Pianeti extrasolari, finalmente

Capitolo 1
Pianeti extrasolari, finalmente
Nell’ottobre del 1995 mi trovavo a Firenze, l’antica, bella
città in cui i Medici, nel diciassettesimo secolo, furono mecenati dell’astronomia. Ero lì per un convegno in cui discutere
alcune nuove idee con i miei colleghi. Poi, in uno di quei
momenti di distrazione che spesso si verificano durante una
conversazione casuale, una nuova, dirompente idea esplose
tra le mie convinzioni più radicate.
Al termine di quella giornata alcuni di noi stavano parlando con l’astronomo svizzero Michel Mayor della sua scoperta: un piccolo pianeta delle dimensioni di Giove nelle vicinanze di una stella chiamata 51 Pegasi. L’annuncio di tale
scoperta, di per sé, non era niente di eccezionale: nei decenni
precedenti rivendicazioni simili erano state avanzate e ritrattate diverse volte.
A catturare la mia attenzione, però, fu il fatto che Mayor e
il suo assistente dottorando Didier Queloz avevano misurato
il periodo orbitale in giorni anziché in anni, come invece si
fa di solito. Quel piccolo pianeta, infatti, compiva un giro
intorno al suo sole in appena quattrocento giorni!
Non ci potevo credere.
Okay, sono un esperto di stelle, non di pianeti, ma le basi
della planetologia non mi mancano, e quella cosa non quadrava. È dall’ultimo anno di liceo che conosco il modello di
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Kant-Laplace sulla formazione del nostro sistema solare. Anche se Immanuel Kant è noto come filosofo, da giovane era
stato astronomo, oltre che un viscerale sostenitore di Isaac
Newton. All’università di Königsberg, l’odierna Kaliningrad,
sul Mar Baltico, aveva usato il nuovo calcolo di Newton e la
teoria meccanica per dare conto di un’evidente ma inspiegata
caratteristica del sistema solare.
Gli astronomi prima di Kant avevano osservato che tutti i
pianeti orbitano intorno al Sole sullo stesso piano e nella stessa direzione, che è anche la direzione in cui ruota il Sole e la
maggior parte dei pianeti. Kant offrì una soluzione elegante
al problema attraverso un’analogia con gli anelli di Saturno. I
pianeti si formano dalle particelle che ruotano intorno al Sole
in un disco piatto, e la conservazione del momento angolare
dà conto di questa forma appiattita1. (Poiché il suo editore fallì, Kant non ottenne subito il dovuto riconoscimento2.)
Nel 1796 Pierre-Simon Laplace diede più rigore matematico
alle idee di Kant, e da allora il modello Kant-Laplace è sopravvissuto a duecentocinquant’anni di critiche, modifiche e
miglioramenti, mantenendo le sue basi fondamentali.
Ma c’era anche qualcos’altro che mi rendeva difficile credere alla scoperta di Mayor. Secondo la versione moderna del
modello Kant-Laplace c’è una curva, più o meno a due-tre
volte la distanza della Terra dal Sole, lungo la quale la temperatura del disco gassoso che circonda una stella scende ad
appena 170 K, ovvero a -103°C, e a quel punto l’acqua e le
molecole di ammoniaca di quell’atmosfera rarefatta formano
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Il momento angolare è il prodotto di massa, velocità e dimensione di un corpo
che ruota; lasciato a se stesso, il corpo conserverà il proprio momento angolare.
Se la sua dimensione diminuisce, il corpo deve ruotare più velocemente per compensare tale riduzione. La massa di gas e polveri che circonda una stella giovane
si restringe mentre vi orbita intorno e assume una forma a disco piatto.
Un resoconto dettagliato di questa vicenda si trova in Charles A. Whitney, The
Discovery of Our Galaxy, Knopf, New York 1971.
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Figura 1.1. La stella appena nata è circondata da un disco orbitante di gas e polveri,
materiali da cui si formano i pianeti. Il disco viene riscaldato dalla stella, ma a una certa
distanza la temperatura scende sotto lo zero, disegnando la cosiddetta linea della neve. È
al di fuori questa linea che i fiocchi di neve si aggiungono alla polvere nella formazione
dei pianeti, contribuendo a creare giganti gassosi come Giove.
granuli di ghiaccio e fiocchi di neve3. Questi due materiali
leggeri – quasi quanto l’idrogeno, in definitiva – si combinano con le particelle di polvere e crescono fino a diventare i
pianeti giganti gassosi che orbitano intorno al Sole. Entro i
confini della cosiddetta linea della neve, in assenza di granuli
di ghiaccio e di fiocchi di neve che ne favoriscano lo sviluppo, le particelle di polvere si combinano per formare piccoli
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La temperatura viene misurata su diverse scale: Celsius (°C), Fahrenheit (°F) e
Kelvin (K), ciascuna della quali ha uno zero differente. La scala Kelvin parte dallo zero assoluto, mentre quella Celsius ha lo zero alla temperatura a cui l’acqua
distillata congela al livello del mare. Quindi 0°C corrispondono a 273 K, mentre
170 K sono i freddissimi -103°C (Dimitar Sasselov e Myron Lecar, On the Snow
Line in Dusty Protoplanetary Disks, in “The Astrophysical Journal”, vol. 528, n.
2, 2000, pp. 995-998).
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pianeti densi (vedi figura 1.1). Questa è la spiegazione meravigliosamente semplice della formazione del nostro sistema
solare, con i pianeti giganti gassosi che orbitano intorno al
Sole a grande distanza e impiegano molti anni per completare il loro viaggio, e con i piccoli pianeti rocciosi su orbite
più ravvicinate. È quindi facile intuire perché le affermazioni di Mayor mi sorpresero così tanto: non era possibile che
un pianeta gigante gassoso delle dimensioni di Giove potesse
formarsi all’interno della linea della neve, né che orbitasse in
soli quattrocento giorni intorno a 51 Pegasi, una stella simile
al nostro Sole.
Alla conferenza stampa della mattina successiva scoprii
che riguardo ai giorni avevo capito male: non erano quattrocento, ma quattro!
Per qualche motivo il mio cervello aveva preso quell’incredibile cifra e l’aveva moltiplicata per un fattore cento. Eppure
i dati di Mayor ne suffragavano le affermazioni, mostrando
che il periodo orbitale del nuovo pianeta era effettivamente
di 4,2 giorni!
I miei solidi e ben radicati preconcetti si sciolsero come
neve al sole. Fu una grande lezione, anche piuttosto umiliante.
Dopo la scoperta di 51 Peg b giunsero notizie di molti altri
pianeti4. Entro pochi mesi dall’annuncio di Mayor, in California Geoffrey Marcy e Paul Butler scoprirono, nel quadro
di un progetto che adottava una tecnica analoga, numerosi
sistemi planetari interessanti, dissipando ogni dubbio sul fatto che Mayor potesse avere interpretato il pianeta 51 Peg b
come un’insolita caratteristica della sua stella. Fu anche più
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I pianeti che orbitano intorno ad altre stelle prendono il nome della stella seguito
da una lettera minuscola: “b”, “c” e così via, in ordine di scoperta. Quanto al
nome in sé, di solito si usa l’abbreviazione del nome della costellazione (per
esempio, “51 Peg” per “51 Pegasi”). Se la stella non ha ancora un nome comune,
si ricorre al nome del progetto responsabile della sua scoperta, seguito da un
numero progressivo e da una lettera minuscola.
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facile tornare a considerare precedenti scoperte e accettare
come possibile pianeta il compagno della stella HD 114762,
individuato nel 1989 dal mio collega e pioniere della caccia
ai pianeti lontani David Latham insieme con i suoi collaboratori5. È stato inoltre possibile capire perché i pionieri di
questa tecnica, a partire da Gordon Walker della University
of Victoria, in Canada, non erano riusciti a scoprire un singolo pianeta extrasolare pur avendo condotto una ricerca sistematica dal 1986 al 1995: perché cercavano pianeti con un
periodo di dieci o più anni, e questo aveva limitato il numero
di stelle che potevano monitorare. Complice un po’ di sfortuna, la ricerca era terminata con un nulla di fatto6.
Oggi i pianeti in orbita intorno ad altre stelle, chiamati
pianeti extrasolari, o esopianeti, si contano a centinaia (per
ora sono circa seicento), e si trovano tutti nella nostra galassia, la Via Lattea, quindi piuttosto vicino alla Terra. La maggior parte di questi è all’interno di un cerchio di cinquecento
anni luce, anche se una manciata dista fino a cinquemila anni
luce. Più di sessanta di questi pianeti sono simili a 51 Peg b, e
vengono chiamati pianeti gioviani caldi (vedi figura 1.2 a p.
10). Il loro numero, piuttosto alto, indica che sono facili da
trovare, non che sono numerosi. Questi pianeti, che in un primo momento erano apparsi così anomali – come potevano
Questa è la prima scoperta valida di un pianeta esterno al nostro sistema solare
(David Latham et al., The Unseen Companion of HD 114762: A Probable
Brown Dwarf, in “Nature”, vol. 339, pp. 38-40, 4 maggio 1989), che però non
è stata annunciata per timore degli autori di sovrastimare i loro dati. Il pianeta
è stato scoperto con la stessa tecnica usata per trovare 51 Peg b, e della sua
massa è stato determinato solo il limite minimo, nel senso che se ci capitasse
di osservare l’orbita del pianeta frontalmente, per esempio dai suoi poli, la sua
massa risulterebbe maggiore. La probabilità non è trascurabile, soprattutto nel
caso in cui si sommino le due insolite proprietà del compagno di HD 114762: 1)
la sua massa supera quella di Giove, ma la sua orbita è più piccola di quella di
Mercurio; 2) ha una forte eccentricità orbitale. Per fare un confronto, 51 Peg b
ha almeno un’orbita non eccentrica, sebbene sia piuttosto “strana”!
Gordon Walker et al., A Search for Jupiter-Mass Companions to Nearby Stars, in
“Icarus”, vol. 116, n. 2, 1995, pp. 359-375.
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Figura 1.2. Orbita del primo pianeta gioviano caldo, 51 Peg b. Le due orbite sono riportate con la stessa scala. La distanza della Terra dal Sole è di circa centocinquanta milioni
di chilometri; quella tra 51 Peg b e 51 Pegasi è di soli otto milioni di chilometri.
essersi formati così vicino al calore delle loro stelle? –, hanno
finito per avere una spiegazione che non richiede di scartare
il modello Kant-Laplace.
I pianeti gioviani caldi ci hanno aperto gli occhi sul fenomeno della migrazione dei pianeti, effetto di lenti cambiamenti di orbita del pianeta appena formato dovuti all’interazione con il disco di gas e polveri. Spostandosi, il pianeta
solleva onde di densità nel disco, e la sua orbita forma una
spirale verso l’interno o verso l’esterno. Nella maggior parte
dei casi lo spostamento è verso l’interno, e il risultato sono i
gioviani caldi7.
Così, all’apice di quell’esperienza nello splendore dell’antica città dei Medici, mi sentii profondamente motivato a cercare risposte a quelle domande che fino a pochi giorni prima
avevo dato per scontate.
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Shigern Ida e Dacheng Lin, Toward a Deterministic Model of Planetary Formation, in “The Astrophysical Journal”, vol. 626, n. 2, 2005, pp. 1045-1060.
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Tredici anni dopo, a un’altra edizione di quello stesso convegno fiorentino, incontrai di nuovo Michel Mayor. Questa
volta lo svizzero parlò di un gruppo di piccoli pianeti, forse
come la Terra, che aveva scoperto. Da parte mia illustrai, sulla base di calcoli al computer, quanto potessero essere strani
alcuni di quei mondi.
Questi pianeti più piccoli sono infatti più numerosi e diversificati di quanto ci potessimo aspettare: pianeti caldissimi
con piogge di ferro, atmosfere con venti che soffiano a più di
millecinquecento chilometri all’ora, sistemi planetari con due
soli, un pianeta che sfiora letteralmente la superficie della sua
stella una volta ogni tre mesi e molto altro ancora.
Oggi ci troviamo sulla soglia di nuovi mondi, di pianeti
che potremmo chiamare casa, e che qualcun altro potrebbe
già stare chiamando così. La loro ricerca ha dato il via a una
nuova corsa allo spazio, alla scoperta di un pianeta gemello della Terra. Lo zelo e lo sforzo profusi per partecipare a
questa corsa possono sembrare strani e ingiustificati. Neppure gli scienziati trarrebbero alcun particolare vantaggio dalla scoperta di un gemello della Terra, perché per studiare le
proprietà di pianeti simili al nostro si può fare riferimento ad
altri pianeti più grandi, che sono più facili da trovare. Eppure
sono tutti d’accordo che questo è un momento storico importante. A generare lo straordinario coinvolgimento in questa
impresa è l’umana ricerca di significato e di appartenenza.
È la versione del ventunesimo secolo dell’annoso problema
dell’Altro, ma su grande scala.
La questione dell’Altro riguarda il modo in cui un essere
umano cosciente percepisce la propria identità: chi sono e
qual è il mio rapporto con gli altri? Sorge e si impone in
occasione dei primi incontri, e la storia dell’uomo è piena di
primi incontri: da qualche parte in quella che oggi è l’Europa,
Homo sapiens incontrò Homo neanderthalensis, e in America centrale i maya incontrarono i conquistatori spagnoli e
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così via8. Ma sul nostro pianeta il tempo dei primi incontri
è ormai finito. Bene o male noi esseri umani, tutti quanti,
sappiamo l’uno dell’altro. L’attuale generazione di Homo sapiens ha una consapevolezza globale, un senso di connessione sociale, e sa di avere una costituzione genetica comune. Da
questo punto di vista, la fine del ventesimo secolo ha segnato
una vera e propria svolta.
La scoperta di nuovi mondi che orbitano intorno a stelle
lontane offre una nuova opportunità per assistere a un primo
incontro. Come in passato, gli esseri umani vi si avvicinano
con insaziabile curiosità e con timore, in un rimescolamento
di forti emozioni. Sorprendentemente, nonostante le moderne tecnologie di cui disponiamo e sebbene tutti abbiamo visto Star Trek, i nuovi mondi che abbiamo appena cominciato
a scoprire sono, come in passato, avvolti nel mistero e fonte
di stupore. Come ha scritto T.S. Eliot: «Non dobbiamo mai
smettere di esplorare. E alla fine di tutto il nostro esplorare
arriveremo là dove abbiamo cominciato e conosceremo quel
luogo per la prima volta».
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Il problema dell’Altro ha affascinato scrittori, filosofi e antropologi. Una bella
analisi del pensiero occidentale, sia pure limitata in gran parte a fonti francesi, è
contenuta nella monografia di Tzvetan Todorov, Noi e gli altri, Einaudi, Torino
1996 (ed. orig. Nous et les autres, 1989).