Duggan Christopher, La forza del destino. Storia d’Italia dal 1796 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2008, (Storia e Società), Cap. XVI “Francesco Crispi e il nuovo assetto europeo”, p. 369-385. La figura di Crispi emerge nel contesto della delusione per la politica coloniale (Dogali, 1887) condotta da un Parlamento ritenuto imbelle e corrotto, che aveva portato il paese a subire l'accerchiamento francese (in Tunisia) e che era entrato nella Triplice Alleanza (1882). In molti andava maturando l'idea che una grande vittoria avrebbe determinato la coesione del paese. Crispi, democratico dotato di grande carisma personale, aveva attuato una serie di notevoli riforme. In politica estera, dopo che non era riuscito a innescare il conflitto con la Francia, optò anch'egli per una grande vittoria nelle colonie, impresa caldeggiata e sostenuta, con diverse motivazioni, da gran parte degli intellettuali ed economisti italiani. L'avvio del colonialismo italiano p. 370 Il 26 gennaio 1887 una colonna di circa 500 soldati italiani fu sorpresa da una forza di 5000 etiopi nel pietroso entroterra di Massaua, sulla costa del Mar Rosso, e annientata. Ci volle una settimana perché la notizia del disastro arrivasse a Roma, e quando ciò accadde il Segretario Generale del ministero degli Esteri non riuscì a ricavare dal telegramma il nome del luogo della battaglia. Suggerì che era qualcosa come «Dogali», e sebbene non riuscisse a trovare sulla carta nessun posto con questo nome, «Dogali» attecchì. ... Il governo italiano s'era fatto attirare a Massaua due anni prima, dopo una serie di rovesci in politica estera. Al Congresso di Berlino (1878) non era riuscito a ottenere un compenso per l'occupazione della Bosnia-Erzegovina da parte dell'Austria; invece l'Inghilterra aveva incamerato Cipro, e la Francia (sebbene la cosa fosse rimasta segreta) aveva avuto mano libera in Tunisia. «Vittorio Emanuele non lo avrebbe permesso, se fosse vissuto. Siamo in una vera decadenza», scrisse un indignato Crispi a un amico. Tre anni dopo i francesi invasero la Tunisia, una regione in cui l'Italia aveva imponenti interessi economici (e strategici), e a Roma il governo cadde seppellito da un'alluvione di critiche e dalla rabbia per la sua incapacità d'impedire questa nuova umiliazione. Adesso si temeva un «accerchiamento» nel Mediterraneo, e nel 1882 l'Italia abbandonò la sua tradizionale politica di neutralità e strinse un'alleanza difensiva con l'Austria e la Germania (la «Triplice Alleanza»). E quando, alla fine del 1884, l'Inghilterra fece capire che avrebbe visto volentieri l'Italia insediarsi in Etiopia (Londra mirava soprattutto a scongiurare il rischio di una sfida francese nella valle dell'Alto Nilo), il ministro degli Esteri, Pasquale Stanislao Mancini, colse l'occasione e spedì un contingente di soldati a Massaua senza informare il parlamento. p. 371 ... Dogali fu un disastro; ma fu trasformata in un disastro glorioso, Ci si precipitò a sfruttare il fatto che, a quanto sembrava, i soldati italiani erano caduti al loro posto con le armi in pugno; e il coraggio e la disciplina dei morti in Africa vennero contrapposti all'abietta irresponsabilità e inerzia del parlamento. Ruggero Bonghi suggerì che gli eroi di Dogali valevano molto di più dei suoi 500 colleghi deputati, e circolò la seguente strofetta popolare: «Questo lutto che porti / t segnale di vita e non mortorio: / I cinquecento morti / Stanno a Montecitorio». ... La piazza fu ribattezzata Piazza dei Cinquecento. L'artista Michele Cammarano fu incaricato dal ministro dell'Istruzione di dipingere una grande tela sulla battaglia di Dogali, destinata a «ricordare nella Galleria d'Arte Moderna l'eroica virtù dei soldati italiani». Cammarano partì per Massaua, dove trascorse cinque anni lavorando al quadro in uno studio appositamente costruito (l'onere finanziario per il governo fu considerevole). L'opera finita, che misurava più di nove metri per quattro, fu inaugurata nel 1896, sfortunatamente pochi mesi dopo un'altra e più terribile sconfitta in terra d'Africa. Le delusioni in politica estera, il precipitare del prestigio del parlamento, la sensazione che gli italiani fossero tuttora profondamente viziati e la paura montante di agitazioni popolari in Lombardia era spuntato nel 1885 un partito socialista rivoluzionario (presto soppresso), e gli scioperi e gli scontri violenti con le autorità stavano diventando sempre più frequenti a misura che la recessione agricola si aggravava - ebbero per effetto la convinzione via via più forte che soltanto qualcosa di drastico (magari un grande successo militare) avrebbe potuto cementare moralmente la nazione. E su quest'idea destra e sinistra convergevano. p. 372-373 Crispi e il «nuovo assetto europeo» La catastrofe di Dogali ricatapultò Crispi al potere. Dopo le dimissioni da ministro dell'Interno (1878), causate da una (fondata) accusa di bigamia, l'ex mazziniano e Segretario di Stato di Garibaldi aveva vigorosamente invocato dal suo banco di parlamentare una presenza più aggressiva dell'Italia in campo internazionale e un'incisiva politica di riarmo. Sosteneva che l'Italia si trovava di fronte a una grossa minaccia esterna, rappresentata dalla Francia: secondo lui i francesi non avevano mai perdonato agli italiani la realizzazione dell'unità e la distruzione del potere temporale dei papi, e dopo la sconfitta subita per mano della Prussia puntavano al dominio sul Mediterraneo, a scapito - inevitabilmente - dell'Italia. … Sulla scena interna Crispi era profondamente preoccupato dalla sfida della Chiesa e dell'estrema sinistra, e dalla latitanza del sentimento nazionale nel paese; e parlò ripetutamente dell'urgente necessità di un'«unità morale» che integrasse l'unità materiale» e completasse l'opera del Risorgimento. Sebbene credesse appassionatamente che per attirare le masse entro la cornice dello Stato fosse indispensabile il contributo delle riforme politiche e sociali, era sempre più convinto che senza un parallelo processo di «educazione politica" le riforme sarebbero rimaste inefficaci. Nell'aprile 1887 Crispi entrò come ministro dell'Interno nell'ottavo e ultimo governo di Depretis; e quando meno di quattro mesi dopo questi morì, ascese alla presidenza del Consiglio quasi senza discussioni, conservando il portafoglio dell'Interno e aggiungendovi quello degli Esteri. Per oltre vent'anni era stato un personaggio di prima grandezza sulla scena politica italiana, e se non aveva raggiunto la carica più alta si doveva alle sue posizioni vigorosamente democratiche, alle origini geografiche (era siciliano) e a una vita familiare irregolare. Ma adesso il paese chiedeva energia e un cambiamento di rotta; e benché alcuni uomini politici piemontesi e lombardi fossero allarmati dalla prospettiva di un presidente del Consiglio meridionale e tentassero di bloccare la sua nomina, Crispi fu fermissimo nel dichiarare che la sua leadership sarebbe stata «nazionale» come nessun'altra in passato. Il contesto internazionale p. 374 ... Anche l'Austria e la Russia erano intrappolate nelle loro disputa balcanica, mentre i rapporti tra la Germania e la Francia, nemici irreconciliabili dopo gli eventi del 1870-71 e l'annessione tedesca dell'Alsazia e della Lorena, ultimamente erano diventati molto tesi per effetto della retorica incendiaria del generale Georges Boulanger e dei suoi bellicosi sostenitori nazionalisti. Bismarck, l'anziano Cancelliere tedesco, non aveva nessuna voglia di fare un'altra guerra: come informò il governo italiano al principio del 1888, se nel 1866 e nel 1870 s'era impegnato in due grosse campagne, era stato perché costretto: si trattava di realizzare l'unificazione della Germania: «Ora però che cosa potrebbe guadagnare la Germania da una guerra? Di Polacchi ne abbiamo plus qu'il n'en faut e di Francesi plus que nous n'en pourrons jamais digérer". Si trovava però a fronteggiare l'opposizione del giovane principe Guglielmo, di lì a poco il nuovo Kaiser, e di un potente gruppo di uomini al vertice della gerarchia militare, convinti che la Germania dovesse combattere una guerra preventiva entro breve tempo, prima che i programmi di riarmo della Francia e della Russia dessero ai due paesi un vantaggio decisivo sulle forze congiunte della Triplice Alleanza. ... p. 379 Bismarck sperava nella pace, ma ciò non lo rendeva incline a rifiutare una cosa così concreta come una convenzione militare con un alleato, tanto più in considerazione della precaria situazione europea. Inoltre l'idea piacque molto allo Stato Maggiore tedesco. Il feldmaresciallo Moltke (secondo le parole di Crispi, «lo stratega davanti al quale tutto il mondo s'inchina») fu invitato a redigere la prima bozza, e dopo un mese di negoziati l'accordo fu firmato a Berlino il 28 gennaio 1888. Lo scopo principale della convenzione era rendere la guerra il più possibile attraente agli occhi della Germania, e le sue clausole prevedevano che l'Italia inviasse per ferrovia - attraverso il Brennero e poi il territorio austriaco - più di 200.000 uomini (sei corpi d'armata e tre divisioni di cavalleria) a congiungersi con il fianco sinistro tedesco sul Reno. Si trattava di un impegno formidabile, dietro il quale stava in buona parte il timore che un'offensiva italiana contro la Francia meridionale (tuttora contemplata dai piani) avesse scarse probabilità di successo a causa della solidità delle fortificazioni francesi sulle Alpi. Meglio concentrarsi sul fronte principale. E naturalmente Crispi non poteva rischiare che si materializzasse l'umiliante scenario di una Francia sopraffatta dalla Germania mentre l'Italia veniva bloccata o addirittura sconfitta sulle Alpi (come sarebbe avvenuto nel 1940). ... p. 377 Ma l'ascesa al trono in giugno di Guglielmo II fece pendere la bilancia a Berlino sul lato del «partito della guerra», e rinfocolò le, speranze italiane. Quando in ottobre il giovane Kaiser si recò in Italia in visita di Stato, il suo umore era sfacciatamente baldanzoso. Visitò caserme, arsenali e porti, manifestò la sua compiaciuta sorpresa per il livello di preparazione dell'esercito e della marina italiani e disse a Umberto che si sarebbero incontrati di nuovo a Parigi alla testa dei loro eserciti vittoriosi ... p. 378 Crispi diventava impaziente. Temeva che il governo francese sarebbe rimasto imperterrito davanti alle sue provocazioni. Ma aveva un'altra carta da giocare, che stavolta coinvolgeva il papato: una questione incendiaria per milioni di francesi. Il 9 giugno fu inaugurata a Roma, in Campo dei Fiori, una statua a Giordano Bruno, l'eretico cinquecentesco, e l'evento fu accompagnato da imponenti celebrazioni massoniche e anticlericali. Come ci si poteva aspettare, Leone XIII si sentì mortificato. Era l'ultimo di una serie di oltraggi deliberatamente inflitti da Crispi al Vaticano; e nel corso di un concistoro convocato tre settimane più tardi il papa disse ai cardinali che questa «aperta sfida del Governo italiano alla Santa Sede» aveva creato una situazione in cui per lui era ormai pressoché impossibile sentirsi al sicuro a Roma. ... Così, malgrado gli strenui sforzi di Crispi la situazione in Europa rimaneva tranquilla. Il governo francese si rifiutò di abboccare all'amo, e l'opinione pubblica transalpina continuò a concentrare la sua attenzione sulle celebrazioni del centenario della Rivoluzione. ... p. 381 Il fenomeno "Crispi" ... Crispi dominò la scena politica italiana per quasi un decennio (fu di nuovo presidente del Consiglio nel 1893-96), e malgrado l'aspra opposizione di alcuni gruppi, specialmente all'estrema sinistra, la sua popolarità nel paese era formidabile. Nessun altro presidente del Consiglio, neppure Cavour, era riuscito ad eccitare l'immaginazione pubblica nella stessa misura. L'illustre sociologo Guglielmo Ferrero (le cui simpatie personali andavano al socialismo, non a Crispi), fu affascinato dal «cerimoniale quasi regio» che aveva preso forma intorno a quest'uomo anziano pieno di energia con i grandi baffi spioventi (la somiglianza con Bismarck era impressionante, e nient'affatto casuale), il gusto per un abbigliamento impeccabile, la colorita vita domestica e l'inclinazione per anelli e gioielli ... ... La torreggiante statura di Crispi e l'enorme seguito di cui godeva nel paese, insieme alle febbrili attese che circondavano le sue azzardate acrobazie in politica estera, gli garantirono tra il 1887 e il 1891 un'amplissima maggioranza parlamentare, mettendolo in grado di far approvare uno straordinario programma di riforme politiche, amministrative e sociali. ... p. 383 Tra le riforme capitali di questi anni ci furono una legge che raddoppiò quasi il numero degli elettori per le amministrazioni locali, portandolo a quattro milioni, e stabilì l'elettività dei sindaci nei centri maggiori (fino ad allora tutti i sindaci erano stati nominati dal centro); un nuovo codice penale che abolì la pena di morte e introdusse il diritto di sciopero; una legge sulla sanità pubblica che aumentò grandemente i compiti dello Stato in materia di controllo delle malattie e di vigilanza sull'igiene in sede locale; una legge che istituì un tribunale indipendente per proteggere i cittadini contro gli abusi commessi dai pubblici funzionari; e una legge che portò sotto il controllo delle amministrazioni locali le 20.000 e più opere pie (eriti di beneficenza indipendenti) operanti nel paese: un passo di grande rilievo verso uno Stato sociale. Malgrado i suoi istinti autoritari, Crispi era un democratico fermamente convinto della necessità di disinnescare il potenziale esplosivo della questione sociale facendo in modo che le masse avessero un interesse diretto nella vita della nazione. ... p. 384 L'Africa Privato di una guerra vittoriosa in Europa, Crispi si volse non senza riluttanza all'Africa. Era arrivato al potere sull'onda di un'opinione pubblica che chiedeva vendetta per il massacro dei Cinquecento di Dogali, ma una volta diventato presidente del Consiglio aveva manovrato accortamente per far scivolare l'Etiopia in secondo piano, in modo da potere concentrarsi sull'ipotesi di un conflitto con la Francia. Ma nel corso del 1889 l'Africa, in seguito alla morte in battaglia dell'imperatore etiopico per mano di un signore della guerra locale chiamato Menelik (che l'esercito italiano aveva appoggiato), cominciò a offrire nuove, eccitanti opportunità. Menelik assunse il titolo imperiale, e subito firmò un trattato con l'Italia (il Trattato di Uccialli) in cui riconosceva il suo diritto ad ampie porzioni dell'entroterra di Massaua ed accettava (o così l'art. 17 sembrava affermare) un protettorato italiano sull'Etiopia. In cambio l'Italia garantiva il suo aiuto agli sforzi di Menelik per imporre la propria autorità nel territorio dell'impero. Il re Umberto scrisse un'entusiastica lettera a Menelik per confermare l'alleanza, informandolo che un nuovo carico d'armi era in viaggio per l'Etiopia. In Italia cominciò a montare l'eccitazione per le prospettive africane. Ex avversari del colonialismo italiano, come Giovanni Giolitti, un deputato piemontese in ascesa, cambiarono atteggiamento. Lo stesso fece Carducci. Dogali l'aveva lasciato freddo, ma nel 1891, quando pubblicò l'ode La guerra, era diventato un ardente sciovinista. Il re e il vertice della gerarchia militare erano eccitati dalla prospettiva di vittorie a buon mercato e (così sembrava) facili; e un coro crescente di economisti e sociologi sosteneva che le colonie avrebbero fornito una soluzione ai gravi problemi dell'agricoltura italiana, e in particolare creato uno sbocco alternativo per le decine di migliaia di impoveriti contadini meridionali che ogni anno attraversavano l'Atlantico in cerca di una vita migliore. Perfino l'estrema sinistra radicale e repubblicana era divisa, con Giovanni Bovio e altri che cantavano le virtù della missione civilizzatrice dell'Italia nel Continente Nero. ...