Il relativismo nella storia della filosofia e nell`epistemologia

Il relativismo nella storia della filosofia
e nell’epistemologia contemporanea
di Federico Creazzo*
1. Introduzione
Scopo di questa analisi è quello di indagare e confrontare le più
importanti accezioni nelle quali il termine relativismo si è presentato nei diversi ambiti di ricerca, nonché quello di evidenziare i nessi, le contraddizioni e le analogie che hanno storicamente accompagnato l’uso di questo concetto. Il termine relativismo definisce ogni concezione che nega sia l’esistenza di un
mondo di cose o di verità fuori da ogni relazione con i soggetti
d’esperienza sia l’assolutezza del pensiero. Il soggetto, al quale
sono relativi i giudizi, può essere inteso o come questo o quell’individuo oppure come il soggetto universale. Esso non connota quindi una vera e propria dottrina né un nucleo di pensiero
quanto un eterogeneo insieme di concezioni e atteggiamenti
che variano, anche di molto, a seconda del quadro storico e concettuale di riferimento. Nella storia della filosofia e più in generale del pensiero occidentale, si è parlato in senso lato di relativismo a proposito di autori i cui esiti concettuali sono stati a
volte molto diversi, se non addirittura opposti. In senso ampio,
le concezioni relativiste negano l’esistenza dei principi assoluti,
*
Docente di storia e filosofia.
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Federico Creazzo
di un soggetto universale e di soggetti sempre identici a se stessi
o di un ente che funga da fondamento dell’essere e del conoscere. Da questa affermazione possono derivare sia posizioni di scetticismo radicale, fino al limite del nichilismo gorgiano, che concezioni che si avvalgono dell’inferenza tra più sistemi di riferimento
per determinare l’oggetto della conoscenza. Nell’ambito della critica operata dagli empiristi inglesi, in particolare da Locke (16321704) e Hume, dei presupposti del razionalismo di derivazione
cartesiana,1 un certo margine di relativismo conoscitivo o di scetticismo è da intendersi come correttivo delle pretese di una ragione che si pone legislatrice della natura e che invece si rivela come
astrazione con fini prevalentemente euristici, all’interno di una
gnoseologia fortemente connotata in senso empiristico.
In senso puramente logico “relativismo” indica il fatto che un
insieme di proposizioni ha senso solo se riferito ad un altro insieme, che lo determina. A riprova dell’estrema variabilità semantica
del concetto, diciamo subito che alcune concezioni relativistiche
approdano invece alla negazione di qualsiasi forma di determinismo e affermano una sostanziale incapacità o impossibilità di
definire un sistema di riferimento dei significati. Tra le varie forme che il relativismo ha storicamente assunto è possibile distinguerne almeno tre principali, e cioè il relativismo gnoseologico, che ha
avuto rilievo soprattutto nell’ambito della teoria della conoscenza
e dell’epistemologia, il relativismo culturale,2 in qualche modo collegato al primo, che ha avuto importanti conseguenze nell’ambito
1
Cfr. LOCKE J., Saggio sull’intelletto umano, Utet, Torino 1971, pp. 622-657.
Per una introduzione al tema in ambito antropologico-culturale si vedano:
MALIGHETTI R., s.v. Relativismo culturale, in FABIETTI U.-REMOTTI F. (a cura di),
in Dizionario di Antropologia. Etnologia, antropologia culturale, antropologia sociale,
Zanichelli, Bologna 1997, pp. 620-621 e DEI F.-SIMONICCA A., Ragione e forme
di vita. Razionalità e relativismo in antropologia, Franco Angeli, Milano 2008, passim.
Per un primo approccio al concetto di cultura vd. R OSSI P. (a cura di), Il
concetto di cultura, Einaudi, Torino 1970, passim.
2
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Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
delle cosiddette scienze della cultura nella storia, nell’antropologia culturale e nella sociologia3 (quelle che Weber chiamava
scienze storico-sociali), e il relativismo etico che ha avuto e continua ad avere importanti effetti sul dibattito filosofico politico.
Questa distinzione è necessariamente approssimativa e in qualche misura arbitraria e deve essere assunta problematicamente.
Essa serve a circoscrivere dei campi d’indagine che altrimenti
risulterebbero spuri e ambigui più di quanto la natura stessa del
termine non consenta. In questo lavoro ci si occuperà prevalentemente di relativismo gnoseologico e solo incidentalmente si
faranno dei riferimenti ai riflessi e alle implicazioni di questo
sulle altre forme di relativismo, con particolare riferimento all’ambito della teoria della scienza e della metodologia storica. In
particolare verranno presi in esame alcuni rilevanti aspetti dello
storicismo tedesco (Dilthey, Windelband, Rickert). Sulla base di
tale punto di vista si affermerà che l’evento storico può essere
spiegato solo in quanto si compie all’interno di un insieme storico di sistemi e di valori nel cui ambito per un certo tempo si
muove la comunità umana e che il giudizio del ricercatore è
condizionato dall’orizzonte culturale e dalla particolare connessione spirituale a cui lo storico stesso appartiene. Le spiegazioni
storiche sono formulate a partire da quelle diverse connessioni
di relazioni che costituiscono le nostre intuizioni del mondo.
Gli eventi del mondo non hanno una consistenza extrastorica
che renda ipostatico il valore delle formule con le quali sono espressi e questo fatto rende relative anche le leggi di natura. Infatti la
scienza, benché si occupi di quei frammenti di esperienza che
persistono facendoli diventare entità assolute fuori da ogni relazione con il soggetto e vada alla ricerca delle loro successioni e
coesistenze immutabili, ha conosciuto il mutamento dei propri
termini, dei propri schemi, dei nessi logici e delle proprie teorie.
3
WEBER M., Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino 1981 (1922), passim.
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Federico Creazzo
2. Il relativismo nella storia del pensiero filosofico
e scientifico
Da un’analisi storica e comparativa dei modi e delle accezioni in
cui il termine relativismo è stato utilizzato in riferimento alle diverse dottrine filosofiche e scientifiche, emerge, come si è già detto nell’introduzione, una notevole variabilità semantica e concettuale. Essa in parte dipende dal fatto che questo termine non ha
quasi mai qualificato in modo sostanziale una particolare dottrina, ma è servito piuttosto a caratterizzare gli aspetti di quelle dottrine che, in diverso modo, mettevano in discussione i principi di
una gnoseologia fondata in modo assoluto e universale su un entesostanza materiale o ideale o comunque sulla presupposizione
della stabilità del soggetto conoscente. A volte tale termine è stato usato con intenzioni dispregiative nei confronti di quelle posizioni che ad una cultura prevalente sono apparse insostenibili sotto
il profilo etico o politico, oltre che gnoseologico.
A prescindere da questi casi, si può facilmente notare che
esistono almeno cinque diverse accezioni generali del relativismo, che si sono intrecciate e con-fuse lungo l’arco della storia
del pensiero filosofico e scientifico occidentale e una serie di
altre connotazioni secondarie, che dipendono dai particolari
quadri concettuali di riferimento.
1. In generale, le concezioni relativiste negano l’esistenza dei
principi assoluti, di un soggetto universale e di soggetti sempre
identici a se stessi o di un ente che funga da fondamento dell’essere e del conoscere. Talvolta si può quindi intendere per relativismo l’assenza di fondamento unico e assoluto del conoscere.
2. Un secondo modo di intendere il relativismo è logicamente connesso con il primo. Negare un fondamento unico e assoluto
non comporta la necessità logica di negare che la conoscenza
possa fondarsi su una pluralità di principi, posti in relazione reciproca. Quindi il relativismo può essere inteso come determinazione relazionale della verità.
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Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
3. Il termine relativismo è stato talvolta utilizzato per indicare l’impossibilità o l’incapacità di determinare in modo oggettivo e interpersonale una qualsiasi verità, dato che ogni sua rappresentazione è
modificata da una molteplicità inconoscibile di fattori soggettivi ed oggettivi. Quindi il relativismo viene talvolta inteso come scetticismo radicale, per significare l’assoluta impotenza del pensiero.
4. In particolari contesti il termine relativismo può indicare la
natura congetturale e provvisoria di ogni conoscenza, svolgendosi questa per approssimazioni successive, e quindi come relazione della parte con l’intero. Relativa è la parte finita di un processo infinito
o indefinito che è la totalità potenziale della conoscenza.
5. Un’ulteriore accezione di relativismo, che in parte contiene elementi delle precedenti, può riguardare una teoria della conoscenza incentrata sull’attività di significazione o interpretazione del mondo da parte dei vari soggetti, i quali però vengono a
loro volta interpretati, ovvero modificati dalle prospettive presenti nella cultura di cui sono parte. Anche questa è una forma
di relazionalismo simile a quella indicata nel punto 2, ma in questo caso la relazione conoscitiva non avviene tra elementi ma
tra prospettive o orizzonti di significati che si modificano reciprocamente e che si fondono insieme nel circolo ermeneutico che
si stabilisce tra il soggetto e l’oggetto. In questo caso il relativismo indica: A) la pluralità degli orizzonti di significato, nessuno
dei quali è più vero di ogni altro;4 B) che la prospettiva è relativa al
soggetto non meno di quanto il soggetto sia relativo alla prospettiva (orizzonte); C) che la fusione degli orizzonti e delle prospettive
conduce ad un aumento indefinito della conoscenza del mondo, ma in
un modo tale per cui non è possibile indicare una meta o una
strada da percorrere; D) che questo circolo ermeneutico costituisce l’unico modo per stabilire di volta in volta ciò che si considera
4
GADAMER H.G., Verità e metodo. Lineamenti di un’ermeneutica filosofica, Bompiani,
Milano 1983, passim.
21
Federico Creazzo
Verità; E) che questo relativismo prospettico non ha nulla a
che vedere con il soggettivismo solipsistico o con lo scetticismo radicale e agnostico.
Se si esce dall’ambito della gnoseologia generale e si entra
nel campo della metodologia storica, il termine relativismo conferma un notevole margine di indeterminazione. Sono stati considerati relativisti autori molto diversi tra loro come Dilthey, Windelband, Rickert, Simmel e Weber, sulla base di analogie puramente esteriori che nascondono concezioni filosofiche, scientifiche e metodologiche talvolta molto distanti.
La collocazione di Dilthey (1833-1911) nell’ambito del relativismo è assai problematica. Si è creduto di poter considerare
Dilthey relativista in conseguenza della sua contrapposizione
con lo storicismo assoluto di Hegel (1770-1831). Ma, a ben vedere, il suo principio epistemologico dell’Erleben, che è connotato in senso ontologico, costituisce una sorta di criterio metastorico che permette di superare la relatività delle diverse rappresentazioni del mondo storico. Si tratterebbe allora di un relativismo “imperfetto”, perché risente ancora di una forte influenza
romantica. Weber (1864-1920) considerava il principio dell’Erleben troppo vago e suggestivo per costituire la base dell’epistemologia storica. A suo avviso la precomprensione della storia
che si basa sull’Erleben non consente una verosimile imputazione causale dei fenomeni storici individuali e al tempo stesso
ipostatizza un principio metastorico che si pone al di là dell’orizzonte mobile della significazione, la quale è sempre storicamente determinata.
Un equivoco derivante dall’uso corrente del termine relativismo consiste poi nella sua sovrapposizione e confusione con il
concetto di soggettivismo. Si tratta di un errore diffuso talvolta
anche tra alcuni addetti ai lavori i quali trascurano di considerare la plurivocità e l’ambiguità delle nozioni di soggetto e soggettivismo nella storia del pensiero filosofico e scientifico. In questa
sede è sufficiente precisare ad esempio che il soggettivismo kan22
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
tiano non ha relazione con nessuna delle accezioni di relativismo sopra specificate. Se poi ci riferiamo al cogito cartesiano,
anch’esso legato ad una forma di soggettivismo gnoseologico,
risulta chiaro che i due termini devono essere tenuti distinti, a
meno che non si delimiti chiaramente il loro significato.
È abbastanza curioso notare il fatto che dizionari e trattazioni specialistiche sull’argomento relativismo spesso trascurino una
considerazione essenziale (e anche banale), e cioè che di volta in
volta la sua definizione dipende dal significato del concetto di verità e
dal valore di posizione che esso ha all’interno di una filosofia. Dire che le
verità sono relative può significare una tale quantità di cose diverse
da non significare quasi nulla, se noi non precisiamo il quadro
concettuale di riferimento e il valore di posizione dell’idea di
verità di ciascuna dottrina filosofica. Per esempio Platone concepisce la Verità o come l’Idea in se stessa, archetipo immutabile delle cose, o sul piano gnoseologico, come quei giudizi che
danno rappresentazione di tale immutabilità. Affermare qualcosa di diverso significa necessariamente cadere nell’errore. Per
lui nfatti non esiste conoscenza o verità che possa riguardare i
mutamenti del mondo sensibile o dipendere dalla pluralità dei
soggetti conoscenti. In questo senso la doxa di Protagora appare a Platone come l’esatto contrario della verità. Se invece noi
prescindiamo della nozione platonica di verità e dal suo pesante
giudizio sulla scuola sofistica, potremmo interpretare Protagora
positivamente, non come il negatore di qualsiasi verità, ma come
il filosofo che ha ridefinito la verità come pluralità di verità. Soltanto
l’opinione, nel suo accadere fenomenico, ha per Protagora quel
carattere di certezza che altri ricercano nella verità unica e universale.
Per Protagora e per i Sofisti la variabilità della conoscenza (la
sua indecidibilità) dipende dalla indeterminazione del soggetto
e dell’oggetto. A diversi soggetti e in diverse condizioni, la verità appare del tutto diversa e infinitamente variabile.
Il modo in cui le cose ci appaiono dipende dalle nostre sensazioni e questa apparenza è il solo dato che possediamo. L’in23
Federico Creazzo
dividuo è variabile e le sue sensazioni sono ugualmente vere
ciascuna nel momento del suo accadere; l’individuo, in ogni istante
determinato, è quindi l’unica misura possibile di tutte le cose,
“di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in
quanto non sono”. L’unica conoscenza possibile, quindi, non
sarà la verità ma la doxa. Per questo motivo è possibile far risalire
alla riflessione sofistica una delle prime forme di relativismo
gnoseologico, che approderà con Gorgia (485-375 a.C.) ad uno
scetticismo conoscitivo ancora più radicale, culminante nell’affermazione che non è possibile conoscere alcunché.
Socrate (469-399 a.C.) capovolge i termini posti dai fisici
naturalisti al problema conoscitivo: anziché partire dalle leggi
della natura per spiegare l’uomo, prende come punto di partenza l’uomo per spiegare il mondo. Per comprendere il valore gnoseologico di questo cambiamento bisogna tener conto del mutamento dell’orizzonte filosofico socratico, tutto concentrato
sulla polis e le sue leggi, sull’uomo e la sua ragione, piuttosto che
sulla natura e le sue cause. Egli credeva che la ragione creatrice
del mondo procedesse come la ragione umana e che l’intera
costruzione del mondo andasse spiegata con i principi della finalità razionale. Se prima appare il piano, lo scopo e poi la materia e infine la forza che lo deve mettere in moto, le cause efficienti diventano qualcosa di insignificante, esse sono solo gli
strumenti di una ragione che pensa come una persona. Socrate
affermò l’identità di pensiero ed essere dicendo che la ragione
dell’anima del mondo ha tutto pensato come noi possiamo pensare a nostra volta se facciamo un corretto uso della ragione.
Socrate credeva all’oggettività della scienza e all’essenza universale delle cose in mezzo alla mobilità dei fenomeni, ma non
separò la generalità dall’individualità perché concepiva la relazione del generale con il particolare, dando la priorità al generale. Egli cercava la definizione esatta delle cose perché credeva
che la parola indicasse la loro essenza, cioè riteneva che il termine generale facesse conoscere l’essenza di un’intera classe di
24
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
oggetti ed è per questo che viene comunemente considerato
come lo “scopritore” del concetto. Il procedimento socratico
impiega le definizioni e l’induzione come strumenti della sua
dialettica; l’arte di discutere di Socrate consisteva nel passare dal
caso particolare alla definizione generale, per poi ritornare a
concludere dalla generalità ai fatti particolari: il caso particolare
poteva essere rettamente compreso alla luce della definizione e
non il contrario.
Presupposto di questo procedimento è la negazione del relativismo gnoseologico dei sofisti e la conseguente ridefinizione
della nozione di verità. Mentre per i sofisti la verità si riduce alla
doxa e questa si riferisce all’estrema variabilità del soggetto conoscente, dando luogo ad una sorta di relativismo assoluto, in
Socrate la verità si ripropone non come ente in sé o come principio materiale o razionale, ma come percorso di ricerca intersoggettivo e in quanto tale universale, rivolto all’eliminazione delle false
opinioni. Lo scopo della conoscenza si configura così come un
percorso di approssimazione alla verità che lascia sempre aperta la
strada ad ulteriori sviluppi, in un processo ad indefinitum. Ciò che
lo contrappone ai sofisti e al relativismo gnoseologico è la fiducia nella capacità razionale dell’uomo (di tutti gli uomini) di seguire il medesimo percorso di approssimazione alla verità universale. Rispetto a ciò, la doxa dei sofisti sembra perdere ogni
finalità conoscitiva per rivolgersi alla pura persuasione e alle logiche del potere. Al relativismo gnoseologico si connette anche
il relativismo etico: se manca un sicuro ancoraggio del pensiero
alla verità, non è possibile una nozione comune del bene.
Ai sofisti si può far risalire anche una prima apparizione del
cosiddetto relativismo culturale. L’uomo a cui allude Protagora nella
sua celebre massima può essere inteso sia come individuo che
come umanità, ma anche come la collettività a cui il singolo
appartiene. Ammettere che esistono altri popoli con altri dei ed
altre religioni, altre lingue oltre quella greca e non giudicare questi
fatti in una prospettiva ellenocentrica, apre la strada a quel pre25
Federico Creazzo
supposto dell’antropologia secondo il quale ogni cultura o civiltà ha in se stessa la sua giustificazione e il criterio della propria
spiegazione.
Come si è detto sopra, per Platone i sensi non partecipano
alla scienza, perché testimoniano di un mondo che è in continuo movimento e del mutevole non si dà una vera scienza. Essa è
possibile solo in relazione a ciò che eternamente è, e non può
mutare, cioè alle idee dell’iperuranio, agli archetipi o modelli
perfetti e inalterabili di tutte le cose che esistono, alle cause degli enti corruttibili e imperfetti del mondo sensibile. In tal senso
Platone risulta essere il più fiero nemico di ogni forma di
relativismo: le idee, nella loro eterna e perfetta essenza, costituiscono il punto di partenza e di arrivo dell’essere e del pensiero,
al riparo dal caotico fluire dei fenomeni del mondo sensibile. Le
idee costituiscono il reticolo dei valori su cui si fonda la politica
come una sorta di scienza esatta del bene universale.
A riprova della variabilità (per non dire vaghezza) dei significati del termine relativismo, merita attenzione il fatto che, nella
prospettiva della metafisica materialistica di Lange,5 il pensiero
di Aristotele (384 a.C.-322 a.C.) viene visto come una forma di
relativismo. In polemica con Platone, Aristotele considera le idee
come appartenenti al piano immanente della realtà e non al piano trascendente del mondo soprasensibile e tuttavia assegna loro
un ruolo preminente rispetto alla materia. Questa è immobile e
priva di ogni movimento proprio. Una delle definizioni della
sostanza afferma che essa è il sinolo di materia e forma, ma la
materia funge da ricettacolo passivo dell’idea espressa attraverso la
forma. Per Lange quindi l’idea aristotelica di materia è relativa in
quanto la materia non esiste in sé, può solo diventare qualche
cosa con l’aggiunta della forma.
5
LANGE F.A., Storia critica del materialismo, Editori Riuniti, Roma 1978 (1866),
passim.
26
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
L’interpretazione di Lange dipende dai presupposti da cui parte
e a cui tende, che lo portano a considerare Aristotele come un
relativista, mentre si può legittimamente affermare che la logica
aristotelica e in modo particolare la sillogistica, con la sua pretesa
di dedurre conoscenze particolari da principi generali e universali, sia stata uno dei pilastri del razionalismo occidentale. Quest’ultimo, affermando l’esistenza di indiscutibili verità di ragione, si colloca sul versante opposto rispetto ad ogni forma di relativismo.
Secondo Epicuro (341-271 a.C.) ogni cosa è regolata secondo un ordine eterno e allo studioso della natura che cerca
la conoscenza delle cause dei fenomeni naturali è sufficiente
dimostrare la possibilità che gli avvenimenti provengano da
leggi generali; la spiegazione dei fenomeni deve restare naturale, cioè deve basarsi sull’osservazione e sulle analogie con i
fatti noti.
Lo stesso Lange annovera Epicuro tra i materialisti “non
relativisti”, ma trascura di considerare la contraddizione prodotta dal concetto di clinamen, e cioè la deviazione casuale degli
atomi dalla loro traiettoria, che introduce un margine di
indeterminazione o casualità nei processi della natura e nella vita
dell’uomo che, a mio avviso, contraddicono il determinismo
meccanicistico degli atomi e aprono, almeno nella sfera etica,
uno spazio al relativo.
Con la dottrina scettica il problema della conoscenza viene
impostato in un modo radicalmente diverso: sia Arcesilao (315240 a.C.) che Pirrone (ca 365-ca 270 a.C.) affermano l’incapacità naturale dell’uomo a dare l’assenso alle proprie rappresentazioni in
quanto, in linea di principio e di fatto, possono essere errate, e l’uomo non
possiede un criterio certo per validarle. Carneade, dal canto suo, afferma che nessuna rappresentazione sensibile può garantire di
essere in accordo con i fatti: che una rappresentazione sia vera è
possibile, ma non è possibile accertare che essa sia vera. Da ciò consegue che l’epochè, la sospensione dell’assenso, sia l’unica via percorribile dal pensiero. È quasi inevitabile che la ricerca assuma
27
Federico Creazzo
forma puramente negativa nei confronti dei dogmata, cioè delle
dottrine filosofiche precedenti (in modo particolare dello stoicismo) e del loro ottimismo conoscitivo. La relatività dei giudizi fu poi il principale argomento degli scettici, ma esso fu
utilizzato non tanto con lo scopo di accreditare una dottrina relativistica
della conoscenza, quanto con quello di dimostrare la fallibilità di ogni
rappresentazione che si presenti come vera in se stessa; Pirrone fondò
a Elide una scuola che fu detta scettica in quanto indicava coloro che abbracciano come sistema lo stato permanente di
dubbio e di ricerca in un atteggiamento di essenziale insoddisfazione. L’ideale di questa scuola è prevalentemente etico (e
non teoretico) e riflette il clima culturale tipico dell’ellenismo,
con un ripiegamento dell’attenzione del filosofo sulla dimensione individuale e privata. L’umanità viene pensata in termini
generali e cosmopolitici, al di là del confine di quella polis che
aveva costituito l’orizzonte della filosofia classica. Lo scopo
della filosofia, come per gli stoici e gli epicurei, è il raggiungimento dell’atarassia, dell’imperturbabilità dell’anima che secondo Pirrone è possibile solo rigettando l’emotività e assumendo un atteggiamento di indifferenza verso le cose e gli uomini.
Se il dogmatismo propone certezze e possibilità di certezze, lo
scetticismo pirroniano afferma l’insuperabilità della condizione di dubbio e di ricerca. Le continue controversie tra i filosofi
sono, per Pirrone, la prova dell’incapacità umana di dare una
rappresentazione obiettiva delle cose e ogni teoria che si pretenda più vera o più fondata dell’altra ha al suo interno una serie
di aporie e di contraddizioni che la rendono equipollente a tutte
le altre. Mentre il relativismo fenomenistico di Protagora non
escludeva per principio la possibilità della conoscenza, il pirronismo si colloca contro la possibilità della conoscenza in generale e a
favore di un atteggiamento prevalentemente etico ed esistenziale.
Anche per Arcesilao, esponente della Media Accademia, l’uomo non è in grado di pervenire alla rappresentazione catalettica, sensi e ragione non possono raggiungere verità certe e nem28
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
meno conoscenze probabili. Alla ragione come principio della verità e della virtù, Arcesilao sostituisce la ragionevolezza, intesa
come criterio della convenienza pratica del pensiero.
Enesidemo6 (ca 80-ca 10 a.C.) raccolse in 10 tropi o modi le
varie specie di relatività che dipendono dalla estrema variabilità
delle nostre percezioni, giungendo a conclusioni sostanzialmente
simili a quelle dei suoi predecessori.
Una svolta gnoseologica all’interno dello scetticismo antico
si ha con Carneade (214-120 a.C.) il quale, pur negando la possibilità di una corrispondenza tra i giudizi e la realtà oggettiva,
attribuisce ai giudizi stessi una capacità conoscitiva fondata sulla relazione con il soggetto che li esprime. Hanno valore conoscitivo
(relativo e probabile) quei giudizi che appaiono plausibili o persuasivi.
Anche per lui tale conoscenza ha uno scopo prevalentemente
pratico, come guida per la condotta della vita e per il raggiungimento della felicità.
Sesto Empirico limita la conoscenza umana a quanto attestato dai sensi e nega l’esistenza e la dimostrabilità di qualsiasi
verità di ragione. La sua attività di medico lo induce a rivalutare
i sensi, l’esperienza e l’analogia tra le diverse esperienze. Egli
ritiene che non sia possibile individuare con certezza la causa
delle malattie, ma che è possibile cercare una cura osservando
meticolosamente i cambiamenti prodotti dal farmaco sull’organismo. Il suo scetticismo, negando ogni dottrina e ogni verità
che si pretenda vera in sé, non nega tuttavia l’utilità della cura e
la possibilità della conoscenza. Per Sesto Empirico lo scetticismo è il mezzo per liberarsi di una medicina costruita su un’impalcatura di tipo logico-speculativo.
Lo scetticismo antico, nonostante il suo agnosticismo di fondo, non può logicamente negare un fondamento in una sia pure
generalissima idea di natura umana. L’accordo pratico o tecnico
6
SESTO EMPIRICO, Schizzi pirroniani, Laterza, Bari 2004, passim.
29
Federico Creazzo
tra gli uomini non sarebbe possibile se non fossero presenti alcuni elementi comuni alla mente umana, che gli uomini riconoscono implicitamente nel loro agire.
In epoca moderna, una delle più radicali formulazioni del
relativismo si deve attribuire a Michel de Montaigne 7(15331592). La mutevolezza è per lui la condizione fondamentale
della condizione umana e ciò rende impossibile il conseguimento di verità e certezze definitive. Ciò si traduce in critica
serrata all’arroganza della ragione e alle sue pretese conoscitive, che confluisce poi nel più generale attacco all’antropocentrismo e all’eurocentrismo. L’universo di Montaigne è plurale
e multiforme e non può essere imbrigliato dalle categorie della logica aristotelica fondata sul principio di identità. I sensi e
le passioni degli uomini condizionano e modificano continuamente la nozione di verità, mentre la presunta realtà di cui essi
dovrebbero essere testimonianza varia anch’essa, senza raggiungere mai quel carattere di uniformità e stabilità che la conoscenza richiede.
L’argomentazione di Montaigne è ricca e articolata e, coerentemente con i suoi intenti critici, procede in modo programmaticamente non sistematico. Ciò rende difficile una rappresentazione sintetica del suo pensiero, il quale oltretutto ha
un suo interno sviluppo legato alla iniziale adesione di Montaigne allo stoicismo e all’epicureismo per poi confluire nello
scetticismo pirroniano. Si possono tuttavia individuare alcuni
temi centrali del suo pensiero. Nel passo che segue, si noti il
riferimento alla massima protagorea e al tempo stesso un’interessante anticipazione del concetto humeano di abitudine,
come fondamento della nostra fiducia nella capacità razionale
dell’uomo e come spiegazione della sostanzializzazione delle
nostre idee:
7
MONTAIGNE M., Saggi, Adelphi, Milano 1992, libro I, passim.
30
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
L’ uomo è un soggetto vano e vario, difficile farsene un giudizio
costante ed uniforme8 […] È accaduto che per il lungo uso questa
forma d’uomo si sia trasformata in sostanza, e la sorte in natura.9
Per Protagora l’individuo rimane la misura delle cose, per Montaigne, invece, come fonte di conoscenza esso è del tutto inaffidabile dato che esso non è altro che un insieme eterogeneo di umori e
sensazioni che inseguono il perenne mutare dell’esperienza.
Non soltanto il vento delle circostanze mi agita secondo la sua
direzione, ma in più mi agito e mi turbo io stesso per l’instabilità
della mia posizione. Io do alla mia anima ora un aspetto ora un
altro, secondo da che parte la volgo.10 Il nostro agire, non sono
che frammenti messi insieme.11 Noi siamo fatti tutti di pezzetti, e
di una tessitura così informe e bizzarra che ogni pezzo, ogni
momento va per conto suo12 […] E non vi furono mai al mondo
due opinioni uguali, non più che due peli o due granelli. La loro
più universale caratteristica è la diversità.13
Montaigne critica Protagora per quello che gli sembra un
ingiustificato ottimismo conoscitivo. Questi aveva collocato
nell’individuo se non il criterio della Verità, almeno il criterio
unitario della doxa. Ma neanche questo è possibile: l’individuo
stesso appare a Montaigne come un’astrazione.
Davvero Protagora ce ne raccontava delle belle facendo dell’uomo la misura di tutte le cose, l’uomo che non conobbe mai
8
Ivi, p. 10.
Op. cit., libro III, p. 1349.
10
Ivi, p. 432.
11
Ivi, p. 434.
12
Ivi, p. 435.
13
Ivi, p. 1043.
9
31
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neppure la sua. Ora, essendo egli così contraddittorio in se stesso, e un giudizio contrastando l’altro senza posa, questa favorevole proposizione non era che uno scherno che ci portava a
concludere necessariamente la nullità del compasso e del misuratore.14
Montaigne, pur negando la sua conoscibilità, non nega l’esistenza di un mondo di cose, di una natura che però è caratterizzata da incessante movimento e cambiamento. Essa rimane sullo sfondo di ogni presunzione della ragione umana.
L’azione di questa natura sull’uomo passa attraverso un generico fenomenismo che non si lascia imbrigliare dentro concetti e dottrine.
L’avvenimento fa la scienza non la scienza l’avvenimento. I nostri maestri rispondono che vedere che qualcosa avviene, come
noi facciamo, e come fa Dio stesso (di fatto essendogli tutto
presente, egli vede più che non prevede), non vuol dire costringerla ad avvenire; cioè noi vediamo perché le cose avvengono, e
non le cose avvengono perché noi vediamo. 15
Si noti lo scetticismo radicale implicito nelle affermazioni
seguenti, il cui esito sembra avvicinare Montaigne all’agnosticismo gorgiano.
Ora, dato che la nostra condizione adatta le cose a sé e le trasforma secondo se stessa, noi non sappiamo più quali esse siano in
verità, poiché niente ci perviene se non falsato e alterato dai nostri sensi.16
14
Ivi, p. 738.
Ivi, p. 941.
16
Op. cit., libro II, p. 799.
15
32
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
Poco oltre Montaigne riassume così la sua posizione:
Insomma, non c’è alcuna esistenza costante, né del nostro essere
né di quello degli oggetti […] Così non si può stabilire nulla di
certo dall’uno all’altro, tanto il giudicante quanto il giudicato essendo in continuo mutamento e movimento. 17
Il pensiero di Montaigne contiene un paradosso. Gli stessi sensi,
che costituiscono per l’uomo il più plausibile strumento di conoscenza, falsano e alterano la verità. Ma non è logicamente possibile
decidere intorno all’irrimediabile falsità delle nostre rappresentazioni se non in relazione al permanere di un’idea di verità.
Montaigne fu per Nietzsche molto più di una fonte di ispirazione filosofica. Nietzsche dichiarò di essersi identificato con
Montaigne «nello spirito e nel corpo»18. Altrove lo loda come
un «portatore di coraggioso e lieto scetticismo»19. La dissoluzione del Soggetto inteso come centro unitario della conoscenza e
la radicale critica della ragione sembrano i più rilevanti tratti
comuni ai due pensatori.
Sul piano puramente gnoseologico Montaigne sembra più
scettico-agnostico che relativista, ma sul piano della sua concezione morale e della critica religiosa e dei costumi egli si
pone come una sorta di etnologo relativista. Se i diversi costumi e
le diverse fedi religiose non sono altro che forme illusorie di
adattamento dei popoli, discende come conseguenza l’idea della
tolleranza come unico atteggiamento “saggio”. I cosiddetti
popoli “non civilizzati” appartengono per lui alla nostra stessa natura umana e, in assenza di un criterio veramente universale per giudicarli, dobbiamo accontentarci di considerare la relatività
del nostro punto di vista.
17
Ivi, p. 801.
NIETZSCHE F., Perché sono così accorto, in I D., Ecce Homo, af. 3.
19
ID., Frammenti postumi 1884-1885, fr. 40.
18
33
Federico Creazzo
Un altro importante contributo all’approccio relativista nell’ambito della cultura europea è rappresentato dalla filosofia di
Giordano Bruno (1548-1600). La sua visione dell’universo infinito
e omogeneo in tutte le sue parti implica la distruzione delle coordinate spaziali e delle gerarchie topologiche tradizionali, e della distinzione aristotelico-tolemaica tra terra e cielo, tra sostanze
corruttibili e incorruttibili, tra l’umano e il divino, tra il centro e
la periferia. Dio non è persona e non è trascendente ma coincide con l’universo stesso e le parti di cui si compone, in un tutto
vivente e organico. Questa rivoluzione filosofica, che accompagna il sorgere della nuova cosmologia copernicana, intacca anche il tradizionale criterio di verità. Se l’universo è divino e infinito, il rapporto dell’uomo con la verità non può che svolgersi
nella prospettiva già indicata da Cusano (1401-1464), e cioè per
approssimazione e congettura, essendo il finito incommensurabile con l’infinito. L’universo è inconoscibile nella sua interezza.
Ogni conoscenza, in quanto finita, è relativa perché: 1) indica la
relazione della parte con il tutto (da cui il carattere parziale e provvisorio di ogni conoscenza); 2) coglie la relazione tra le parti; 3) dipende dalla posizione che occupa l’osservatore nell’universo stesso.
Secondo l’empirismo tutte le nostre cognizioni derivano dall’esperienza ed il ripetersi della successione o della coesistenza
di certi stimoli determina il legame associativo delle sensazioni
e delle idee corrispondenti. David Hume (1711-1776) spiegò la
legge di causalità con la legge di associazione per cui, dato un
fenomeno, noi siamo irresistibilmente condotti ad aspettarci l’altro che nel passato avevamo sempre percepito dopo di esso.
Del principio di causa e di connessione razionale Hume nega la
verità sostanziale o logico-razionale. La “causa” è un’idea che si
fonda sulla credenza e quindi può essere utilizzata dalla scienza
per uno scopo euristico, e si regge sulla possibilità che ci conduca ad una conoscenza probabile del fenomeno che stiamo osservando. Le sensazioni non si aggregano meccanicamente, ma è
lo spirito a coglierne i rapporti e a combinarli insieme in vari
34
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
modi. L’esperienza è per noi l’unica realtà e di essa è assurdo
cercare la genesi. Ciò che è vero è l’accordo del pensiero con la
realtà. Lo scienziato costruisce un’ipotesi e agisce lasciandosi
guidare da essa. Il suo scopo è ottenere una coordinazione delle
forze attive umane e non umane operanti nell’universo della
nostra esperienza. Le idee dello scienziato dovranno poi mettersi alla prova con l’esperimento che è un complesso di azioni
suggerite dall’ipotesi. Hume non nega le verità di ragione: la
matematica costituisce un insieme di verità assolute e universali,
ma puramente formali. Non è detto, secondo Hume, che ad
esse corrisponda qualcosa nella realtà esterna.
Hume critica anche il meccanicismo e il finalismo. Nei confronti della totalità della natura la mente umana è impotente. Essa
può solo ricercare di volta in volta una corrispondenza probabile tra
le idee e i fenomeni, e tentare di descrivere i fenomeni naturali
che si presentano in connessioni empiricamente determinate,
rifiutando di pronunciarsi su una presunta verità della natura in
se stessa, sulle sue presunte leggi, sui suoi presunti scopi.
Le nostre idee sono dei semplici strumenti che hanno lo scopo di favorire l’esperienza. Dalla semplice ragione non è possibile dedurre nessuna previsione certa sul corso dei fenomeni e
tanto meno è possibile dimostrare la necessità logico-empirica
dell’esistenza di Dio o del libero arbitrio. Dio e la libertà non
sono per Hume oggetti di una conoscenza possibile. Sulla fede
e sulla libertà, come in genere sulle diverse dottrine morali, la
scienza non ha nulla da dire. La morale dipende dal costume e dalla
coscienza del singolo e non potrà essere ricavata o disciplinata da nessuna
scienza. Hume anticipa il principio dell’avalutatività della scienza, che sarà uno dei principi dell’epistemologia di Max Weber.
Hume può essere considerato un empirista radicale, per il suo
continuo riferirsi all’esperienza come unico criterio di validazione delle nostre conoscenze, e uno scettico moderato, in quanto
la sua forte critica delle presunzioni della ragione non lo conduce a negare la possibilità della conoscenza in generale.
35
Federico Creazzo
In riferimento al suo pensiero si può parlare di relativismo in
un duplice senso:
1. Sul piano gnoseologico, le idee della ragione, come le teorie della scienza hanno un valore relativo e provvisorio, legato
al quadro empirico di cui si occupano. In generale la conoscenza non ha un fondamento certo né nel soggetto né nell’oggetto
ma ha validità solo in relazione al fenomeno.
2. In campo morale Hume è relativista perché esclude la
possibilità di determinare scientificamente il bene, la virtù, la
religione o l’esistenza di Dio. Anticipando l’epistemologia weberiana e il suo principio dell’avalutatività della scienza, Hume
afferma che rispetto ai valori morali e religiosi la scienza non
può e non deve dire nulla. La scelta dei valori non può essere
disciplinata dall’esterno, in quanto dipende dal costume e dalla
coscienza individuale.
A rafforzare la posizione del relativismo, dandogli una particolare connotazione, contribuì nella seconda metà del secolo
XIX la teoria dell’evoluzione, per la quale la conoscenza è, come
tutte le altre funzioni degli organismi viventi, sorta per le esigenze dell’adattamento all’ambiente. Anche l’intelletto, come tutti
gli altri organi, è soggetto a cambiamenti in rapporto ad esso.
Non vi sono, da un tal punto di vista, categorie fisse, concetti e
principi immutabili, né nella scienza né nella vita morale. La
relatività della conoscenza umana secondo Herbert Spencer
(1820-1903) risulta dal processo della sua formazione e dal significato che ha per la vita: essa serve ad assicurare la sua conservazione e ottiene ciò stabilendo una corrispondenza sempre
più perfetta delle condizioni interne dell’organismo all’ambiente. Se questo fosse diverso, il nostro intelletto avrebbe una struttura differente. Esso funziona stabilendo relazioni, classificando i fatti, salendo di generalizzazione in generalizzazione, e in
questo processo arriva a idee ultime (spazio, tempo, movimento, materia, forza) che sono incomprensibili perché non si possono riportare ad altre idee più generali e che, poste come caratteri
36
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
della realtà in se stessa, danno luogo a difficoltà insuperabili dal nostro
intelletto. L’assoluto è nel fondo indefinito della nostra coscienza
ma non possiamo in alcun modo determinarlo e racchiuderlo in
concetti definiti. L’evoluzionismo biologico di Darwin e l’evoluzionismo sociale di Spencer influenzarono sicuramente, anche se in misura variabile, tutto il dibattito filosofico ed epistemologico del tempo e il relativismo che ne consegue ebbe il suo
svolgimento nell’empiriocriticismo e nel pragmatismo.
Un certo riflesso dell’evoluzionismo si può cogliere anche
nell’opera di Georg Simmel (1858-1918), il quale concepisce la
conoscenza come un processo di adattamento del pensiero a
quello che lui chiama sviluppo vitale della specie. Simmel ha collegato l’apriori kantiano alla determinazione inevitabilmente soggettiva del mondo circostante. Rispecchiare fedelmente le cose
è impossibile, e la natura quale ci appare è creazione del soggetto. Ma tale soggetto non ha la stabilità e l’universalità del soggetto trascendentale kantiano ed esso è piuttosto l’onda mobile
in cui ogni essere sussiste solo come essere condizionato.
Per Simmel, noi scegliamo una rappresentazione concettuale con cui cogliamo le parti e i movimenti dell’essere e la facciamo funzionare come il centro reale o come il senso di tutta
l’esistenza. Ma la validità delle conoscenze, non potendo essere
controllata sulla realtà in sé, può solo essere cercata nella loro
capacità di favorire lo sviluppo vitale. Il relativismo di Simmel concepisce come sistema di riferimento delle conoscenze e come
criterio della loro validità la capacità che alcune di esse hanno di
sopravvivere nel corso dell’evoluzione della specie, in quanto
favoriscono gli individui che le seguono, rispetto agli altri che
seguono principi “falsi”, cioè dannosi. Lo sfondo del relativismo gnoseologico di Simmel appare orientato verso un pragmatismo, che sostituisce il principio dell’utilità per la specie al vecchio principio della verità. Esistono altri mondi idealmente obiettivi oltre a quello della scienza, ad esempio l’arte, la religione e la
moralità che si basano su categorie diverse. Tali categorie non
37
Federico Creazzo
sono forme statiche e astratte. Il soggetto sistema per sé il reale
ma non in una configurazione fissa, perché il rapporto del sé
con la realtà, in cui esso vive, muta continuamente per il gioco
dei contrasti e dei rapporti delle diverse reazioni spirituali. Le
categorie sono forme della determinazione reciproca del soggetto e dell’oggetto, che l’attività del pensiero costituisce in sfere indipendenti e autonome. Esse sono i momenti nei quali il
rapporto specifico del soggetto e dell’oggetto è posto come idea
e non pongono il mondo del soggetto in maniera estrinseca
all’oggetto.20 Si può cogliere nel pensiero di Simmel una duplice
accezione del relativismo, inteso sia come relazione del sapere
al soggetto, infinitamente variato a seconda delle costellazioni
spirituali e vitali a cui appartiene, sia come relazione ad un presunto imperativo della specie di cui l’individuo è funzione.
Alcuni autori e storici della filosofia annoverano tra le teorie
relativiste anche l’empiriocriticismo o empirismo critico, che ha
tra i suoi maggiori esponenti Ernst Mach (1838-1916) e Avenarius (1843-1896). Tale collocazione è alquanto discutibile per i
motivi che seguono.
Alla base della conoscenza scientifica l’empiriocriticismo
pone il concetto di esperienza pura come unico criterio di validazione della conoscenza. Ciò porta ad escludere dalla gnoseologia ogni contenuto autonomo della mente o ragione, ogni
concetto o astrazione che non derivi dall’esperienza stessa, riducendo tutta la realtà e la relativa conoscenza a rapporti tra le
sensazioni. È necessario quindi rinunciare a tutti quei concetti
e principi astratti che derivano dall’ambiente, dalla tradizione
filosofica o dalle visioni soggettive (personali) della realtà per
attenersi all’esperienza e alla sua trama di interne relazioni. La
scienza che ne risulta non è un sistema fisso di verità immutabili, ma si trasforma per le nuove esigenze dell’adattamento
20
Op. cit., cfr. pp. 71-76.
38
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
del pensiero ai fatti e delle idee tra di loro. Qui si può parlare
impropriamente di relativismo solo nella misura in cui afferma che la scienza non costituisce un sistema definitivo di leggi
e di formule ma un processo di ricerca aperto e suscettibile di
continue revisioni, concezione che implica il rifiuto del valore
assiomatico dei tradizionali principi della logica e della metafisica. Tuttavia uno sfondo paradossale dell’empiriocriticismo
riemerge nel considerare l’esperienza pura come una struttura
della realtà in se stessa, ricadendo in una sorta di oggettivismo
metafisico. Se uno dei presupposti generali del relativismo
consiste nella negazione della consistenza ontologica dei fatti
che si tradurrà nell’affermazione nietzscheana secondo la quale
non esistono fatti ma solo interpretazioni, l’empiriocriticismo
nega qualsiasi valore all’interpretazione stessa affermando che
esistono solo fatti e non interpretazioni, affermazione che appare
come la negazione del relativismo comunemente inteso.
Una più coerente collocazione all’interno del relativismo
riguarda il pluralismo filosofico di J.H. Rosny (1856-1940). Egli
negò sia l’unicità e la regolarità della natura (presupposto dell’empirismo critico) che la continuità e l’omogeneità dell’esperienza a favore di una visione di una scienza capace di formulare delle leggi basandosi di volta in volta sulla somiglianza
relativa tra classi di fenomeni. Per Rosny la conoscenza è constatazione di analogie tra diversi ordini di fatti. La rappresentazione non fa che scoprire analogie tra il nostro modo di essere e quello delle altre esistenze, analogie che sono capaci di
sviluppi e approssimazioni sempre maggiori. Come giustamente rileva Santino Caramella (1902-1972), «nel complesso, il
pluralismo riesce a formulare un principio per sé legittimo
secondo il quale l’unità del mondo (universo), in cui si concreta l’esperienza (e la conoscenza), non esclude la molteplicità delle prospettive ontologiche e logiche, anzi le genera
analiticamente, ma non riesce a sviluppare realisticamente lo
sfondo unitario che genera la molteplicità delle prospettive
39
Federico Creazzo
postulate, il quale rimane ipotetico o rappresentato da motivi empirici e pratici» 21.
Il relativismo in senso filosofico deve essere chiaramente
distinto dalla teoria della relatività di Einstein (1879-1955). Secondo il Principio generale della Relatività, tutti i sistemi di
riferimento sono equivalenti ai fini della descrizione dei fenomeni naturali poiché rispetto alle oggettive leggi naturali un
sistema di riferimento non è altro che uno strumento descrittivo particolare che non intacca il valore assoluto della legge.
In fisica, prima della teoria della relatività, si ammetteva che il
significato di un dato temporale fosse assoluto, indipendente
cioè dallo stato di moto del sistema di riferimento. La meccanica classica riteneva che la distanza di tempo tra due avvenimenti fosse indipendente dallo stato di moto del corpo di riferimento ma in seguito si dimostrò che se un viaggiatore nel
treno percorre nell’unità di tempo, misurata dal treno, lo spazio w, lo stesso spazio, misurato dalla strada, può non essere
uguale a w. A seguito della dimostrazione della relatività della
simultaneità (eventi che si verificano simultaneamente in vari
punti di un sistema di coordinate in movimento non sono simultanei rispetto a un sistema rigido di coordinate) si poté
affermare che ogni sistema di riferimento ha il suo tempo e
che un dato temporale ha senso solo se si determina il corpo
di riferimento al quale esso va riportato.
La teoria di Einstein ha un significato puramente fisico e
non contiene nessuna implicazione che conduca a un relativismo gnoseologico o epistemologico, ma fornisce un’idea della
diversità e della pluralità dei sistemi di riferimento a cui vengono condotti i fenomeni indagati dalla scienza.
Secondo il realismo aritmetico, i numeri, le classi e le funzioni algebriche esistono indipendentemente dalla nostra ana-
21
S. CARAMELLA, voce Pluralismo, in Enciclopedia Filosofica, Sansoni, Firenze 1957.
40
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
lisi e conoscenza, essi vivono in un infinito inconcepibile per
lo spirito umano ma possono essere scoperti risalendo dalla
loro esistenza logica a quella ontologica. I principi del calcolo
infinitesimale, la classe e il limite, sono definizioni convenzionali che quando furono ipostatizzate in esistenzialità reali ed
indipendenti crearono l’esistenza di due logiche, quella del finito e quella dell’infinito, e antinomie insolubili. J.H. Poincaré
(1854-1912) invece propose un relativismo matematico. Secondo Poincaré, un ente matematico esisterebbe solo se si
potesse definirlo senza contraddittorietà. Anche se noi possiamo costruire una serie infinita di numeri concependo la ripetizione infinita di un’operazione ritenuta possibile e possiamo ottenere una definizione per reiterazione definendo la legge di formazione della serie, ciò non implica l’esistenza della classe
infinita di tali entità, poiché questa vorrebbe dire che lo spirito
può concepire la possibilità di fare un numero infinito di scelte arbitrarie e ciò non è pensabile.
Per il convenzionalismo di Poincaré le proposizioni da cui muove ciascun sistema sono libere costruzioni dell’uomo, ma non
arbitrarie perché vengono escogitate ed accettate in accordo con l’esperienza. Le proposizioni di partenza non possono essere né vere né
false in assoluto; devono essere scelte in base a criteri determinanti, che hanno il compito di garantire la riproponibilità delle
scelte stesse, al fine dello sviluppo deduttivo della ricerca.
I criteri devono essere selezionati sulla base della coerenza,
che deve essere propria di ogni sistema ipotetico-deduttivo: ciò
che importa non è il rapporto con gli oggetti, ma la coerenza
logica e la completezza del sistema.
Da un’attenta analisi condotta sullo sviluppo storico della
scienza, Thomas Kuhn (1922-1996) ha rilevato i notevoli cambiamenti subiti nel tempo dagli ideali conoscitivi, tanto da rendere impossibile parlare di un carattere unitario e progressivo
della ricerca, di identici oggetti di indagine e di uno stesso concetto di verità scientifica.
41
Federico Creazzo
Secondo Kuhn, il corso delle scienze si svolge in due forme:
quella della scienza normale, quando il quadro concettuale tradizionale, cioè l’insieme delle teorie considerate valide, determina la soluzione di problemi, e quella della ricerca straordinaria che sostituisce un modo di fare scienza ad un altro.
Le rivoluzioni scientifiche sono dei mutamenti di paradigma, cioè di quella tradizione di ricerca normale che presuppone
un certo gruppo di problemi, di procedure consentite per risolverli e di risposte possibili. La crisi di un paradigma di ricerca è
determinata dalle molteplici anomalie che esso non riesce a risolvere, per cui alcuni scienziati tentano una soluzione completamente nuova, con la ricerca straordinaria che esce dal quadro
del paradigma normale.
Le nuove teorie scientifiche si fondano su schemi concettuali (configurazioni costituite da un insieme di categorie, le quali
determinano la forma dei dati sensibili) che sono diversi da quelli
delle altre teorie e che tale diversità preclude la possibilità di un
confronto tra teorie. Tali schemi concettuali sarebbero intraducibili in quelli delle teorie precedenti in quanto il cambiamento
di schema comporta un cambiamento del significato delle parole e del modo in cui esse aderiscono alla natura. Anche il tentativo di una teoria di interpretare la catena dei simboli di un’altra
teoria, applicando la propria sintassi ad un codice che postula
una diversa sintassi, dimostrerebbe la discontinuità logica tra le
teorie.
Per Kuhn, la scienza evolve differenziandosi in forme sempre nuove ed il progresso percorre le molteplici direzioni tracciate dai saperi, escludendo ogni forma di monismo e di teleologia.
Egli rileva come anche i fattori e gli interessi sociali hanno
un ruolo nella vita della scienza. Nel corso della scienza normale, infatti, è talvolta necessario scegliere tra due estensioni divergenti delle applicazioni della medesima teoria basandosi su giudizi di valore o pragmatici (tempo e mezzi a disposizione).
42
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
Kuhn ha rifiutato il concetto unitario e metastorico di verità,
inteso come denominatore comune delle rivoluzioni scientifiche. Se la storia della scienza è una successione di paradigmi
incommensurabili e i fatti ed i principi della scienza sono dati e
mantengono la loro validità solo all’interno delle teorie alle quali appartengono, non esiste un criterio che li trascenda in grado
di valutarli. Non esiste neppure un mondo vero che potrebbe
fungere da terreno comune alle diverse teorie dato che la struttura convenzionale dei sistemi del sapere rende impossibile dimostrare un nesso necessario tra gli enunciati teorici e quelli
empirici e osservativi.
I procedimenti di verificazione delle teorie non stabiliscono
nessuna verità assoluta, perché la stessa “prova” è sottodeterminata (cioè pre-determinata) dalla teoria e perché le norme
che guidano la formazione dei test sono convenzioni. Anche la
teoria della falsificazione si riduce ad un accordo sociale per
considerare false certe affermazioni e certe no. Generalmente
condivisa nel mondo scientifico è l’idea che l’attendibilità di una
teoria si possa stabilire sottoponendo la teoria a test sempre più
severi. In tal caso, provare una teoria significherà confrontarla
con quella utilizzata per produrre i test. Ma, dato che le regole
metodologiche seguite nella preparazione della teoria sono diverse da quelle seguite nella preparazione della prova e si basano su teorie che descrivono in modi diversi la costituzione del
mondo e che compiono le proprie osservazioni in dimensioni
spazio-temporali non vicine, una teoria si potrà dimostrare migliore di un’altra rivale solo ammettendo l’esistenza di modelli
standard universali e senza tempo per la valutazione delle convinzioni. In conclusione, secondo il relativismo epistemico, le
regole della prova sono convenzioni che non hanno basi oggettive nella realtà e che servono solo a promuovere un certo tipo
di interesse epistemico, e anche gli scopi della scienza che determinano i giusti metodi della ricerca sono del tutto soggettivi. In
una direzione sostanzialmente simile si muove la problematiz43
Federico Creazzo
zazione della stessa idea di verità scientifica operata da Feyerabend
(1924-1994) nel noto saggio Contro il metodo del 1975. Il sapere
scientifico è evidentemente legato a contenuti pragmatici e “impuri” rispetto ad un ideale di scienza come sistema delle verità
universali. La scienza è un’impresa sempre immersa entro il tessuto sociale della realtà.
Essa deve essere valutata non per i suoi presunti valori di conoscenza e verità “oggettiva” quanto per i contributi che offre e,
in misura non minore, per gli ostacoli che pone al progresso umano. Il progresso deve essere interpretato non già, positivisticamente, come accumulo di certezze o, come affermava il suo maestro Popper (1902-1994), come approssimazione al vero, bensì
come emancipazione sociale ed etico-politica dell’umanità.
Da ciò Feyerabend ricava una concezione plurale e relativistica della verità e della scienza:
Che senso ha, allora, il discorso sulla “verità” della scienza? Che
senso ha parlare della scienza come unità? Per me, si tratta solo
di fantasmi. Mi rendo conto del valore pratico della “verità” nelle pubbliche relazioni: se uno dice che la verità è in un certo
posto, qui affluisce subito il denaro, qui si concentrano gli sforzi
di studio, e così via. Ma a parte questo – e a parte gli usi pratici
della parola verità, come nell’espressione: “Dimmi la verità, davvero hai avuto una relazione mentre ero fuori?” – le questioni
riguardanti la verità della scienza o del mito non hanno per me
molto senso. Per me ha senso, invece, che una società, un gruppo, dedichi tutto se stesso alle scienze – al plurale – o a qualche
mito, poiché di entrambi abbiamo bisogno.22
22
Tratto dall’intervista a P. FEYERABEND, Idee varie, in Enciclopedia multimediale
delle scienze filosofiche, Roma, D.S.E., lunedì 11 ottobre 1993, pp. 138 ss.
44
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
3. Storicismo e relativismo. Il dibattito metodologico
di fine Ottocento sulle scienze dello spirito
e la conoscenza storica
Le condizioni dalle quali sorse lo storicismo del XIX secolo ed
il raffronto di questo con lo storicismo hegeliano ci aiutano a
mettere in luce le sue caratteristiche e ci convincono a collocarlo all’interno del relativismo gnoseologico. Altrettanto interessante risulta un confronto tra le diverse posizioni espresse all’interno di questa scuola, alcune delle quali risentono ancora di
qualche suggestione romantica, anche se ormai autonoma rispetto alla concezione hegeliana della storia. In altri casi, il distacco dall’hegelismo da un lato e dalla scuola positivistica dall’altro risulta netto e senza compromessi, come nel caso della
metodologia storica di Max Weber.
L’Erleben, l’esperienza vissuta, definisce per Dilthey l’autonomia del mondo umano rispetto al determinismo della natura e rende possibile una distinzione sistematica tra le scienze
della natura (Naturwissenschaften) e le scienze dello Spirito (Geistwissenschaften). Nelle scienze dello spirito, l’oggettività conoscitiva è resa possibile dal rapporto particolare (e privilegiato)
che si stabilisce tra il soggetto e l’oggetto della conoscenza.
L’uomo, infatti, non comprende il mondo umano (storico-sociale) come qualcosa di esterno, ma come ambito in cui riconosce se stesso. Il ricercatore storico, in quanto uomo, ritrova
nell’oggetto della sua ricerca un mondo di uomini, di cui ha una
sorta di precomprensione, che invece gli manca quando si rivolge agli oggetti naturali. L’Erleben, l’immediatezza della vita
vissuta, nel suo essere volontà, libertà e creatività spirituale, è
l’elemento che accomuna il soggetto e l’oggetto della conoscenza. L’Erleben non è solo rappresentazione, né pura volontà o sentimento, ma l’unità di tutto ciò nell’immediatezza dell’esperienza umana. Esso sorge nell’individuo ed è una sorta
di autocoscienza del mondo spirituale.
45
Federico Creazzo
Nel rapporto conoscitivo con il mondo fisico, il ricercatore
coglie i fenomeni dall’esterno e singolarmente. Partendo da questi,
attraverso un’astrazione crescente, perviene alla determinazione
delle leggi generali che spiegano quei fenomeni. Nella conoscenza del mondo umano, invece, ciò che precede è l’esperienza vissuta della
totalità del mondo, e il ricercatore si muove a partire da un principio
generale, l’Erleben, mediante cui è possibile intuire le particolari o
individuali connessioni spirituali, storicamente determinate. Esse
vengono definite da Dilthey come le unità organizzative umane, e
cioè delle oggettivazioni della vita sociale e storica, delle unità
“collettive” che perseguono scopi, hanno interessi e valori particolari e ciascuna di esse esprime una differente intuizione del
mondo. Queste connessioni spirituali si manifestano anche negli
individui, la cui vita, pur nella sua singolarità, è sempre mediata
dall’insieme dei sistemi di cultura a cui appartengono.
La metodologia delle scienze dello spirito può ricostruire la
vita vissuta dall’uomo, in una condizione storicamente determinata, presentandola di volta in volta come il punto di incrocio di
varie connessioni dinamiche. L’individuo è il punto di incrocio
di connessioni che sussistono in lui ma che hanno una loro esistenza autonoma e lo sovrastano.23 Tali connessioni risultano
reciprocamente autonome, in quanto fondate su esperienze e
valori e fini particolari che non sono elementi o stadi di un comune progetto di sviluppo storico. Alla storia, intesa come oggetto totale e unitario, manca, secondo Dilthey, un fine intrinseco, o una interna e metastorica legge di sviluppo.
Nonostante l’assenza di un tale criterio esplicativo, metastorico o teleologico, del divenire storico, il ricercatore ha la possibilità
di conoscere le oggettivazioni storiche e spirituali, grazie all’omologia che sussiste tra queste e l’Erlebnis del ricercatore. Le diverse
23
DILTHEY W., La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito, in Lo storicismo
tedesco, a cura di Pietro Rossi, UTET, Torino 1977, pp. 138 ss.
46
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
connessioni storiche appaiono quindi relativamente autonome ma
non reciprocamente incommensurabili.
Il manifestarsi della vita è interpretato sulla base di un raggruppamento del molteplice, e l’individuale viene appreso sulla base
e attraverso la mediazione di ciò che è universalmente umano (Erleben)24. L’intendere (Verstehen), che è diverso dalla spiegazione delle scienze naturali (Erklären), è la forma specifica dell’atto conoscitivo delle scienze dello spirito. Come si è detto sopra, mediante l’intendere noi intuiamo l’oggetto come interno al soggetto, e ciò
consente al ricercatore di superare quella limitazione alla singolarità, contenuta in ogni singola esperienza della vita.25
Raffaello Franchini26 critica l’impianto logico e metodologico dello storicismo tedesco post-hegeliano, in quanto esso
mancherebbe di fondamento e ricadrebbe proprio in quel dogmatismo che intendeva combattere. A suo avviso, solo mediante lo Storicismo assoluto, in quanto logicità dell’universale, è possibile comprendere l’esistenza singola, collocandola
nel circolo della totalità spirituale. Per Franchini, il relativismo
ottocentesco è una gnoseologia che pone il vero in ciò che
appare al singolo uomo concepito come monade, in un modo
per cui all’assolutezza dello Spirito nel suo sviluppo, si sostituisce l’assoluto della individualità incomunicabile. Conseguenze del relativismo gnoseologico sono, per Franchini, l’agnosticismo metafisico ed il relativismo morale. Dilthey affermava
che il sapere di un’epoca è l’espressione transitoria e soggettiva di una connessione spirituale e che i sistemi metafisici e gli
ideali etici e religiosi variano con il tempo in quanto sono prodotti storicamente condizionati.
24
DILTHEY W., ivi, pp. 154-159.
DILTHEY W., ivi, p. 145.
26
FRANCHINI R., Storicismo e Relativismo, estratto dagli “Atti” dell’Accademia
Pontiana, nuova serie, vol. 1.
25
47
Federico Creazzo
Franchini colloca il relativismo all’interno dei movimenti di
reazione all’hegelismo e all’obiettivismo positivistico che si svilupparono in Germania tra la fine dell’800 e i primi del ’900, portando gli storici a rifugiarsi nel soggettivismo o nella tipologia. A
suo avviso, il relativismo è figlio di una storiografia afilosofica che
pretende di fondarsi unicamente sui documenti e sulle testimonianze e che pretenderebbe parlassero senza che lo Spirito umano, unica condizione della storia, desse loro la parola.
Il giudizio liquidatorio di Franchini sul relativismo storicistico sembra derivare dalla sua collocazione nell’ambito del neoidealismo italiano. Esso non è convincente perché si fonda su
una interpretazione riduttiva della metodologia dello storicismo,
con particolare riferimento a Dilthey.27
Contro la tesi di Franchini si può argomentare che l’orientamento individualizzante della conoscenza storica, e il vincolo che
si stabilisce tra la prospettiva del ricercatore e l’orizzonte finito e
condizionato della connessione storico-spirituale a cui si rivolge,
non è tale da impedire una comprensione di tipo generale della
storia umana, in quanto sia l’osservatore che l’oggetto dell’osservazione ricadono dentro la comune origine spirituale dell’Erleben,
quella particolare configurazione dell’esperienza vissuta degli esseri umani in quanto tali. Esso funge da termine medio o elemento
di mediazione tra le diverse connessioni spirituali e rende la conoscenza storica relativa a ciascuna di esse. In tal senso ogni epoca
storica ha in se stessa una referenzialità di significati, interessi,
valori e forme di conoscenza di cui lo storico deve tener conto
nello sforzo di interpretazione dei fatti storici. In questo senso il
relativismo di Dilthey è tutt’altro che radicale e non compromette la continuità e la trasmissibilità della conoscenza storica.
Una diversa soluzione del problema della conoscenza storica è rappresentato dalla filosofia neokantiana di Wilhelm Win-
27
FRANCHINI R., ivi.
48
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
delband. Fondamentale, secondo lui, è la distinzione epistemologica e metodologica tra le scienze naturali e la scienza storica.
Mentre le prime hanno come scopo la determinazione delle leggi
generali mediante le quali è possibile spiegare i singoli fenomeni, la scienza storica procede in senso inverso, in quanto parte
da leggi generali, aventi valore assiomatico, per giungere alla
comprensione dei fenomeni storici individuali. Le scienze naturali, in quanto generalizzanti, sono nomotetiche e, al contrario, la
conoscenza storica individualizzante è idiografica. Essa può pervenire all’apprendimento individualizzante solo riferendo il proprio oggetto a dei valori sociali universali.
Un’altra fondamentale differenza deriva dall’oggetto conoscitivo delle scienze naturali rispetto alla scienza storica. Le prime si occupano di fatti sussistenti in un mondo puramente obiettivo, invece la storia ha davanti a sé non un mondo di fatti ma
un mondo di valori. Le scienze naturali utilizzano giudizi teoretici,
ovvero proposizioni che stabiliscono la correlazione necessaria
tra i fatti osservati, mentre la scienza storica utilizza giudizi critici,
i quali misurano la divergenza dei fenomeni storici dai valori
universali e assiomatici della coscienza umana. La filosofia indaga le forme di valutazione della coscienza comune, ovvero la struttura trascendentale della coscienza, e ritrova la loro origine nelle
condizioni culturali, storiche ed individuali ma, soprattutto, nella loro appartenenza ad una coscienza normativa universale e
metastorica, cioè la configurazione data dagli uomini agli scopi
e ai valori supremi di tipo logico, etico ed estetico. Tali valori
assiomatici costituiscono il presupposto della conoscenza storica e ci forniscono il criterio per misurare ogni cosa.
Il neokantismo di Windelband è, a mio avviso, non del tutto
conseguente. In sede logico-teoretica, Kant aveva affermato l’esistenza di principi universali formali della coscienza umana, le
categorie, che costituivano la struttura trascendentale della soggettività umana. Tuttavia la validità conoscitiva di questi principi era rigorosamente limitata alla costellazione spazio-tempora49
Federico Creazzo
le dei fenomeni. La normatività formale delle categorie kantiane sembra quindi ben diversa dalla presunta normatività universale dei valori di cui parla Windelband in sede storica. Anche
prendendo a modello la morale kantiana, la filosofia dei valori
di Windelband suscita qualche perplessità. Essa reinterpreta la
legge morale kantiana anch’essa formale, come criterio universale e assoluto della conoscenza storica. Più convincente appare
la critica nei confronti della scuola storica positivistica, la quale
aveva trasferito acriticamente i metodi e la logica delle scienze
naturali nell’ambito della metodologia storica, trascurando la
ineliminabile connotazione valoriale del mondo storico. In conclusione, la filosofia di Windelband, pur distinguendosi dall’idealismo hegeliano e dalla scuola storica positivista, ipostatizza un
criterio di verità assoluto e normativo che appare non del tutto
chiaro e comunque lontano da ogni approccio relativistico.
Rickert (1863-1936) riprende e sviluppa la filosofia dei valori
di Windelband, insistendo sul principio della Wertbeziehung, ovvero della Relazione ai valori come connotazione fondamentale e
specifica del mondo storico. Per Rickert la distinzione tra le scienze naturali e le scienze della cultura non dipende dalla qualità
psicologica dell’intendere (Erleben) come in Dilthey, né dalla differenza dell’ambito oggettuale, ma dalla particolare configurazione metodologica delle scienze della cultura.
L’apprendimento individualizzante del metodo storico mette in relazione la particolarità dell’oggetto con valori che non sono
collegati a nessun altro oggetto e al tempo stesso con dei valori
logico-formali universali, contenuti nella funzione del giudicare.28 Ciò non esclude che un oggetto preso in esame per la sua
significatività individuale possa al tempo stesso essere studiato
nell’ottica generalizzante delle scienze naturali. Lo storico si
occupa solo degli oggetti che ha selezionato sulla base della loro
28
RICKERT H., La filosofia della storia, in Lo storicismo tedesco, cit., p. 367.
50
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
significatività, nel quadro storicamente condizionato degli interessi sociali, che sono parti o momenti della totalità dei valori
universali incorporati nello stato, nella religione, nell’arte. Non
tutti i fatti sociali o umani hanno valore storico, ma solo quelli
che assumono valore all’interno della cultura. Lo storico deve
selezionare i fatti significativi ed estrarli dalla molteplicità infinita del divenire. Questa selezione non dipende dai giudizi di valore soggettivi del ricercatore (ogni forma di relativismo o soggettivismo viene rifiutata da Rickert) ma dal riferimento dei fatti a
valori formali conoscitivi di portata universale o ai valori normativi
della costellazione storica a cui il ricercatore si riferisce. La storia
individualizzante risponde alla domanda su come si realizza l’insieme della cultura attraverso i suoi momenti singolari.29
Un certo riflesso dell’evoluzionismo si può cogliere nell’opera
di Georg Simmel (1858-1918), il quale concepisce la conoscenza
come un processo di adattamento del pensiero a quello che lui
chiama sviluppo vitale della specie. Simmel ha collegato l’apriori
kantiano alla determinazione inevitabilmente soggettiva del mondo
circostante. Rispecchiare fedelmente le cose è impossibile, e la
natura quale ci appare è creazione del soggetto, ma mentre l’apriori
kantiano è costante e costituisce l’impalcatura universale della
conoscenza obbiettiva, per Simmel esso è un apriori psicologico
e mutevole. Il soggetto di Simmel non ha la stabilità e l’universalità del soggetto kantiano ed esso è piuttosto l’onda mobile in cui
ogni essere sussiste solo come essere condizionato. Per Simmel,
noi scegliamo una rappresentazione concettuale con cui cogliamo le parti e i movimenti dell’essere e la facciamo funzionare
come il centro reale o come il senso di tutta l’esistenza. La validità
delle conoscenze, non potendo essere controllata sulla realtà in
sé, può solo essere cercata nella loro capacità di favorire lo sviluppo
vitale. Il relativismo di Simmel concepisce come sistema di riferi-
29
RICKERT H., ivi, cfr. pp. 374-378.
51
Federico Creazzo
mento delle conoscenze e come criterio della loro validità la capacità che alcune di esse hanno di sopravvivere nel corso dell’evoluzione della specie, in quanto favoriscono gli individui che
le seguono, rispetto agli altri che seguono principi “falsi” cioè
dannosi. Lo sfondo del relativismo gnoseologico di Simmel appare orientato verso un pragmatismo, che sostituisce il principio
dell’utilità per la specie al vecchio principio della verità.
La filosofia non può, secondo Simmel, essere separata dalla
psicologia. Ogni visione del mondo è connessa alla vita degli
individui e muta con il mutare di questa. La stessa filosofia non
è oggettiva, ma è piuttosto una risposta dell’individuo ai problemi della comunità di cui fa parte. L’individuo adatta a sé il reale
ma non in una configurazione fissa, perché il rapporto del sé
con la realtà, in cui esso vive, muta continuamente per il gioco
dei contrasti e dei rapporti delle diverse reazioni spirituali. Le
categorie sono forme “mobili” della determinazione reciproca
tra soggetto e oggetto. Non si dà, quindi, una verità assoluta e
occorre abbandonare ogni pretesa di trovare un fondamento
ultimo della scienza. Il relativismo riguarda la storia e la società,
nonché le scienze che le studiano: ogni formazione storica e
sociale costituisce un mondo a sé, regolato dai propri principi e
valori e non commisurabile ad altri. La storia è una specie di
psicologia applicata, perché il suo contenuto umano presuppone che gli eventi siano analizzabili anche come eventi psichici.
Lo storico quindi non può aspirare a una conoscenza oggettiva
del passato ma deve mirare a una “penetrazione psicologica”
(Einfühlung) che gli consenta di rivivere i caratteri dell’epoca che
sta indagando. La comprensione storica rivela allora una molteplicità di mondi (religione, filosofia, arte, scienza) che coesistono, fondandosi ognuno su un proprio principio organizzativo.
Nell’individuo tali mondi si trovano l’uno accanto all’altro, senza richiedere mai una conciliazione definitiva. La pluralità dei
mondi e il loro sviluppo vengono studiati alla luce di una concezione biologica della vita spirituale: in ogni sfera si afferma pro52
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
gressivamente una tendenza organica che è espressione dell’autopotenziarsi della vita, la quale seleziona quelle verità che la favoriscono, mentre accantona come falso ciò che le è dannoso. Esiste
quindi un’identificazione tra verità e utilità vitale.
Si può cogliere nel pensiero di Simmel una duplice accezione del relativismo, inteso sia come relazione del sapere al soggetto, infinitamente variato a seconda delle costellazioni spirituali e vitali a cui appartiene, sia come relazione ad un presunto
imperativo della specie di cui l’individuo è funzione. Come afferma lo stesso Simmel:
Il Relativismo moderno tende a risolvere il singolare ed il sostanziale in azioni reciproche e intende la personalità come il luogo e il
modo particolare in cui si collegano i fili sociali.30 Come la circolazione degli elementi naturali ci pervade e noi non possediamo un
essere per noi, così in quanto esseri sociali siamo in ogni attimo
composti dalle relazioni reciproche con gli altri. Da una parte, noi
ci sappiamo prodotti della società, degli antenati e dello spirito del
passato cristallizzato in forme oggettive, e d’altra parte ci sappiamo membri della società, intessuti con il nostro processo vitale
con il suo senso ed il suo scopo in modo tanto poco indipendente
nella sua prossimità come nella sua successione.31
La reciproca determinazione tra soggetto e oggetto, tra l’individuo come centro della rappresentazione e il mondo storico-sociale di
cui è parte (ed espressione) presenta, a mio avviso, una certa analogia
con la dottrina del prospettivismo nietzschiano. «L’intero contenuto
della vita che può essere spiegato in base agli antecedenti sociali e alle
relazioni reciproche dev’essere contemporaneamente considerato
come esperienza vissuta dell’individuo, come prodotto ed elemento
della vita sociale o come il destino centripeto del suo portatore.»
30
31
SIMMEL G., Il problema della sociologia, in Lo storicismo tedesco, cit., p. 466.
SIMMEL G., ivi, cfr. p. 503.
53
Federico Creazzo
L’individuo di Simmel, nella sua variabile dimensione psicologica, non è il fondamento autonomo della rappresentazione
(Nietzsche direbbe interpretazione) se non in relazione ad una
condizione epocale e in relazione ad una utilità della specie.
Pur con tutte le differenze, Simmel e Nietzsche hanno in
comune uno sfondo di vitalismo e di naturalismo che fungono
da argine ad un relativismo confinante con il caos.
L’epistemologia storica di Max Weber rappresenta sicuramente il più maturo tentativo di sistematizzazione all’interno del cosiddetto storicismo tedesco e ne rappresenta in un certo senso il
superamento. Come storico e come sociologo, Weber escluse sempre che la scienza potesse produrre giudizi sintetici sul divenire
del mondo. Questa limitazione riguardava per lui le cosiddette
scienze della cultura non meno che le scienze naturali. Ugualmente le discipline storico-sociali non erano per lui capaci di esprimere giudizi pratici in grado di vincolare l’azione. E ciò non perché avesse un ideale naturalistico della conoscenza scientifica.
L’oggettivismo positivistico non rientra nella sua epistemologia
se non come bersaglio polemico. La sua epistemologia non si
fonda tanto su un modello esterno esemplare, mutuato magari
dalla fisica o dalla matematica, quanto su una teoria della conoscenza autonomamente elaborata. Molto importante per lo sviluppo del pensiero di Weber fu la sua presa di posizione di fronte
alle risposte che Dilthey, da un lato, e Windelband e Rickert, dall’altro, avevano dato al problema della distinzione tra le scienze
della natura e le scienze dello spirito. Rispetto al primo, Weber
dubita del fatto che la comune radice del ricercatore e dell’oggetto della conoscenza nell’Erleben, nell’esperienza vissuta del mondo umano, possa assicurare l’oggettività conoscitiva nell’ambito
delle scienze della cultura. Dilthey aveva insistito sulla superiorità
conoscitiva del Verstehen (comprendere), come conoscenza dall’interno tipica del mondo storico-sociale, sull’Erklären come spiegazione dei nessi causali (esterni) della natura. Per Weber, invece,
qualsiasi conoscenza che pretenda per sé validità scientifica, deve
54
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
essere una conoscenza di cause, e rispetto a questo principio epistemologico generale non fanno eccezione neanche le scienze
della cultura. L’esclusione del principio di causalità dalle scienze
dello spirito in Dilthey era dovuta probabilmente ad un’accezione troppo ristretta del concetto di causa, intesa come implicazione necessaria tra i fenomeni. Weber articola questo concetto in
modo del tutto originale e rifiuta un’ermeneutica storica fondata
sul principio dell’Erleben: la ricostruzione del passato nell’Erleben
interiore non ha quel carattere di immediatezza e di assolutezza
che pretenderebbe di avere e lo storico non può evitare di trasferire anche inconsapevolmente sull’oggetto idee di valore e significati appartenenti all’orizzonte della propria cultura e alla sfera etica
individuale. L’Erleben pone l’accento su ciò che è comune a tutte
le manifestazioni spirituali passate, presenti e future, e che si può
genericamente individuare nella qualità creatrice dello spirito. Da ciò
deriverebbe una sorta di con-genialità tra il passato e il suo interprete. Al contrario, Weber insiste sul significato e sui processi di
significazione soggettiva del mondo per sottolineare la qualità differenziale di ogni processo individuale della cultura. Il significato, nella
sua configurazione storicamente determinata, si pone come il
principale operatore della storia e l’orizzonte complessivo dell’ermeneutica storica. Dalla filosofia di Windelband e Rickert, Weber
trae il principio della Relazione ai Valori, modificandone però il
significato e la portata. Anche per Weber, lo storico seleziona
l’oggetto dell’indagine dall’infinità magmatica del divenire sulla base
di un criterio di valore. Diversamente da quanto sostengono Windelband e Rickert, tale criterio non è universale e metastorico, ma
anch’esso funzione delle modificazioni storiche della cultura. «La
cultura è una sezione finita dell’infinità priva di senso del divenire
del mondo a cui è attribuito senso e significato dal punto di vista
dell’uomo.»32 L’interesse della scienza resta vincolato a presuppo-
32
WEBER M., op. cit., trad. it. Pietro Rossi, pp. 96 ss.
55
Federico Creazzo
sti che sono soggettivi sia in senso trascendentale che in senso
storico-empirico: sia il soggetto che l’oggetto delle scienze della
cultura sono funzione della significazione soggettiva del mondo.
I significati che gli uomini attribuiscono al proprio agire storico-sociale sono per Weber l’ipotetico movente causale indagato dallo storico. L’imputazione causale non può che avere un
valore ipotetico e congetturale perché non può esistere una rappresentazione storica di fatti esistenti in se stessi, né esiste una
trama logica o un principio di sviluppo a cui il corso storico
debba obbedire e a cui il ricercatore possa fare riferimento. Bisogna resistere alla tentazione di attribuire alla storia uno scopo
metastorico, o un valore assoluto di qualsiasi tipo poiché il corso storico non è altro che il continuo riplasmarsi di tutti i significati e di tutte le mete. Il relativismo di Weber, molto più di
quello di Simmel che risentiva di una sorta di mistica del vitalismo
naturalistico, appare del tutto consono all’epistemologia del XX
secolo. Il relativismo weberiano non ha molto a che vedere con la
tendenza al soggettivismo scettico o agnostico, ma, al contrario,
costituisce una sorta di statuto epistemologico capace di dare rigore e valore alla ricerca. Interessanti sono le possibili analogie e
affinità con il prospettivismo nietzschiano. Nietzsche e Weber
hanno in comune la critica del positivismo, dell’idealismo e di
ogni concezione metafisica della realtà e della storia ed entrambi
mettono al centro dell’analisi i processi di significazione soggettiva della realtà. Per entrambi il soggetto non è l’individuo in quanto tale, ma l’interazione tra gli orizzonti di significati e di interpretazioni con cui è costruita la nostra immagine del mondo.
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