L immigrato come homo sociologicus

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Emilio Reyneri
L’IMMIGRATO COME HOMO SOCIOLOGICUS
Catene e progetti migratori, le relazioni sociali tra gli immigrati, i dilemmi
dell’inserimento in una società post-industriale
Il titolo è un chiaro riferimento a un noto economista americano che definisce
il lavoratore immigrato come il miglior esempio di homo oeconomicus 1. Chi scrive
ha tentato altrove 2 di mostrare che il mercato del lavoro è ben diverso da quello dei
carciofi e delle scarpe, come peraltro anche alcuni economisti ammettono 3, ma
conviene che chi emigra da solo con la prospettiva di tornare entro pochi anni e
mirando al maggior guadagno immediato è privo di radici e legami sociali, né si
preoccupa del prestigio connesso al lavoro, quindi «risponde» senza alcun vincolo
né remora agli stimoli monetari del lavoro e presenta un’alta mobilità occupazionale
e geografica, secondo i canoni della labor economics. Tuttavia questa eccezione
vale solo per gli immigrati «a tempo e scopo definito», che sempre meno
esauriscono la vasta tipologia della «nuova immigrazione» che da ormai vent’anni
interessa anche l’Italia, un’immigrazione che non proviene più dalle campagne dei
paesi più arretrati, ma dalle sempre più ampie aree urbanizzate e nella quale la
presenza di giovani con elevati livelli di istruzione è rilevante rispetto non solo alla
società di partenza, ma anche a quella di arrivo, benché la qualità degli studi non sia
sempre omogenea.
La rivisitazione alla luce del caso italiano di due concetti classici dell’analisi
sociologica delle migrazioni, quali quelli di catene e progetti migratori, ha appunto
lo scopo di mostrare come gli attuali movimenti migratori non possano essere
spiegati ricorrendo soltanto a fattori economici. Quindi viene affrontata una
questione più propriamente sociologica: come possa essere molto differente la
natura delle relazioni sociali che si instaurano tra gli immigrati nel paese di arrivo e
quali contraddittorie implicazioni i diversi tipi di relazioni sociali hanno per le
strategie di inserimento in una società italiana, la cui coesione, già non elevata, è
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ancor più minata dai processi di terziarizzazione occupazionale e di frantumazione
politica 4.
1. Le catene migratorie tra fuga e attrazione
Che i movimenti migratori nascano dal semplice squilibrio tra un «vuoto» e un
«troppo pieno» di popolazione costituisce un'errata visione «idraulica» del
fenomeno, come hanno notato gli stessi demografi 5. Anche per cogliere la
cosiddetta pressione migratoria si deve passare dai differenziali di crescita della
popolazione a quelli di sviluppo economico. Ma la realtà dei movimenti migratori
mostra che da non tutti i paesi poveri si emigra e che le migrazioni non vengono dai
paesi a minor reddito 6. A parte coloro che fuggono da guerre civili e repressioni
politiche e religiose, l’esistenza di forti squilibri demografici ed economici va
considerata una condizione necessaria, ma non sufficiente per alimentare un flusso
migratorio. La decisione di emigrare è una scelta individuale o familiare, e coinvolge
solo chi è disposto a sopportarne i costi monetari ed affettivi e possiede le risorse
economiche, personali e informative necessarie ad affrontarne le difficoltà e i rischi.
L'emigrazione è sempre un processo selettivo: nello stesso contesto alcuni emigrano
ed altri no. Chi non emigra, ed è la gran maggioranza, subisce le situazioni di
povertà, perché non vede nell'emigrazione una via per uscirne oppure non ne ha la
forza.
Per emigrare occorre innanzitutto avere delle aspettative che si ritiene di non
poter soddisfare nel proprio paese, ma solo in un altro più ricco e sviluppato. Chi
emigra perciò non può essere ancora pienamente integrato in culture tradizionali
fondate su una economia di sussistenza, ma deve sentire come deprivazione grave la
mancanza di beni di consumo da acquistare sul mercato. Così i processi di sviluppo
economico rischiano di ampliare la platea dei disponibili a emigrare, pur aumentando
il reddito pro capite. Effetti simili può avere la diffusione dell'istruzione superiore,
poiché il surplus di forza lavoro istruita è restio a rifluire nell'economia di
sussistenza e in possesso delle risorse di informazione e autonomia necessarie per
emigrare. Non deve stupire che pochi prima di emigrare fossero disoccupati, mentre
molti avevano occupazioni qualificate e stabili o erano studenti. Per emigrare
occorre disporre di risorse superiori alla media di coloro che restano, soprattutto
quando la chiusura dei confini delle società ricche rende più difficile varcarli.
Ma occorre anche disporre di un «sapere migratorio», cioè avere accesso ad
una rete di relazioni nel paese di arrivo. Pochi partono a caso, senza sapere dove
andare. L'emigrazione raggiunge dimensioni consistenti soltanto se si sviluppa una
«catena migratoria» tra una comunità locale o una rete di famiglie nel paese di
origine e un'altra comunità o rete familiare in quello di arrivo. Perciò l'aumento delle
persone che scelgono di emigrare dipende anche dall'accesso ad una catena
migratoria e dalla conoscenza delle prospettive che l'emigrazione offre.
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L'ampiezza della platea dei possibili emigranti è infine legata pure all'immagine
che le società sviluppate trasmettono tramite i canali delle relazioni personali e dei
mezzi di comunicazione di massa. Un imponderabile fattore di attrazione è sempre
presente nei movimenti migratori: è il mito della società ricca, aperta e libera, che
offre possibilità di emancipazione e di consumo per tutti. E occorre anche chiedersi
se i consueti fattori di attrazione, quelli legati al mercato del lavoro, siano davvero
scomparsi o abbiano soltanto mutato natura. A questo proposito sia consentita una
parentesi sulla peculiare attrazione del caso italiano.
Nelle interviste, parecchi immigrati attribuiscono il loro ingresso in Italia a tre
motivi: la facilità di trovare lavoro e di guadagnare in una società ricca e in cui si
vive bene, la tolleranza e l’assenza di razzismo nel popolo italiano, e la facilità di
entrare e di rimanere. «In Italia è facile, non ci sono controlli, si lavora, e poi gli
italiani non sono razzisti», come sintetizza un giovane senegalese 7. Gli immigrati
hanno un’immagine dell’Italia come una società priva di regole, in cui tutto è di
fatto consentito nella generale confusione sociale e amministrativa, in fondo simile
ad una realtà che ben conoscono perché vi sono nati. Ma, se la facilità di restare, e
sino a qualche anno fa anche di entrare, dipende dalla disorganizzazione e dal
lassismo amministrativo, la possibilità di guadagnare anche per un immigrato privo
di regolare permesso di soggiorno dipende dalla grande diffusione dell’economia
sommersa (ove lavora la grande maggioranza degli immigrati, anche di quelli
regolari). L’economia sommersa italiana si rivela così forte da attirare forza lavoro
dall’estero 8, poiché non si può certo attribuire il suo radicamento agli immigrati,
come sembra fare chi cita le attività irregolari degli immigrati a prova dell'inesistenza
di un fattore di attrazione. Si può invece pensare che la percezione dell’Italia come
«paese irregolare» tenda a favorire che si auto-selezioni un’immigrazione a sua
immagine e somiglianza, cioè altrettanto anomica e deviante, cioè che l’Italia eserciti
una particolare attrazione su quelle fasce di emigrati più disposte a comportamenti
che sfuggono a ogni normazione in campo economico, ma non soltanto.
D’altro canto, l’economia sommersa se offre il miraggio di un guadagno anche
agli immigrati privi di documenti, in realtà li costringe a condizioni di lavoro e di
vita molto cattive. Tutto ciò, però, non spinge al ritorno neppure chi si trova in
situazioni pessime, né costituisce alcun effetto di disincentivo sulle nuove partenze.
La catena migratoria agisce soltanto a senso unico, quello di favorire nuove
immigrazioni.
Quasi tutti coloro che nelle interviste dichiarano di stare male sostengono che
non consiglierebbero mai parenti o amici di fare quello che hanno fatto loro, perché
non ne vale la pena tenendo conto delle fatiche sopportate e dei rischi corsi.
Tuttavia nessuno accenna neppur vagamente all’ipotesi di ritornare per sempre al
paese di origine e tutti ritengono che le proprie opinioni negative non riuscirebbero
mai a dissuadere dall’emigrare gli amici o i parenti rimasti. Per chi è già immigrato
opera un «effetto rocket», per cui la ruota non torna indietro: pochi ritornano al
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paese di origine, neppure chi sta male e non dovrebbe trovare alcun vantaggio nel
restare ancora. Per chi sta nel paese di origine opera invece un «effetto selffeeding»: l’aspirazione a emigrare non è frenata neppure se giunge l’informazione
che la situazione del paese di arrivo è in realtà ben diversa da quella sognata.
Non si deve dimenticare che l’emigrazione è una scommessa tra chi emigra e
chi resta. Si tratti di un investimento familiare o di una fuga, chi emigra deve
dimostrare a chi è rimasto che le fatiche e i costi sostenuti sono serviti a qualcosa e
il modo migliore per dimostrarlo è fare molti soldi. A parte l’obbligo di rimborsare
chi ha contribuito a sostenere le spese per emigrare, inviare rimesse o tornare carico
di regali sono comportamenti che l’immigrato deve seguire se non vuole «perdere la
faccia» nella società di origine. L’immigrato farà di tutto pur di evitare un ritorno
senza soldi poiché dovrebbe rassegnarsi a essere un «morto che cammina» tra i suoi
pareti e i suoi amici. Perciò farà di tutto per proseguire il suo percorso migratorio
anche di fronte a crescenti difficoltà. Emigrare è per lo più una decisione cruciale,
cioè non reversibile, soprattutto per chi non ha successo.
Per gli stessi motivi l’immigrato tende a dare a chi è rimasto al paese di origine
un’immagine positiva dell’emigrazione. Solo nascondendo gli aspetti negativi delle
reali condizioni di lavoro e di vita nel paese di arrivo, l’emigrante può vantarsi della
propria scelta e guadagnare maggiore considerazione sociale. Tuttavia, anche se non
lo facessero, il loro consiglio di non emigrare non sarebbe creduto e quindi non
avrebbe alcun effetto di dissuasione, come testimoniano alcune interviste.
Io non consiglierei nessuno di venire qua in Italia momentaneamente rimanendo
clandestino, perché si fa fatica a cercare un lavoro. Ma è molto difficile tornare e dire
“Guarda che si vive male in Italia”. La prima cosa che dirà sarà: “Questo qua è cattivo, è
geloso. Questo qua non vuole che io divento come lui” (un senegalese).
Se anche scoraggiassi un mio amico dal venire in Italia, lui penserebbe che non gli voglio
bene (un marocchino).
Vi è innanzitutto un’inevitabile contraddizione tra la comunicazione verbale e
quella non verbale degli immigrati di ritorno 9. Come può essere creduto chi fa un
racconto negativo della propria esperienza, se contemporaneamente mostra i segni
esteriori di un benessere raggiunto proprio grazie all’emigrazione? E’ interessante
osservare come questa contraddizione sia stata colta da un giornale di emigranti
marocchini ove è stata pubblicata la vignetta di emigrante ben vestito e con una
macchina lussuosa che parla delle sue cattive condizioni nel paese di arrivo. Ma,
anche se tale contraddizione non esistesse, gli intervistati sostengono che un loro
parere negativo non sarebbe creduto a priori, perché sarebbe considerato segno di
inimicizia o di rivalità. Se così fosse, saremmo di fronte a un caso in cui il contenuto
di una comunicazione perde ogni significato di fronte alla relazione che esiste tra il
soggetto che la esprime e quello che la riceve. E la catena migratoria si troverebbe
ad alimentare nuovi flussi a prescindere dalle informazioni che trasmette, quindi
anche a fronte di un drastico peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita nelle
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società di arrivo. Soltanto considerando questi comportamenti a livello microsociologico si possono comprendere fenomeni altrimenti inspiegabili a livello macroeconomico.
2. I progetti migratori
Tornando alla questione della decisione di emigrare, va introdotto il concetto
di «progetto migratorio». Come tutte le decisioni cruciali, perché in larga misura
non reversibili, anche quella di emigrare coinvolge tutta l'identità di una persona e le
reti di persone rispetto alle quali tale identità si è costruita. Occorre quindi uscire da
un approccio meramente razionalistico ed economicistico, che fa dipendere la
decisione di emigrare dal confronto tra i redditi attesi al netto dei costi da sostenere.
Tuttavia è altrettanto inadeguata la posizione di chi rifiuta di cogliere le motivazioni
e le prospettive di chi emigra ritenendole confuse e mutevoli. E’ vero che
l’emigrazione costituisce spesso la risposta a un momento di crisi che irrompe nel
corso di vita di una persona e che solo dopo l’emigrazione motivi e intenzioni sono
rielaborati e l’emigrato ne diventa consapevole. Ma è indubbio che il modo in cui
l’immigrato «rivive» la decisione di emigrare condiziona profondamente i suoi
comportamenti sia nel mercato del lavoro, sia nella più vasta società. Perciò per
progetti migratori si devono intendere i più generali orientamenti verso
l’emigrazione attraverso i quali gli emigranti spiegano perché hanno lasciato il
proprio paese e con quali prospettive stanno vivendo nel paese di arrivo. Secondo la
tradizione weberiana i «progetti» sono tipi ideali che rappresentano il diverso
significato dato all’azione di emigrare quando si sta vivendo nel paese di arrivo.
I progetti migratori si definivano tradizionalmente sulla base delle intenzioni di
chi emigra. Fin dall'inizio l'emigrante poteva proporsi di stabilirsi definitivamente o
di fermarsi solo il tempo necessario a realizzare un certo risparmio da impiegare nel
paese di origine. Nel secondo caso la durata prevista poteva prolungarsi di qualche
anno, sia perché si rivelavano errati i calcoli sui guadagni e/o sul costo della vita, sia
perché, lontani dal sistema socio-culturale di origine, gli immigrati erano distratti dai
valori consumistici della società di arrivo e sentivano sempre meno i costi
psicologici della separazione dalla «terra natale». Ma ora non regge più la
distinzione canonica tra migrazioni permanenti o di insediamento e quelle
temporanee o per lavoro, cui si sovrapponeva quella tra movimenti inter o intracontinentali. Il minor costo e la maggior rapidità dei trasporti, la grande diffusione
dal centro verso tutte le periferie del mondo delle informazioni culturali, politiche e
soprattutto sugli stili di vita e di consumo, alcuni profondi mutamenti sociali nei
paesi sottosviluppati (dal processo di urbanizzazione all’aumento dei giovani istruiti
anche fuori dalle élites, alla rottura sia pur parziale e contraddittoria della
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tradizionale subordinazione delle donne): molti sono i fattori che concorrono a
«strutturare» movimenti migratori più complessi.
Da tutte le interviste risulta che la grande maggioranza è emigrata per motivi
economici e di lavoro, mentre alcuni, soprattutto donne, accennano al desiderio di
raggiungere dei familiari ed altri (sempre meno negli ultimi anni) a motivi di studio.
Tuttavia si può notare come anche all’interno dei motivi economici a chi parla di un
mero bisogno si accompagna una fascia spesso altrettanto rilevante di immigrati che
attribuiscono l’espatrio al desiderio di mobilità economica per sé e/o anche la
propria famiglia. I motivi di ordine politico sono indicati dai pochissimi che
provengono da paesi con guerre civili o conflitti aperti, mentre non vi accenna quasi
nessuno di coloro che pur vengono da paesi con regimi oppressivi. Invece ridotta,
ma a volte significativa è la fascia di immigrati che dichiara di aver deciso di lasciare
il proprio paese per «fare nuove esperienze», «conoscere i paesi occidentali»,
«vivere in una società più libera e tollerante» 10. Si tratta per lo più di giovani, con
un livello di istruzione medio-alto e provenienti da un contesto urbano, cioè emigrati
con le stesse caratteristiche di chi indica lo scopo di «andare a stare meglio», mentre
un’età meno giovane, un inferiore livello di istruzione e una provenienza più rurale
caratterizza chi è emigrato «per bisogno» o per trovare un qualsiasi lavoro.
Ma le interviste informali rivelano che quello dell’emigrato «per lavorare» è
uno stereotipo dietro il quale spesso si rifugia l’intervistato per accondiscendere alle
aspettative dell’intervistatore e quindi difendere la propria privacy in una situazione
di intervista standardizzata e «fredda» 11. Non è forse un caso che l’area degli
emigrati per conoscere nuovi stili di vita o per insoddisfazione risulta più ampia nelle
interviste aperte condotte da intervistatori immigrati. Dunque solo una
combinazione dei dati forniti da indagini quantitative e delle informazioni raccolte
con storie di vita e interviste in profondità può fornire una rappresentazione
realistica dei diversi progetti migratori. La tipologia è analitica, non si può escludere
cioè che più di un progetto conviva nella stessa persona e quindi influisca in modo
contraddittorio sui suoi orientamenti all’azione.
Quella dominante rimane ovviamente la tradizionale emigrazione a tempo e
scopo definiti. L'identità sociale resta ancorata alla società di origine e si scinde
nettamente da quella lavorativa. Ogni attività è considerata un semplice strumento
per guadagnare e inviare rimesse ai familiari in patria. La marginalità sociale in
emigrazione non è vissuta come tale, ma come una parentesi transitoria. Anche le
abitudini di consumo sono quelle del paese di origine e i guadagni dei lavori più
scadenti sembrano sempre enormi, considerato il potere di acquisto in patria. Questi
immigrati si inseriscono facilmente nel settore secondario del mercato del lavoro,
quello delle attività dequalificate, nocive, faticose oltre che irregolari, poiché pur di
guadagnare non sentono tale scelta come particolarmente penosa sul piano sociale.
Anche perché costoro in genere possiedono più bassi livelli di istruzione. La scelta
di emigrare matura all’interno del gruppo familiare e/o comunitario e costituisce un
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«investimento collettivo» per realizzare un obiettivo di mobilità socio-economica
per l’intera famiglia allargata, che fornisce il denaro necessario per il viaggio e per il
primo soggiorno nel paese di arrivo.
Tuttavia quando si tratta di una famiglia molto estesa, come spesso accade,
l’economia solidale drena tutte le risorse accumulate in emigrazione sicché
l’obiettivo del risparmio non viene realizzato e le scadenze temporali «slittano». Da
temporaneo canale di mobilità sociale l’emigrazione rischia di diventare uno stabile
modo di assicurare la sussistenza di una vastissima parentela al paese di origine 12. A
questa «trappola» è possibile sfuggire soltanto rifiutando la responsabilità verso la
famiglia estesa. Inoltre la frequente situazione di irregolarità nel soggiorno rende
impossibili o quasi periodici rientri al paese di origine, necessari per rinsaldare i
legami familiari e comunitari e poter quindi prolungare l’emigrazione con gli stessi
obiettivi. A questa difficoltà la collettività senegalese ha reagito rinsaldando al
massimo i suoi legami in emigrazione e ricorrendo a visite periodiche di esponenti
religiosi al fine di mantenere il controllo sociale. Altri gruppi non hanno potuto
usare tali risorse e quindi incombe il rischio o che un rientro irregolare interrompa
precocemente l’emigrazione o che la continua lontananza comporti un mutamento
del progetto verso un ricongiungimento della famiglia nucleare e un più stabile
insediamento. Per costoro è probabile muti l’orientamento al lavoro, con la ricerca
di attività più regolari e stabili e il rifiuto di quelle precarie e degradanti, anche se
redditizie.
Tali rischi sono ovviamente esclusi per chi pratica un'emigrazione stagionale.
L’emigrazione «ruotante» di persone che non si considerano emigranti, ma piuttosto
«lavoratori all’estero» o «tra due rive», che rientrano al paese nella stagione
invernale una volta finiti i lavori agricoli o di vendita ambulante, costituiva una
quota rilevante dell’immigrazione in Italia prima della sanatoria del 1990, quando di
fatto era facile uscire e rientrare in Italia. Per molti giovani magrebini poco istruiti,
ancora di origine contadina o recentemente inurbati, l’Italia non rappresenta una
vera e propria meta di un progetto migratorio, ma «un modo di allungare il passo
del loro giro abituale», cioè del loro «circolare» tra città e campagna 13. Sono alla
ricerca di lavori saltuari (dall’agricoltura all’edilizia, al commercio ambulante) per
compensare i periodi morti nelle zone di provenienza, ove periodicamente ritornano.
Costoro non si considerano nemmeno immigrati, poiché conservano un’attività da
svolgere al paese di origine nei periodi di rientro dopo le «vacanze estive». Dal 1991
i movimenti sono continuati in modo meno intenso aggirando frontiere e restrizioni
grazie alla breve distanza e alla facilità delle comunicazioni, poiché non è stata
istituzionalizzata l’immigrazione per lavori stagionali. Per contro alcune regioni del
Centro-Nord hanno avviato un flusso regolare da alcuni paesi dell’Europa orientale
utilizzando la procedura prevista dalle legge del 1986 grazie all’intermediazione di
organizzazioni religiose. Dopo aver lavorato alla raccolta di prodotti ortofrutticoli o
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in alberghi e ristoranti durante la stagione estiva costoro ritornano in patria quasi
sicuri di poter ripetere la loro esperienza l’anno successivo.
Egualmente temporaneo e circolare ed altrettanto difficilmente definibile come
emigrazione è il percorso dei magrebini e dei senegalesi che sono interessati a stare
per qualche mese in Italia, come in altri paesi dell’Europea meridionale, per vendere
prodotti di artigianato tradizionale o per acquistare elettrodomestici ed altri prodotti
moderni da rivendere in patria. La scarsissima attenzione posta dalla ricerca italiana
all’attività di informale import-export tra i paesi del Mediterraneo, conosciuta con il
termine di trabendo, fa supporre che in Italia tale fenomeno non abbia (ancora?)
assunto dimensioni significative, tranne forse in alcune città portuali come Genova,
Napoli e Palermo. Piuttosto si è notata un’evoluzione dell’emigrazione senegalese,
per cui alcuni immigrati hanno consolidato la loro attività commerciale, passando
dal commercio ambulante a quello all’ingrosso, sia di importazione sia di
esportazione. Questa attività presuppone una forte mobilità geografica, sia in Italia
sia tra l’Italia ed il paese di origine, e la costruzione di una vasta rete di contatti
commerciali.
Ma tra i giovani africani di origine urbana, istruzione superiore e posizione
sociale medio-alta è presente un altro tipo di progetto, quello «esplorativo», che si
caratterizza per la grande mobilità e la totale incertezza sulle prospettive. Questa
emigrazione esprime l'inquietudine di chi fugge dall'ambiente di origine alla ricerca
di una società diversa, quella democratica e moderna di cui ha appreso a scuola o al
cinema. Non pochi hanno studiato in paesi sviluppati e, non rientrando in patria,
prolungano le aspettative temporali sulle scadenze di vita e allontanano il momento
delle scelte definitive 14. Andarsene o star lontano dal proprio paese proroga la
moratoria connessa alla condizione di studente e le attività lavorative sono vissute
come mero strumento di sopravvivenza. L'aspetto economico può riscattarle, perché
tornare a casa con il denaro per «mettersi in proprio» può essere un indice di
successo, ma non è indispensabile, poiché quel che si cerca è altro, di ordine più
personale e culturale.
Stimoli alla partenza sono lo spirito di avventura, il desiderio di conoscere altri
e più aperti modi di vivere, la curiosità verso culture e mondi diversi. Ai motivi di
fuga si uniscono quelli di attrazione: il mito dell’Occidente ricco, dove è facile aver
successo e star bene e dove la propria vita non è segnata dalla tradizione o dal
volere di genitori e parenti 15. Questo comportamento presuppone una grande forza
di carattere, perché si tratta di rompere con l’ambiente sociale e familiare in cui si è
vissuti, e buone risorse personali, perché gli «esploratori» si avventurano in un paese
ignoto, senza il sostegno delle catene migratorie. In un paese di nuova immigrazione
e privo di tradizioni coloniali come l’Italia questa figura ha avuto un grande rilievo
in termini quantitativi all’inizio del processo migratorio, fino quasi a metà anni
Ottanta, soprattutto tra i senegalesi, ma anche tra i marocchini. Successivamente ha
conservato un’importanza qualitativa, poiché molti «esploratori» sono diventati
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leaders naturali della propria comunità, benché recentemente insidiati dall’arrivo di
esponenti religiosi inviati da autorità governative o dalle confraternite tradizionali 16.
Alla ristretta élite degli esploratori si avvicina per alcuni aspetti un percorso
molto più diffuso che si potrebbe chiamare l'emigrazione del giovane della «periferia
accanto». In questo caso l'area geografica si restringe alla riva meridionale e
orientale del Mediterraneo, da cui giovani istruiti e di ceto medio partono «per fare
esperienze» nell'area metropolitana dei paesi della riva settentrionale come un
giovane di una cittadina di provincia che voglia conoscere la grande città, ove
nascono i miti consumistici e culturali. Secondo la bright light theory ciò che li
attira è il miraggio della downtown, con la sua confusione, le vetrine illuminate, i
cinema, i divertimenti, il benessere, la libertà sessuale 17. Questi giovani sono molto
mobili lungo la direttrice paese di provenienza-Italia, ma anche altri paesi europei.
In questi ultimi casi l’emigrazione è spesso un atto di ribellione contro la
famiglia, un modo per sfuggire a un matrimonio «combinato» o a un destino socioprofessionale segnato dalle consuetudini. Ma, anche se non esplicitamente, una
scelta maturata in solitudine, senza il sostegno economico e morale della famiglia e
della comunità di appartenenza, assume un diverso significato per chi la compie,
poiché comunque il distacco presenta aspetti di rottura dei legami familiari e
comunitari, che sono destinati a influire sui comportamenti e sulle prospettive in
emigrazione. Anche questo progetto migratorio può nascere da insoddisfazioni per
la vita familiare e/o lavorativa o da un’inquietudine esistenziale che si autoalimenta
nella noia del tempo libero trascorso con gli amici 18. La dimensione economica è
secondaria rispetto a quella del «viaggiare», ma quando il fascino dei miti travolge
l'iniziale progetto di un soggiorno breve, non pochi rischiano di ritrovarsi sul
mercato del lavoro della marginalità urbana e della trasgressione, disposti a
qualunque attività legale o illegale. La visita alla dowtown rischia allora di
trasformarsi in un vagabondaggio, in cui l’iniziale gusto dell’avventura e della
scoperta cede il passo alla disperazione, da cui non si può uscire ritornando «al
paese» perché tutti i ponti ormai sono rotti 19.
Anche da un altro tipo di progetto migratorio può accadere che si sconfini
nella devianza, ma ciò che lo caratterizza è la novità assoluta rispetto ai flussi
migratori del passato, mentre in fondo la dimensione dell'esplorazione e del
«viaggio» ha radici antiche e solo la maggior facilità dei trasporti ne ha modificato la
natura e ampliato la diffusione. L'emigrazione «consumistica», «alla ricerca
dell’Eden promesso dalla televisione»20, esprime l'aspirazione ad assumere subito i
modelli di vita e di consumo dei paesi sviluppati e si contrappone a quella a tempo e
scopo definiti, che presuppone invece un rigido auto-contenimento dei consumi per
accrescere al massimo i risparmi da inviare al paese di origine. Questo fenomeno si
deve alla «socializzazione anticipatoria» operata dai mezzi di comunicazione di
massa e in particolare dalla televisione, che tende a fornire un'immagine opulenta e
non realistica delle condizioni di vita delle società sviluppate. Quelli acquisitivi
10
diventano gli unici modelli di riferimento, da raggiungere subito e senza
preoccuparsi del modo. Ciò accentua la propensione a un approccio strumentale al
lavoro e in particolare la disponibilità al sommerso, che a breve termine può
«rendere» di più, se non addirittura alle attività illegali, dalla prostituzione allo
spaccio di droga.
L'Italia a volte è considerata paese di emigrazione temporanea da parte di
emigranti che intendono stabilirsi in altri paesi, più ricchi, linguisticamente vicini o
nei quali hanno più estese reti di relazioni. Spesso l'attesa diventa molto lunga e
anche gli emigranti di passaggio si presentano sul mercato del lavoro, pur rimanendo
in una prospettiva transitoria. Invece gli immigrati orientati a un insediamento stabile
sono ancora abbastanza pochi e quasi nessuno è entrato in Italia con questo scopo
esplicito. Il progetto di un'immigrazione definitiva è andato per lo più maturando
man mano si chiudevano per ragioni economiche o politiche le prospettive di rientro
nel paese di origine e/o miglioravano le condizioni di inserimento nella società di
accoglienza. Le caratteristiche di questo progetto sono quelle tradizionali, con una
sola peculiarità: le strette relazioni che chi è orientato a un’immigrazione definitiva
conserva con chi continua a rimanere in un’ottica temporanea, poiché le comunità
nazionali insediate hanno ancora dimensioni troppo piccole. Come si è già
accennato, l’orientamento temporaneo può anche trasformarsi in un perverso
orientamento «indefinito», quando sono caduti gli obiettivi o le aspirazioni iniziali,
ma rimanere in emigrazione diventa l’unica via sostenibile, pur a caro prezzo.
L’emigrazione per motivi politici, che aveva avuto un certo rilievo negli anni
Settanta (eritrei, cileni, polacchi, iraniani), ora è ridotta a poca cosa, se si escludono
i rifugiati fuggiti alla guerra civile della ex-Yugoslavia e gli episodi di temporanea
«invasione» degli albanesi. Ma in questo caso si deve parlare più di mancanza di
ogni progetto, poiché la dimensione della fuga da una situazione insostenibile
prevale su tutte le altre. L’Italia peraltro ha praticato una politica molto rigida verso
i rifugiati, compresi quelli dalla ex-Yugoslavia, tanto che la presenza di immigrati
provenienti da Bosnia o Croazia sta crescendo da quando la guerra civile è finita ed
assume piuttosto le caratteristiche di una più consueta immigrazione economica: per
lo più stagionale o a tempo e scopo definiti, poiché si dirige prevalentemente verso
le confinanti regioni del Veneto e del Friuli.
Last, but not at all least, anche la realtà dei movimenti migratori è stata molto
modificata da un nuovo protagonismo delle donne. La presenza femminile era legata
allo stadio di maturità di un flusso migratorio, quando le donne emigravano per
raggiungere mariti o padri emigrati da tempo per ricostituire l'unità della famiglia
nella prospettiva di un insediamento definitivo o comunque di lungo periodo. Già a
fine anni Sessanta molte riunificazioni familiari della vecchia emigrazione avevano
mutato natura: ai motivi di ordine affettivo si erano aggiunti quelli economici e in
parecchi giovani coniugi emigravano insieme per lavorare entrambi e raggiungere
più in fretta il risparmio desiderato, abbreviando il periodo di emigrazione 21. In
11
entrambi i casi però le scelte migratorie delle donne dipendevano da quelle dei
propri uomini.
Molto diversa è invece la situazione delle migliaia di donne emigrate da sole in
Italia con un proprio progetto lavorativo (sia pur limitato al lavoro domestico) e
solo successivamente in parte raggiunte dai propri uomini 22. Si tratta per lo più di
giovani, nubili o vedove/divorziate/ripudiate, spesso con un buon livello di
scolarizzazione, benché vi siano anche donne sposate con figli al paese di origine.
Per comprendere questo nuovo fenomeno occorre guardare al processo di
destrutturazione che investe alcuni paesi del Terzo Mondo, in particolare quelli ove
la diffusione del cattolicesimo pare aver acuito le contraddizioni della
modernizzazione e favorito le relazioni con paesi europei non solo sul piano delle
informazioni, ma anche organizzativo (enti ed ordini religiosi sono stati importanti
canali di intermediazione e reclutamento). In questi paesi il mutamento della
condizione femminile delinea una contraddittoria coesistenza, spesso anche nelle
stesse donne, tra la ricerca di emancipazione e nuovi stili di vita e la sopravvivenza
della famiglia estesa. A volte è difficile distinguere se l’emigrazione sia nata da una
scelta individuale di emancipazione e di rottura con le reti di relazione comunitarie
oppure si inserisca in una strategia familiare di ascesa socio-economica, perché in
realtà entrambi gli elementi sono presenti.
Soprattutto quando prevalgono le obbligazioni familiari il progetto migratorio
inizialmente si caratterizza come a tempo e scopo definiti. Tuttavia spesso con il
passare del tempo tale obiettivo perde sempre più di importanza, mentre tendono a
prevalere le altre motivazioni di ordine personale. Ciò può provocare gravi
situazioni di crisi nella donna emigrata, soprattutto se i figli e/o il marito sono
rimasti al paese di origine. L’esito può essere o la rottura definitiva o il
ricongiungimento, con gravi difficoltà psicologiche nel primo caso e logisticoeconomiche nel secondo, poiché una domestica non ha una casa propria in cui far
vivere i figli e il marito che entra per ricongiungimento familiare non può lavorare
regolarmente per un anno. Alcune donne invece esprimono apertamente una rottura
con i tradizionali legami familiari. Si tratta spesso di giovani istruite, il cui
matrimonio è stato drammaticamente interrotto dalla morte del marito, dal divorzio
o dal ripudio. Rimaste sole, a volte con figli, secondo le norme culturali e sociali del
loro paese sarebbero dovute tornare sotto il controllo dei genitori, propri o del
marito. L’emigrazione diventa allora una fuga senza ritorno per cercare di
conservare l’autonomia acquisita.
3. Modelli di relazioni tra gli immigrati e integrazione sociale
Chi emigra lascia una società in cui era ben conosciuto, cioè era inserito in reti
di relazioni familiari e personali che esercitavano sui suoi comportamenti un più o
meno forte controllo sociale, ed entra in una società di cui non soltanto conosce
12
poco le norme, ma nella quale è sconosciuto, cioè non soggetto al controllo sociale
delle reti informali. Secondo un’ipotesi classica nella tradizione sociologica, i
movimenti migratori provocherebbero uno stato di anomia nei migranti e di
disorganizzazione sociale nella società di arrivo, poiché lo sradicamento e la perdita
di identità dei migranti favorirebbero marginalità e devianza. Da qui la grande enfasi
sulla necessità di integrare rapidamente gli immigrati nella nuova società attraverso
meccanismi di socializzazione secondaria. A questo approccio se ne contrappone un
altro che trae origine da due concetti, quello di catena migratoria e di comunità
etnica.
L’esistenza di una catena migratoria farebbe sì che l’emigrante trovi un
«pezzo» della società di origine pronto ad accoglierlo ed aiutarlo, ma anche a
controllarne i comportamenti secondo le norme sociali cui è stato socializzato fin
dall’infanzia. Si suppone così che nei paesi di immigrazione si formino delle enclaves
etniche, in cui si riproducono la cultura originaria e l’attaccamento al paese di
origine. In termini di politica dell’immigrazione nella società di arrivo non si
porrebbe più il problema dell’integrazione (secondo il modello francese), bensì
quello delle relazioni etniche (secondo quello inglese).
La realtà dei movimenti migratori è tuttavia molto più differenziata e non può
essere racchiusa nell’alternativa tra queste due ipotesi, che non solo enfatizzano in
modo unilaterale fenomeni che in diversa misura sono presenti in ogni movimento
migratorio, ma ignorano sia le ampie diversità delle società di origine, sia il diverso
feedback che le diverse società di arrivo possono esercitare. Invece le conseguenze
disgreganti o segreganti di un movimento migratorio possono variare a seconda
delle caratteristiche della società di arrivo e della società di partenza ed a seconda
delle modalità stesse di un flusso migratorio. Perché si abbia emigrazione, nelle
società di origine si deve in qualche modo esser rotto un equilibrio di sussistenza e
di chiusura nei valori tradizionali, ma gradi e modi di tale rottura possono essere
molto diversi. Quanto alle società di arrivo, la loro capacità di integrazione o la loro
tendenza alla segregazione o al dialogo inter-etnico possono essere molto differenti.
Infine per le caratteristiche del movimento migratorio, si pensi solo ai diversi
progetti migratori, da quelli inseriti in una strategia familiare a quelli che invece
nascono da una rottura con la cultura di origine.
Dunque un modello che cerchi di dar conto delle differenze nei comportamenti
dei migranti deve considerare contemporaneamente tre dimensioni:
a. il grado di disgregazione o di compattezza sociale e culturale della società
di origine e la sua esposizione alle norme, agli stili di vita ed alle aspirazioni delle
società sviluppate;
b. le caratteristiche dell’emigrazione, dai progetti migratori ai vincoli
legislativi;
c. il livello di organizzazione sociale del paese di arrivo e la sua capacità di
risocializzare o di accogliere persone culturalmente diverse.
13
Per affrontare la terza dimensione occorre un’analisi comparativa, che è
ancora agli inizi, mentre la prima richiede una ricchezza di studi sociologici e
antropologici sulle società di origine degli immigrati, di cui purtroppo non vi è
alcuna traccia in Italia. Quindi il contributo all’implementazione del modello non
può che essere molto parziale e consiste nel tentativo di ricostruire le diverse forme
di coesione sociale che le collettività degli immigrati assumono, con particolare
attenzione alle relazioni con i paesi di origine e al grado di estensione e di chiusura
delle reti etniche.
Pur ovunque centrale, il ruolo delle catene migratorie risulta diverso secondo i
gruppi nazionali. Ovviamente a parità di anzianità del flusso migratorio, gli
immigrati di alcuni gruppi sono arrivati in Italia chiamati da chi li aveva preceduti o
al seguito di amici o parenti più spesso che non gli immigrati di altri gruppi. Del
diverso ricorso alla catena migratoria è possibile cogliere un altro indicatore: a chi
gli immigrati si sono rivolti per la prima accoglienza (persone già conosciute al
paese di origine o connazionali mai conosciuti prima). Altrettanto differenti sono le
reti di relazione e le forme di aggregazione dei principali gruppi di immigrati
presenti in Italia. Tenendo conto di tre dimensioni (l’auto-identificazione degli stessi
migranti, l’estensione delle reti di comunicazione e di solidarietà, la presenza o
l’assenza di associazioni o di leadership informali) si possono delineare tre tipi ideali
di organizzazione sociale, diversi per grado di coesione ed estensione delle relazioni:
la comunità nazionale, il clan familiare o locale, l’isolamento individualistico.
a. La comunità di immigrati
Vi sono degli immigrati che si autodefiniscono esplicitamente come membri di
una comunità anche se non sono effettivamente presenti nello stesso ambito locale
23
. Tra costoro è presente una forte solidarietà, in grado affrontare sia le difficoltà
quotidiane, sia gli eventi eccezionali, che si traduce spesso nell’abitare in comune o
comunque nell’offrire ospitalità quasi senza limiti. Tale solidarietà va molto oltre
l’ambito della conoscenza familiare o del riconoscimento su scala locale, ma si
estende all’intero paese di origine o comunque ad una sua vasta regione. La
funzione di rappresentare interessi e cultura verso la società di arrivo è affidata ad
associazioni o a leaders informali, ma ben riconosciuti. In questo caso soltanto
possiamo parlare dell’esistenza di una vera e propria comunità di immigrati. Questa
forma di organizzazione sociale non costituisce però il semplice trasferimento nel
paese di arrivo di una comunità originaria già esistente, poiché spesso raggruppa
persone che nel paese di origine non si sarebbero mai frequentate in quanto
profondamente divise da appartenenze sociali, etniche o culturali.
I senegalesi costituiscono l’esempio più chiaro di questo tipo di
organizzazione sociale degli immigrati 24. Innanzi tutto dalle testimonianze e dalle
storie di vita risulta come, a parte i pochi esploratori della fase iniziale, nessuno sia
partito dal Senegal senza avere un punto di riferimento in Italia, cioè più indirizzi
14
dove recarsi e trovare ospitalità e aiuto. Il livello di accoglienza potrà variare a
seconda del grado di parentela e delle possibilità, ma chi emigra è comunque sicuro
di trovare letto e cibo in quanto «fratello senegalese».
I senegalesi presenti in Italia sono per lo più maschi che fanno vita di gruppo
in alloggi collettivi. La convivenza segue regole precise per quanto riguarda la
divisione a turni dei compiti domestici, la ripartizione delle spese, il rispetto degli
spazi comuni. Una gerarchia generazionale condiziona l’organizzazione della vita di
gruppo per quanto riguarda la divisione dei lavori domestici e la leadership
informale. Gli alloggi collettivi accolgono non solo persone legate da relazioni di
parentela od originarie dallo stesso villaggio, ma anche persone che si sono
conosciute per la prima volta in Italia e di etnie e condizioni sociali diverse. Anche
chi arriva senza far ricorso a canali comunitari viene subito inglobato nel gruppo
senegalese locale. Le forme di mutuo soccorso sono organizzate sì da offrire ai
membri della comunità senegalese un pacchetto di garanzie contro i rischi
dell’emigrazione sin dall’arrivo. Il nuovo arrivato è esonerato dalla spese per la casa
e il cibo per un certo periodo e successivamente in caso di bisogno (multe da
pagare, malattie, merce sequestrata, disoccupazione, necessità di rientro improvviso,
ecc.) si provvede a collette sia tra i compagni di casa, sia tra tutte le case di una
comunità locale.
Spesso le comunità senegalesi danno vita a livello locale a strutture formali di
coordinamento e di rappresentanza (associazioni o cooperative) sia per migliorare le
proprie condizioni, sia per entrare in rapporto con istituzioni della società di arrivo.
Se si escludono i gruppi con un vecchio insediamento politicizzato (come gli eritrei)
o sostenuti da strutture religiose italiane (come i filippini), quello senegalese è forse
il gruppo con il più alto grado di associazionismo e di collaborazione con le
istituzioni locali. Infine sono numerose e intense le relazioni tra le diverse comunità
senegalesi in Italia: ciò costituisce allo stesso tempo una condizione e un risultato
della grande mobilità territoriale dei senegalesi, che sembra peraltro avere radici
tradizionali.
Secondo alcuni ricercatori, la solidarietà e l’assistenza del gruppo lungo tutto
il percorso migratorio fanno sì che l’immigrato senegalese rimanga inserito nello
stesso universo di valori, di rituali, di regole di comportamento che aveva assimilato
al paese di origine tanto da poter parlare di un piccolo pezzo di Senegal trapiantato
nelle città italiane. Alcune indagini hanno mostrato che l’adesione totale ai valori e
alle norme tradizionali, che comportano una chiusura comunitaria, è propria dei
senegalesi meno scolarizzati e di origine rurale, mentre i cittadini scolarizzati hanno
un atteggiamento più critico e tendono ad avere più interazioni e relazioni amicali
con italiani. Tuttavia non risultano senegalesi che rifiutino del tutto gli obblighi
verso il gruppo di origine.
All’interno di una comunità così strutturata i senegalesi rimangono soggetti
allo stesso controllo sociale cui erano soggetti nella società di origine. Non soltanto
15
vivere in seno a un gruppo di pari consente di riprodurre valori e norme di
comportamento tradizionali, ma vi sono anche figure deputate a richiamare gli altri
immigrati al loro rispetto: gli anziani, cui si riconosce autorità morale, e soprattutto
gli esponenti di una confraternita religiosa, la tariqa muride, una versione della
religione musulmana nata a fine Ottocento, che già era riuscita ad evitare la
disgregazione delle solidarietà di villaggio nella fase di massiccio inurbamento in
Senegal.
Come comunità certamente più chiusa si presenta l’immigrazione cinese, sia
per il prevalente carattere familiare, sia perché le attività economiche cui è dedita si
svolgono tutte o quasi all’interno della comunità. In realtà l’organizzazione sociale
dei cinesi in Italia è quella tipica della diaspora cinese in tutti i paesi del mondo,
anche se gli immigrati in Italia provengono soprattutto dalla Cina popolare, mentre i
meno recenti flussi in Francia e negli Stati Uniti sono per lo più originari da
comunità cinesi in altri paesi asiatici. Si tratta di un’organizzazione economica
costituita sulla base di networks familiari ed etnici, per cui si adatta perfettamente il
termine ethnic business. Piccoli imprenditori cinesi fanno lavorare nei propri
ristoranti o fabbriche di oggetti in cuoio soltanto familiari o membri della comunità,
quasi sempre in condizioni irregolari e di grande sfruttamento. La catena migratoria
è rigidamente organizzata, ma in funzione di un insediamento a lungo termine e non
di un progetto temporaneo. L’estrema subordinazione cui sono costretti i nuovi
entrati, spesso in modo irregolare, tende a volte ad assumere le caratteristiche di un
vero e proprio traffico di manodopera.
Nonostante non siano nate ancora delle Chinatowns, cioè dei quartieri
separati, i cinesi tendono a vivere in modo del tutto isolato dalla società locale,
concentrando le proprie relazioni all’interno della comunità25 e rifiutando non
soltanto ogni forma di contaminazione culturale, ma anche di «farsi indagare» dagli
studiosi. Questo isolamento, che per l’ancor piccolo numero diventa invisibilità,
comporta anche il rifiuto di istituzionalizzare la rappresentanza della comunità. Il
controllo sociale resta molto forte all’interno della comunità, come dimostra
l’assenza di comportamenti anomici e devianti. Tuttavia le forme di solidarietà e di
mutuo soccorso sono su base non paritaria per la forte stratificazione di potere
economico esistente nella comunità.
Caratteristiche radicalmente diverse assume un’altra comunità molto coesa,
con un forte senso di appartenenza e una fitta rete di relazioni, quella degli eritrei,
uno dei gruppi di più vecchia presenza in Italia. L’origine politica delle prime
emigrazioni, cui sono succedute poi emigrazioni di natura economica, ha sviluppato
sia forme di solidarietà fortemente egualitarie, sia un capillare tessuto associativo,
volto non soltanto a preservare l’identità di un popolo minacciato di distruzione in
patria, ma anche a stabilire rapporti con le istituzioni italiane a fini politici 26. Finita
la guerra, le gravi difficoltà economiche dell’Eritrea hanno frustrato le aspettative di
rientro, logorando questo modello di organizzazione sociale della comunità
16
migrante, così come è accaduto per altre immigrazioni di natura politica, dall’Iran al
Cile. E’ interessante tuttavia ricordare come la forte mobilitazione politica degli
eritrei negli anni Settanta abbia inciso sugli atteggiamenti del movimento sindacale e
dei partiti cattolici e di sinistra nella fase iniziale dell’immigrazione in Italia, quando
ancora non si erano definite posizioni precise.
L’ultimo caso di organizzazione comunitaria presenta tuttavia dei caratteri che
lo avvicinano al secondo tipo, quello del clan familiare o locale. Infatti la comunità
filippina, a prima vista fortemente coesa, è in realtà suddivisa in numerosi reticoli su
base familiare e amicale 27. E’ vero che si tratta di un gruppo chiuso, con relazioni
sociali che si strutturano quasi esclusivamente tra i suoi membri 28, e che il senso di
identità culturale e di appartenenza etnica appare molto vivo nelle testimonianze, ma
il riconoscimento principale avviene nei numerosi community groups che esistono in
ogni città. E i community groups nascono dall’unione di più reti informali e ne
conservano la radice familiare e amicale. Le Filippine sono un arcipelago di migliaia
di isole, con una fortissima eterogeneità culturale e linguistica: ciò spiega la
dimensione localistica e particolaristica delle reti, che ne impedisce l’evoluzione in
senso propriamente comunitario.
b. Il clan familiare o paesano
Quando invece l’autodescrizione degli immigrati fa riferimento solo a gruppi
amicali e parentali o a clan locali e le reti di comunicazione restano interne al gruppo
di immigrati provenienti dallo stesso villaggio allora non si può parlare di comunità.
Questo è appunto il caso dei marocchini e in particolare di quelli di origine
contadina, i Beni Mella, con progetti migratori a tempo e scopo definiti inseriti in
una strategia di accumulazione familiare 29. Costoro non parlano di comunità
marocchina, ma di connazionali o compaesani e le loro relazioni sociali sono limitate
a parenti, amici e conoscenti 30. Non esistono forme associative nel gruppo degli
immigrati marocchini, anche dove sono molti e da tempo stabilmente insediati,
mentre prevalgono le piccole aggregazioni e tra i più integrati la partecipazione ad
iniziative promosse da soggetti locali 31. Diversa, come si dirà, è la situazione della
seconda ondata di immigrati marocchini, di origine urbana e scolarizzati.
Un’organizzazione sociale che non si struttura in vere e proprie comunità, ma
resta fondata soltanto su reticoli familiari o localistici si ritrova in parecchi altri flussi
migratori. Queste collettività, che non si identificano come comunità e non hanno
dato vita a centri visibili di rappresentanza, pur disponendo di ampie risorse di aiuto
reciproco e di relazioni su base familiare, hanno due caratteristiche comuni: un
insediamento di tipo familiare e l’alto grado di integrazione economico e sociale.
Anche questo tipo si presenta in diverse versioni: per i marocchini si accompagna a
un’immigrazione individuale temporanea, mentre per egiziani 32 e latino-americani 33
a un insediamento familiare di lungo periodo.
17
c. L’isolamento individualistico
Il terzo tipo, invece, caratterizza soltanto un’immigrazione individuale, con
una prospettiva temporanea o indefinita. Esso si definisce per l’assoluta mancanza di
organizzazione interna al gruppo e di leaders riconosciuti, in grado di svolgere
un’azione di rappresentanza verso la società locale. Tra gli immigrati della stessa
collettività i collegamenti sono scarsi e nelle loro relazioni prevale una diffidenza
reciproca. All’isolamento si accompagna l’assenza di forme di solidarietà verso gli
elementi deboli, che quindi non possono contare su alcun sostegno da parte dei
propri connazionali e neppure da reti particolaristiche, ma possono soltanto
ricorrere alle fragili strutture assistenziali italiane. Poiché si tratta di collettività
composte per lo più da maschi soli, essi vivono in alloggi individuali o in strutture
pubbliche di accoglienza, spesso in condizioni degradate e precarie. Alla mancanza
di un controllo sociale da parte dei propri pari si aggiunge un distacco dalle pratiche
religiose che indebolisce i controlli interni delle norme morali.
Così alcune indagini34 descrivono i tunisini, gli algerini e quella fascia di
marocchini giovani e scolarizzati che emigrano soprattutto per cambiare vita e
sentirsi più liberi. Queste stesse ricerche sottolineano come l’isolamento dagli altri
immigrati del proprio paese e il forte individualismo favoriscano processi anomici e
tendenze alla devianza. Tuttavia da altre ricerche35 per i tunisini residenti a Mazara
del Vallo risulta un ben diverso quadro. Infatti in questa zona di loro vecchio e
consolidato insediamento in Sicilia esiste una comunità tunisina, con una forte
coesione interna e diffuse forme di solidarietà, che si accompagnano a bassi tassi di
devianza. Questo diverso esito si potrebbe imputare sia a un processo di autoselezione degli immigrati tunisini, sia alla stessa evoluzione della presenza tunisina in
Italia, che è andata dapprima crescendo lentamente in Sicilia e poi è
improvvisamente «esplosa» anche nelle altre regioni, dove non aveva radicamento.
Un tessuto di relazioni comunitarie perciò si sarebbe potuto costruire solo dove
l’immigrazione è stata graduale. Tuttavia il fatto che ciò non sia accaduto per altre
collettività (si pensi ai senegalesi) rinvia alle caratteristiche della società di origine.
Che la disgregazione sociale nel paese di provenienza generi una situazione di
isolamento individualistico e tendenzialmente anomico è d’altronde evidente per
gran parte degli immigrati albanesi. Dopo qualche decennio di totale chiusura nel
proprio paese, la massiccia fuga dall’Albania, per lo più verso l’Italia, assume i
caratteri di un’esplosione di claustrofobia e di rifiuto di ogni legame sociale che
possa richiamare il proprio paese di origine. Gli albanesi trovano così grandi
difficoltà a costituire non solo associazioni e reti, ma anche più ristretti gruppi su
base locale. Le relazioni si limitano alla famiglia nucleare e ai parenti stretti, ma non
raramente situazioni di sfruttamento (prostituzione) e di violenza si verificano
all’interno di cerchie familiari ed amicali.
18
4. Dimensioni e dilemmi del processo di inserimento
Per cogliere le prospettive di inserimento degli immigrati nel mercato del
lavoro di arrivo occorre considerare le due dimensioni nelle quali tale processo si
colloca: l'integrazione socioeconomica e l'assimilazione culturale36. Il processo di
integrazione riguarda la collocazione degli immigrati nella struttura delle
occupazioni, l'accesso all'alloggio e al consumo, la fruizione dei servizi pubblici. Si
può tracciare un percorso che va da una situazione di totale segregazione, quando
gli immigrati sono confinati nelle attività più dequalificate e precarie, alloggiano in
condizioni inferiori agli standard minimi e sono esclusi dai servizi pubblici, a una di
piena integrazione, quando hanno le stesse probabilità della popolazione nazionale di
accedere alle posizioni occupazionali più elevate e sicure, di raggiungere buoni
livelli di vita e di usufruire delle prestazioni pubbliche.
Il processo di assimilazione concerne gli aspetti culturali, dai modi di pensare
e di esprimersi alle relazioni familiari e amicali, dalle norme di comportamento ai
valori religiosi. Anche per questa dimensione si può andare da una totale
separazione, per cui gli immigrati conservano in tutti i suoi aspetti la cultura del
paese di origine, a una di piena assimilazione, qualora si identifichino nella cultura
della società di arrivo. Tale processo richiede tempi molto più lunghi che non quello
di integrazione socio-economica e di regola investe le generazioni successive, cioè i
figli o i nipoti di chi è immigrato. Inoltre non può mai essere inteso come una
completa omologazione alla nuova cultura, ma come un avvicinamento più o meno
profondo dei modi di vita e dei costumi degli immigrati a quelli della popolazione
locale.
I due processi tendono ad alimentarsi reciprocamente. Un immigrato ben
integrato per occupazione e alloggio è probabile assimili meglio gli stili di vita della
società che lo ha accolto; mentre chi è rimasto segregato sul mercato del lavoro è
più facile si rinchiuda nella conservazione dei propri valori originari. D'altro canto
per raggiungere una buona posizione lavorativa e un pieno accesso ai servizi
pubblici è utile avere comportamenti e atteggiamenti simili a quelli della popolazione
locale; mentre chi resta chiuso nei valori originari incontrerà grandi difficoltà ad
uscire dalla segregazione socioeconomica.
Ma la relazione tra integrazione e assimilazione può assumere configurazioni
più problematiche. Quando la distanza culturale è molto ridotta e soprattutto per le
seconde generazioni, vi può essere un «eccesso» di assimilazione rispetto al livello
di integrazione raggiunto. Tale squilibrio è fonte di gravi tensioni, poiché gli
immigrati si sentono esclusi dall'accesso a posizioni lavorative o a prestazioni
pubbliche che ritengono ormai consone alla propria condizione di nuovi cittadini in
nulla diversi dai vecchi. Apparentemente fonte di minori tensioni sociali è lo
squilibrio opposto degli immigrati molto integrati sotto l'aspetto lavorativo ed
economico e poco assimilati culturalmente. Costoro si presentano come
19
«incapsulati» e poco visibili, ma a lungo andare vi è il rischio che l'isolamento si
trasformi in conflitto qualora si rafforzino al punto da pensare di poter imporre i
propri modelli culturali. E’ vero che alcuni studi escludono che un orientamento
gruppo-centrico comporti una maggiore chiusura: le comunità senegalesi risultano
più aperte dei gruppi familiari e persino degli isolati marocchini 37. Ma ciò può
dipendere dalla presenza nelle comunità dei senegalesi di immigrati istruiti
disponibili a confrontarsi con i valori e gli stili di vita della società di arrivo e in
grado di svolgere un ruolo di mediatori con il resto della comunità. Mentre il
confronto tra altre collettività di immigrati conferma la tradizionale ipotesi di un
collegamento tra comunità e chiusura.
Da questa più problematica relazione tra integrazione ed assimilazione risulta
un paradosso. Gli immigrati sono spesso richiesti per il contributo lavorativo, ma
non graditi per i problemi che la loro diversità suscita. Ora man mano la diversità si
riduce aumentano le aspettative lavorative; quindi o si fa più acuta la concorrenza
con i lavoratori locali oppure diventa palese e priva di giustificazione ogni situazione
di discriminazione. D'altro canto mantenere forti le distanze per etnicizzare il
mercato del lavoro può causare tensioni forse ancor più gravi. A quale di questi esiti
giungerà l'immigrazione in Italia? Molto dipenderà dalle politiche per gli immigrati
seguite dalla società italiana e dalla sua capacità di socializzazione.
Le politiche di inserimento degli immigrati si distinguono a seconda che li
considerino semplici individui oppure appartenenti a gruppi etnici 38. La prospettiva
universalista si propone di affermare l'uguaglianza dei diritti economici e sociali,
indipendentemente dalla nazionalità o dalla cultura di origine, cui non viene dato
alcun riconoscimento poiché l'identità etnica e le differenze culturali sono viste come
fonte di discriminazione e di pregiudizi a sfavore degli immigrati. Tale prospettiva
tende di fatto all'assimilazione degli immigrati nella cultura del paese di accoglienza
e perciò, nonostante lo spirito egualitario, è stata criticata per il suo etnocentrismo.
Ma il suo punto debole sta piuttosto nella capacità della società di arrivo di garantire
una reale parità dei diritti economici e sociali e di svolgere un'efficace funzione di
socializzazione secondaria.
La prospettiva pluralista invece riconosce i gruppi etnici ed anzi mira a
rinsaldarne la coesione, per offrire agli immigrati un contesto sociale noto ove
possano trovare difesa e sicurezza. Il principio della non discriminazione è
perseguito grazie al riconoscimento dei diritti delle minoranze e alla loro
promozione con azioni positive. Il relativismo culturale rifiuta l'idea di assimilazione
e pone sullo stesso piano le diverse culture, per tradizionali e repressive che siano. Il
suo punto di forza sta nell'offrire agli immigrati una via di inserimento graduale, una
volta constatate le difficoltà della strategia universalista. Si pensa che le solidarietà
etniche possano costituire una risorsa importante per avviare un processo di
integrazione nel mercato del lavoro e nell'accesso ai servizi pubblici. Quanto agli
immigrati a tempo e scopo definiti, l'inserimento in una comunità etnica potrebbe
20
agevolarne il progetto. Ma il pluralismo può risolversi per gli immigrati in esclusione
e segregazione e per la società di accoglienza in radicalizzazione dei conflitti etnici,
perché potrebbe sfociare in un pluralismo segmentario in cui al riconoscimento
formale delle differenze culturali si sovrappone quello di fatto delle diseguaglianze
economiche e sociali.
D'altro canto l'estensione dei diritti comuni in campo sociale ed economico
presuppone un buon processo di assimilazione, poiché soltanto l'acquisizione del
patrimonio culturale della società di arrivo assicura la reale possibilità di usufruire di
tali diritti. Tuttavia parlare di assimilazione degli immigrati significa parlare delle
forme di socializzazione dei paesi di arrivo, forme che appaiono in grave crisi nelle
società europee per gli stessi loro membri. La vecchia immigrazione incontrava la
grande impresa industriale e la classe operaia con i suoi sindacati. L'ingresso in
grandi organizzazioni, in quartieri omogenei, in vaste reti di solidarietà e di
mobilitazione costituì un passaggio importante per la socializzazione secondaria
degli immigrati ai codici culturali della società di accoglienza. Ora la situazione è
molto differente.
Occorrerebbe chiedersi se i mutamenti in corso nella società italiana non ne
mettano in discussione la capacità di essere un «crogiolo» per gli immigrati da paesi
e culture molto diverse. La questione è essenziale, perché sono gravi i rischi di una
mancata assimilazione alla fine di un processo che prevedeva il disconoscimento
dell'identità originaria. Una strategia diretta ad assimilare l'immigrato in un contesto
di grave crisi dei meccanismi di socializzazione secondaria può creare un individuo
asociale, privo di riferimenti culturali e appartenenze di gruppo, fonte quindi di
tensioni e devianze. Dunque prima di imputare alla grande distanza culturale tutte le
difficoltà di assimilazione degli immigrati dal Terzo Mondo bisognerebbe guardare
ai processi sociali interni alla società italiana ed ai loro problemi.
Merita d’altronde di essere discussa un'ingenua idea che permea il pluralismo
etnico, per cui gli immigrati sarebbero portatori di culture omogenee e originali 39.
L'enfatizzazione dell'alterità e del mito comunitario nasconde realtà più complesse.
Tra gli immigrati esistono forti legami su base etnica, ma occorre chiedersi quanto
questo sia un comportamento voluto oppure causato dalle difficoltà incontrate e se
si possa ancora parlare di culture originali in un mondo dominato dai mass media e
per immigrati spesso «socializzati anticipatamente» alla società occidentale. Si suole
parlare di comunità di immigrati, ma spesso le relazioni etniche sono la risorsa
estrema cui si è costretti a ricorrere. Se gli immigrati più emarginati sono quelli più
inseriti nel proprio gruppo etnico, è indebito però concludere che il loro insuccesso
si debba all'eccessiva distanza culturale. Spesso è stato il fallimento dell'inserimento
individuale a far sì che l'immigrato si rinchiuda in rapporti sociali e valori da cui
emigrando aveva voluto fuggire. La comunità etnica in emigrazione è in larga
misura una costruzione artificiale, risultato delle difficoltà del processo migratorio.
L'esistenza di specializzazioni lavorative su basi etniche si deve all'opacità del
21
mercato del lavoro, nel quale le informazioni «corrono» soltanto attraverso reti
personali. Mentre chi raggiunge un'attività soddisfacente allenta i rapporti con il
gruppo. Dunque la tendenza ad identificarsi con una religione o un'etnia ha poco a
che fare con aspetti ascritti e appare più un fatto strumentale, cui si ricorre per far
fronte alle difficoltà nella società di arrivo. E maggiori sono tali difficoltà, maggiori
sono le probabilità che si acuiscano appartenenze e chiusure etniche.
L'emigrazione è una scelta di rottura con la società e la cultura di origine, e
soprattutto chi avvia un ciclo migratorio è attratto dai valori e dai modi di vita della
società verso cui emigra. Per costoro una strategia etnicizzante appare come una
costrizione che tende a relegarli in una cultura da cui erano fuggiti. Se il pluralismo
etnico non può essere giustificato dall'esigenza di preservare inesistenti comunità
originarie, occorre limitarsi a considerarne l'efficacia per l'inserimento degli
immigrati e gli equilibri della società di arrivo. Tale valutazione però non è pacifica.
Gli immigrati che intendono stabilirsi hanno certamente bisogno di acquisire una
buona comprensione delle norme e dei costumi della società di accoglienza per non
restare relegati ai livelli più bassi. Ma nei momenti più difficili di questo percorso
hanno anche bisogno di trovare sostegno morale in una cultura conosciuta e
appoggio pratico in un gruppo solidale. E per chi intende l'emigrazione come
transitoria è utile mantenere un legame etnico per impedire che il rientro sia
altrettanto traumatico della partenza.
Perciò la comunità etnica se può agevolare l'inserimento, può però diventare
un rifugio che consolida l'emarginazione. Dal punto di vista della società di arrivo,
cui va riconosciuto il diritto di tutelare i propri equilibri sociali e politici
nell'interesse anche degli immigrati, l'istituzionalizzazione del pluralismo può
all'inizio avere un effetto pacificatore, poiché tende a ridurre i contatti con gli
immigrati, a renderli meno visibili, ad evitare il rischio di devianze sociali. Inoltre
nella versione segmentaria può coprire pratiche di emarginazione e discriminazione.
Tuttavia, le tensioni evitate all'inizio rischiano di esplodere a distanza. I conflitti
potranno degenerare qualora il pluralismo non sia stato accompagnato da misure per
accrescere l'integrazione socio-economica delle comunità etniche, ma anche se tali
misure sono state realizzate.
Infatti, l'integrazione economica e sociale rischia di incrinare il principale
motivo per cui buona parte della società di arrivo ha un atteggiamento favorevole
verso gli immigrati: il fatto che siano disponibili a svolgere attività per le quali non
esiste un'offerta di lavoro locale. Quando gli immigrati saranno aiutati a raggiungere
posti di lavoro migliori, spesso più consoni ai loro livelli educativi, vi è il pericolo
che i conflitti sul mercato del lavoro sostituiscano quelli generati dall'emarginazione
e dalla povertà di condizioni di vita. Un ragionamento simile si può fare per
l'accesso ai servizi pubblici, qualora una maggiore e più equa fruizione da parte degli
immigrati e delle loro famiglie generi un sovraccarico. Ipotesi non remota per le
note disfunzioni dei servizi sociali italiani.
22
Ma la specificità che rende questa strada più difficile sta nel particolarismo del
sistema sociale italiano, costruito in risposta alle domande dei soggetti più forti
nell'arena politica. La scelta universalista rischia di escludere gli immigrati da tutte le
soluzioni particolari, le uniche di fatto esistenti. Bastino due esempi concreti. Solo la
mancanza di un sistema di case pubbliche e di un mercato dell'affitto fa sì che
occorra pensare a soluzioni particolari per immigrati. Per l'avviamento al lavoro
basterebbero servizi di collocamento in grado di far incontrare domanda e offerta di
lavoro e di comunicare nelle maggiori lingue veicolari per rendere superflui i centri
di accoglienza e informazione per immigrati.
Si porrebbe quindi il problema di attuare politiche speciali per gli immigrati
per garantire nei fatti diritti e servizi che una semplice estensione delle politiche
comuni assicura solo in teoria. Ma tali politiche possono provocare conflitti con la
popolazione nazionale e rischiano di ghettizzare ancor più gli immigrati. La via
maestra sarebbe quella di cogliere l'occasione della presenza di un soggetto molto
debole e ancora escluso dall'arena dello scambio politico, per ripensare il più
generale funzionamento dei diritti e dei servizi sociali. Anche perché quando gli
immigrati acquisiranno i diritti di cittadinanza, se la loro domanda resterà segregata,
le spinte al particolarismo cresceranno sicuramente 40.
Poiché tale via non è affatto semplice, non restano che percorsi più tortuosi,
che caso per caso mirino ad estendere agli immigrati i diritti sociali di cui godono o
dovrebbero godere gli italiani, anche con provvedimenti e canali particolari ove
fosse necessario per superare resistenze delle strutture pubbliche, difficoltà culturali
degli immigrati e ostacoli oggettivi. Comunque, considerando la debolezza e
l'inefficienza dell'apparato pubblico italiano e l'abitudine a delegare alle
rappresentanze degli interessi o a soggetti sociali privati i compiti più gravosi e
difficili, a lunga scadenza il rischio più probabile non è certo quello di un eccesso di
assimilazionismo repressivo, ma di un pluralismo etnico caotico e non programmato.
E tale pluralismo è molto probabile si accompagni a forti disuguaglianze
economiche e sociali, benché il facile annuncio di azioni speciali potrebbe dare
l'impressione di un trattamento di favore per gli immigrati.
Questa più che plausibile combinazione di tendenze spontanee e di effetti
perversi rischia di avere conseguenze pericolose per una società italiana nella quale
la crescita del benessere non è stata accompagnata da un'altrettanto forte crescita
della capacità di coesione e di socializzazione.
23
1
M. PIORE, Birds of Passage, Cambridge, Mass., Cambridge University Press, 1979.
E. REYNERI, Sociologia del mercato del lavoro, Bologna, Il Mulino, 1996, capitolo 1.
3
R. SOLOW, Il mercato del lavoro come istituzione sociale, Bologna, Il Mulino, 1994.
4
Queste riflessioni si fondano su materiali di ricerca raccolti in occasione di un ampio
progetto europeo TSER «Migrants’insertion in the informal economy, deviant behaviour
and the impact on receiving societies» e di un progetto MURST 40% «Immigrazione e
società italiana». Una prima stesura è stata presentata in una sessione (coordinata da
Giorgio Fuà) della XXXVII Riunione scientifica annuale della Società Italiana degli
Economisti, Bologna, ottobre 1996.
5
M. LIVI BACCI E F. MARTUZZI VERONESI, Le risorse umane nel Mediterraneo, Bologna,
Il Mulino, 1990.
6
D. ROWLANDS, Poverty and environmental degradation as root causes of international
migration: a critical assesment, in UN-IOM, Proceedings of the Technical Symposium on
International Migration and Development, The Hague, luglio 1998.
7
O. SCHMIDT DI FRIEDBERG, Islam, solidarietà e lavoro. I muridi senegalesi in Italia,
Torino, Edizioni della Fondazione Agnelli, 1994.
8
Ho approfondito questo punto in E. REYNERI, The role of the underground economy in
irregular migration to Italy: cause or effect?, in «Journal of Ethnic and Migration
Studies», 1998, n. 2 ed E. REYNERI, Immigrazione e economia sommersa, in «Stato e
mercato», 1998, n. 2.
9
CERFE, Etudes sur les facteurs sociologiques liés aux processus migratoires dans
le Bassin de la Méditerranée, Rome, 1995.
10
Si veda, tra l’altro: O. BARSOTTI, Dal Marocco in Italia. Prospettive di un'indagine
incrociata, Milano, Franco Angeli, 1994; V. BELOTTI, Vendere in spiaggia. L’abusivismo
commerciale nella riviera emiliano-romagnola, Vicenza, Istituto Poster, 1996; A.
CARVELLI, L'immigrazione straniera extracomunitaria nella realtà metropolitana
milanese, Milano, IRER, 1991; E. REYNERI E D. TRAVAGLINI, Culture e progetti migratori
dei lavoratori africani a Milano, Milano, Ires Lombardia, 1992.
11
P. BARBESINO, La comunicazione degli immigrati extracomunitari a Milano, Milano,
ISMU, 1966.
12
IRER, Tra due rive. La nuova immigrazione a Milano, Milano, Franco Angeli, 1994.
13
IRES PIEMONTE, Uguali e diversi. Il mondo culturale, le reti di rapporti, i lavori degli
immigrati non europei a Torino, Torino, Rosenberg & Sellier, 1991.
14
Ibidem.
15
IRER, op. cit..
16
E. REYNERI E D. TRAVAGLINI, op. cit.
17
IRER, op. cit..
18
A. COLOMBO, Etnografia di un’economia clandestina. Immigrati algerini a Milano,
Bologna, Il Mulino, 1999; S. METHANI E M. FORTUNATO, Immigrato, Roma, Theoria,
1990.
19
Come narrano alcune storie di vita raccolte da L. PERRONE, Porte chiuse. Cultura e
tradizioni africane attraverso le storie di vita degli immigrati, Napoli, Liguori, 1995.
20
L. PERRONE, Il fenomeno immigratorio in Italia, in IRES PIEMONTE (a cura di), Albania.
Oltre l’emigrazione, Torino, 1997.
21
E. REYNERI, La catena migratoria, Bologna, Il Mulino, 1979.
22
G. RAFFAELE, Le immigrate extra-comunitarie in Italia, «Studi emigrazione», 1992, n.
106; G. VICARELLI (a cura di), Le mani invisibili, Roma, Ediesse, 1994.
23
G. BARBESINO, op. cit..
24
O. SCHMIDT DI FRIEDBERG, op. cit.; E. MINARDI E S. CIFIELLO (a cura di), Economie
locali e immigrati extracomunitari in Emilia Romagna, Milano, F. Angeli, 1991; G. SCIDÀ
E G. POLLINI, Stranieri in città. Politiche sociali e modelli di integrazione, Milano, F.
Angeli, 1993.
2
24
25
G. CAMPANI E MADDII, Un monde à part: les chinois en Toscane, «Revue européenne
des migrations internationales», 1992 , n. 3.
26
IRER, op. cit.; M. AMBROSINI, R. LODIGIANI E S. ZANDRINI, L'integrazione subalterna.
Peruviani, Eritrei e Filippini nel mercato del lavoro milanese, Milano, Quaderni ISMU,
3/1995.
27
M. AMBROSINI, R. LODIGIANI E S. ZANDRINI, op. cit..
28
L. MAURI E G. A. MICHELI, (a cura di), Le regole del gioco. Diritti di cittadinanza e
immigrazione straniera, Milano, F. Angeli, 1992.
29
IRER, op. cit.
30
G. BARBESINO, op. cit..
31
O. Barsotti, Dal Marocco in Italia. Prospettive di un'indagine incrociata, Milano,
Franco Angeli, 1994.
32
M. AMBROSINI E P. SCHELLENBAUM, La comunità sommersa. Un’indagine
sull’immigrazione egiziana a Milano, Quaderni Ismu, Milano, 1994, n. 3.
33
M. AMBROSINI, R. LODIGIANI E S. ZANDRINI, op. cit..
34
L. MAURI E L. BREVIGLIERI (a cura di), Da lontano per lavoro. Indagine
sull'inserimento lavorativo degli immigrati nel territorio padovano, Milano, Franco
Angeli, 1993; E. MINARDI E S. CIFIELLO, op. cit.; E. REYNERI E D. TRAVAGLINI, op. cit.
35
E. NOCIFORA, La presenza dei lavoratori tunisini a Mazara del Vallo, in M. DELLE
DONNE, U. MELOTTI E S. PETILLI (a cura di), Immigrazione in Europa. Solidarietà e
conflitto, Roma, CEDISS, 1993.
36
Si riprendono qui alcune delle riflessioni già proposte in E. REYNERI, Le politiche per
l’inserimento degli immigrati, in «Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali»,
1992, n. 54.
37
E. MINARDI E S. CIFIELLO, op. cit.; E. REYNERI E D. TRAVAGLINI, op. cit; L. ZANFRINI,
Il lavoro degli altri. Gli immigrati nel sistema produttivo bergamasco, Milano, I.S.M.U,
1996.
38
H. ENTZINGER, L’emergenza delle politiche di integrazione per gli immigrati in Europa,
in AA. VV., Italia, Europa e nuove immigrazioni, Torino, Fondazione Agnelli, 1990.
39
E. REYNERI E D. TRAVAGLINI, op. cit..
40
G. ZINCONE, Uno schermo contro il razzismo. Per una politica dei diritti utili, Roma,
Donzelli, 1994.
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