Parte altera pugnae Paulus, quamquam primo statim proelio funda

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STORIA II L
PROF. GODIO GIOVANNI
BRANI DI AUTORI LATINI SULLE GUERRE PUNICHE
La battaglia di Canne
Tito Livio, Ab urbe condita, XXII, 49
Dall'altra parte del campo di battaglia Paolo, sebbene subito al primo combattimento fosse stato
gravemente ferito da un giavellotto, tuttavia spesso andò incontro ad Annibale con una folta schiera di
soldati e salvò le sorti del combattimento in parecchi luoghi, proteggendolo i cavalieri romani, lasciati
infine i cavalli, poiché al console mancavano le forze persino per dirigere il cavallo. Allora a un tale che
annunciava che il console aveva ordinato ai cavalieri di scendere a piedi, narrano che Annibale abbia
detto: "Come avrei preferito, che me li avesse consegnati legati!" Il combattimento a piedi dei
cavalieri fu senza dubbio la vittoria dei nemici, preferendo i vinti morire al loro posto piuttosto che
fuggire, trucidando i vincitori quelli che non potevano mettere in fuga, irati con chi ritardava la
vittoria. Tuttavia misero in fuga i pochi superstiti spossati dalla fatica e dalle ferite. Quindi tutti furono
sbaragliati, e quelli che potevano rivolgevano i cavalli alla fuga. Il tribuno dei soldati Gneo Lentulo che
passava a cavallo, avendo visto il console pieno di sangue che sedeva su un sasso, disse: "Lucio Emilio,
di cui, solo innocente della responsabilità del presente disastro, gli dei devono aver riguardo, prendi
questo cavallo, finché ti resta ancora qualche forza, ed io come compagno posso ancora sollevarti e
proteggerti. Non rendere funesta questa battaglia con la morte del console: anche senza ciò ci sono
abbastanza lacrime e lutto". A queste parole il console: "Senza dubbio, Gneo Cornelio, gloria a te per
la tua virtù; ma bada a sprecare poco tempo con l'avere invano compassione per sfuggire alla cattura
dei nemici. Va via, ordina pubblicamente ai senatori, che fortifichino la città di Roma e, prima che
giunga il nemico vittorioso, rinforzino i presidii, privatamente (dì) a Quinto Fabio che Lucio Emilio,
memore dei suoi precetti, è vissuto finora ed è morto. Tollera che in questa strage dei miei soldati
proprio io muoia, affinché io non sia né di nuovo colpevole allo scadere del consolato, né io divenga
accusatore del (mio) collega, affinché io protegga la mia innocenza da una colpa altrui". Schiacciarono
quelli che dicevano queste cose prima una folla di cittadini che fuggivano, poi i nemici: seppellirono
con i dardi il console il console, ignorando chi fosse, nel tumulto trascinò via Lentulo. Allora
fuggirono disordinatamente da tutte le parti settemila uomini nell'accampamento minore, diecimila in
quello maggiore, duemila fuggirono quasi nello stesso luogo di Canne, i quali subito furono circondati
da Cartalone e dai cavalieri, non proteggendo il luogo nessuna fortificazione. L'altro console, o per
caso o mescolatosi alla turba dei fuggitivi senza alcuna intenzione, con quasi cinquanta cavalieri si
rifugiò a Venosa. Quarantacinquemilacinquecento fanti, duemilasettecento cavalieri, e una tanto
grande parte all'incirca di cittadini e di alleati, si dice che siano stati uccisi; tra questi entrambi i
questori dei consoli, Lucio Attilio e Lucio Furio Bibaculo, e ventinove tribuni dei soldati, certi ex
consoli e pretori ed edili - tra questi contano Gneo Servilio Gemino e Marco Minucio, che era stato
maestro della cavalleria l'anno prima, console alcuni anni prima - inoltre ottanta o senatori o quelli che
avevano esercitato quelle magistrature, per le quali dovevano essere scelti per il senato ed erano
divenuti per loro volontà soldati nelle legioni. Si dice che in quella battaglia furono presi prigionieri
tremila fanti e millecinquecento cavalieri.
La distruzione di Cartagine
Velleio Patercolo I, 12, 4-7
[P. Scipione Emiliano] condusse con maggior vigore la guerra contro Cartagine, che già da due anni i
consoli precedenti avevano cominciato, e distrusse dalle fondamenta quella città invisa al popolo
romano più per gelosia della sua potenza che per danni arrecatigli in quel tempo, e del suo valore fece
testimone quella città che era stata testimone della clemenza di suo nonno. Cartagine fu distrutta dopo
essere esistita per 666 anni, 177 prima dei nostri giorni, quando erano consoli Cn. Cornelio Lentulo e
L. Mummio. Questa fine ebbe la città rivale della potenza romana, contro la quale i nostri antenati
cominciarono a far guerra sotto il consolato di Claudio e Fulvio, 296 anni prima che tu, o Vinicio,
ricoprissi la carica di console. Così per 115 anni ci fu tra i due popoli o guerra o preparazione alla
guerra e pace malsicura. Dopo aver ormai vinto il mondo intero, Roma non avrebbe sperato di essere
al sicuro se in qualche parte della terra fosse rimasta l’ombra dell’esistenza di Cartagine. A tal punto
l’odio nato dalle guerre dura ben oltre la paura, non viene deposto neppure nei confronti dei nemici
vinti, né ciò che è oggetto dell’odio cessa di essere odiato prima che abbia cessato di esistere.
Publio Cornelio Scipione Emiliano, nipote dell’Africano
Cicerone, Somnium Scipionis
(Scipione): Quando giunsi in Africa in qualità di tribuno militare, come sapete, presentandomi agli
ordini del console Manio Manilio alla quarta legione, non chiedevo altro che di incontrare Massinissa,
un re molto amico della nostra famiglia, per fondati motivi. Non appena mi trovai al suo cospetto, il
vecchio, abbracciandomi, scoppiò in lacrime; poi, dopo qualche attimo, levò gli occhi al cielo e disse:
«Sono grato a te, Sole eccelso, come pure a voi, altri dèi celesti, perché, prima di migrare da questa
vita, vedo nel mio regno e sotto il mio tetto Publio Cornelio Scipione, al cui nome mi sento rinascere;
a tal punto non è mai svanito dal mio cuore il ricordo di quell'uomo eccezionale e davvero invitto».
Quindi io gli chiesi notizie del suo regno, egli mi domandò della nostra repubblica: così, tra le tante
parole spese da parte mia e sua, trascorse quella nostra giornata.
Poi, dopo essere stati accolti con un banchetto regale, prolungammo la nostra conversazione fino a
tarda notte, mentre il vecchio non parlava di altro che dell'Africano e ricordava non solo tutte le sue
imprese, ma anche i suoi detti. In séguito, quando ci congedammo per andare a dormire, un sonno più
profondo del solito s'impadronì di me, stanco sia per il viaggio sia per la veglia fino a notte fonda.
Quand'ecco che (credo, a dire il vero, che dipendesse dall'argomento della nostra discussione: accade
infatti generalmente che i nostri pensieri e le conversazioni producano durante il sonno un qualcosa di
simile a ciò che Ennio dice a proposito di Omero, al quale, è evidente, di solito pensava da sveglio e
del quale discuteva) m'apparve l'Africano, nell'aspetto che mi era noto più dal suo ritratto che dalle sue
fattezze reali; non appena lo riconobbi, un brivido davvero mi percorse; ma quello disse: «Sta’sereno,
deponi il tuo timore, Scipione, e tramanda alla memoria le parole che ti dirò».
«Vedi, laggiù, la città che, costretta per mio tramite a ubbidire al popolo romano, rinnova le guerre
d'un tempo e non riesce a rimanere in pace?». (Mi indicava Cartagine dall'alto di un luogo elevatissimo
e pieno di stelle, luminoso e nitido.) «Tu adesso vieni ad assediarla quasi come soldato semplice, ma
entro i prossimi due anni la abbatterai come console e ne otterrai, per tuo personale merito, quel
soprannome che fino a oggi hai ereditato da noi. Quando poi avrai distrutto Cartagine, celebrato il
trionfo, rivestito la carica di censore e percorso, in qualità di legato, l'Egitto, la Siria, l'Asia, la Grecia,
verrai scelto, benché assente, come console per la seconda volta e porterai a termine una guerra
importantissima: raderai al suolo Numanzia. Ma, dopo che su un carro trionfale sarai giunto al
Campidoglio, troverai la repubblica sconvolta dai piani di mio nipote».
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