidenti di municipio nè a chicchessia … In terzo luogo, in punto
di fatto, non risulta neppure che il M. sia stato, sia pure illegittimamente, delegato a esercitare tali specifici
poteri, essendo ciò stato solo meramente affermato in sede difensiva, come appare dalla sentenza
impugnata.
Non vi è dubbio, dunque, che la condotta contestata al M. sia censurabile sotto il profilo della legittimità
dell'attività amministrativa.
La sentenza impugnata non merita invece censura in punto di affermata insussistenza dell'elemento
psicologico del reato.
L'Ufficio ricorrente osserva che era stato accertato che il M. era pienamente consapevole di avere procurato
un ingiusto vantaggio ai beneficiari dell'assegnazione degli alloggi requisiti, in violazione dei criteri di
assegnazione delle case popolari.
Tale notazione non risolve però la questione della sussistenza dell'elemento soggettivo richiesto dall'art. 323
c.p., che a seguito della novella del 1997 è stato concepito come dolo intenzionale.
Appare di indubbia esattezza la valutazione del G.u.p. secondo cui il M. ha avuto di mira una finalità
pubblica, e cioè quella di fare fronte a una emergenza abitativa interessante famiglie bisognose.
Il presidente del municipio ha si adottato provvedimenti esorbitanti dalle sue funzioni per risolvere un
problema che avrebbe dovuto essere affrontato da altri organi e con gli strumenti previsti dall'ordinamento,
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Lezione dell’8 marzo 2011: l’abuso di ufficio
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ma il perseguimento di una soluzione abitativa per le famiglie prive di casa risponde a una esigenza sociale
di per sè di valore primario (cfr. Corte cost. sent. n. 559 del 1989; 217 e 404 del 1988; 49 del 1987).
Se è così, la intenzione del M. non è stata quella di procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale ad altri;
nonostante egli fosse certamente consapevole che dai provvedimenti adottati sarebbe conseguito anche un
effetto vantaggioso per le famiglie che correvano il rischio di rimanere prive di alloggio.
Al riguardo, va ribadito che ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo del delitto di abuso di ufficio
non è sufficiente la rappresentazione dell'evento (di vantaggio o di danno per altri) ma occorre che questo
costituisca l'obiettivo diretto e immediato della condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un
pubblico servizio. Sicchè se l'evento tipico è una semplice conseguenza accessoria o indiretta dell'operato
dell'agente, mosso dalla finalità di perseguire un obiettivo di interesse pubblico di preminente rilievo, il dolo
intenzionale non è configurabile (tra le altre, Cass., sez. 6^, 7 aprile 2005, Fabbri; id., 24 febbraio 2004,
Percoco; Id., 8 ottobre 2003, Mannello; Id., 6 maggio 2003, Cangini;
Id., 22 novembre 2002, Casuscelli di Tocco).
5. Per le considerazioni sopra svolte, il ricorso deve essere rigettato.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, il 25 settembre 2007. Depositato in Cancelleria il 16 ottobre 2007
OSSERVAZIONI A CASS. PEN., SEZ.VI, 25 SETTEMBRE 2007 N. 38259
Rocco Lotierzo - in Cassazione penale, 2008, 09, 3268.
La decisione in commento afferma l'insussistenza del delitto di abuso di ufficio, per difetto dell'elemento
soggettivo, in tutti i casi nei quali l'evento dannoso o vantaggioso per altri non costituisca l'obiettivo
principale della volontà dell'autore, che piuttosto se lo prospetta quale conseguenza accessoria della propria
condotta.
Il principio è conforme a un indirizzo pacifico nella giurisprudenza formatasi a seguito della modifica della
fattispecie incriminatrice in commento, intervenuta con l. n. 234 del 16 luglio 1997.
Secondo lo stesso indirizzo, l'uso dell'avverbio «intenzionalmente» per qualificare il dolo ha voluto limitare
il sindacato del giudice penale a quelle condotte del pubblico ufficiale dirette a procurare, come conseguenza
immediatamente perseguita, un ingiusto vantaggio patrimoniale o ad arrecare un ingiusto danno: v. Sez. VI,
6 maggio 2003, Cangini, inquesta rivista, 2004, p. 464; conformi Sez. VI, 17 ottobre 2007, C.W., reperibile
all'indirizzo internethttp://www.altalex.com/index.php?idstr=20&idnot=39067; Sez. II, 26 aprile 2006, G.,
inGuida dir., 2006, n. 32, p. 100; Sez. VI, 7 aprile 2005, Fabbri, inC.E.D. Cass., n. 231343; Sez. VI, 22 novembre
2002, Casuscelli di Tocco, inGuida dir., 2003, n. 11, p. 96 ss., con osservazioni di AMATO,La Cassazione
ritorna sul dolo intenzionale: irrilevante l'ingiusto vantaggio procurato a terzi.
L'origine di tale interpretazione si rinviene nella rinnovata formulazione del delitto, che, al posto del dolo
specifico in precedenza previsto, richiede ora il dolo generico nella forma intenzionale: chiaramente in questi
termini, Sez. VI, 1 giugno 2000, Spitella, inquesta rivista, 2001, p. 2681, per cui «il legislatore con
l'utilizzazione dell'avverbio "intenzionalmente" ha voluto escludere la rilevanza non solo di condotte poste
in essere con dolo eventuale, ma anche con c.d. dolo diretto». Conformi, tra le molte, Sez. VI, 20 settembre
2002, Cadenzo,ivi, 2003, p. 2651; Sez. VI, 18 ottobre 1999, Selvini,ivi, 2001, p. 123.Contra, Sez. VI, 22 dicembre
1997, Urso, inC.E.D. Cass., n. 209775; Sez. VI, 2 ottobre, 1997, Angelo,ivi, n. 209767, che discorrono di dolo
diretto piuttosto che intenzionale. In dottrina, del medesimo avviso rispetto all'orientamento prevalente,
BENUSSI,Il nuovo delitto di abuso di ufficio, Cedam, 1998, p. 153; PAGLIARO,La nuova riforma dell'abuso
di ufficio, inDir. pen. proc., 1997, p. 503. Divergenti, invece, sono le opinioni di FIANDACAMUSCO,Manuale di diritto penale. Parte speciale, vol. I, Zanichelli, 2007, p. 255 s., che sostengono la
sufficienza del dolo diretto ai fini di escludere il dolo eventuale e paventano le difficoltà connesse alla prova
del requisito dell'intenzionalità; nonché M. ROMANO,I delitti contro la pubblica amministrazione - I delitti
dei pubblici ufficiali, Giuffrè, 2006, p. 277, secondo il quale «una distinzione tra dolo c.d. intenzionale e dolo
c.d. diretto, anche a volere prescindere dalle difficoltà sul piano dell'accertamento pratico, pare avere
pochechancesgià sul piano concettuale».
La novella legislativa corrispondeva alla necessità di porre un argine alla incriminazione di condotte
commesse con dolo eventuale o anche diretto e perciò non immediatamente indirizzate al perseguimento del
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fine illecito contemplato dalla norma penale: sulla tripartizione delle categorie del dolo generico, v. Sez. un.,
12 ottobre 1993, Cassata, inquesta rivista, 1994, p. 865.
Peraltro, nel vigore della precedente disciplina si assisteva alla strumentalizzazione della fattispecie di abuso
di ufficio quale valvola in grado di consentire un sindacatoextra ordinemsull'attività della p.a., che di fatto
veniva sovente rallentata o addirittura impedita dall'incombere dello "spettro" del penale: v.
NATALINI,Intenzionalità del doloexart. 323 c.p. e pretesa esclusività della finalità tipica: l'avallo della
Cassazione a una discutibile assimilazione ermeneutica, inquesta rivista, 2004, p. 3205 ss., il quale, tra l'altro,
rammenta la temperie storico-politica in cui si trattava di applicare l'art. 323 c.p. come risultante dalle
modifiche apportate con l. n. 86 del 26 aprile 1990.
A questo genere di disfunzione aveva condotto una norma come quella sull'abuso d'ufficio introdotta dalla
riforma del 1990, inadeguata perché dava luogo ad un rischio di arbitrio giudiziario in quanto «caratterizzata
da un macroscopico difetto di precisione e ruotante attorno ad un dolo specifico consistente in un'intenzione
che, in vista del proprio realizzarsi, attiva una condotta»: v. ZANNOTTI,I delitti dei pubblici ufficiali contro
la pubblica amministrazione: inefficienze attuali e prospettive di riforma, inquesta rivista, 2004, p. 1821.
In chiave di reazione alla c.d. paura della firma da parte dei pubblici amministratori maturò, dunque,
l'iniziativa del mutamento legislativo, essendosi intravisti i rischi di un ulteriore rallentamento della
macchina amministrativa dello Stato. Ciò nondimeno, in coloro che permisero il venire alla luce della nuova
fattispecie, non era dato ravvisare posizioni simili a quelle ribadite ancora una volta oggi nella pronuncia in
commento.
In particolare, non si ravvisava la convinzione che dalla intenzionalità del dolo, normativamente prescritta,
debba derivare l'insussistenza del reato quando il raggiungimento del fine privato rappresenti un mezzo per
il simultaneo perseguimento di un fine pubblico, cui è tipicamente indirizzata l'attività amministrativa: v.
interventi degli on.li Manzione e Marotta, inAtti parl. Cam. XIII Legisl., seduta del 15 aprile 1997, p. 14903 e
14915, dai quali può desumersi che, anzi, la finalità perseguita era semplicemente quella di escludere la
punibilità delle condotte commesse con dolo eventuale, valutando l'avverbio «intenzionalmente» soltanto
come un rafforzativo del c.d. dolo diretto.
Pur in presenza di intenzioni siffatte, è nato e si è sviluppato quel filone giurisprudenziale ora assolutamente
prevalente, del quale può dirsi abbia avuto una matrice politica in senso tecnico, dal momento che la
interpretazione da esso sostenuta ha certamente sgominato quei problemi applicativi della fattispecie
incriminatrice che aggravavano la inefficienza della pubblica amministrazione.
Questione che tuttavia permane sul tappeto è se allo scopo che si intendeva perseguire sia essenziale
prescrivere la "esclusività" del dolo quale rimedio riparatore.
Nella vigenza del "vecchio" art. 323 c.p., la suprema Corte affermava tranquillamente come non fosse
indispensabile che nel fuoco della volontà dell'agente campeggiasse solitario il fine privato: v., per tutte, Sez.
VI, 16 febbraio 1996, Scopinaro, inC.E.D. Cass., n. 205467. Dopo il 1997, invece, si sono colti precedenti di
questo segno soltanto al tempo dei primi vagiti del rinnovato abuso di ufficio, allorché si affermava che «il
dolo del reato di abuso di ufficio è integrato da un comportamento intenzionale del pubblico ufficiale che
procuri a sé o ad altri un ingiusto vantaggio, senza che sia necessario il perseguimento in via esclusiva del
fine privato, requisito non richiesto dalla precedente formulazione dell'art. 323 c.p. né dal testo della norma
risultante a seguito delle modificazioni introdotte con l'entrata in vigore della l. 16 luglio 1997, n. 234» (Sez.
VI, 2 aprile 1998, Sanguedolce, inquesta rivista, 1999, p. 2836. Sulla stessa linea - isolata tra le decisioni meno
risalenti -, Sez. VI, 11 dicembre 2001, Antonini, inGuida dir., 2002, Dossier/3, p. 81, secondo la quale il dolo
del delittode quosussiste anche quando l'evento patrimoniale procurato è il mezzo che il p.u. si raffigura e
vuole per realizzare uno scopo ulteriore, magari lecito; nonché Sez. V, 17 novembre 1999, Pinto, inC.E.D.
Cass., n. 216122, per cui, anzi, la interdipendenza tra i due scopi (lecito ed illecito), comporta che quello
lecito, fungendo da movente, «serve a dimostrare anche l'intenzione di procurare l'evento stesso (illecito)»).
La dottrina si è più spesso schierata con l'orientamento attualmente sposato dai supremi Giudici, giungendo
quindi a negare la sussistenza del reato quando il fine privato non costituisca lo scopo esclusivo della
volontà criminosa: v. E. RUSSO,L'elemento soggettivo del reato di abuso di ufficio, inTemi Romana, 1998, p.
105; dello stesso avviso, FANTUZZI,Abuso di ufficio e dolo intenzionale, inquesta rivista, 2004, p. 474.
A fianco di costoro, vi è stato chi ha sostenuto che, quando coesistano un fine pubblico e uno privato,
sorgerebbe la necessità di valutare quale di essi abbia carattere preminente sciogliendo sulla base di tale
valutazione la riserva sulla configurabilità dell'illecito p. e p. dall'art. 323 c.p.: v. D'AVIRRO,I delitti dei
pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Cedam, 1999, p. 315. O, anche, vi è stato chi ha
sostenuto che non si configura il reato quando l'agente mirava ad uno scopo lecito, pur rappresentandosi la
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certezza o possibilità che quale conseguenza accessoria del suo operato scaturisca un danno o un vantaggio
ingiusto per terzi: PAGLIARO,Principi di diritto penale. Parte speciale, vol. I, 1998, Giuffrè, p. 261.
Comunque, allo stato attuale, visto il prevalere di interpretazioni di tal segno, risultano espulse dall'area
della penale illiceità numerosissime condotte che, da un lato, realizzano l'evento del reato di abuso di ufficio;
dall'altro, violano le regole poste a presidio della buona amministrazione.
Perciò, in opposizione al maggioritario indirizzo sopra illustrato, si è formato il fronte di quanti, non
disconoscendo l'intenzionalità quale connotato del dolo di fattispecie, pure sostengono che, ciò nondimeno,
non possa pretendersi che il fine privato monopolizzi la volontà delittuosa: v. NATALINI,Intenzionalità del
dolo, cit., p. 3213 ss., che quali argomenti adduce, tra l'altro, il dato terminologico e la volontà del
Legislatore, evidenziando come, da un lato, se si fosse voluto privilegiare l'"esclusività" del dolo si sarebbe
usato l'inciso «al solo scopo di», come avvenuto per altre fattispecie incriminatrici (ad es., art. 508 c.p.);
dall'altro, come dai lavori parlamentari emerga soltanto l'intenzione di negare rilevanza al dolo eventuale.
Nello stesso solco, M. ROMANO,I delitti, cit., p. 277, che propende per la compatibilità tra il richiesto dolo
intenzionale e la compresenza di uno scopo collaterale.
Concorda con questa soluzione chi, condividendo l'argomento terminologico, sostiene anche che quando la
condotta di reato sia "mossa" dalla intenzione di tradurre nella realtà fenomenica il contenuto della
rappresentazione (ovvero il fatto di abuso di ufficio), immancabilmente il delitto sussiste anche perché non è
negabile che in simili ipotesi venga perseguito il fatto oggetto di rappresentazione in ogni sua implicazione
(lecita, ma anche illecita): v. BENUSSI,I delitti contro la pubblica amministrazione, vol. I,I delitti dei pubblici
ufficiali, inTrattato di diritto penale - Parte speciale, diretto da Marinucci e Dolcini, Cedam, 2001, p. 621;
BENUSSI,Il nuovo delitto di abuso d'ufficio, cit., p. 151; in tali termini anche PIETRINI
PALLOTTA,Intenzionalità del dolo nel delitto di abuso di ufficio. Riflessioni sulla pretesa esclusività della
finalità tipica, inRass. giur. Umbra, 2000, n. 1, p. 184.
Del resto, secondo altri pure sarebbe doveroso considerare - in maniera quasi scontata e, pertanto,
condivisibile - che la norma non esige l'unicità del fine privato e che, se la sussistenza dell'abuso venisse fatta
dipendere da ciò, vi sarebbe un aperto contrasto con i principi dell'imparzialità e del buon andamento della
pubblica amministrazione: SEGRETO-DE LUCA,Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica
amministrazione, Giuffrè, 1999, p. 548.
Orbene, lo stato dell'arte in argomento di dolo del delitto di abuso di ufficio, sollecita alcune riflessioni.
Allora è meglio chiarire quale sia il campo della discussione, distinguendo tra le diverse situazioni concrete
che possono offrirsi all'esame del giudice.
Anzitutto, se viene in rilievo la condotta del p.u. che persegue direttamente l'interesse pubblico, ma
accidentalmente favorisce o danneggia anche un privato, può abbastanza agevolmente escludersene la
illiceità penale, visto che l'interesse di natura privatistica non risulterebbe neppure "messo a fuoco"
dall'autore della condotta.
Altra ipotesi sarebbe quella del pubblico amministratore che, volendo far conseguire un vantaggio a una
determinata categoria di soggetti, operi in maniera tale da realizzare al contempo un utile per la collettività:
potrebbe ipotizzarsi - per ispirarci al caso deciso dai supremi Giudici - che un sindaco, perché "organico", o
comunque "pressato", da una cosca criminale, attribuisca case popolari a famiglie bisognose, ma diverse da
quelle che sarebbero state assegnatarie se si fossero seguite regole e procedure.
Una terza ipotesi, infine, potrebbe riguardare l'amministratore che, volendo perseguire una finalità pubblica
o un tornaconto privato, contemporaneamente si rappresenti, nel primo caso, le conseguenze dannose o
vantaggiose sotto il profilo privatistico; nel secondo, l'interesse pubblico concretamente realizzabile
attraverso la propria condotta.
Evidentemente, in diverso grado, le ultime ipotesi si presentano come problematiche all'interprete soltanto
quando egli decida di non adottare lo schema di soluzione predisposto dalla giurisprudenza dominante.
Proprio a tal proposito, si osserva come non sia appagante l'esclusione della rilevanza penale della condotta
in base al dato di fatto che si è verificato un fine pubblico non rilevando se si voleva realizzare anche il fine
privato.
Al di là delle già ricordate, condivisibili, critiche "interpretative"stricto sensu, in situazioni del tipo di quelle
da ultimo prospettate non pare corretto escludere aprioristicamente la illiceità penale della condotta. Non va,
infatti, trascurato come da ciò deriverebbe che sotto il profilo penale risulterebbero identiche una condotta
che realizza l'interesse pubblico secondo le regole e un'altra che lede il principio di trasparenza e buon
andamento e, quindi, la regolarità dell'amministrazione, oltre tutto realizzando un concorrente fine privato
comunque vietato dalla legge: sulla natura dell'interesse protettoexart. 323 c.p., v., tra le recentissime, Sez.
VI, 28 novembre 2007, p.o. Buglioli in proc. ignoti, inGuida dir., 2008, n. 7, p. 52.
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È pur vero che questo non significherebbe la legittimazione di prassi illegali, perché esse troverebbero
sanzione in sede diversa da quella penale: v., in tal senso, BAFFI,Abuso d'ufficio, inI delitti dei pubblici
ufficiali contro la pubblica amministrazione, trattato diretto da Fiore, Utet, 2004, p. 296; nonché Sez. VI, 22
novembre 2002, Casuscelli di Tocco, ult. cit. Tuttavia, a parte il fatto che le regole disciplinanti una pubblica
funzione sono in uno Stato di diritto l'unica "guida" attraverso cui essa persegue il pubblico interesse, vi è
che se la legalità dell'attività della p.a. è un bene tutelato penalmente, anche quelle condotte indicate come
ipotesi problematiche meritano sanzione, non apparendo sufficiente la sanzionabilità amministrativa. Ove
così non fosse, verrebbe privato di tutela penale un valore per cui detta tutela è invece prevista anche per
offese arrecate con le modalità già sopra descritte.
D'altra parte, se è stato posto un presidio penale, possono scorgersi anche considerazioni di politica
criminale dietro la scelta.
Il riferimento è al pericolo di "anarchia amministrativa", che lo strumento dell'annullamento potrebbe solo
arginare neutralizzando singoli atti, ma giammai prevenire, essendo questo un compito per sua costituzione
svolto più efficacemente dall'art. 323 c.p.
Per di più, in tema di ragione di vita del delitto di abuso di ufficio, non si può fare a meno di osservare come,
essendo tale figura criminosa "chiusa" tra i vari delitti contro la pubblica amministrazione, qualora si
accettasse la non applicabilità alle ipotesi in cui si avvantaggia un terzo ma anche il pubblico, si assisterebbe
alla quasi desertificazione delle fattispecie applicative. E, infatti, rimane difficile immaginare in quali casi,
pur non essendo stato fatto mercimonio dell'ufficio pubblico (come nei casi di p. u. corrotto o autore di
concussione), non potrebbe poi invocarsi con qualche ragione un interesse pubblico anche soltanto
perseguito a fianco dell'utile o dis-utile privato.
Almeno per le ragioni appena evidenziate, meriterebbe dunque una vera e propria resurrezione l'indirizzo
invalso sotto il "vecchio" art. 323 c.p., secondo cui il contemporaneo raggiungimento di un interesse pubblico
non rende la condotta dell'agente lecita qualora egli si sia mosso in vista della realizzazione anche di un
interesse privato: oltre a Sez. VI, 16 febbraio 1996, Scopinaro, cit., v. Sez. VI, 20 maggio 1993, Atzori, inquesta
rivista, 1994, p. 571.
Non sembra esservi contraddizione tra questa affermazione e l'intenzionalità del fine privato, prescritta dalla
norma.
È, quello dell'intenzionalità, un elemento del versante soggettivo della condotta che può riscontrarsi pure
prescindendo da compresenti "volizioni" vere o solo allegate in giudizio: se l'evento di reato è
deliberatamente voluto, non pare possa attribuirsi rilevanza al perseguimento di un pubblico interesse, salvo
- è ovvio - che esso integri una qualsiasi causa di giustificazione. Tanto meno potrebbe farsi questione sulla
prevalenza dell'uno o l'altro tra i diversi risultati presi di mira dall'agente: l'assetto degli interessi in gioco è
disegnato dall'art. 323 c.p., che tutela un bene (la trasparenza ed il buon andamento della pubblica
amministrazione) messo al riparo sia dall'operato di manigoldi, sia da quello di presunti pubblici benefattori
i quali agiscono in spregio delle regole di uno Stato democratico, per definizione stabilite a salvaguardia del
pubblico interesse.
In base a quanto detto, non si vede il motivo di esonero dalla pena per il pubblico ufficiale che abbia
contemporaneamente voluto realizzare scopi leciti e scopi illeciti o per quello che, non rispettando lo statuto
della propria attività, abbia inteso perseguire, oltre a quello pubblico, anche un fine privato la cui
realizzazione era implicata nella realizzazione del primo. Sotto questo profilo, pare doversi concordare con
l'indirizzo maggioritario soltanto quando esso esclude rilievo per le condotte che producono un effetto
vantaggioso o dannoso per privati essendo indifferenti a tale risultato o avendolo semplicemente "messo a
fuoco" come conseguenza non intenzionalmente voluta.
Quindi, può concludersi che, qualora all'agente, invece, "appartenga" anche la produzione del fine illecito nel senso che non solo se lo è rappresentato, ma lo ha pure voluto -, non possono esservi apprezzabili motivi
per decretare la liceità della condotta.
A conforto di ciò, basti considerare come, se, da un lato, non vi è ragione per escludere che l'agente possa
perseguire in maniera sincrona due diversi tipi di risultato, dall'altro, non è nemmeno estraneo alla categoria
del dolo intenzionale il fatto di chi vuole un evento come mezzo necessario per raggiungere uno scopo
finale: v. Sez. un., 12 ottobre 1993, Cassata, cit.; in dottrina, PROSDOCIMI, voceReato doloso, inDig. d. pen.,
vol. XI, Utet, 1996, p. 246, che ravvisa il dolo intenzionale anche laddove l'evento (illecito) perseguito
rappresenti «un anello intermedio in vista di ulteriori sviluppi, correlati, peraltro, da nuovi contegni».
Evidentemente col recupero degli approdi della precedente giurisprudenza in materia di dolo del delitto di
abuso di ufficio, emergerebbero problemi connessi alla prova dell'elemento soggettivo, che non potrebbe più
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"agilmente" affrontarsi come un'indagine sulla presenza o meno di un interesse pubblico tra gli scopi di colui
che pone in essere la condotta.
Simili difficoltà applicative nondimeno appaiono superabili se solo si pone mente a taluni indici sintomatici
del dolo intenzionale, in passato proposti da giurisprudenza e dottrina. Tra di essi senz'altro la
macroscopicità e la molteplicità delle violazioni commesse, la natura e qualità dei pregressi rapporti tra il
pubblico ufficiale e il soggetto danneggiato o favorito, l'assenza di motivazioni per gli atti assunti: v. Sez. VI,
13 febbraio 1998, Lanza, inquesta rivista, 1999, p. 2505; di identico avviso, in dottrina, FORTUNA,I delitti
contro la pubblica amministrazione, Giuffrè, 2002, p. 120.
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CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE - SEZIONE SESTA PENALE – 20 OTTOBRE 2010, n. 39371
FATTO E DIRITTO
Con la sentenza indicata in epigrafe il G.I.P. del Tribunale di Messina, dichiarava non luogo a procedere ai
sensi dell'art. 425 c.p.p., perchè il fatto non costituisce reato, a carico di F. P. e S.G. in ordine al reato di cui
agli artt. 110, 81 cpv. e 323 c.p., per avere in concorso tra loro e con F. V. - per il quale si procedeva
separatamente con il rito abbreviato - il F.P. presidente e il F.V. vice presidente della F.C. Messina Peloro
s.r.l., quali privati avvantaggiati, istigatori e determinatori della condotta abusiva e lo S., pubblico ufficiale
nell'esercizio delle funzioni di direttore generale del Comune di Messina, istruito e proposto al Consiglio
Comunale di Messina - che lo approvava nella seduta del (OMISSIS) - un accordo procedimentale tra l'ente
pubblico e la società sportiva per l'affidamento diretto a quest'ultima della gestione degli stadi comunali e
delle aree pertinenziali, in violazione del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 113 bis (TUEL) e L. n. 109 del 1994, art.
37 e segg., che prescrivono l'adozione di procedure concorrenziali di evidenza pubblica, in tal modo
procurando intenzionalmente alla F.C. Messina Peloro s.r.l. un ingiusto vantaggio patrimoniale con
corrispondente ingiusto danno per l'ente pubblico.
Fondava il G.I.P. la pronuncia assolutoria, analoga a quella assunta nei confronti del F.V. all'esito del
giudizio abbreviato, in estrema sintesi sulla base della convinzione che, pur essendo palese l'illegittimità
della procedura adottata in violazione delle regole sull'evidenza pubblica, ed evidente il corrispondente
vantaggio dei privati, l'approdo all'accordo procedimentale era da considerarsi legittimo, giacché dipeso da
una precisa scelta politica dell'ente, maturata a seguito di una vera e propria trattativa con la società
sportiva, e che la conclusione in tempi ristretti di un accordo che assicurasse le risorse finanziarie reclamate
dalla squadra rispondeva ad una ferma intenzione del Consiglio Comunale di garantire la sopravvivenza
della squadra di calcio cittadina, impegnata nel torneo di massima divisione e di dare prestigio alla città di
Messina; il tutto alla stregua delle produzioni documentali versate dall'imputato S., nella memoria difensiva,
depositata in data 14 Gennaio 2010 riguardanti resoconti di sedute del Consiglio Comunale e articoli di
stampa.
Contro tale decisione ricorre il Procuratore della Repubblica presso quel Tribunale, che a sostegno della
richiesta di annullamento ne denuncia l'erronea applicazione dell'art. 425 c.p.p., l'erronea applicazione
dell'art. 323 c.p. e la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, testualmente rilevabile….
Quanto al secondo motivo e al terzo motivo di ricorso il P.M. evidenzia come il G.I.P. disapplicando i
principi espressi nella giurisprudenza di legittimità in ordine all'elemento psicologico del reato di abuso di
ufficio, immotivatamente avesse negato rilievo ai gravi e concordanti indizi scaturenti dalla condotta dello S.
e dei dirigenti della società, attribuendo piena valenza probatoria a meri resoconti di sedute del Consiglio e
di Commissioni, e più ancora al fine politico, che aveva animato l'organo elettivo del Comune nel richiedere
la conclusione in tempi ristretti di un accordo, che assicurasse le risorse finanziarie, reclamate dalla società,
pena la possibilità di iniziative di forte impatto emotivo, quali la cessione della squadra, in tal modo
contravvenendo al prevalente insegnamento di questa Corte, a mente del quale il fine politico deve essere
espressamente escluso dal novero dei fini pubblici. Anche a voler condividere la tesi che lo S. si fosse
limitato a recepire e tradurre in un atto amministrativo illegittimo una scelta politica del Consiglio
Comunale, ciò non varrebbe ad escludere la sua responsabilità, ma imporrebbe semmai ad estenderne
l'ambito soggettivo.
Il ricorso è fondato e merita accoglimento per quanto di ragione …
A prescindere dall'indagine sulla ricostruzione della vicenda, devoluta al giudice di merito, e non
censurabile in sede di legittimità, se immune da vizi logici o giuridici, la denunciata erronea applicazione
della norma incriminatrice di cui all'art. 323 c.p., unitamente al denunciato vizio motivazionale, acquista
consistenza giuridica in ordine a quella parte della motivazione sulla valenza della prova dell'elemento
psicologico del delitto di abuso di ufficio.
Ricorda infatti il collegio che in tema di abuso di ufficio nella formulazione dell'art. 323 c.p., introdotta dalla
L. 16 luglio 1997, n. 234, la giurisprudenza di questa Sezione è ormai orientata nel ritenere che l'uso
dell'avverbio "intenzionalmente" per qualificare il dolo ha voluto limitare il sindacato del giudice penale a
quelle condotte del pubblico ufficiale dirette, come conseguenza immediatamente perseguita, a procurare un
ingiusto vantaggio patrimoniale e arrecare un ingiusto danno, con la conseguenza che, qualora nello
svolgimento della funzione amministrativa, il pubblico ufficiale si prefigga di realizzare un interesse
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pubblico legittimamente affidato all'agente dell'ordinamento, pur giungendo alla violazione di legge e
realizzando un vantaggio al privato, deve escludersi la sussistenza del reato ( Cass. Sez. 6, 22/11-28/12/02 n.
42839 Rv. 222860; 27/6-25/8/08 n. 33844 Rv. 240757). Deve trattarsi tuttavia non di un fine privato per
quanto lecito, non un fine collettivo, nè un fine privato di ente pubblico e tanto meno di un fine politico.
Nella fattispecie in esame si evince dalla motivazione della decisione impugnata un evidente salto logico
nella parte in cui, dopo avere elencato, senza neppure valutarle nella loro obiettiva consistenza, le condotte
assunte dagli imputati prima, durante e dopo l'approvazione dell'accordo procedimentale, si passa a
riscontrare la tesi della "scelta politica" dell'ente, attribuendo valenza probatoria a meri resoconti sommari di
sedute del Consiglio Comunale o di Commissioni, senza neppure avvertire l'esigenza di assumere almeno le
dichiarazioni dei protagonisti attraverso i poteri di integrazione probatoria riconosciuti dall'art. 422 c.p.p..
In buona sostanza il giudice a quo .. erroneamente finisce con l'attribuire al fine politico, asseritamente
perseguito dai rappresentanti delle forze politiche locali e non dal direttore generale, la qualifica di interesse
pubblico, il cui perseguimento valeva comunque ad escludere la configurabilità dell'abuso.
E' evidente dunque la manifesta illogicità della motivazione in riferimento alla valutazione dell'elemento
soggettivo del reato, che conduce all'annullamento dell'impugnata sentenza e il rinvio al medesimo
Tribunale, che nella demandata nuova deliberazione provveda a eliminare la evidenziata lacuna
motivazionale alla luce dell'enunciato principio di diritto.
P.Q.M.
annulla la sentenza impugnata e rinvia al Tribunale di Messina per nuova deliberazione.
Così deciso in Roma, il 20 ottobre 2010. Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2010
UN PROBLEMATICO ARRESTO IN TEMA DI ELEMENTO PSICOLOGICO DEL REATO DI ABUSO
D'UFFICIO
Alberto Aimi - in www.penalecontemporaneo.it.
1. Com’è noto, secondo una ormai costante giurisprudenza di legittimità, a seguito della riformulazione del
testo dell’art. 323 c.p. da parte della l. 16 luglio 1997, n. 234 per l’integrazione dell’elemento soggettivo del
reato di abuso d’ufficio è richiesto necessariamente il dolo intenzionale. In altri termini, per l’affermazione
della penale responsabilità del soggetto agente si ritiene necessario che l’evento di ingiusto danno (altrui) o
di ingiusto vantaggio (proprio o altrui) che costituisce un elemento del fatto di reato, sia da quest’ultimo
voluto come conseguenza diretta e immediata della condotta abusiva e come obiettivo primario della stessa
(da ultimo: Cass. 18.9.08 CED 241210; Cass. 06.3.08 CED 238927; Cass. 05.5.04 CED 228811. Più recentemente,
sembra richiedere addirittura l’esclusività del fine di perseguire un ingiusto danno o vantaggio Cass.
19.10.09 CED 245010; Cass. 25.8.08 CED 240757).
Inoltre, è salda opinione del Supremo Collegio che la sussistenza del dolo intenzionale nel delitto di abuso
d’ufficio sia da escludersi ogniqualvolta le condotte abusive vengano poste in essere allo scopo di perseguire
un interesse pubblico legittimamente affidato al soggetto agente (da ultimo: Cass. 16.5.05 CED 231343; Cass.
05.5.04 CED 228811; Cass. 05.8.03 CED 226566).
Con la sentenza in nota, la Suprema Corte ha inteso specificare la nozione di interesse pubblico, il cui
perseguimento vale ad escludere la rilevanza penale delle condotte abusive. In particolare, secondo la
pronuncia in commento, l’interesse pubblico dev’essere tenuto distinto da fini privati per quanto leciti,
nonché da fini collettivi, fini privati di ente pubblico e fini politici.
2. Una sintetica ricostruzione dei fatti oggetto di accertamento potrà chiarire il senso delle affermazioni della
Corte.
Il processo scaturiva dalla richiesta di rinvio a giudizio, formulata dalla Procura della Repubblica presso il
Tribunale di Messina, di G.S., direttore generale del Comune di Messina, in concorso con P.F. e V.F.,
rispettivamente presidente e vicepresidente della società sportiva F.C. Messina Peloro s.r.l., per il reato di
abuso d’ufficio aggravato dal vincolo della continuazione. In particolare la pubblica accusa contestava al
pubblico ufficiale G.S. di avere, su istigazione dei privati avvantaggiati P.V. e V.F., istruito la pratica e poi
presentato al Consiglio Comunale – che lo approvava nella seduta del 30.8.05 – un accordo procedimentale
tra il Comune stesso e la società sportiva F.C. Messina per l’affidamento diretto a quest’ultima degli stadi
comunali e delle aree pertinenziali, in violazione delle procedure concorrenziali e di evidenza pubblica
prescritte dal TUEL e dalla l. n. 109/1994, in tal modo procurando alla società un ingiusto vantaggio
patrimoniale con corrispondente danno per l’ente locale.
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Mentre nei confronti del V.F. si procedeva separatamente con rito abbreviato, il G.U.P. presso il Tribunale di
Messina pronunciava sentenza di non luogo a procedere nei confronti di G.S. e P.F. in relazione
all’imputazione per il reato di cui all’art. 323 c.p., motivando con riferimento all’assenza dell’elemento
soggettivo richiesto per l’integrazione del reato in esame. Infatti, secondo il giudice di prime cure,
nonostante la palese illegittimità della procedura adottata e il corrispondente indebito vantaggio privato, il
direttore generale del Comune di Messina si sarebbe limitato a recepire una ”precisa scelta politica dell'ente,
maturata a seguito di una vera e propria trattativa con la società sportiva”, dal momento che “la conclusione
in tempi ristretti di un accordo che assicurasse le risorse finanziarie reclamate dalla squadra rispondeva ad
una ferma intenzione del Consiglio Comunale di garantire la sopravvivenza della squadra di calcio cittadina,
impegnata nel torneo di massima divisione e di dare prestigio alla città di Messina”. Ad avviso del G.U.P.,
non sarebbe quindi stato possibile considerare un obiettivo primario del soggetto attivo quello di procurare
alla Società F.C. Messina Peloro S.r.l. un ingiusto vantaggio patrimoniale, con conseguente insussistenza del
dolo intenzionale.
3. In accoglimento del gravame della pubblica accusa, la Suprema Corte annulla la sentenza di non luogo a
procedere, censurando tra l’altro l’erronea applicazione dell’art. 323 c.p.
Il giudice di legittimità rammenta, anzitutto, la costante giurisprudenza della Sezione VI in tema di elemento
psicologico del delitto di abuso d’ufficio, secondo la quale mediante la riforma introdotta dalla l. n. 234/1997
il legislatore avrebbe inteso «limitare il sindacato del giudice penale a quelle condotte del pubblico ufficiale
dirette, come conseguenza immediatamente perseguita, a procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale e
arrecare un ingiusto danno».
Tale limitazione implica invero, osserva la S.C., che la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di abuso
d’ufficio è comunque da escludere in caso di perseguimento - da parte del pubblico ufficiale che avrebbe
posto in essere condotte abusive con ciò provocando un ingiusto danno o vantaggio – di un «interesse
pubblico legittimamente affidato all’agente dell’ordinamento».
Tuttavia, con l’espressione “interesse pubblico” non sarebbe lecito intendere né «un fine privato per quanto
lecito, né un fine collettivo, né un fine privato di ente pubblico né tanto meno di un fine politico».
In particolare, secondo il Supremo Collegio, l’errore del G.U.P. presso il Tribunale di Messina, al quale gli
atti sono stati rinviati per nuova deliberazione, sarebbe precisamente consistito nell’avere identificato
l’interesse pubblico con un mero fine politico perseguito dagli organi elettivi del comune, consistito nel caso
di specie nell’assicurare i mezzi finanziari reclamati dalla locale squadra di calcio per evitare decisioni di
forte impatto emotivo sui tifosi, quali la cessione della squadra medesima.
4. La sentenza la Suprema Corte, a parere dello scrivente, non contribuisce a far luce sulla delicata materia
dell’elemento soggettivo del delitto di cui all’art. 323 c.p.
In particolare, occorre chiedersi quali possano essere le possibili fondamenta logico-normative dell’assunto,
costantemente ribadito dalla Corte di Cassazione e confermato anche da questa sentenza, secondo cui il
perseguimento da parte del soggetto attivo del delitto di abuso d’ufficio di un interesse pubblico vale ad
escludere la sussistenza del dolo intenzionale di ingiusto danno o vantaggio richiesto dall’art. 323 c.p.
Posto che, secondo una costante giurisprudenza di legittimità, perché possa ritenersi sussistente il dolo
intenzionale nel delitto di abuso d’ufficio l’agente deve perseguire l’evento di ingiusto danno o vantaggio
quale obiettivo primario della propria condotta, una prima possibile spiegazione potrebbe semplicemente
far leva sul fatto che, in questi casi, l’agente perseguirebbe in realtà in via primaria un obiettivo (l’interesse
pubblico) diverso da quello richiesto per l’integrazione dell’elemento soggettivo dall’art. 323 c.p.
Ma, se così fosse, il perseguimento in via primaria di qualunque altro fine, diverso da quello di procurare un
ingiusto danno o vantaggio, dovrebbe valere ad escludere la sussistenza del dolo intenzionale: ivi compreso,
dunque, un fine “politico”, come quello che secondo la stessa Cassazione ricorreva nel caso di specie, e il cui
perseguimento in altre occasioni la S.C. – seppur a livello di obiter – aveva ritenuto inidoneo a escludere il
dolo intenzionale dell’abuso d’ufficio (cfr. Cass. 05.8.03 CED 226566, Cass. 18.12.02 CED 222860).
D’altra parte, la Cassazione non si perita di precisare perché proprio e soltanto la finalità di perseguire
l’interesse pubblico (rettamente inteso) da parte del pubblico ufficiale debba essere ritenuta incompatibile
con l’intenzione, richiesta dall’art. 323 c.p., di procurare ad altri un ingiusto profitto o di arrecare un danno.
E ciò in assenza, si noti, di alcun appiglio testuale nella norma che faccia anche solo indirettamente
riferimento a una possibile rilevanza esimente del perseguimento dell’interesse pubblico da parte del
pubblico ufficiale.
5. Vi è dunque da chiedersi se questa sentenza non costituisca un tentativo inquieto di sciogliersi da quei
lacci interpretativi con i quali, almeno da una decina d’anni, il Supremo Collegio sta relegando il delitto di
cui all’art. 323 c.p. ad una pratica (e nota) inapplicabilità, attraverso una lettura estremamente rigida del
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requisito del dolo intenzionale: che è oggi considerato incompatibile non solo con il dolo eventuale, ma
anche con il dolo diretto (v. ad es. Cass. 02.8.00 CED 217558), e che parrebbe addirittura richiedere, secondo
quanto sembra emergere da numerosi precedenti della Corte, il perseguimento dell’ingiusto vantaggio o del
danno altrui come finalità esclusiva, o quanto meno dominante, da parte del pubblico ufficiale.
Implicazioni, l’una e l’altra, sulla cui effettiva irresistibilità, alla luce del dato testuale dell’art. 323 c.p.,
sarebbe opportuno, in altra e più consona sede, riflettere più a fondo
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CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE - SEZIONE SESTA PENALE – 3 APRILE 2009, n. 31256
FATTO E DIRITTO
All'esito di giudizio ordinario R.E. con sentenza in data 20.3.2001 del Tribunale di Ragusa è stato
condannato, con generiche circostanze attenuanti, alla pena condizionalmente sospesa di un anno e dieci
mesi di reclusione per due reati, unificati da continuazione, di concorso in abuso di ufficio (un unico
episodio) e in falsità ideologica in atto pubblico (due episodi) commessi con abuso delle funzioni di
componente della commissione edilizia di (OMISSIS), comune montano della provincia di (OMISSIS). Al R. e
agli altri coimputati membri della commissione edilizia comunale è stato contestato il reato di abuso di
ufficio continuato in relazione: 1) al parere emesso il 12.7.1995 favorevole al rilascio a tale C.C. di concessione
edilizia, poi rilasciata con numero (OMISSIS), corredata da elaborato progettuale del coimputato geom. D.S.,
per la costruzione di un manufatto abitativo su terreno ricadente in area C3, pur in difetto -in violazione
dell'art. 58 del regolamento edilizio comunale - di un piano di lottizzazione e di opere di urbanizzazione
primaria nell'area interessata (reti fognaria, idrica, elettrica) e pur in presenza delle indicazioni contrarie
(verifiche istruttorie) ripetutamele espresse per tali ragioni dall'ufficio tecnico dello stesso comune (geometri
F. e G.) e in sede di delibera della commissione edilizia dall'ing. A.; 2) al parere emesso un anno dopo in data
11.7.1996 favorevole al rilascio di nuova concessione edilizia in variante della concessione n. (OMISSIS) in
favore degli aventi causa dal C. al fine di allineare l'erigendo fabbricato ai fabbricati frontisti preesistenti, pur
avendo l'ufficio tecnico comunale segnalato come la nuova sagoma del fabbricato non rispettasse le distanze
minime dalle limitrofe proprietà immobiliari e ribadito che l'area era priva di infrastrutture e in particolare
di rete fognaria (geom. F.), evenienze richiamate in occasione della delibera della commissione edilizia
dall'ing. P.. Con riferimento ai due illustrati pareri della commissione edilizia al R. e ai coimputati sono stati
contestati, in rapporto alla conclamata falsità dei presupposti e dei contenuti descrittivi dello stato dei luoghi
enunciati nei due atti collegiali, altrettanti reati di falsità ideologica in atto pubblico, commessi nelle uguali
date (OMISSIS). Il Tribunale - evidenziato che, alla luce delle emergenze processuali, è indubbio che al
momento dell'adozione dei due pareri della commissione edilizia l'area teatro della concessione (originaria e
in variante) sia stata del tutto priva di infrastrutture sì da non potersi considerare edificabile nel rispetto del
regolamento edilizio comunale - ha tuttavia mandato assolto il R. e i coimputati dal secondo episodio del
(OMISSIS) integrante la fattispecie di abuso di ufficio (con la formula dell'insussistenza del fatto), atteso che
dal parere favorevole pronunciato in quella data non è derivato agli aventi diritto alcun ingiusto vantaggio
patrimoniale nè alcun danno per i controinteressati proprietari frontisti, per avere il consiglio comunale di
(OMISSIS) approvato nel gennaio 1996 un indirizzo di "recupero all'edificabilità" del località oggetto di
variante concessoria, progettandovi l'allestimento delle necessarie opere di urbanizzazione.
Adita dall'impugnazione del R. e dei coimputati, la Corte di Appello di Catania con la sentenza resa il
13.12.2005 indicata in epigrafe, richiamandosi alla motivazione della sentenza di primo grado "condivisa e
fatta propria", ha dichiarato l'improcedibilità del reato di abuso di ufficio per l'episodio del (OMISSIS)
perchè estinto per sopravvenuta prescrizione, in assenza di prove palesi dell'insussistenza del reato stesso o
di altre cause di non punibilità apprezzabili favore degli appellanti, ed ha confermato la decisione di
condanna per i due episodi di falsità continuata ex art. 479 c.p.. Per l'effetto la Corte ha determinato la pena
in nove mesi di reclusione, altresì concedendo al R. il beneficio della non menzione della condanna.
Avverso tale sentenza di appello ha proposto, mediante il difensore di fiducia, ricorso per cassazione R.E.,
articolando unitario motivo di censura per violazione di legge e carenza di motivazione con riferimento alla
asserita mancata risposta della Corte territoriale ad un rilievo espresso con l'atto di appello, per cui - data in
ipotesi per ammessa la sussistenza degli elementi, oggettivo e soggettivo, del reato di abuso di ufficio per il
parere espresso dalla c.e.c. il (OMISSIS) - i concorrenti due episodi di falsità ideologica dovrebbero ritenersi
assorbiti nei corrispondenti fatti di abuso (di uno dei quali già il primo giudice di merito ha dichiarato
l'insussistenza), di detti fatti costituendo unicamente una modalità esecutiva.
Si sostiene nel ricorso che l'ipotesi criminosa della falsità ideologica "ripercorre la stessa pista dell'art. 323
c.p., ponendo l'accento sul medesimo comportamento" del reato di abuso. Il R. avrebbe realizzato un'unica
condotta che in sè esaurisce il comportamento munito di eventuale rilevanza penale, sicchè una soltanto può
e deve essere la norma sanzionatrice. Tra il reato di abuso e quello di falsità ideologica non intercorre una
relazione di concorso formale di reati, ma una vicenda di consunzione o progressione criminosa unitaria o
più propriamente di assorbimento dell'una fattispecie nell'altra. A tale conclusione, in termini di
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applicabilità della categoria giuridica dell'assorbimento, sembra essere pervenuta anche questa Corte
regolatrice, come si evince - osserva il ricorrente - da più decisioni, tra cui meritano di essere segnalate due
sentenze della Sezione 5^ penale (Cass. Sez. 5^, 21.10.1998 n. 12226, D'Asta, m. 211928; Cass. Sez. 5^,
19.52004 n. 27778, Piccirillo, m. 228681). Non si nasconde il ricorrente che le evocate decisioni di legittimità
postulano l'assorbimento del reato di abuso in quello più grave di falsità ideologica (in conformità, del resto,
all'esplicito tenore della clausola di riserva contenuta nell'art. 323 c.p.: "salvo che il fatto non costituisca un
più grave reato"). Nondimeno il ricorrente esprime l'avviso che nel caso di specie il principio di
assorbimento renda applicabile l'art. 323 c.p. e non l'art. 479 c.p., poichè gli episodi di falso non si pongono
come ulteriori rispetto ai contegni di abuso, ma rappresentano "solamente una componente del
comportamento illecito", quali - si ribadisce - semplici modalità esecutive dei fatti di abuso.
Il ricorso di R.E. è destituito di giuridico pregio e va respinto.
Non è questa la sede per indugiare ex professo sulle problematiche del concorso formale di reati e del
concorso apparente di norme incriminatrici ovvero su quella, diversa ma speculare, della unità e pluralità
della condotta penalmente illecita. Quel che rileva è, innanzitutto, l'agevole constatazione della concreta
inapplicabilità nella vicenda di cui si è reso coprotagonista il ricorrente del criterio di assorbimento del
contestato reato di abuso nel concorrente reato di falsità ideologica nei termini esposti nel ricorso.
Ipotizzando che sia ripercorribile nella condotta dell'imputato, quale desumibile dalle due conformi
decisioni di merito, una comune sequenza di atti esecutivi coincidenti o sovrapponibili di abuso e di falsità
dichiarativa, non potrebbe sussistere dubbio alcuno sulla applicabilità del reato di falso (art. 479 c.p.) per
ritenuto assorbimento in esso del reato di abuso ex art. 323 c.p.. Non diverso esito interpretativo sarebbe
consentito dalla clausola di riserva contenuta nell'art. 323 c.p. con il suo esplicito riferimento alla
consumazione di un reato ("più grave") punito con pena edittale maggiore di quella prevista per la condotta
di abuso di ufficio. E il reato di cui all'art. 479 c.p., anche nella sua forma non aggravata dalla fede
privilegiata riconoscibile all'atto pubblico oggetto di mendacio, è punito più gravemente del reato di abuso
di ufficio.
Questa è, del resto, l'impostazione fatta propria dal concludente P.G. di udienza, che ha sollecitato
l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente al ritenuto assorbimento del reato di
abuso in quello di falso ideologico. La clausola di riserva dell'art. 323 c.p., d'altro canto, costituisce palese
manifestazione del principio ermeneutico di consunzione o di assorbimento per implicazione dell'una
condotta in quella più grave o dotata di un più alto coefficiente di offensività, in virtù non di un criterio
logico (come accade per le cd. clausole di sussidiarietà di un reato), ma di un mero giudizio di valore, in
virtù del quale il legislatore giudica (in forma implicita da ricomporsi in via interpretativa ovvero in forma
esplicita, come nel caso dell'art. 323 c.p., per espressa previsione normativa) che la sanzione prevista per il
reato più grave sia idonea a fronteggiare anche il disvalore giuridico del reato meno grave.
Nondimeno nella vicenda per cui è ricorso neppure può trovare ingresso il descritto criterio sanzionatorio
del carattere assorbente del più grave reato di falsità ideologica (con gli effetti derisori, irrilevanti per il
ricorrente, definiti dal P.G. di udienza). In vero, ove si ponga attenzione alle sentenze di questa S.C.
richiamate dal ricorrente e alle molte altre che analogamente hanno fatto applicazione (in caso di concorrente
contestazione del reato di abuso e di reati di falsità o di reati puniti più gravemente dell'abuso) del principio
di assorbimento, considerando applicabile quoad poenam il solo reato di falso o altro reato più grave di
quello ex art. 323 cp (v., per tutte, Cass. Sez. 5^, 9.11.2005 n. 45225, Bernardi, m. 232724), ci si avvede che le
stesse muovono sempre dal presupposto di un fatto di abuso o di distorsione della funzione pubblica che si
esprime ed esaurisce in una strumentale falsificazione ideologica di un fatto o di un determinata situazione
storica percepita dal pubblico ufficiale agente. Il che rende chiaro come il principio dell'assorbimento sottacendo l'eventuale diversità dei beni giuridici protetti dalle diverse norme incriminatrici (pure invocata
per contrastare il descritto indirizzo giurisprudenziale) - non sia in alcun modo applicabile allorchè la
condotta dell'agente che abusi del suo ufficio si estenda al di là della falsa attestazione probatoria di un fatto,
realizzando effetti ulteriori e diversi dalla immutatio veri consumata con l'atto pubblico incriminato. Nel
senso che in tali casi la falsità non è il fine dell'antigiuridica condotta di abuso, ma è - se mai - soltanto il
mezzo per la piena o più efficace attuazione del fatto di abuso di ufficio.
Ciò è quel che deve constatarsi essere avvenuto nella dinamica della vicenda amministrativa sottesa alla
attuale regiudicanda.
Con la coerente e logica conseguenza che, in simili casi, quando la condotta dell'agente pur unitariamente
considerata (intesa, cioè, come espressione di un unitario processo volitivo ed esecutivo, sebbene composto
di più segmenti o contegni) si manifesti nell'esteriore attuazione di due o più fatti di reato diversi e
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soprattutto autonomi, non si è in presenza di un concorso formale di reati, nè di una sorta di progressione
criminosa o di reato complesso, ma solo e semplicemente di un classico caso di concorso materiale di reati.
Su queste basi non occorre diffondersi troppo per dimostrare, come è ben chiaro dalla sentenza di primo
grado correttamente richiamata per relationem dall'impugnata sentenza di appello, che l'atto collegiale
costituito dal parere (rectius dai due pareri, che duplice è la contestazione della corrispondente falsità
ideologica) adottato dalla commissione edilizia del comune di (OMISSIS) di cui è stato componente R.E., è
scindibile in due ben separate e autonome, nè necessariamente interdipendenti, condotte criminose
produttive di effetti giuridici diversi. Quella dichiarativa concernente la mendace attestazione della esistenza
di opere di urbanizzazione primaria nell'area oggetto delle richieste di concessione edilizia prima e di
concessione in variante poi, attinente ad uno degli eventuali presupposti legittimanti l'emissione degli
invocati atti di autorizzazione dell'ente pubblico. Quella, diversa, di esternazione di un parere favorevole
privo di fondamento perchè in contrasto con il regolamento edilizio comunale e destinato ad assicurare un
indebito vantaggio patrimoniale ai richiedenti beneficiari, atto di manifestazione di un giudizio tecnico valutativo discrezionale e, quindi, motivabile anche in ragione di referenti diversi da quelli integranti
l'attestazione dichiarativa (nella specie falsa) presente nel preambolo del parere finale. In altre parole il
parere integrerebbe un abuso di ufficio anche se l'atto collegiale non recasse alcuna formale menzione
dell'esistenza o meno delle opere di urbanizzazione nell'area interessata dalla concessione edilizia, poichè si
porrebbe in indipendente deliberato contrasto (in piena consapevolezza degli imputati membri del collegio)
con le emergenze dell'istruttoria amministrativa anteriore all'adozione del parere (dati comunicati
dall'ufficio tecnico comunale) e il disposto del regolamento edilizio comunale. Per converso nel caso di
specie in ugual modo i due episodi di falsità ideologica ascritti all'imputato sussisterebbero anche nella
eventuale ritenuta inesistenza dei corrispondenti contegni di abuso di ufficio (in fatto è quanto verificatosi
per il parere dell'11.7.1996 per il quale la sentenza del Tribunale ha assolto gli imputati dal reato di cui all'art.
323 c.p.), avuto riguardo alla mistificazione probatoria dei fatti contrari al vero sullo stato dei luoghi della
concessione recata dai due atti collegiali incriminati.
Atti che, appunto, oltre a determinare in tutto o in parte un ingiusto beneficio patrimoniale per il privato
richiedente, producono un coevo (o concorrente) occultamento descrittivo di una specifica situazione di fatto
(preesistenza di infrastrutture primarie mai realizzate).
E' solo il caso di aggiungere, per concludere, che già questa Corte regolatrice ha riconosciuto configurabile,
in casi assimilabili a quello oggetto della presente analisi, il concorso materiale tra reato di abuso e reato di
falsità ideologica o altro diverso reato più grave di quello di abuso per i medesimi motivi appena esposti e
senza che ciò determini alcun effettivo contrasto con il più generale indirizzo dell'assorbimento dei fatti di
abuso in eventuali concorrenti fatti di falsità in atto pubblico (cfr.; Cass. Sez. 5^, 15.11.2005 n. 1491/06,
Cavallari, m. 233044: "Sussiste il concorso materiale e non l'assorbimento tra il reato di falso ideologico in
atto pubblico e quello di abuso d'ufficio nel caso in cui la condotta del delitto di abuso d'ufficio non si
esaurisca in quella del delitto di cui all'art. 479 c.p. ma vi siano due distinte condotte"; Cass. Sez. 5^, 5.2.2008
n. 21409, Franchi, m. 240081).
Al rigetto del ricorso segue per legge la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 3 aprile 2009. Depositato in Cancelleria il 29 luglio 2009