La Filosofia moderna fino a Kant

annuncio pubblicitario
Motivi fondamentali dello sviluppo della Filosofia Moderna fino a Kant
A)
Il Cogito cartesiano vuol assumere, all'atto della rifondazione della filosofia, una
funzione analoga a quella svolta nell'aristotelismo dal Principio di non Contraddizione: vuol
porsi, cioè, come quel principium firmissimum la cui negazione è assolutamente impossibile
(= non riesce neanche a costituirsi, dovendosi fondare, a sua volta, proprio su quanto
intenderebbe negare).
Ma, al di là di questa analogia formale, la novità del principio cartesiano sta nel fatto
che esso non può essere posto indipendentemente dal pensiero; esso è, anzi, il pensiero stesso
inteso come indubitabilità assoluta dell'apparire. La filosofia antica è, certamente,
consapevole del fatto che l'essere appare, ma non sviluppa radicalmente il problema dei
rapporti tra essere e apparire: che il mondo che vediamo sia assolutamente reale è in
generale, per la filosofia antica, un'evidenza che non occorre dimostrare1.
La filosofia moderna parte invece dalla consapevolezza che l'essere immediatamente
presente è apparire, è cioè "idea" (dove quest'ultimo termine ha, naturalmente, una valenza
diversa da quella platonica); la filosofia stessa (= metafisica) è allora anzitutto il tentativo di
procedere al di là dell'apparire, per indagare, se possibile, l'esistenza di una realtà ulteriore.
Razionalisti ed empiristi sono, gli uni e gli altri, convinti dell'indubitabilità del punto
di partenza (l'apparire), e in questo senso sono a pari titolo seguaci di Cartesio, ma
radicalmente differenti sono le loro risposte sulla possibilità di quell'andare oltre. Cartesio,
Spinoza, Malebranche, Leibniz ritengono che proprio nella sfera dell'apparire (= pensiero)
esistano principi assoluti, idee necessarie ed universali (innate, nel senso che non dipendono
dall'esperienza) le quali consentirebbero appunto quella conoscenza dell'essere esterno al
soggetto pensante (v. Dio, il mondo materiale). Tali idee costituirebbero, cioè, una sorta di
"apertura" dell'apparire su quella realtà ulteriore che possiamo chiamare "oggettiva"2 in senso
forte.
Il razionalismo viene poi elaborando, con Leibniz, un'ottica per cui l'essere che sta
oltre l'apparire, pur essendo pienamente conoscibile da parte della filosofia, non è tuttavia
determinato secondo schemi spazio-temporali. Quest'ottica tende dunque ad "allontanare" la
struttura del mondo fisico (= della realtà come appare nell'esperienza) da quella della sfera
metafisica (= della realtà oggettiva in senso forte): spazio e tempo non sono caratteri
dell'essere "in sé", ma determinazioni dell'apparire. Ciò anche se, dice Leibniz, si tratta di
"fenomeni ben fondati": spazio e tempo sono cioè manifestazioni necessarie dell'attività
spirituale delle monadi.
1
Questo anche se Platone - p. es. - si preoccupa di definire le norme che danno verità al
pensiero dell'essere (v. la "dialettica"), e dunque intende il pensiero stesso come riflessione
sul reale, come corrispondenza - più o meno esatta - tra pensiero e realtà; ma questa
"realtà" comprende poi lo stesso mondo sensibile (= l'insieme delle cose che appaiono nella
nostra esperienza), che è assunto dunque (indebitamente, dal punto di vista cartesiano)
come indipendente dal soggetto umano.
2
Cartesio dava il nome di "formale" a questa realtà, riservando il termine "oggettivo"
proprio per la sfera del Cogito.
B)
Dal canto suo, l'empirismo inizia a mettere in questione proprio la conoscibilità
dell'essere "in sé", e lo fa negando l'esistenza di quelle idee innate, universali e necessarie, a
cui i razionalisti affidavano il compito di portarci al di là dell'apparire: qualsiasi idea è,
secondo gli empiristi, un prodotto dell'esperienza3, e dunque poco può dirci su quanto si
colloca al di fuori dell'esperienza stessa. Esistono certamente, anche per gli empiristi, dei
principi universali e delle verità assolute: le leggi logico-matematiche ed i contenuti
dell'esperienza. Tuttavia, le prime non sono che verità "formali", prive di contenuto reale,
mentre i secondi sono sempre particolari, e dunque non sono in grado di portarci oltre
l'esperienza.
Questa tesi, in effetti, è formulata per la prima volta in modo rigoroso solo da Hume:
Locke, infatti, pur cominciando a porre in dubbio l'esistenza delle idee innate, non trae da ciò
la conclusione dell'assoluta inconoscibilità dell'essere "in sé". Pur senza sviluppare un vasto
sistema metafisico, il filosofo inglese ritiene infatti pienamente dimostrabile l'esistenza di Dio
e di un mondo materiale "oggettivo", e ciò, in definitiva, proprio in base al principio di
causalità (che pure è, per Locke, solo uno dei tanti prodotti dell'esperienza).
Hume, circa mezzo secolo dopo, porta invece l'empirismo ad uno sbocco decisamente
scettico: per Hume, infatti, non solo non è possibile conoscere ciò che sta (e se qualcosa sta)
oltre il mondo dell'esperienza, ma - per i medesimi motivi - non è possibile neanche una
conoscenza compiuta (cioè assoluta, definitiva) dello stesso mondo empirico; le "leggi
universali" formulate dalla scienza non possono dunque avere la validità di un sapere
incontrovertibile.
A tale conclusione il filosofo scozzese perviene a partire proprio dalla convinzione,
tipica dell'empirismo, che la conoscenza umana si riduca ad un insieme di verità analitiche
(universali e necessarie, ma astratte e non applicabili alla sfera fisica) e a verità
"a-posteriori", che estendono sì la conoscenza stessa, ma sempre in ambito particolare, senza
che se ne possano trarre principi validi in assoluto. Le cosiddette "leggi" della scienza sono
quindi strumenti di tipo pratico, utili all'uomo (in quanto organismo biologico) per
organizzare, tramite aspettazioni, la sua vita di ogni giorno, ma per il resto restano semplici
credenze prive di valore ai fini di una conoscenza definitiva del mondo; con Hume, cioè,
viene negata l'episteme tout court.
C)
Kant subisce in parte l'influenza di Hume e, con ancor più rigore, stabilisce
l'impossibilità per la conoscenza di andare oltre l'ambito fenomenico, cioè oltre l'esperienza.
Tuttavia Kant ritiene di poter salvare l'episteme, proprio liberandola dalla "metafisica".
Perché questo sia possibile, occorre chiaramente che si dia un sapere insieme sintetico
e a-priori, cioè un sapere effettivo, costruttivo, e insieme universale e necessario: ciò è
possibile, per Kant, in quanto l'uomo, pur conoscendo a-posteriori gli oggetti fenomenici, cioè
il contenuto della propria esperienza, inquadra fin dall'inizio tale contenuto secondo forme
a-priori (= universali e necessarie) le quali non dipendono dall'esperienza stessa, ma anzi
sono le condizioni che la rendono possibile, la fondano.
3
Questa posizione è chiaramente anticipata dal nominalismo della scolastica
medioevale (v. Roscellino, Ockham), ripreso poi, tra gli altri, da Hobbes: secondo tale
impostazione i concetti universali sarebbero dei "puri nomi", astrazioni la cui unica realtà
consisterebbe nel loro essere riferite all'esperienza.
2
Queste forme sono la base di un sapere di tipo sintetico, in quanto esprimono relazioni
(ad es. spaziali, temporali, causali ...) tra elementi diversi4. Esse sono, d'altra parte, strutture
specifiche della soggettività umana; o meglio - più radicalmente - tale soggettività non è altro
che l'insieme, l'unità delle varie forme che strutturano il mondo fenomenico.
E non solo il fenomeno è prodotto, nel senso visto sopra, dalla medesima coscienza
che lo percepisce, ma se [per assurdo] gli oggetti dell'esperienza fossero semplicemente
incontrati dall'uomo (come dati a lui estranei), ossia se non esistesse un'attività organizzante,
costitutiva dei dati fenomenici, ogni conoscenza sarebbe a-posteriori, cioè priva di validità
universale.
Di conseguenza, Kant propone, per la filosofia, una sorta di "rivoluzione
copernicana", nel senso che il sapere [epistemico] non va più cercato fuori del pensiero
umano (= dell'apparire), ma nelle strutture del pensiero stesso; il che rappresenta uno sviluppo
(e lo sviluppo definitivo) dell'impostazione cartesiana: adesso, infatti, non solo il fenomeno (=
cogito) è assunto come la realtà fondante della conoscenza, ma le stesse leggi del conoscere
sono viste come inerenti a quella realtà: il sapere umano è valido, non solo perché l'apparire
ha un'evidenza immediata, ma anche perché esso è strutturato secondo forme universali,
fondate a loro volta all'interno dell'apparire medesimo.
Si può dire, anzi, che la stessa filosofia critica, il pensiero che coglie le strutture ed i
limiti della conoscenza umana, ha valore assoluto proprio in quanto è l'autosvelamento
globale della sfera fenomenica, è il portarsi del pensiero ai limiti di tale sfera (che è poi
proprio il pensiero).
La filosofia si porta cioè oltre il contenuto dell'esperienza, proprio per coglierne le
strutture universali, e quindi, in certo modo, anche oltre tali strutture, ma non nel senso che
essa esplori una dimensione ulteriore, bensì nel senso che coglie la connessione organica e
l'assoluta fondatezza di quelle strutture, perché fondamentalmente queste ultime, nella loro
unità, coincidono appunto con il cogito. Se con "trascendentale" si indica il fondamento
a-priori della conoscenza, trascendentale è, in senso proprio e rigoroso, soltanto la filosofia
(che coglie e definisce con verità l'orizzonte del fenomeno) e non le strutture conoscitive che
operano internamente a tale orizzonte.
Ciò che l'uomo ha di fronte non è, dunque, l'essere in sé, ma una sua "traduzione", una
sua interpretazione; e "tradurre" significa, inevitabilmente riferirsi ad Altro rispetto ad un
messaggio noto: questo Altro (ciò che sta oltre la "traduzione") non è, secondo quest'ottica,
accessibile; ma sarebbe erroneo (o almeno del tutto gratuito) attribuirgli senz'altro i medesimi
caratteri e la medesima struttura del messaggio che conosciamo5.
Tuttavia quest'ultimo è espresso in un linguaggio di cui noi padroneggiamo le regole, e
le padroneggiamo perché siamo noi stessi a costituirle: ma non già in modo arbitrario, quasi
che la morfologia e la sintassi del nostro linguaggio fossero di volta in volta ridefinite o
ridefinibili, bensì in modo necessario, giacché l'uomo non è altro che l'insieme organico di
quelle regole; l'uomo è il linguaggio.
4
Per esempio, la proprietà (universale, necessaria) della linea retta di esprimere la
distanza più breve tra due punti non è un predicato analitico, in quanto essa non risulta
immediatamente (per Kant) dal concetto di "retta", e cioè sono necessarie alcune operazioni
- nello spazio e nel tempo - per far apparire effettivamente tale proprietà.
5
Se infatti si ammette, con Kant, che tutto ciò che possiamo conoscere è il mondo
dell'esperienza, appare del tutto inutile (e anzi, contraddittorio) affidarsi alle strutture di
questo mondo per indagare (ossia tentare di conoscere) ciò che sta "oltre".
3
Il contenuto di un messaggio non dipende dal linguaggio in cui è espresso, ma la sua
forma deve sempre adeguarsi alla struttura e alle regole di tale linguaggio. Per cui, se non
possiamo prevedere il contenuto empirico, fattuale, della nostra esperienza, possiamo però
prevedere, con assoluta certezza, le leggi, le regole a cui qualsiasi contenuto dovrà sottostare.
Inoltre noi sappiamo (ed ecco il fondante sapere a-priori cercato invano dai
razionalisti, la dottrina "trascendentale") di aver a che fare con una traduzione, sappiamo cioè
che al di là del messaggio presente esiste una qualche realtà che lo origina, pur restando a noi
del tutto invisibile; e sappiamo anche della necessità delle regole che strutturano la
traduzione.
Questo è, invece, proprio quanto metteva in discussione Hume, per il quale tali regole
sarebbero sempre una convenzione, non esistendo alcun apparato meta-storico, "a-priori", che
conferisca loro valore definitivo: il connettersi delle parole e il loro significato, la formazione
delle parole stesse (per restare alla nostra metafora del linguaggio) avrebbero allora regolarità
soltanto provvisorie, storicamente modificabili.
Nell'ottica humiana sarebbe cioè impossibile, non solo ricevere, attraverso le parole e
le regole che le uniscono, notizie sicure su ciò che sta "oltre" il linguaggio (il che vale anche
per Kant), ma persino poter fissare norme assolute, non modificabili, anche all'interno del
linguaggio stesso; e infine sarebbe del tutto arbitraria e "soggettiva", in senso stretto, persino
l'interpretazione degli oggetti fenomenici come segni-di-Altro, cioè come "traduzioni" di un
messaggio proveniente da "oltre".
D)
La posizione di Hume segue dalla sua convinzione che ogni legge "generale" sia
sempre una costruzione induttiva, cioè a-posteriori, risultante da un'astrazione operata a
partire da singole esperienze: Kant ha, qui, buon gioco nell'osservare che, non essendovi
esperienza alcuna prima e al di fuori delle strutture spazio-temporali, bisogna ammettere che
almeno queste ultime sono a-priori, e cioè indipendenti dall'esperienza stessa e da ogni
possibile processo induttivo. Kant pensa poi di poter affiancare allo spazio ed al tempo (=
forme della sensibilità) anche certe altre forme come la causalità, la sostanza, la necessità...
(strutture, queste, proprie dell'intelletto).
In effetti viene qui messa in luce una "debolezza" del sistema humiano: da un lato,
infatti, qualsiasi formulazione di tipo generale (come nel caso delle "leggi scientifiche", o
dello stesso concetto di causalità) è da esso ridotta a funzione biologica (in definitiva
"economica") volta alla sopravvivenza dell'essere animale; dall'altro lato Hume non fornisce
però alcuna dimostrazione dell'innegabilità di questo fondo biologico, materiale (esprimentesi
nella dimensione spazio-temporale) in cui consisterebbe la realtà specifica dell'uomo. Il che è
un assunto non trascurabile, perché permette al filosofo di conoscere e definire una volta per
tutte la "Natura umana".
Si potrebbe dunque chiedere a Hume se quest'ultima espressione riguardi, a sua volta,
l'esito di semplici osservazioni empiriche, ed esprima in fin dei conti una credenza come tante
(nel qual caso il suo Trattato perderebbe gran parte del suo valore teorico), oppure voglia
valere come la descrizione definitiva dell'uomo, in chiave di strutture (sia pure intese qui
come funzioni biologiche, psicologiche) costanti ed insuperabili, nel qual caso si finirebbe per
dar ragione a Kant.
Questa "debolezza" di Hume (che è del resto la controparte della "forza" di un pensiero
che si avvia ad abbandonare il terreno filosofico, ontologico, in nome di una organizzazione
pratica del sapere), è una conseguenza particolare del suo atteggiamento "scettico" di fondo: la
sostanziale non-conoscibilità del mondo è infatti legata, per Hume, all'inesistenza di un sapere
sintetico a-priori.
4
Ora, l'affermazione dell'inesistenza di tale sapere non è chiaramente un giudizio
analitico, né Hume potrebbe ammettere che sia un giudizio sintetico a-priori (il che darebbe
ancora ragione a Kant, oltre a rendere autocontraddittorio tutto il discorso); dunque tale
affermazione può valere solo come sintesi a-posteriori, cioè come l'osservazione di un dato di
fatto, la quale niente può dirci sulla possibilità in generale di un sapere non analitico e
insieme universalmente valido.
Per Kant si apre dunque la possibilità di una rifondazione filosofica, epistemica, che
proceda oltre lo scetticismo di Hume (nei suoi aspetti dogmatici e contraddittori), pur
mantenendo, e anzi rendendo definitiva la rinuncia ad un sapere metafisico (= relativo
all'essere-in-sé).
Resta aperta la questione se questo superamento critico dello scetticismo empiristico
possa considerarsi, a sua volta, esente da contraddizioni e assunti dogmatici, se cioè possa
valere come l'ultima parola sul problema della conoscibilità del mondo fisico e della realtà in
generale.
5
Scarica