LA SOSPENSIONE DEI TRATTAMENTI SANITARI IN ITALIA. A PROPOSITO DI ALCUNI CASI RECENTI Fabrizio Turoldo 1. Il quadro legislativo 1.1. Premessa Per comprendere quanto è recentemente accaduto in Italia, in riferimento ad alcuni casi di pazienti che hanno espresso la volontà di sospendere terapie essenziali alla loro sopravvivenza, occorre partire da una breve analisi della legislazione italiana in materia. Le leggi italiane, così come quelle di altri paesi, sono il frutto di un lungo processo legislativo, disteso nel tempo, che ha portato alla stratificazione e alla sovrapposizione di diverse norme, a volte in contrasto tra di loro. È proprio a causa del contrasto tra diverse norme che alcuni casi noti, di cui tratteremo, sono stati giudicati in modo diverso (e talvolta contraddittorio) dai vari magistrati che li hanno presi in considerazione. Inoltre, sempre a causa di questo conflitto normativo, non è ancora chiaro oggi quali siano i diritti dei malati, relativamente alla possibilità di rifiutare cure salvavita. Proverò dunque ad inoltrarmi in questo labirinto normativo, esponendo le varie norme implicate in questa problematica, cominciando dalle più antiche, sino ad arrivare a quelle più recenti. 1.2. Il codice penale Alcune norme a cui i magistrati hanno fatto riferimento, nel giudicare i casi di questi pazienti, sono norme del codice penale italiano, che risale al 1930. Questo codice, pur avendo subito molte modifiche nel corso degli anni, ha mantenuto una filosofia di fondo che, per quanto riguarda le questioni che a noi qui interessano, è improntata al valore p. 1/18 dell’indisponibilità della vita, valore che prevale rispetto ad altri principi, quali quelli relativi all’autodeterminazione individuale. Sono molti infatti gli articoli del codice penale che possono entrare in gioco nella valutazione delle decisioni mediche di fine vita. L’articolo 40, ad esempio, stabilisce che “non impedire un evento, che si ha l’obbligo di impedire, equivale a cagionarlo”. In base a questo articolo, e considerato il fatto che il dovere professionale del medico è quello di salvare la vita ai pazienti, ne conseguirebbe dunque che, quando il medico lascia morire un paziente, su richiesta del paziente stesso, è come se lo uccidesse. Un tale medico dovrebbe dunque essere accusato, in base a questo articolo, del reato di omicidio. L’articolo 54 stabilisce inoltre che “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona”: questo articolo viene spesso invocato per giustificare il mancato rispetto della volontà di pazienti in pericolo di vita, che vengono sottoposti a terapie d’emergenza contro al loro volontà (ad esempio Testimoni di Geova sottoposti a trasfusioni di sangue). Vi sono poi gli articoli 575-576-577-579-580, che si riferiscono al reato di omicidio nelle sue varie tipologie e circostanze aggravanti. Qui mi preme citare in particolare l’articolo 579, che condanna “l’omicidio del consenziente” (nella cui fattispecie rientra l’eutanasia) e l’articolo 580, che punisce “l’istigazione o l’aiuto al suicidio” (nella cui fattispecie rientra il suicidio assistito). L’articolo 593, infine, condanna “l’omissione di soccorso”, reato nel quale può incorrere il medico che assiste, senza intervenire, alla morte di un paziente a cui, per esempio, è stato staccato il respiratore automatico, oppure il sondino nasogastrico per l’alimentazione artificiale. 1.3. Il codice civile Il codice civile, approvato nel 1942, è solo di poco più recente, e risente anch’esso dello stesso tipo di impostazione. Per averne una dimostrazione, basterebbe fare riferimento p. 2/18 all’art. 5, che stabilisce che “gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume”. Secondo questo articolo, dunque, non solo non ci si può lasciar morire, ma non ci si può nemmeno menomare, tanto che, per rendere operativa la legge sulla donazione da vivente (in particolare del rene) si è dovuta fare un’eccezione all’articolo 5 del c.c. (visto che privarsi di un rene significa, appunto, menomarsi). 1.4. La Costituzione La svolta più importante nella normativa italiana in materia avviene nel 1948, quando, dopo la caduta del regime fascista, viene approvata la nuova Costituzione repubblicana. Nella nuova Costituzione, infatti, il principio dell’assoluta indisponibilità della vita si ammorbidisce, per diventare un principio di tutela del diritto alla salute e di promozione della salute come interesse della collettività. Il primo comma dell’articolo 32 infatti stabilisce che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Ma la novità più grande è che il diritto al rifiuto delle cure viene sancito dalla stessa Costituzione, al secondo comma dell’articolo 32, che stabilisce che “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, precisando che “la legge non può in alcun caso violare i limiti imposti dal rispetto per la dignità umana”. La svolta è di grande rilievo, perché si passa da un impianto normativo improntato essenzialmente al principio di indisponibilità della vita, ad un nuovo impianto, maggiormente volontaristico e capace dunque di accogliere le istanze del principio dell’autodeterminazione individuale. Il motivo per cui l’Assemblea Costituente è giunta a queste conclusioni è dovuto, tra le altre cose, anche al fatto che, negli stessi anni in cui l’Assemblea svolgeva il proprio p. 3/18 lavoro (1946-1948), veniva celebrato, con grande risalto mediatico, il Processo di Norimberga contro i criminali nazisti e contro alcuni medici che avevano operato nei campi di sterminio. Durante questo processo venne infatti approvato il cosiddetto “Codice di Norimberga”, che riconosce, al primo punto, il diritto imprescindibile del paziente al rifiuto della cure. Spesso il secondo comma dell’articolo 32 viene accostato all’articolo 13 della Costituzione, che non riguarda in modo così specifico le cure mediche ma che, in linea più generale, tutela la libertà delle persone: “La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e solo nei casi e modi previsti dalla legge. (…)”. Tale articolo, tuttavia, può essere invocato anche nel caso in cui una persona venga forzatamente sottoposta ad una cura medica contro la sua volontà perché, per fare ciò, è necessario privarla della libertà, detenerla a forza in un luogo di cura, manipolare forzatamente il suo corpo, ecc. 1.5. La Convenzione di Oviedo Nel 1997 il governo italiano, assieme ai governi degli altri paesi facenti parte del Consiglio d’Europa, ha firmato la cosiddetta “Convenzione di Oviedo” (Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina) che, all’articolo 5, conferma ulteriormente il diritto dei pazienti al rifiuto delle cure1. Tale Convenzione è stata in seguito ratificata dal Parlamento nel 2001, tramite la legge n. 145. Tuttavia, essendo la Convenzione di Oviedo un trattato internazionale, ad essa non bastano, per entrare in vigore, la sottoscrizione da parte del Governo e la ratifica da parte del Parlamento, ma è necessario un terzo passo: il deposito dello strumento di ratifica da parte del Governo, che in questo caso deve avvenire presso il Art. 5: “Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero ed informato. Questa persona riceve innanzitutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e sui suoi rischi. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso.” 1 p. 4/18 Consiglio d’Europa (organo promotore della Convenzione). Dunque, allo stato attuale, dopo 12 anni dalla sottoscrizione e 8 anni dalla ratifica parlamentare, la Convenzione di Oviedo non è ancora entrata in vigore nell’ordinamento italiano. 1.6. Le fonti secondarie di diritto Oltre alle norme che abbiamo sinora citato, esistono anche le cosiddette “fonti secondarie di diritto”: esse sono norme che non hanno valore di legge in quanto tali, ma che possono tuttavia essere tenute in considerazione dai magistrati, nella formulazione di una sentenza, anche se ad un livello diverso rispetto alle altre. Di queste “fonti secondarie”, nel nostro caso, possono essere chiamate a far parte anche le norme del codice deontologico dei medici che, in Italia, presenta delle caratteristiche piuttosto interessanti, se confrontato con il contesto legislativo corrente. La riflessione sulle tematiche di fine vita ha infatti molto impegnato la classe medica italiana ed è sfociata nell’elaborazione di un nuovo codice di deontologia medica, approvato il 15 dicembre 2006, pochi giorni prima della morte di Piergiorgio Welby (uno dei casi di cui discuteremo in seguito). In questo nuovo codice si è compiuta una sorta di fuga in avanti rispetto ai lavori parlamentari in corso: mentre infatti la classe politica si divideva (e si divide ancora) sull’opportunità di approvare una legge sulle direttive anticipate di trattamento, nel nuovo codice deontologico veniva inserito un nuovo articolo (il n. 38) intitolato “Diritti del cittadino e direttive anticipate”. L’ultimo comma dell’articolo obbliga il medico, se il malato non è in grado di esprimere la sua volontà, di “tenere conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato”. Il codice deontologico, inoltre, già nella sua precedente versione del 1998, all’art. 34 stabiliva che “il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso informato del paziente”. p. 5/18 2. I casi 2.1.1. Il caso Welby A Piergiorgio Welby nel 1963, all’età di 18 anni, viene diagnosticata una “distrofia facioscapolo-omerale”, patologia classificata dalla letteratura medica come degenerativa dei muscoli scheletrici, ereditaria e lentamente progressiva. A partire dal 1980 cominciano, per Welby, gli anni più difficili: la malattia si aggrava e non riesce più a camminare. Conoscendo bene la possibile evoluzione della sua malattia, Welby stringe un patto con la moglie Mina: se ci dovesse essere una crisi respiratoria, Mina non dovrà chiamare il pronto soccorso. Welby, infatti, non vuole essere sottoposto ad una tracheotomia, che lo renderebbe schiavo di un ventilatore polmonare. La moglie, però, quando si presenta l’urgenza non trova la forza per rispettare il patto. Il 14 luglio del 1997, a causa di una grave insufficienza respiratoria, Welby perde i sensi e va in coma, viene tracheotomizzato, contro la sua volontà, e collegato ad un ventilatore polmonare. Nel settembre del 2006, quando sono ormai trascorsi nove anni dalla tracheotomia, Welby scrive un’accorata lettera al Presidente della Repubblica, nella quale descrive dettagliatamente la sua situazione e chiede di poter porre fine alle sue sofferenze. Poco tempo dopo aver scritto la lettera al Presidente della Repubblica, Welby chiede al suo medico curante, il dott. Giuseppe Casale, di cessare la ventilazione artificiale e di essere staccato dal respiratore automatico. Il medico, però, si oppone, motivando il suo rifiuto con un testo scritto datato 25 novembre 2006. A questo punto Welby chiama in causa la magistratura, attraverso un “ricorso d’urgenza volto ad ottenere il distacco del respiratore artificiale sotto sedazione terminale” (28 novembre 2006). Nel ricorso i legali di Welby evitano di usare il termine “eutanasia”, che Welby aveva utilizzato nella lettera indirizzata al Presidente della Repubblica, in modo tale che la richiesta assuma i connotati di un semplice rifiuto delle cure, fondato sull’articolo 32 della Costituzione italiana. Il giudice, dott.ssa Angela Salvio, con ordinanza depositata il p. 6/18 16.12.2006, dichiara però il ricorso di Welby integralmente inammissibile in quanto, pur riconoscendo l’esistenza di un diritto soggettivo, garantito dall’articolo 32 della Costituzione, di richiedere l’interruzione della terapia medica, lo ritiene privo di tutela giuridica. La legislazione positiva, osserva infatti la dott.ssa Salvio, è orientata in senso contrario (il riferimento è all’articolo 5 del codice civile, che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo tali da determinare un danno permanente e gli articoli 575, 576, 577 n.3, 579, 580 del codice penale, che puniscono in particolare, l’omicidio del consenziente e l’aiuto al suicidio) e manca nel sistema giuridico italiano, scrive ancora il magistrato, una normativa specifica atta a regolamentare le decisioni di fine vita in un contesto clinico. Data l’impossibilità di staccare il respiratore con l’assenso del giudice, Welby decide di procedere comunque, avendo trovato un medico anestesista disponibile a venir incontro alle sue esigenze. Il medico è il dott. Mario Riccio, che si reca presso l’abitazione di Welby il giorno 18 dicembre 2006, per accertare l’evoluzione della patologia e per raccogliere le volontà del paziente, che conferma, ancora una volta, di voler essere sedato e staccato dal respiratore. Due giorni dopo, alla presenza dei familiari di Welby e delle persone che lo hanno sostenuto nella battaglia per il riconoscimento della sua decisione finale, il dott. Riccio procede prima alla sedazione del paziente e, subito dopo, al distacco del ventilatore automatico. La morte, come afferma il referto medico-legale, sopraggiunge nell’arco di mezz’ora, per arresto cardiocircolatorio dovuto ad una grave insufficienza respiratoria, causata dalla malattia da cui Welby era da tempo affetto: una distrofia scapolo-omerale progressiva. Dopo la morte di Welby l’attenzione nei confronti della sua vicenda continua a crescere, anche in seguito alle indagini condotte nei confronti del dott. Riccio. Un primo esame del comportamento del dott. Riccio viene condotto sotto il profilo deontologico dall’ordine dei medici di Cremona, a cui il dott. Riccio appartiene. Gli elementi presi in considerazione sono due: da un lato la volontà (“chiara, decisa e non equivocabile”) del p. 7/18 paziente (“perfettamente in grado di intendere e volere e di esprimersi”, “pienamente consapevole della conseguenza del sopraggiungere della morte”); dall’altro il fatto che l’anestesista “non ha somministrato farmaci o altre sostanze atte a determinare la morte” e che la sedazione terminale è risultata “per posologia di farmaci, modalità e tempi di somministrazione, in linea con i normali protocolli”. Per questi motivi la Commissione disciplinare dell’ordine dei medici di Cremona dispone l’archiviazione del caso, tramite un provvedimento datato 1 febbraio 2007. Un secondo esame viene condotto, in sede penale, dalla Procura della Repubblica di Roma, con un esito molto simile a quello dell’ordine dei medici, ovvero la richiesta di archiviazione (5 marzo 2007). Tale conclusione si basa sull’esito della consulenza medicolegale, che esclude qualsiasi rilievo causale della sedazione in ordine al decesso, indicando quale unica causa di morte l’insufficienza respiratoria relativa alla malattia. Ma la richiesta di archiviazione, avanzata dal sostituto procuratore Gustavo de Marinis, viene prontamente respinta il 4 aprile dal giudice per le indagini preliminari di Roma Renato La Viola che, invitando la procura di Roma a formulare un capo di imputazione coatto, sollecita il rinvio a giudizio, iscrivendo il medico nel registro delle notizie di reato con l’ipotesi di “omicidio del consenziente” (reato previsto dall’articolo 579 del codice penale, che contempla la reclusione fino a 15 anni). Il procedimento si conclude infine il 23 luglio 2007 con una sentenza di non luogo a procedere nei confronti del medico. Il giudice per l’udienza preliminare di Roma, Zaira Secchi, in questo caso, fa riferimento all’articolo 32 della Costituzione italiana, che dice in maniera chiara che “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge” e, all’articolo 13, che stabilisce che “la libertà personale è inviolabile”. La sentenza di assoluzione rileva inoltre che il diritto al rifiuto delle cure è confermato anche dall’articolo 5 della Convenzione di Oviedo, che, “sebbene non ancora in vigore nel nostro ordinamento, vale comunque quale criterio interpretativo per il giudice, p. 8/18 in quanto enuncia principi conformi alla nostra Costituzione”. La sentenza rileva infine che l’affermazione di un diritto al rifiuto delle cure trova dei precedenti nella giurisprudenza della Corte Costituzionale (Co. Cost. n. 45/65, n. 161/85, n. 471/90, n. 238/96), dove si afferma che il diritto al rifiuto delle cure è un “diritto inviolabile della persona, immediatamente precettivo ed efficace nel nostro ordinamento, rientrante tra i valori supremi tutelati a favore dell’individuo”. Il giudice riconosce che il comportamento del dott. Riccio rientra nella norma che punisce l’omicidio del consenziente (art. 579 del codice penale), ma osserva anche che, in questo specifico caso, la condotta del dott. Riccio si è realizzata nel contesto di una relazione terapeutica e, quindi, sotto la copertura costituzionale del diritto del paziente di rifiutare trattamenti sanitari non voluti. La condotta del dott. Riccio risulta dunque non perseguibile, secondo la sentenza, perché si configura come adempimento ad un dovere e, in quanto tale, rientra nella causa di non punibilità, così come stabilisce l’articolo 51 del codice penale. 2.1.2. Osservazioni su caso Welby La dialettica tra le norme del codice penale e l’articolo 32 della Costituzione emerge chiaramente dalla vicenda giudiziaria di Piergiorgio Welby e del dott. Riccio. Su questo caso ci sono stati infatti tre diversi pronunciamenti da parte di diversi magistrati, in diverse sedi, e questo dimostra chiaramente la difficoltà del problema. I tre pronunciamenti coprono l’intero ventaglio delle scelte possibili: 1)Un primo magistrato, il giudice Angela Salvio, sostiene che la magistratura non è in grado di decidere, perché le norme sono tra di loro incoerenti ed invoca, di conseguenza, l’intervento del legislatore, per fare chiarezza e consentire così ai magistrati di prendere delle decisioni sulla base di normative certe e non contraddittorie; 2)Un secondo magistrato, il giudice Renato La Viola, sollecita il rinvio a giudizio, richiedendo l’imputazione per “omicidio del consenziente”. Questo secondo magistrato, dunque, fa prevalere la norma penale, p. 9/18 attribuendo all’articolo 32 della Costituzione un valore puramente programmatico; 3)Un terzo magistrato, il giudice Zaira Secchi, chiede l’archiviazione del caso in base all’articolo 32 della Costituzione, che lei ritiene avere un valore immediatamente precettivo. 2.2.1. Il caso Nuvoli Nella serata di lunedì 23 luglio 2007 (lo stesso giorno in cui il dott. Mario Riccio veniva prosciolto dall’accusa di “omicidio del consenziente”), ad Alghero, in Sardegna, moriva Giovanni Nuvoli, 53 anni, ex arbitro di calcio. Nuvoli, come Welby, era affetto da sclerosi laterale amiotrofica, con conseguente paralisi progressiva dei quattro arti e dei muscoli deputati alla deglutizione e alla parola. Nuvoli aveva chiesto a più riprese che i medici staccassero l'apparecchio che gli consentiva di respirare e lo teneva in vita. Tale desiderio però, al contrario di quanto successo con Welby, non aveva trovato qualcuno che lo esaudisse, anche perché i riflettori, che da tempo si erano accesi sul suo caso, avevano fatto sì che le autorità prestassero una "discreta" ma costante vigilanza, per evitare che si verificasse un secondo caso Welby. Secondo alcune rivelazioni del leader radicale Marco Pannella, un tentativo per raccogliere l'appello di Giovanni Nuvoli era stato fatto l'11 luglio, quando un anestesista, pronto a staccare il respiratore, era stato bloccato dall'intervento dei carabinieri, inviati dalla procura di Sassari. Di conseguenza, a partire dal 16 luglio, secondo la testimonianza della moglie, Nuvoli, non avendo altre possibilità, iniziava a rifiutare acqua e cibo, finendo per morire di inedia, aiutato solo da alcuni sedativi e con il respiratore attaccato. 2.2.2. Osservazioni sul caso Nuvoli La vicenda di Giovanni Nuvoli non è stata caratterizzata da un lungo iter giudiziario come è invece avvenuto nei casi di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro. Tuttavia la sua vicenda ci permette di mettere in evidenza un aspetto importante, che forse poteva sfuggire p. 10/18 nell’analisi del caso Welby: Welby non ha avuto il permesso di staccare il respiratore e la sua decisione è stata presa nonostante il parere del magistrato. Tuttavia, come dimostra il caso Nuvoli, la magistratura, con l’aiuto delle forze di polizia, è in grado di evitare che una decisione come quella di Welby possa essere messa in atto. Dunque, il proscioglimento del dott. Riccio non deve consentire delle conclusioni troppo affrettate, come se, con quel proscioglimento, si fosse messa la parola fine alla tormentata questione giuridica della sospensione dei trattamenti sanitari. 2.3. Il caso Englaro Nel febbraio del 1992, dopo un incidente d’auto, Eluana Englaro, una ragazza di 20 anni, cade in stato vegetativo. Ricoverata a Lecco, è alimentata con un sondino nasogastrico. La ragazza respira autonomamente. Nel 1994 Eluana entra in una casa di cura privata cattolica di Lecco e viene assistita dalle suore. Nel 1999 il padre, Beppino Englaro, chiede al tribunale di Lecco di poter sospendere l’alimentazione artificiale della figlia, ma i giudici respingono la richiesta. In questo caso, diversamente dal caso Welby, è in discussione persino la possibile applicabilità dell’articolo 32 della Costituzione, a prescindere dal fatto che ad esso venga attribuito valore precettivo (come aveva fatto il giudice Zaira Secchi nel caso Welby) o puramente programmatico (come aveva fatto il giudice Renato La Viola, sempre nel caso Welby). L’articolo 32 fa infatti espressamente riferimento al diritto di rifiutare delle cure mediche, mentre nel caso Englaro è in discussione, secondo i giudici, il fatto che alimentazione e nutrizione possano essere classificabili come “terapie mediche”. Alcuni, infatti, le classificano come “pure forme di sostegno vitale”, assistenza di tipo infermieristico, e così via. Questo problema ha fatto molto discutere: nel 2004 lo stesso Comitato Nazionale di Bioetica si è spaccato in due, con un documento di stretta maggioranza che considera l’alimentazione e l’idratazione come assistenza e un documento di minoranza che le giudica invece come cure mediche a tutti gli effetti. p. 11/18 Nel 2003 Beppino Englaro ripresenta ancora la richiesta di lasciar morire la figlia Eluana, ma la Corte d’Appello la respinge un’altra volta. Il 16 ottobre 2007 la Cassazione, tramite la sentenza numero 21748/2007, rinvia di nuovo la decisione alla Corte d’Appello di Milano, sostenendo che il giudice può autorizzare l’interruzione in presenza di due circostanze concorrenti: 1) Occorre che “la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno”. 2) Occorre altresì “che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della volontà del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona”. Il 9 luglio 2008 la Corte d’appello di Milano riesamina la vicenda e autorizza il padre Beppino Englaro, in qualità di tutore, ad interrompere il trattamento di idratazione ed alimentazione forzata che mantiene in vita la figlia Eluana. Il 16 luglio 2008 Camera e Senato sollevano un conflitto di attribuzione contro la Cassazione, ritenendo che la sentenza dell'ottobre 2007 costituisca “un atto sostanzialmente legislativo, innovativo dell'ordinamento normativo vigente”. Ricordiamo infatti che l’ordinamento giuridico italiano non si basa, così come quello inglese, sul cosiddetto “common law” e che le sentenze della magistratura debbono basarsi sempre sulla rigorosa applicazione delle leggi esistenti. p. 12/18 Un tale conflitto di attribuzioni tra potere legislativo e potere giudiziario non si era mai verificato prima nella storia della Repubblica italiana. Per dirimerlo viene chiamata in causa la Corte Costituzionale che, il giorno 8 ottobre 2008, si pronuncia a favore della Cassazione e della Corte d’Appello, non giudicando la sentenza della Cassazione innovativa rispetto all’ordinamento vigente. Il mattino del 6 febbraio 2009 l'equipe di volontari che assiste Eluana Englaro annuncia l'avvio della progressiva riduzione dell'alimentazione. Alle ore 14 il Consiglio dei Ministri approva urgentemente un decreto legge, per vietare la sospensione dell'alimentazione e dell'idratazione dei pazienti in stato vegetativo. Il Presidente della Repubblica rifiuta di firmare il decreto, considerandolo incostituzionale. Alle ore 20 il Consiglio dei Ministri, riunito in sessione straordinaria, approva un disegno di legge con gli stessi contenuti del decreto rifiutato in precedenza. Tale disegno di legge viene immediatamente trasmesso al Senato, che si riunisce per discuterne in sessione straordinaria già lunedì 9 febbraio 2009 (normalmente il lunedì l’aula del Senato è chiusa). La morte di Eluana Englaro sopravviene alle 19:35 del 9 febbraio 2009. La notizia giunge in Senato mentre si discute il DDL n° 1369 in materia di alimentazione e idratazione. Il governo, di concerto con la presidenza del Senato e i gruppi parlamentari, in conseguenza di ciò, decide di ritirare il disegno di legge, in cambio dell'immediata discussione del testo più articolato relativo al testamento biologico e alla disciplina dei casi di fine vita. Nonostante l’accordo preso in Parlamento per discutere con urgenza di questo testo più articolato sul testamento biologico, una legge è oggi ancora lontana dal vedere la luce, a causa delle forti divisioni suscitate da questa tematica. p. 13/18 3. La Costituzione italiana e il principio di responsabilità Come abbiamo visto nella parte iniziale, i valori in gioco in questi casi sono due: 1)da un lato l’interesse collettivo per la salute e la vita di ciascun membro della società; 2)dall’altro lato il diritto di ciascuno di scegliere liberamente se sottoporsi o meno a determinate cure. La Costituzione italiana cerca di tenere assieme questi valori, mentre il codice penale ed il codice civile sembrano sbilanciati da uno dei due lati. Dunque, se si deve trovare un via italiana alla soluzione giuridica delle questioni di fine vita, è necessario che si parta proprio dalla nostra Carta costituzionale. La Costituzione, infatti, rappresenta un grande patrimonio per la nostra società, perché essa non è stata concepita in modo proceduralistico, come se dovesse semplicemente indicare delle regole formali, che consentano la convivenza tra individui che si percepiscono rispettivamente come “stranieri morali”. Al contrario, la prima parte della Costituzione afferma dei valori sostanziali condivisi ed enuclea i contorni di una vera e propria “etica civile”. Fatto questo del tutto straordinario, se pensiamo che le forze politiche di allora rappresentavano universi culturali profondamente distanti: da un lato un Partito comunista fortemente influenzato da un’ideologia materialista, dall’altro lato un altro partito, la Democrazia cristiana, che faceva riferimento ad un mondo cattolico che non aveva ancora vissuto la stagione conciliare ed, in mezzo, ancora altri partiti, alcuni dei quali assumevano come riferimento una prospettiva di tipo liberale che si differenziava da entrambe le precedenti. Che tra tali mondi si sia istituito un dialogo così fecondo da dar vita ad una etica civile condivisa, codificata nella prima parte della nostra Costituzione, mi sembra un fatto straordinario, soprattutto se pensiamo che oggi, all’interno di un paesaggio politico in cui le differenza risultano molto più sfumate, prevale, soprattutto sui temi etici, la più aspra contrapposizione. Ritorniamo allora agli articoli della prima parte della Costituzione che p. 14/18 più interessano le nostre problematiche, ossia l’articolo 32 e l’articolo 13, per cercare in essi elementi utili alla costruzione di un’etica civile condivisa sulla fine della vita. Il primo comma dell’articolo 32 afferma, come abbiamo visto, che esiste un interesse collettivo della società per la salute di ciascuno dei suoi membri. Questo interesse collettivo viene espresso nel vivere sociale e nelle leggi in molteplici modi: attraverso le leggi volte a prevenire gli infortuni sul lavoro, che obbligano ad adottare particolari precauzioni; attraverso l’obbligo imposto agli automobilisti e ai motociclisti di indossare la cintura di sicurezza ed il casco; attraverso le limitazioni imposte all’uso di droghe; ecc., ecc. Tutte queste norme limitano, a qualche livello, la libertà personale, ma lo fanno in nome di un valore importante: il valore della vita e della salute. Noi, sino ad un certo limite, siamo disposti ad accettare queste interferenze dello Stato rispetto alla nostra libertà personale, perché non le giudichiamo troppo intrusive e le riteniamo motivate da un valore positivo. L’affermazione di questo valore, nel primo comma dell’articolo 32, è decisiva, perché in questo modo si viene ad affermare che non è indifferente, per la comunità, che un individuo viva o muoia. Secondo quanto risulta dal resoconto stenografico dei lavori dell’Assemblea costituente, i nostri padri costituenti consideravano infatti la cura della propria salute come un valore importante, che ogni individuo dovrebbe perseguire, al punto tale da prefigurare quasi una sorta di “dovere di curarsi”2. Affermando che la salute è un interesse della collettività si vuole sostenere infatti che la vita di ciascuno di noi non riguarda solo ed esclusivamente se stesso: un giovane padre di famiglia che rifiutasse una cura salvavita, lascerebbe senza la sua cura dei figli minorenni; il titolare di un impresa totalmente dipendente dalle sue capacità imprenditoriali, metterebbe economicamente a repentaglio i suoi dipendenti; un giovane ricercatore su cui l’università avesse fortemente “L’onorevole Merighi propose infatti un emendamento aggiuntivo al primo comma dell’articolo 32, in modo che la declaratoria della salute come interesse della collettività fosse seguita dal dovere dell’individuo di “tutelare la propria sanità fisica, anche per il rispetto della stessa collettività”. L’onorevole Tupini osservò che tale principio si poteva considerare implicito nella formula che poi è stata approvata e così l’onorevole Merighi rinunciò all’emendamento” (V. Falzone, F. Palermo, F. Casentino, La Costituzione della Repubblica italiana illustrata con i lavori preparatori, Milano 1976, p. 114). 2 p. 15/18 investito in formazione, lascerebbe la società senza il suo prezioso contributo, ecc., ecc. Gli esempi in questo senso si possono sprecare, ma tutti convergono verso un'unica conclusione: la nostra salute non è un fatto esclusivamente privato ed individuale, che riguarda solamente noi stessi. Da questa considerazione scaturisce il riferimento al “dovere di curarsi”, che compare nel dibattito parlamentare relativo al primo comma dell’articolo 32 della Costituzione. Il secondo comma dell’articolo 32, che afferma il diritto di rifiutare delle cure, non è tuttavia in contrasto con il primo. Se, infatti, è un dovere civico curarsi, perché la salute è un interesse della collettività, ciononostante obbligare una persona a sottoporsi forzatamente a delle cure, mettendo le mani sul suo corpo e facendole così violenza, è certamente qualcosa che offende la sua dignità umana, costituendo un trattamento disumano e degradante. Una tale intrusione avrebbe infatti un grado di invasività della sfera personale del soggetto assolutamente non paragonabile alle limitazioni imposte, ad esempio, dall’obbligo di usare il casco o le cinture di sicurezza. Il secondo comma dell’articolo 32 e l’articolo 13 della Costituzione tutelano dunque un diritto fondamentale dei cittadini, che è diventato uno dei capisaldi delle costituzioni liberali e che risale all’“Habeas corpus”, un privilegio che i baroni inglesi sono riusciti a strappare a Giovanni Senzaterra nel 1215, quando hanno ottenuto la Magna Charta Libertatum, uno dei pilastri della civiltà giuridica occidentale. “Habeas corpus” significa letteralmente “che tu abbia la disponibilità del tuo corpo”, ossia che il tuo corpo è tuo e che nessuno può fare di te quello che vuole, senza il tuo consenso. Nessuno, salvo un giudice, se ritiene che una legge sia stata violata, può privare un cittadino del potere sul suo corpo. Qualsiasi potere che, in assenza di un reato, voglia esercitare potere sul nostro corpo, senza il nostro consenso, esce dallo stato di diritto e diventa “tiranno”. L’”Habeas corpus” diventa così il presidio della libertà individuale contro l’arbitrio dello Stato. Un tale diritto è dunque irrinunciabile, così come lo sono il valore della vita e della salute. Come possiamo dunque armonizzarli? p. 16/18 Il tentativo di armonizzare questi due principi dovrebbe essere l’obiettivo principale di una legge in materia di fine vita in Italia. Che tale legge sia necessaria è reso evidente dal fatto che, nell’attuale caos normativo, ciascun giudice giudica in modo diverso uno stesso caso, oppure casi analoghi. Quando però la legge non è uguale per tutti, si è di fronte alla suprema ingiustizia ed è, appunto, a questa suprema ingiustizia, che la legge dovrebbe rimediare. Ma, chiediamo ancora, come potrebbe una legge ordinaria armonizzare i due principi contenuti nell’articolo 32 della Costituzione? La risposta forse potrebbe essere la seguente. Il principio dell’interesse collettivo per la salute potrebbe essere tutelato cercando di offrire delle vie alternative alle persone che chiedono di morire. Le domande eutanasiche, infatti, hanno spesso bisogno di essere decodificate. Se si scopre che un malato chiede di morire perché teme di soffrire, occorre far conoscere a questo malato tutte le possibilità offerte dalle cure palliative. Se il malato chiede di morire a causa di uno stato depressivo causato dalla malattia o dallo stato di abbandono in cui si trova, occorre offrire lui un supporto psicologico, e così via. Insomma, direi che la tutela del principio dell’interesse collettivo per la salute può evitare al medico di diventare un puro e passivo esecutore delle volontà del malato e alla medicina di diventare cinica. Il medico non può limitarsi ad eseguire passivamente qualsiasi richiesta, come se lui fosse un semplice tecnico, obbediente ai fini indicati dal malato. Il medico, al contrario, è in primo luogo il depositario dei valori della sua disciplina (che ha come fine quello di promuovere la salute e di salvare la vita delle persone) ed è, in secondo luogo, il portavoce della società, che ha interesse a salvaguardare la salute di ciascuno dei suoi membri. Dunque, il medico deve mettere a confronto questi suoi valori, in un colloquio franco ed approfondito, con la richiesta del malato di lasciarsi morire. Tuttavia, se la richiesta del malato persistesse, il medico dovrebbe astenersi dall’usare violenza su di lui, imponendo una cura che il paziente rifiuta, anche se il paziente dovesse essere incapace di opporsi attivamente alla somministrazione della terapia (come nei casi Welby e Nuvoli), p. 17/18 oppure se il paziente non fosse più in grado di intendere e volere, ma avesse lasciato una chiara e documentata richiesta in tal senso. Per quest’ultimo motivo, molto probabilmente, la legge sul testamento biologico, se verrà approvata, non consentirà che la volontà del paziente venga ricostruita attraverso delle testimonianze (come accaduto nel caso di Eluana Englaro), ma richiederà che i pazienti lascino un testo scritto, attestante le loro volontà, presso il loro medico di base, oppure presso un notaio. Su questo punto, almeno, l’accordo sembra essere generale. p. 18/18