foto Scott Friedlander tomas fujiwara connessioni ad impulsi variabili di Alain Drouot Ex studente del grande e sottovalutato Alan Dawson, il batterista Tomas Fujiwara si è sviluppato come uno dei più versatili musicisti di quella generazione che ha scosso la scena newyorkese. Che sia leader di propri gruppi, come il nuovo trio con Ralph Alessi e Brandon Seabrook, che sia parte di un collettivo o si produca come sideman, mette uguale professionalità e attenzione nel suo mestiere, dando prova di essere una forza di cui tener conto, anche come compositore. Come hai iniziato ad interessarti alla batteria? Vari momenti hanno scatenato il mio interesse per la batteria. Uno è stato scorrere la collezione di dischi dei miei genitori da bambino. Trovai il disco “Rich vs. Roach” e la copertina ritraeva i due seduti alla batteria, uno di fronte all’altro. La loro posa suggeriva un duello. Avevo probabilmente 7 anni allora. La copertina mi sembrava molto cool. Non avevo mai ascoltato né Buddy Rich né Max Roach, ma misi su il disco. E fu una delle robe più straordinarie che avessi mai sentito. Non avevo idea di cosa avvenisse ma stimolò il mio interesse, specialmente il lavoro di Max Roach sullo hit-hat. Era eccitante per me e volevo capire come funzionava. Un altro momento è stato alle medie quando qualcuno degli insegnanti di musica fece qualche dimostrazione con gli strumenti. L’insegnante di batteria, Keith Gibson, aveva solo il rullante e fece una sola rullata, lenta e poi veloce, usando varie dinamiche. Quel suono fu seducente. I tuoi genitori suonavano qualcosa o erano solo appassionati di musica? Niente di tutto ciò. A loro piaceva la musica ma non sono cresciuto ascoltando musica in casa o andando a tanti concerti, e non ci sono musicisti in famiglia, né dal lato di mio padre né da quello di mia madre. Puoi raccontare della tua esperienza di apprendimento con Alan Dawson? Dissi a mia madre che volevo suonare la batteria. Dato che non conoscevamo alcun musicista, mia madre chiese in giro. Tramite un amico trovammo un insegnante di batteria, Joyce Kouffman. Era una buona insegnante e mi insegnò per un paio di anni. Mi aprì le orecchie verso diversi strumenti e tanta musica. Voleva anche che scrivessi canzoni così che potessi iniziare ad usare immaginazione e creatività. Poi si trasferì in California — io sono cresciuto a Boston — e quando chiesi se potesse raccomandarmi qualcuno, disse che avrebbe chiesto al suo maestro, sebbene non insegnasse a ragazzi. Il suo maestro era Alan Dawson. Che disse: “Perché non viene per una lezione e partiamo da lì?” Non avevo idea di chi fosse. E sono contento perché altrimenti sarei stato nervoso. Alla fine della lezione, Dawson disse soltanto: “Ci vediamo la prossima settimana”. Così sono iniziati i miei 8 anni di studio con lui. Ovviamente è un insegnante fantastico e un gran batterista. A livello tecnico e musicale devo a lui i miei fondamentali. Dal punto di vista batteristico, il suo messaggio è completo per tecnica, coordinazione e vocabolario. Ciò che ho trovato utile è stato imparare come organizzare il mio approccio. Attraverso i suoi inseJazzColours | novembre ’14 21 foto Scott Friedlander gnamenti ho imparato che ci sono tanti modi di scomporre le cose e ricombinarle. È stato anche di grande esempio, una figura per certi versi paterna. Aveva un vero carisma e dignità nel modo di porsi. Ed era una persona molto intelligente, calorosa e gentile, sicuro di sé senza essere arrogante, serio senza essere altezzoso. Una volta mi invitò a sentirlo suonare con Bobby Hutcherson. Era fra i due set, sul retropalco parlando con gli altri musicisti. Ed io ero molto timido, avevo forse 12 anni all’epoca, ma alla fine mi decisi ad andare e dissi “Salve”. E lui: “Oh, Tomas Fujiwara, ti presento Bobby Hutcherson; e Bobby Hutcherson, ti presento Tomas Fujiwara”. Ci presentò come due amici, persone che rispettava e a cui teneva. Fu una cosa per me molto forte. A 17 anni ti sei trasferito a New York per il college? Sì, alle superiori, sapevo già che volevo andare a New York. E non era solo per la musica. Allora non ero probabilmente consapevole di tutta la storia della musica che capitava a New York, ma ero sempre attratto da quella città ogni volta che ci andavo. Una volta diplomato ho puntato lì perché sapevo che sarebbe stato lì che mi sarei ispirato e avrei imparato di più. Hai suonato in parecchi musical come “Stomp” e 22 JazzColours | novembre ’14 “Fella!”: cosa hai imparato da quell’esperienza? Si è trattato di esperienze alquanto differenti. “Stomp” aveva delle chiamate dirette per il cast. L’audizione in sé fu molto divertente, come un workshop. Lo show era molto percussivo e fisico. Avevo appena terminato il college e finii per avere il posto. Fu il mio primo tour regolare e lo spettacolo era creativo. Sera dopo sera c’era spazio per improvvisare, più di quanto si potrebbe pensare. Questo mi affascinava come musicista. Potevi sempre cambiare le cose all’interno del contesto dello show. In un certo senso, è come un ensemble di percussioni. Con “Fella!” si trattava di Broadway ed io ero un sostituto, feci solo una manciata di serate. Ma la musica ed il ballo erano spettacolari. Era forte, poi, dover imparare quella musica. Avevo sempre amato “Fella!” e Tony Allen, il suo batterista, e quindi fu una cosa grandiosa studiare quei ritmi e quei groove. Sembri avere un legame speciale con il cornettista Taylor Ho Bynum. Ho incontrato Taylor alle superiori. Facemmo una serata insieme e abbiamo continuato a suonare. È dinamico, intraprendente e molto positivo quanto alla musica. Alle superiori aveva un ingaggio regolare alla gelateria in cui lavorava. Di certo della musica co- nosceva molto più di quanto allora ne sapessi io. Poi ci siamo reincontrati a New York e abbiamo cominciato a lavorare a diversi progetti insieme. È stato un rapporto molto importante per entrambi, quanto a suonare in contesti diversi. Come amici, uscivamo molto e parlavamo di vari argomenti. Abbiamo avviato il duo circa dieci anni fa. Era un periodo in cui nessuno di noi era molto impegnato. Tutti i musicisti ci passano. Così organizzavamo delle session ed un giorno ci siamo ritrovati solo noi due. E abbiamo deciso di rifarlo. Avere una relazione musicale per così tanto tempo stabilisce una connessione unica che ti permette di suonare in molti contesti diversi. E con la chitarrista Mary Halvorson? Ho incontrato Mary circa dieci anni fa, nel gruppo di Matana Roberts. Poi non abbiamo suonato di nuovo insieme per un anno. Quando Taylor stava mettendo su una band, chiese ad entrambi di farne parte. Era la prima volta che suonavamo regolarmente insieme. Naturalmente ci siamo trovati ma per molto tempo sembrava che spesso venissimo ingaggiati per gli stessi progetti. Relazioni come questa devono svilupparsi con il tempo e attraverso incontri ripetuti. C’è anche bisogno di impegno per costruire un vocabolario condiviso. Anche se non viene detto, c’è un impegno reciproco per costruire una connessione all’interno della musica. È molto gratificante suonare con musicisti con cui hai una storia condivisa. Di solito suoni principalmente con musicisti della tua stessa generazione: come hai agganciato il contrabbassista Michael Formanek per formare TOMAS FUJIWARA TRIO VARIABLE BETS (Relative Pitch Rec. - 2014) Tomas Fujiwara (bt), Ralph Alessi (tr), Brandon Seabrook (ch) Mr. Or in Pivot Insomniac’s Delight November Wept I The Comb Harp Ran Blond A Table’s Stem (Variations on a Theme by Benny Golson) Lord Sumo Nudge Storms Thumbscrew con Mary Halvorson? Michael venne chiamato come sostituto nel sestetto di Taylor, e da quell’unica serata abbiamo sentito subito una forte connessione, ripromettendoci di farne altre. Tutti e tre ci siamo spesi perché accadesse, abbiamo scritto la musica per il progetto. In effetti suoniamo soltanto musica appositamente scritta per questa band. È un collettivo ed ognuno è ugualmente coinvolto, sia musicalmente che ad altri livelli. Il trio con Ralph Alessi alla tromba e Brandon Seabrook alla chitarra avvia una nuova collaborazione? È stata la prima volta che suonavo con loro. Li conoscevo, li avevo visti suonare e mi piaceva ciò che facevano nei rispettivi gruppi. Quando metto insieme un nuovo progetto voglio immaginare come suonerà. Mi piace avere delle opportunità e prendere dei rischi con la musica che suono. È stimolante per me vedere se una combinazione di strumenti funzionerà oppure no. Mi trastullavo con diverse idee e dato che rispetto questi due musicisti ho iniziato ad essere interessato a formare una band con loro. Non abbiamo suonato molto ma ogni volta che lo facciamo mi piace il processo con cui tutto avviene. Quando ho preso a pensare di fare un album, ho creduto fosse meglio farlo in un contesto live — è stato registrato al Barbès di Brooklyn. Mi piaceva quest’idea. Non volevo avere un milione di prove fra cui scegliere e da editare. Mi piace l’energia che viene fuori dal ribollire delle idee e dall’essere nel momento. Cerchi di trovare dei titoli che si adattino ai pezzi che scrivi o trovi noioso dar loro un nome prefe- Questo nuovo trio capeggiato dal batterista newyorkese Tomas Fujiwara presenta una strumentazione inusuale ed una nuova collaborazione. È la primissima volta che Fujiwara si trova a suonare e registrare con l’incendiario chitarrista Brandon Seabrook ed il versatile trombettista Ralph Alessi, i quali hanno entrambi l’opportunità di rivelare differenti sfaccettature del loro playing. Il chitarrista ha catturato l’immaginazione di molti con il trio Seabrook Power Plant, che mette in scena le sue intense tessiture e l’apocalittico banjo. In “Variable Bets”, Seabrook dà qualche accenno di ciò che fin qui lo ha aiutato a costruire la sua reputazione, ma dimostra d’esser capace anche di finezza [espressiva]. Quanto al trombettista, dà prova di saper essere altrettanto efficace in un contesto meno vincolato e strutturato. Doveva essere accreditato Fujiwara come leader, per permettere a Seabrook ed Alessi di fare pieno uso del loro potenziale. In aggiunta, il batterista in buona parte lascia loro la scena, restando spesso strumentale nel provvedere alla transizione fra i pezzi. Pezzi ugualmente divisi fra sue composizioni ed improvvisazioni collettive che si alternano perfette come un orologio, poste in sequenza come una lunga suite dove ognuna scivola nell’altra. Ironicamente, i brani completamente improvvisati sono più diradati e meno frenetici delle tracce basate sul materiale tematico. I temi sono costituiti da semplici linee melodiche avanzate da Seabrook, con Alessi che rimane solista principale per tutta la durata del set, anche se le destrutturate variazioni del chitarrista su A Table’s Stem, brano costruito su di un tema di Benny Golson, sono fra i momenti culminanti. Fujiwara usa vari approcci, ora intenso e concentrato, ora sereno e rilassato. Seabrook, che si avvale del distorsore e di un’ampia gamma di effetti, sfrutta appieno il potenziale del suo strumento, dal pizzicato furioso a grasse note basse. Dal canto suo Alessi è a suo agio tanto articolando nitide linee quanto curvando le note, e plauso va riconosciuto ai suoi sodali per non sopraffarlo mai, cosa che avrebbero potuto facilmente fare. In conclusione, il trio produce un disco stimolante che non difetta di appeal._Al.Dr. JazzColours | novembre ’14 23 foto Scott Friedlander rendo usare qualunque cosa ti venga in mente? Questo è interessante. Di solito scrivo i pezzi e mi viene subito il titolo. Ancor prima di cominciare a scrivere ho un’idea del pezzo, così il titolo è piuttosto chiaro. Ma ultimamente mi capita con minore facilità. Magari è solo una fase, ma per ora inizio a scrivere e il titolo non viene, non so come chiamare il brano, non ricordo quale sia stata la sua prima ispirazione. In questo specifico album in trio, alcuni pezzi avevano i titoli ma altri erano improvvisazioni, per cui successivamente dovevo trovare dei titoli. Ascoltavo la musica per cercare di dargli un nome, ma niente. Così alcuni dei titoli sono anagrammi di frasi banali. Per esempio, c’è una breve traccia di sola batteria verso la fine del disco che è un’improvvisazione e porta al pezzo successivo. Ho preso le parole “drum solo” ed è venuto fuori Lord Sumo. Ho pensato che fosse simpatico. D’altro canto ci sono pezzi come The Comb, una mia composizione, che si riferisce ad una storia che raccontava il mio patrigno. Nel caso del quintetto The Hook Up, per i brani del primo album avevo alcuni titoli prima che iniziassi a scrivere la musica. Ma per il terzo album, che uscirà a breve, ho dovuto cercare i titoli mesi dopo che la musica è stata scritta. Dato che hai chiamato in causa il nuovo disco di The Hook Up, ci daresti un’anteprima? Sarà un album diverso nel senso che abbiamo nuovi pezzi e tutti i musicisti sono stati coinvolti fin dal nostro precedente album. Stiamo anche cercando di affrontare nuovi concetti. Ma cerco di non essere troppo attaccato ai dischi. Li vedo come il documento di quel giorno. Certo, in studio la tecnologia permette di fare cose che non si possono fare durante una performance. Inoltre, molti dischi classici che adoro sono stati fatti con sessioni di uno o due giorni. Credo che ci sia qualcosa riguardo a questo processo che aggiunge vitalità. Tornando al nuovo album, c’è una certa coerenza con gli album precedenti, sebbene la personalità della band sia diversa dato che adesso nel gruppo c’è Michael Formanek. Ancora, Brian Settles adesso suona pure il flauto. Sono certo che il pubblico avrà da dire che questo disco differisce dal precedente. Per me è difficile da dire: non fai caso ai capelli che crescono. Oggigiorno è una sfida avere una band in attività, dal momento che i musicisti hanno bisogno di essere coinvolti in quanti più progetti possibile: tu cosa ne pensi? È un problema. È vergognoso perché puoi sentire nella musica quando c’è una storia comune fra i musicisti. E sebbene io sia membro di diverse bands, cerco di impegnarmi con esse e di avere una certa continuità. Con The Hook Up, per esempio, il calendario dei concerti ha meno a che fare con la disponibilità dei musicisti che con la difficoltà di trovare un flusso continuo di serate. Credo che si possono avere musicisti pronti ad impegnarsi in un progetto finalizzato ad avere una certa longevità: ma come è possibile mantenersi quando ci sono così poche possibilità?