Abstracts Parallel Sessions

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International Congress
Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur
September 2012, 24-27
Lecce
Abstracts
Parallel Sessions
Fabrizia Abbate
La crisi del riconoscimento sociale. Dalle analisi di Paul Ricœur ai dubbi di Vladimir
Jankélévith, alle provocazioni di Pierre Bourdieu
La filosofia della soggettività di Ricœur approda nei “percorsi del riconoscimento”. Che
valore ha oggi, in termini sociali, il riconoscimento di cui parlava Paul Ricœur?
Nella odierna crisi europea delle istituzioni, della memoria collettiva e delle politiche
sociali, nell’incertezza di una integrazione multietnica e multiculturale problematica:
possiamo parlare di felice riconoscimento di intersoggettività, o piuttosto di infelice
“misconoscimento” tra identità (Jankélévitch)? E se incombono le insidie dell’illusio
sociale e dei rapporti di forza tra i campi sociali come denuncia la sociologia di
Bourdieu, allora la sfida del “mutuo riconoscimento” proposta da Ricœur è ancora
valida?
Luca Alici
Il potere politico: luogo di crisi della ragione?
Due sono i riferimenti iniziali che questo contributo vorrebbe intrecciare. Il primo rinvia
a La crise: un phénomène spécifiquement moderne? («Revue de Théologie et de
Philosophie», 120, 1988), in cui Ricœur mette in evidenza come la ragione strumentale
moderna abbia esaurito il proprio potenziale di liberazione. Il secondo, relativo alla
riflessione complessiva del filosofo francese, sottolinea il costante richiamo alla fragilità
della dimensione politica e ad alcuni suoi paradossi (forma e forza, orizzontale e
verticale, origine e inizio, superiore e anteriore). A stimolare l’accostamento di questi
spunti è il carattere di duplicità che Ricœur riconosce al potere politico, ovvero la sua
razionalità (relativa alla portata ordinatrice delle relazioni e alla orizzontalità della
convivenza) e al contempo irrazionalità (concernente l’inafferrabilità dell’origine e
l’ineliminabilità della violenza).
Tale duplicità giustifica una riflessione sul rapporto tra ambito politico e paradigmi
della razionalità, almeno in due direzioni.
In primo luogo, occorre sottoporre alla prova dei paradossi del politico il paradigma
moderno della razionalità, per riflettere sull’ammissibilità di un residuo irrazionale,
fisiologicamente connesso a questa sfera costitutiva della relazionalità umana. Centrale
sarà allora la necessità di argomentare la distinzione tra il politico e la politica,
illustrando perché Ricœur dica che “la politica, come manipolazione del potere, non
esaurisce il politico come struttura della realtà umana” e che “il politico non esaurisce
tutto il campo antropologico” (cfr. La critica e la convinzione, Jaca Book, 1997). Che
cosa è il politico? Può esso convivere serenamente con l’enigma del proprio inizio e
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quindi sottrarsi alla razionalità onnicomprensiva e more geometrico della modernità?
Quale paradigma di razionalità risulta sensibile a tale sua specificità?
In secondo luogo è opportuno concentrarsi sul tema del potere e sul versante in virtù del
quale può essere considerato una messa in crisi della razionalità dell’ordine politico: nel
potere vi è infatti la possibilità che il male più grande (la violenza esercitata) aderisca
alla razionalità più grande (l’ordine); nel potere la finalità dell’organizzazione razionale
della forza ha storicamente un inizio connotato da una violenza istitutrice. Si potrà forse
dire che anche il potere come dimensione fondamentale del politico costituisca qualcosa
di connotato da una sorta di difetto di origine, nel senso di un’origine mai presente a se
stessa e quindi mai rappresentabile e rappresentata? Si può ravvisare uno scarto tra
origine e inizio? Rispetto a tale scarto, che tipo di fondamento ha il potere e attraverso
quale ragione se ne può rendere conto?
Ricardo Almeida De Paula
Mounier’s Personalist Anthropology: Imergency/Emergency of the Person before a
World without Face
We
must instill
the
ambiguity proposed by
the
binomial immanence/ transcendence (imergency /
emergency)
in
Mounier’s
thought. If the
status of
anthropocentrism constitutes in solipsism,
transcendence will be in the same way, by proclaiming externalism as the true level of
knowledge, transforming or extending it even to agnosticism.
Through the Cogito’s
dialogical, between
immanence
and
transcendence, Mounier demonstrates the element of balance between these two
premises through the categorization of the person, stating she can not be treated in the
same order of natural objects. That is, "the person is not an object. She is above all that
each man can not be treated as an object”
In proposing this dialogue we must remember that the person can not be
considered "as a thing or substance that possesses certain qualities or is next to
their actions or simply with them”, but should be considered its ontological status in the
face of the ontological reality - their "being" in the face of Being.
Max Scheler says that the person “is the unit immediately lived of living, not just
something thought out of the immediately experienced. Thus, we must consider the
person as a dynamic reality, running away and sealed design of the reductionist material
or psychic. The epistemological reality proposed by Scheler is reflected in the condition
that there isn’t knowledge in person without opening and giving. This assumes
reciprocity in the act of love, from which derives the unity and continuity of conscience;
means, therefore, that other persons exists to me because there is no person before the
indifference to the existence of another. This act, of course, does not conclude that
through the conscience one become to contemplate an “I” that is there. It deals more to
foresee an “I” in “conscience and by conscience, as opposed to a ‘not-me’” (Borau,
2007).
The meaning of the Personalist Cogito is the transcendence of the ontological premise
to the ontological one, that is, to consider not only the existence of God, but God’
personal character. It is always instructive to remember that Personalism develops its
idea about
the
person from
the Judeo-Christian concept. The
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sense incarnational Christology shows the character of the imago Dei restored in the
person and redefines the meaning of prósopon, namely from mere the translation as
“face" to the person in his full character and existential. We are facing a
philosophy whose starting point is the same of the finish: love. Love is for Mounier the
stronger
sure
of human
being "stronger
than reason, is
the
most
obvious existential cogito on which there is no doubt". The Cartesian cogito, "I
think, therefore I am", is converted in Mounier by Amo, ergo sum, the strongest
assurance of human beings, the unanswerable existential cogito: "I love, just being and
life is worth living. Not confirmed only by movement in which I affirm, but by being
that the other offer to me" (Mounier, 1964, p. 69).
Marco Angella
Alterità e reciprocità nella teoria del riconoscimento. Honneth e Ricœur a confronto
Può sembrare peregrino interrogare l'opera di Ricoeur sul rapporto tra essa e la Teoria
critica. A darcene l'occasione è però l'ultimo fra i suoi lavori, Parcours de la
reconnaissance. Nel terzo degli studi qui raccolti, egli instaura infatti un dialogo con
Axel Honneth, il maggior esponente di una terza generazione di teorici critici.
L'interesse di Ricoeur al riconoscimento come categoria epistemologica e sopratutto
etica deriva, come in Honneth, dal fatto che essa pare in grado di superare, integrandoli,
i due momenti principali dell'alterità nel rapporto intersoggettivo, Ego e Alter. Il
problema di Ricoeur: come salvare la reciprocità senza rinunciare all'alterità? Per
risolverlo, il filosofo francese segue Honneth nella sua ricostruzione “post-metafisica”
dell'Anerkennung hegeliana. Essa sembra infatti capace di mediare tra Ego e Alter, di
mantenere l'alterità nella relazione reciproca. Rispondendo alla sfida lanciatagli da
Hobbes, lo Hegel degli scritti giovanili pensa la costituzione sociale (reciprocità) non
come un assembramento di individui intesi come entità isolate l'una dall'altra, al quale
essi sarebbero costretti per la paura di perdere la vita, ma come una costituzione etica
originaria: per vivere, essi hanno bisogno di riconoscersi l'un l'altro nella propria
specificità. L'Anerkennung (la reciprocità del riconoscersi vicendevolmente) sarebbe
allora l'affermazione reciproca dell'alterità dell'altro. Reciprocità et alterità sarebbero
così strette da un legame immanente.
Nonostante con ciò Ricoeur sposi la ricostruzione honnethiana della teoria del
riconoscimento, egli se ne allontana in un punto fondamentale là dove rimprovera ad
Honneth che il suo salvataggio del binomio reciprocità-alterità implica una lotta
perpetua, necessaria affinché sempre nuove dimensioni dell'identità del singolo siano
riconosciute. Si perde così la possibilità teorica di pensare, accanto alla lotta, uno stato
di pace o, se si vuole, di riconciliazione. A ciò si può rimediare, per Ricoeur,
completando la reciprocità che si esprime nel riconoscimento con quella di cui il dono è
il simbolo: una reciprocità pacificata, festiva, che mantiene in sé anche il momento
dell'alterità, nel luogo in cui nel dono vi è gratuità, gesto incondizionato verso l'altro.
Secondo il filosofo francese, la superiorità del riconoscimento che si esprime nel dono
sta nel fatto che esso, pur mantenendo in sé una carica conflittuale, (che si esprime nei
momenti in cui la sua intenzione fallisce), è testimone di uno stato di riconciliazione che
nella teoria di Honneth manca.
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Nel nostro intervento, ci proponiamo di sondare la filosofia di Honneth (e, con essa,
quella del giovane Hegel) alla luce delle obiezioni a lui mosse da Ricoeur. La teoria del
riconoscimento è davvero così chiusa alla riconciliazione quanto lo afferma Ricoeur,
oppure è possibile discernervi elementi di pacificazione? Tali elementi sono utili ad una
teoria critica come quella di Honneth? La tematica del dono, tale che Ricoeur la
presenta, può contribuire in qualche modo alle finalità critiche della teoria, oppure
questa può integrare in sé, senza ricorrervi, quell'incondizionatezza nei confronti
dell'altro di cui il dono vuole essere simbolo? In altre parole, il dono è necessario per
pensare, assieme, reciprocità e alterità, lotta e riconciliazione? E’ davvero possibile
articolare assieme riconoscimento e “economia del dono”? Quali fini la teoria deve
porsi affinché ciò sia possibile?
Infine, in un ultimo momento, vorremmo fare un passo ulteriore e domandarci: che
genere di alterità è in gioco in Ricoeur et in Honneth (dal punto di vista dell’etica)? Se
essa non fosse che la semplice alterità di un Ego di fronte ad un Alter, nella loro
reciproca particolarità (come pare nel terzo degli studi dei Parcours de la
reconnaissance, che sarà il nostro punto di partenza), non si tralasciano altri modi
d'intenderla (per esempio quella di un Ego con sé stesso, con i suoi propri desideri, la
cui origine non si esaurisce nella dimensione egologica; e quella della dimensione
simbolica che è supposta mediare il rapporto riflessivo a sé stessi e le relazioni
intersoggettive)? Nell'opera di Ricoeur stesso cercheremo, al di là del dono, altri modi
di declinare l'alterità e la reciprocità al fine di completare e radicalizzare la teoria del
riconoscimento e, forse, di ripensarla in un senso altro rispetto a quello che entrambe
questi filosofi hanno voluto dargli.
Claudia Elisa Annovazzi
Crisi e conflitto delle immagini. Iconoclastia ed ermeneutica della testimonianza
nel’epoca dell’imperialismo iconico
Crisi: dal greco krino, giudico, ha assunto con Ippocrate il significato con cui
indichiamo anche oggi il conclamarsi violento ed esacerbato di uno stato di malessere e
malfunzionamento di un organismo che ha potuto essere fino a quel momento ignorato e
che reclama ora inappellabile attenzione, bloccando il funzionamento e costringendo
alla cura. Ogni crisi è un’apocalissi che toglie il velo sul benessere apparente,
rivelandone la falsità. Essa mette di fronte alla scelta decisiva che impone la critica delle
convinzioni cha hanno guidato il nostro agire e il discernimento tra le immagini che
vivificano e gli idoli che vanificano, poiché, come ricordava Ricœur in Finitudine e
colpa, l’uomo diviene ciò che adora. Questo significato di crisi raccoglie quello grecokantiano di critica come giudizio e di conflitto come discriminazione e contrapposizione
tra ermeneutiche rivali. Come discernere tra idoli del nulla e immagini di libertà? Per
l’uomo che ha operato il lutto della conoscenza assoluta hegeliana, la pietra di paragone
con cui distinguere le vere dalle false testimonianze manca. Noi, che siamo chiamati ad
essere giudici delle testimonianze della storia, e che saremo giudicati per il nostro
giudizio, possiamo intravvedere la verità, come la terra promessa di Mosè, attraverso il
turbinio delle testimonianze particolari in conflitto.
M.-J. Mondzain si è interrogata su una crisi e un conflitto molto distanti da noi sia
cronologicamente sia tematicamente: l’iconoclastia dell’VIII secolo che ha visto
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contrapporsi due concezioni dell’immagine religiosa. Il conflitto iconoclasta, che
sembrerebbe non aver nulla da spartire con la concezione attuale della crisi e del
conflitto, che vengono associati a questioni o economiche o politico-militari, presenta
profonde consonanze con il cannibalismo iconico contemporaneo, rivelate dalla
polisemia del termine economia inteso come mediazione relazionale sia nel contesto
religioso medievale, sia in quello monetario attuale. I visual studies si sono occupati di
questo evento cruciale come lente per valutare lo strapotere delle immagini che sembra
sfuggire a ogni forma di controllo, persino quello del potere politico-economico che se
n’è sempre servito strumentalmente.
In questo contesto secolarizzato di proliferazione indiscriminata delle immagini, il
richiamo al saggio ricœuriano del ’72, L’herméneutique du témoignage, suona tanto
opportuno quanto inattuale. Sulla scorta di Nabert, Ricœur pone la domanda che di
fronte alle immagini si ripropone oggi: abbiamo il diritto di investire di un carattere
assoluto un momento della storia? Ripercorrendo le tappe dell’ermeneutica ricœuriana
della testimonianza intendo approdare alla possibilità di riscoprire la capacità delle
immagini d’arte di trasmettere la forma della verità di cui vogliono essere
testimonianza. Ricœur è un protagonista del linguistic turn, piuttosto che del pictorial o
iconic turn. Eppure le sue sporadiche considerazioni sull’estetica e l’intera elaborazione
della sua poetica suggeriscono l’idea di interpretare le immagini come testimonianze.
L’originalità di questa proposta ermeneutica consente di aprire i Ricœur’s studies a una
nuova applicazione negli studi di estetica, imprimendo a questi ultimi sviluppi inediti.
L’ermeneutica della testimonianza, connotata dalla probabilità, non garantisce un
superamento assoluto e definitivo della crisi, ma consente di superare l’impasse di un
dominio incontrollato delle immagini, restituendo all’uomo la sua libertà di giudizio.
Sophie-Jan Arrien
Impuissance et attestation en temps de crise
De la « crise financière » à la « crise climatique », en passant par la crise de
« l’éducation », la crise de la « culture », la crise de la « religion », la crise des
« institutions » et, au final, la crise de la « démocratie », l’individu occidental
contemporain semble se comprendre spontanément dans l’horizon d’un monde et d’une
société « en crise ». A quoi renvoient ces différentes manifestations de la crise ? La
première chose à faire est d’identifier quelque chose qui pourrait unir ces manifestations
sans pour autant éradiquer par un concept ou une généralité abstraite la pluralité et la
spécificité de leur expression concrète. Plus précisément, la dimension commune que
nous recherchons pour penser l’idée de crise semble devoir renvoyer pas tant à un
contenu de sens qu’à un certain caractère vécu de la crise ou « sentiment » d’« être en
crise ». Ce vécu de la crise, s’il caractérise d’abord des individus, doit-il pour autant être
considéré uniquement comme une manifestation d’ordre psychologique ? Nous
estimons plutôt que la question commande un regard proprement herméneutique et
phénoménologique capable de formaliser le vécu de l’être-en-crise sans, d’une part, le
réduire à un simple affect et sans, d’autre part, lui faire perdre sa concrétude par un
processus de généralisation ou d’abstraction. C’est en ce sens que nous traiterons le
vécu de la crise en tant qu’il manifeste un visage possible de l’attestation du soi, pour
reprendre le terme de Paul Ricœur.
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Quand l’individu se définit, se raconte et se vit fondamentalement dans un horizon de
« crise », c’est son être-soi ou ipséité qui se trouve institué et attesté, certes en creux
voire sous un mode négatif, mais à travers tout cela de façon déterminante. Nous
développerons cette proposition en prenant pour guide de façon inédite la
phénoménologie herméneutique de l’homme capable chez Ricœur. Notre hypothèse est
en effet que le vécu de la crise, en tant qu’il est constitutif de l’homme contemporain
dans son rapport à soi et au monde, renvoie en dernière instance à un profond sentiment
d’impuissance. Or, cette impuissance elle-même relève, sinon de la mise en échec, du
moins de la mise à mal de la dimension de « l’être-capable » dans laquelle culmine,
s’ouvre et se résout l’herméneutique du soi de Ricœur. En utilisant donc, un peu comme
un révélateur photographique, la phénoménologie herméneutique ricœurienne de
« l’homme capable », nous tenterons d’identifier le prix à payer en termes de dignité,
d’estime de soi et de responsabilité quand l’homme s’atteste dans son impuissance. En
d’autres termes, nous essaierons de voir comment la phénoménologie herméneutique de
« l’homme capable » permet d’éclairer et de comprendre via negationis l’impuissance
qui caractérise, du point de vue de l’attestation du soi, la situation généralisée de « l’être
en crise » à notre époque.
Luz Ascárate
La phénoménologie paradoxale de la Krisis
L’originalité de notre proposition de contribution consiste à réinterroger la notion
de « crise » à partir d’une tradition phénoménologique héritée de Husserl et revisitée
par Ricœur.
Ricœur est connu pour être non seulement un lecteur attentif de Husserl, mais encore un
lecteur des paradoxes. A l’égard de l’interprétation de Ricœur de la Crise des Sciences
européennes et la phénoménologie transcendantale1 de Husserl, nous voudrions
montrer les apports, tant au regard de l’interprétation de la totalité de la phénoménologie
husserlienne qu’au regard de l’interprétation de la conception de la phénoménologie de
Ricœur lui-même, à partir d’une lecture qui rend compte des paradoxes implicites dans
la Krisis. Nous nous centrerons sur deux articles rassemblés dans À l’école de la
phénoménologie : « Husserl et le sens de l’histoire »2, écrit par Ricœur à la lumière de la
lecture des manuscrits encore inédits de la Krisis, et « L’originaire et la question-enretour dans la Krisis de Husserl »3, dédié « au fondateur des études husserliennes en
France »4, selon Ricœur : Emmanuel Levinas.
Nous présenterons la lecture de Ricœur autour de trois concepts paradoxaux : a) le
« souci de l’histoire », présenté dans la dernière phase de la pensée husserlienne où la
tâche de la phénoménologie génétique signifie une révision profonde de « l’idéalisme
E Husserl, La Crise des sciences européennes et la phénoménologie transcendantale, trad. G. Granel,
Paris, Gallimard, 1976.
2 P. Ricœur, « Husserl et le sens de l’histoire », À l’école de la phénoménologie, Paris, Vrin, coll.
« Bibliothèque de l’histoire de la philosophie », 1986, pp. 21-57.
3 P. Ricœur, « L’originaire et la question-en-retour dans la Krisis de Husserl », À l’école de la
phénoménologie, Paris, Vrin, coll. « Bibliothèque de l’histoire de la philosophie », 1986, pp. 285-295.
4 Ibid., p. 287.
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transcendantal »5, à propos de la possibilité d’une « phénoménologie de l’histoire »
opposée à la répugnance de la phénoménologie transcendantale pour les considérations
historiques, ainsi qu’à propos du concept de l’histoire comme flux d’événements et
comme avènement ; b) la Rückfrage, en ce qui concerne le caractère indirect de la
méthode, « en dépit du fait qu’elle est orientée vers ce qui est le plus ultime, le plus
originaire, le plus authentique » 6, et c) la Lebenswelt, quant à sa fonction
épistémologique, par rapport à « la scientificité du pré-scientifique ».
Notre chemin interprétatif sera éclairé par la recherche des réponses à deux questions :
en premier lieu, sur la spécificité de l’interprétation de Ricœur de la Krisis de Husserl ;
et, en deuxième lieu, sur l’interprétation de la conception que Ricœur lui-même a eu de
la phénoménologie. Il est commun d’interpréter le projet de la phénoménologie
husserlienne à partir des discontinuités entre un premier moment pré-transcendantal qui
aurait lieu dans les Recherches Logiques ; un deuxième moment transcendantal
fortement critiqué à cause de la primauté d’un « idéalisme subjectiviste », à partir de la
lecture des Ideen et des Méditations cartésiennes ; et un troisième moment auquel
appartient la phénoménologie de la Krisis. Corrélativement à cette interprétation,
mutatis mutandis, la conception que Ricœur a eu de la phénoménologie a été
malheureusement interprétée comme celle qui trouverait des discontinuités entre une
certaine conception idéaliste et une conception proprement herméneutique.
Nos réponses, ayant comme point de départ l’explicitation de paradoxes de la lecture
ricœurienne de la Krisis, demeurent, ainsi, dans la ligne d’une revendication de
l’importance de la période transcendantale de la phénoménologie de Husserl. Nous
insisterons ainsi sur la richesse de l’interprétation de Ricœur sur la Krisis comme un
apport aux interprétations de l’école de la phénoménologie française, en soulignant ce
que Ricœur nomme « l’unité d’intention de la phénoménologie husserlienne »7.
Finalement, nous montrerons que la lecture de Ricœur de la Krisis lui a donné des
éléments interprétatifs importants pour sa propre philosophie, ceux qui ont rendu
possible que le philosophe puisse toujours se maintenir dans une phénoménologie,
même herméneutique, jusqu’à la fin de son œuvre, et continuer de penser « la crise du
sens ».
Carlo Alberto Augieri
Simile, dissimile, differente; contraddizione logica, senso improprio ed impertinenza
semantica: Ricœur e la retorica del “vedere come” o del significare evocativo
Pensare con Ricœur l’altrimenti dell’esistere (e dell’essere) è fare i conti con il senso,
con l’attività del significare, problema non solo filosofico, ma retorico, linguistico,
semantico, poetico-narrativo, dunque anche letterario.
‘In principio’ non è la lingua della linguistica (strutturalistica e/o semiologica), ma la
parola di una semantica fenomenologica ed enunciativa, che ha nel soggetto parlante il
protagonista di un nuovo significare ed interpretare; che trova nella polisemia la
potenzialità di significare altrimenti, di conoscere e riconoscersi diversamente.
Cf. P. Ricœur, À l’école de la phénoménologie, p. 19.
P. Ricœur, « L’originaire et la question-en-retour dans la Krisis de Husserl », p, 288.
7 P. Ricœur, À l’école de la phénoménologie, p. 145.
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Dalla polisemia semantica dei lessemi in discorso si formano ‘sorgenti di senso’, quali i
simboli; oppure possibilità di intravedere nuove analogie e relazioni di somiglianza con
l’apporto metaforico del pensiero ‘parlante’: entro cui le cose differenti vengono ad
interagire per creare una nuova logica del rassomigliare, non sostituente, ma dell’essere
simile in forma ‘tensiva’ e pure ‘estraniante’.
Diversità dell’esistere non significa abitare in un altrove differente, ma riconoscere
l’affine in cose che prima del nostro parlare creativo ci sembravano estranee, tanto da
riconoscerle appena come straniere.
Annie Barthélémy
Le lien social en tension entre justice et sollicitude : l'horizon politique de la
sollicitude chez Ricœur et de la pitié chez Rousseau.
En cette année où l'on célèbre le tricentenaire de la naissance de Jean-Jacques Rousseau,
cette communication se propose de confronter la pensée de Ricœur sur la sollicitude à
l'égard des proches et les relations juridiques fondées sur l'universalité de la norme avec
la fonction de la pitié dans la philosophie sociale et politique de Rousseau. Ce
rapprochement n'est pas seulement le fruit de circonstances commémoratives, car il y a
des affinités entre l'anthropologie rousseauiste et celle de Ricœur en ce qu'elles
soulignent la fragilité de l'homme souffrant, en ce qu'elles articulent étroitement relation
à soi et relation à l'autre et en ce qu'elles sont animées d'une même conviction sur la
dimension originelle de la propension au bien.
La confrontation entre les deux auteurs peut nourrir utilement la réflexion sur lien
social, au cœur de nombreux débats sur la crise. Ces deux philosophies s'interrogent en
effet sur la spécificité du lien politique au regard des relations intersubjectives et des
rapports que les hommes nouent entre eux sous la pression de la nécessité. Comment
ces deux auteurs, en partant de prémisses différentes, traitent-ils des rapports entre les
relations intersubjectives et les relations civiques contractuelles ? Nous aborderons cette
question en posant une problématique à double versant: le lien civique peut-il s'inscrire
dans la simple continuité du souci de l'autre ? Les relations de sollicitude ou de pitié
peuvent-elles s'étendre au-delà de la sphère des proches ?
Nous inspirant de ce qu' Olivier Abel nomme la "philosophie du proche"8 chez Ricœur
et de ce que Paul Audi appelle "l'universalisation de la compassion" à laquelle participe
la philosophie de Rousseau"9, nous explorerons les tensions entre sentiment et raison,
entre charité et justice dans les gestes de sollicitude et de pitié. La lecture croisée des
textes de Ricœur et de Rousseau, entreprise dans un souci de comprendre
philosophiquement les implications anthropologiques et politiques de la compassion,
peut renouveler la manière de penser ces tensions voire de les réévaluer. L'analyse, qui
invite à repenser les fondements du lien civique, rejoint les débats contemporains sur les
droits des personnes en situation de précarité et sur les conflits entre éthique du care et
éthique de la justice.
8
9
O. Abel, La philosophie du proche, Esprit, n°33 (2008), pp. 109-118.
P. Audi, D'une compassion à l'autre in Revue du Mauss, n°31 (2008), pp. 190-194.
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Cătălin Bobb
Attestation of the Self: Philosophical Boundaries
In Soi même come un autre Ricœur utters a very bare truth: we found ourselves in the
peculiar position in which in order to understand ourselves we cannot appeal neither to
a foundational cogito neither to a multiple cogito. The foundational cogito is atemporal
and the multiple cogito is afoundational; a middle position is required: “hermeneutics of
the self takes an epistemological place, even an ontological one, situated beyond this
double alternative – cogito and anti-cogito”. Thus, the solution needed is to be found in
the concept of attestation: „Attestation defines, in our eyes, the sort of certitude that
hermeneutics requires, not only in regard to the epistemic exaltation of the Cogito as we
can find it in Descartes, but in regard to the humiliation of the Cogito as we can find it
in Nietzsche and his successors”. Thus, in my talk, my primary intention is to address
the problem of attestation in Ricœur’s philosophy in order to find the mere
philosophical limits of such a concept; that is to say, the mere philosophical limits of a
concept that can easily be regarded as a theological one. But, beyond my primary
intention, I want to address a second question: how can we conceive the self in
nowadays: as a subject that “acts and suffers” and by his acts and miseries attests
himself, or as a subject as a product of a series of operation in a “transcendental field”
(Deleuze). Thus, my second intention is to see how can we conceive “the self” in the
current global situation (postmodern, global and multicultural world), appealing to
Ricœur or Deleuze? Or, perhaps, appealing to both of them.
Vereno Brugiatelli
Paul Ricœur e Amartya Sen su facoltà di agire e giustizia sociale
In un passaggio di particolare rilevanza teoretica dell’opera Parcours de la
reconnaissance (2004), Paul Ricœur si richiama esplicitamente all’idea di capacità
sociale elaborata dall’economista A.K. Sen. Questo incontro si situa nel contesto in cui
al filosofo francese si impone la necessità di passare dalla considerazione delle forme
individuali di capacità a quelle forme sociali di capacità che risultano di massima
importanza per sostenere il passaggio dal riconoscimento di sé al mutuo
riconoscimento.
Con la presa in esame delle capacità sul piano sociale e collettivo, il concetto di
capacità riceve un ulteriore ampliamento e le modalità di riconoscimento subiscono una
profonda trasformazione. Si passa infatti dall’attestazione-riconoscimento di certe
capacità che un individuo fa a se stesso al riconoscimento di capacità sociali nel
contesto dello spazio pubblico e giuridico. Ricœur considera la relazione concettuale
che Sen stabilisce tra diritti (rights) e capabilità (capabilities), come «la forma più
elaborata di capacità sociale». Secondo quest’ottica, essa risulta di notevole importanza
poiché consente di approfondire ulteriormente l’antropologia filosofica di Ricœur e
richiama direttamente il problema della giustizia sociale.
Ricœur da filosofo e Sen da economista, mettono in evidenza i motivi conflittuali che
sono al fondo del riconoscimento dei diritti e delle capacità umane. Su questo piano essi
condividono un comune punto di riferimento etico: quello dato dallo sforzo che ogni
uomo compie per realizzare la propria idea di «vita buona». Per entrambi il
riconoscimento delle capacità sociali, insieme a quello dei diritti civili e politici, risulta
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fondamentale nella realizzazione etica di se stessi e contribuisce alla costruzione
responsabile di una comunità umana retta dall’idea di giustizia sociale.
Nella presente trattazione, mi propongo di mostrare che i due pensatori, su rilevanti
tematiche come riconoscimento delle capacità, libertà, responsabilità, giustizia sociale,
elaborano concezioni che si richiamano a vicenda, tanto da rendere possibile una
relazione sinergica tra le loro prospettive. Seguendo queste linee guida e facendo
incrociare il percorso ricœuriano sulle capacità con quello di Sen riguardante le
capabilità, cercherò di far emergere, da un lato il fondamento etico dei diritti e della
giustizia; dall’altro, un concetto di giustizia sociale elaborato alla luce delle lotte che gli
uomini conducono per realizzare modalità etiche di superamento dei conflitti.
Vinicio Busacchi
Conflitto e crisi nella filosofia di Paul Ricœur
Le due nozioni di conflitto e crisi marcano considerevolmente il discorso filosofico
moderno e contemporaneo. L'opera di Paul Ricœur lo riflette in modo emblematico. Ciò
non lo si deve tanto alle dimensioni di quest'opera (propriamente colossali) ed agli
ampi e vari itinerari interni, quanto alla conseguenza dello specialismo interdisciplinare
e della metodologia dell'ermeneutica critica [id est, il suo procedimento] sul senso e
l'impiego filosofico, ed extra-filosofico, di questi concetti di crisi e conflitto.
In questo contributo, l'autore, da un lato focalizza le sue analisi sul ruolo che tali nozioni
svolgono nel contesto del pensiero ricœuriano (sia dal punto di vista del prospetto
filosofico generale, sia in relazione alle analisi sviluppate in contributi “a tema”), da un
altro lato esamina l'effetto di rideterminazione e ridefinizione che questo pensiero
fenomenologico e critico ha prodotto su tali concetti e sulle pratiche ad essi collegate.
Tre sono gli assi discorsivi e [inter-]disciplinari entro la cui intersezione si sviluppa,
secondo l'autore, la filosofia ricœuriana della crisi e del conflitto. Un primo asse è
disposto tra il polo tematico dell'identità ed il polo del riconoscimento – entro tale asse
si definisce in linea dominante un'antropologia filosofica (quella dell'homme capable,
nella declinazione finale del Parcours de la reconnaissance) –, un secondo asse si
dispone tra il polo tematico della coscienza e quello della memoria – entro cui è in opera
[su più fronti disciplinari, secondo gradi distinti di discorso] l'ermeneutica critica – un
terzo asse si colloca tematicamente tra filosofia della storia e critica della modernità – in
esso è prospettata una filosofia politico-pratica dell'azione.
Lo studio, che tiene conto del nesso dialettico-tensionale di tali assi discorsivi e dei
rispettivi poli tematici, si sviluppa secondo l'ordine di questa disposizione tentando di
ricalibrare la polisemia delle nozioni di conflitto e crisi sulla prospettiva aperta dalle
indagini e dalle riflessioni di Paul Ricœur. L'esito che si profila nelle battute conclusive
è quello di una polisemia al crocevia tra differenti saperi, differenti teorie, differenti
pratiche. Al di là della filosofia, ovvero dove più lontano giunge la risposta ricœuriana a
queste domande: Cosa / come / perché il conflitto? Cosa / come / perché la crisi?
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Davide Caliaro
Crisi e forma-di-vita.Un paradigma teologico politico
L’oggetto del paper che propongo è la nozione di crisi. La questione di fondo è
rappresentata dall’interrogativo circa la pregnanza ermeneutica di tale nozione per la
comprensione della contemporaneità. Al fine di giungere ad una risposta, la struttura
dell’intervento prevede: 1. una breve indicazione circa il carattere irriducibile della
nozione di crisi per la tradizione occidentale, 2. la definizione del paradigma teologico
della nozione di crisi e del nesso crisi-fine, 3. la definizione nel passaggio fine
imminente-fine immanente come cifra del nostro tempo (Ricœur); 4. l’interrogazione
circa le implicazioni politiche di questo passaggio (Benjamin) e la definizione di tali
implicazioni sotto la nozione di forma-di-vita.
I risultati attesi da questa interrogazione della nozione di crisi consistono nella
definizione di un nesso tra tempo della crisi, inteso come transizione senza fine, ed il
mutamento contemporaneo del paradigma del politico.
La nozione di crisi rappresenta, con buona approssimazione, un campione delle
stratificazioni culturali che segnano la tradizione occidentale. Essa nasce, infatti, in
Grecia, dove il termine – derivato da krino (separare, scegliere, decidere) – stava ad
indicare una decisione definitiva, irrevocabile. Questa assume una coloritura teologica
nel passaggio al mondo cristiano-latino, dove crisis è da intendersi innanzitutto al fianco
di judicium come giudizio di Dio, sia esso il giudizio finale o quello già presente nella
vita dei fedeli grazie all’incarnazione del Cristo. La tradizione apocalittica giudaica si
incontra dunque, attraverso il cristianesimo, con il pensiero greco, sino ad una
comprensione della nozione di crisi come necessità di decidere e di agire sotto
l’incalzare di un tempo che – escatologicamente – stringe. Tale nozione subirà poi, a
partire dal Seicento e in maniera decisiva nel Settecento, una ridefinizione nell’ambito
della storia della filosofia. Crisi si trasforma in concetto storico-filosofico che si pone
come criterio per l’interpretazione del corso storico passato e futuro a partire dalla
criticità del presente.
Comune a queste accezioni della crisi è l’idea di fine. La crisi è sempre interpretata
come fine di uno stato di cose e, dialetticamente, come presupposto per un nuovo inizio.
Modellata sul paradigma teologico dell’Apocalisse giovannea (Kermode 1966; Ricœur
1984), la fine rappresenta, al contempo, la condizione di possibilità per l’individuazione
di un senso, sia esso storico-collettivo o esistenziale-singolare. La fine sarebbe, in altre
parole, l’orizzonte all’interno del quale trova spazio, per la tradizione occidentale,
l’esperienza del senso.
Rispetto alla comprensione della crisi come fine, decisiva è la precisazione che si può
leggere nel secondo volume dell’opera Tempo e Racconto di Paul Ricœur. Caratteristica
della cultura e della letteratura contemporanea sarebbe, infatti, lo spostamento della fine
da imminente a immanente. La crisi, intesa come transizione senza fine, viene a
sostituire la fine, inaugurando un tempo spettrale nel quale nulla può realmente
accadere. Nel passaggio dall’imminenza all’immanenza si trova implicata una radicale
messa in discussione della dialettica fine-senso. Se, all’interno di questa, la crisi è
l’eccezione funzionale alla definizione di un senso, la crisi come transizione senza fine
interrompe tale rapporto dialettico, esponendo piuttosto la sospensione del senso come
cifra della condizione contemporanea.
Come pensare allora questa condizione nelle sue implicazioni politiche?
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Chi ha pensato politicamente la crisi come transizione è stato, nel Novecento, Walter
Benjamin. La categoria portante è, per lui, quella di eccezione. Riprendendo
l’indicazione schmittiana per cui l’eccezione è ciò di cui vive la norma (e con essa
l’ordine e il senso), Benjamin ne propone un totale rovesciamento: non solo l’eccezione
fonda la norma ma – e questa è la cifra del nostro tempo – norma ed eccezione sono
ormai indistinguibili. Lo stato di eccezione è divenuto la regola (Benjamin 1974).
La conseguenza politica di questa crisi permanente e spettrale è una modificazione dello
stesso potere: la legge si trova ricollocata in uno spazio di indeterminazione rispetto alla
vita. Nel tempo della crisi, ovvero nel tempo indefinitamente disteso dell’eccezione, la
legge smette le figure del comando e del divieto per farsi onnipervasiva forma-di-vita.
In questo senso, l’analisi benjaminiana e quella ricœuriana sembrano trovare una
conferma nella situazione contemporanea. In questa, infatti, non solo la crisi si lascia
pensare come virtualmente sempre in atto, ma ad essa corrisponde un radicale
spostamento del baricentro del potere, che si esercita sempre più attraverso la
definizione microfisica di comportamenti, desideri e paure ai quali, solo in funzione
subordinata, fa seguito la vigenza della legge.
Daniele Cananzi
L’ermeneutica dell’azione sensata. Ricœur e il mondo come testo
Le considerazioni che intendo svolgere nel mio intervento attengono ad un aspetto che
ritengo centrale del pensiero ricœuriano e che evidenzia il particolare e originale modo
di pensare del filosofo francese: la sua ermeneutica. Un tema che propongo perché mi
appare di assoluta attualità rispetto al dibattito filosofico in corso non solo nel nostro
paese ma a livello internazionale.
Partirò proprio dall’ambientazione nel momento presente e risalirò poi all’originalità
della riflessione ricoeuriana.
In questo momento è infatti molto acceso il dibattito sul nuovo realismo che si propone
quale superamento dell’idea postmoderna. Ad una ermeneutica a vocazione nichilista –
come appunto quella prevalente nel novecento – che trova le proprie radici spesso
caotiche e contraddittorie nella riflessione di autori quali Rorty e Derrida, Foucault e
Heidegger, Gadamer e Lyotard, ponente e ipotizzante una ontologia della verità
divenuta favola attraverso il superamento dei grandi racconti, si vorrebbe oggi (si può
pensare a Ferraris o a Eco) far prevalere una forma di nuova ontologia per la quale la
realtà si riconosce emancipata dalla volontà e si presenta quale nocciolo duro
inemendabile, ostacolo ad una volontà di potenza logocentrica perché egocentrica.
A ben vedere se il postmoderno è da superare non è possibile non meditare attentamente
almeno alcuni passaggi di questa nuova ontologia del reale che lo vorrebbe sostituire.
Proprio per fare questo mi appare molto rilevante l’itinerario di Ricœur che non solo
elabora una ermeneutica altra rispetto a quella postmoderna e novecentesca attraverso il
costante confronto tra analitici e continentali ma che proprio grazie a questo confronto
evita criticamente tanto il testualismo forte di Derrida e Gadamer, quanto l’ontologismo
dalla via breve che in fondo avvicina – per certi versi, almeno negli esiti – il sentiero
heideggeriano e il nuovo realismo.
Punti qualificanti di questo itinerario originale sono:
- il testo come racconto;
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- il racconto come azione;
- l’ontologia interrogante del se stesso.
Nel mio intervento intendo concentrarmi su alcuni di questi aspetti collegati in
quell’insieme che mi appare costituire l’unicum del percorso ermeneutico ricœuriano e
il suo nucleo più intenso. Basti ricordare come su questa “via lunga” possono essere
rintracciati tutti i lavori che dagli studi sul volontario e l’involontario portano ai percorsi
del riconoscimento passando dalla metafora e dal racconto, dalla memoria e dalla storia,
dal soggetto di diritto e dall’uomo capace, vivo fino alla morte.
Quella di Ricœur rappresenta forse la risposta ermeneutica alla realtà contemporanea? È
questa la domanda che vorrei propormi di affrontare e che permette sia in ambito di
ermeneutica generale, sia dall’ottica dell’ermeneutica giuridica di evidenziare alcuni
snodi teoretici essenziali.
La traccia così delineata non intende naturalmente programmare la messa in discussione
dell’intero percorso ricœuriano ma solo evidenziare le ragioni per le quali il piccolo
ambito che intendo trattare mi appare di interesse.
Marco Castagna
L’utopia della lettura. Indicazioni per un’ermeneutica (ricœuriana) del presente
L’intervento individua nella lettura – così come essa si configura nell’evoluzione
dell’ermeneutica ricœuriana e con particolare riferimento al rapporto con il
pragmatismo semiotico peirciano – il momento paradigmatico della “scelta” che, da un
lato, definisce la ragione ermeneutica come pensiero critico, e dall’altro, colloca la
dialettica ideologia\utopia a fondamento dell’originale superamento ricœuriano del
concetto di conflitto in quello di riconoscimento.
In relazione alla dialettica di divisione “interno\esterno”, il fenomeno della lettura si
costituisce come esperienza di un luogo di confine. Il posto del lettore, infatti, non è qui
o là, uno o l'altro, ma né l'uno né l'altro, altrove, simultaneamente all'interno e
all'esterno. Dissolvendo e mescolando insieme entrambi, leggere è un esercizio utopico
di ubiquità. In altre parole, si tratta di mettere in discussione l’idea che in un testo –
ovvero in qualsiasi configurazione narrativa – si “entra”; piuttosto, ogni testo è tale solo
quando sia significativamente percorso, ovvero offerto alla contingenza della scelta
etica dell’interpretazione.
Nell’atto di lettura è, dunque, possibile osservare la messa in opera della ragione
ermeneutica. In essa, il continuo richiamo alla scelta riconfigura il rapporto conoscitivo
soggetto\oggetto come labirinto che continuamente costruendo rispetto al quale perciò
si è sempre “dentro” (il lettore è la raffigurazione emblematica dell’impossibilità per il
soggetto di collocarsi “fuori” ovvero della possibilità di un rapporto conoscitivo
“esterno-interno”).
Collocato nel quadro dell’argomentazione e dell’intelligenza narrativa, l’atto di lettura
non solo “svela” l’eticità di ogni atto interpretativo (evidente nell’attestazione
dell’illegibile) ma diviene paradigmatico delle dinamiche di relazione tra strutture
ideologiche e richieste utopiche nelle relazioni sociali (politiche o culturali), o, in altri
termini, delle dinamiche di riconoscimento intersoggettivo. Il rapporto tra il lettore e il
testo non è, forse, il modo in cui ogni soggetto – individuale o collettivo – cerca di
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collocare la propria singolarità all’interno di un ordine simbolico più ampio? O, in altri
termini, di intrecciare la propria esperienza narrativa con le più ampie narrative sociali?
Alla stregua della lettura, l’utopia è al tempo stesso antagonista e consensuale:
antagonista nell’iniziale asimmetria della posizione dell’individuo; consensuale nella
successiva ricerca di un quadro normativo che consenta il riconoscimento. Emerge, in
tal modo, l’importanza della forma utopica, che è l’unica possibilità di immaginare la
narrazione sociale (politica) altrimenti.
In più, Ricœur evidenza spesso il legame tra immaginazione utopica, innovazione
semantica e azione: la pratica dell’utopia – come quella della lettura – necessita di un
testo che sia semanticamente “aperto” a letture sempre ulteriori, e di lettori che siano in
grado di agirlo “altrimenti”.
Cosa succede, allora, quando il lessico etico-politico si impoverisce in favore della
comunicazione economico-amministrativa? Quando la popolazione che non rientra nelle
élites economiche, politiche o amministrative, non dispone più di un lessico attraverso
cui autorappresentarsi? È possibile parlare, oggi, di un’ideologia della crisi? Abbiamo
gli strumenti per una lettura utopica del presente?
In accordo con la dimensione internazionale del convegno, l’intervento sarà presentato
in lingua italiana, ma corredato da una versione scritta in lingua inglese.
Chiara Castiglioni
Il concetto di riconoscimento in Paul Ricœur. Verso un’etica dell’ospitalità e della
gratitudine/reconnaissance
Il concetto di riconoscimento, di eredità hegeliana, rappresenta un tema centrale in Paul
Ricœur e non soltanto nella sua ultima opera, Percorsi del riconoscimento (2004), ma
nell’arco dell’intero percorso filosofico dell’autore dai primi anni fino agli ultimi, come
ho tentato di mostrare in Tra estraneità e riconoscimento. Il sé e l’altro in Paul
Ricœur10.
10
C. Castiglioni, Tra estraneità e riconoscimento. Il sé e l’altro in Paul Ricœur, Mimesis, Milano 2012
(in corso di pubblicazione). Il libro, che costituisce una rielaborazione della tesi di dottorato di ricerca in
filosofia, mostra attraverso l’esplorazione della vasta produzione di Ricœur – dai primi scritti raccolti
negli anni ’50 in À l’école de la phénoménologie, a Il volontario e l’involontario (1950) e Finitudine e
colpa 1. L’uomo fallibile (1960), Dell’interpretazione, saggio su Freud (1965), Il Conflitto delle
interpretazioni (1969), fino ai più recenti Tempo e racconto I, II, III (1983/’84/’85), Sé come un altro
(1990) e i vari testi riguardanti la giustizia, Il Giusto (1995) e Il Giusto II (2001), Il giusto, la giustizia e i
suoi fallimenti (2004), Amore e giustizia (1990), Ricordare, dimenticare, perdonare (1998) e La
memoria, la storia, l’oblio (2000) fino ad arrivare a Percorsi del riconoscimento (2004) – come il tema
del riconoscimento, dapprima in forme più latenti e poi sempre più esplicite, rappresenti una sorta di filo
conduttore costante nel percorso filosofico dell’autore e un’efficace prospettiva da cui ricostruire una
lettura integrale della sua concezione del soggetto (e dell’intersoggettività), che ne mette in evidenza
l’evoluzione e ne testimonia l’unità nel corso del tempo. In questa rilettura emerge anche l’importanza
dell’eredità del pensiero di Hegel in Ricœur (seppure nella rinuncia al sapere assoluto nella prospettiva
ermeneutica), in particolare per quanto riguarda il concetto di riconoscimento e di dialettica (applicato
all’agire umano). Ricœur in Percorsi del riconoscimento riprende in particolare lo Hegel del periodo
jenese letto e riattualizzato attraverso la mediazione di Axel Honneth (Lotta per il riconoscimento.
Proposte per un’etica del conflitto).
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In questo contesto può essere interessante focalizzare l’attenzione su come il tema del
riconoscimento in Ricœur diventi anche rappresentativo di uno stile di pensiero e di
azione, che potremmo definire “tensionale” (costruito sulla incessante e imprescindibile
dialettica sé-altro) e al tempo stesso non-violento, a partire dal quale è possibile
costruire un’etica fondata sul rispetto reciproco sé-altro e sull’accoglienza di ogni forma
di estraneità (culturale, religiosa, politica ecc.) considerata in prospettiva ermeneutica
nella sua intima e costitutiva relazione al proprio, al familiare.
L’ermeneutica del sé (Sé come un altro), è il prodotto di una continua mediazione
dialettica sé-altro, proprio-estraneo, operata dal «movimento del riconoscere» e
costituisce in questo senso il modello teoretico su cui è possibile fondare un’etica
universale di ispirazione kantiana e aristotelica (l’idea di giusto “in situazione” quale
ripresa del concetto di prhonesis), i cui punti di partenza sono proprio il conflitto e la
crisi, intesi quali strutture costitutive del soggetto umano, che esiste nella forma
dell’ipseità, ossia nella perenne non-coincidenza con se stesso e in continuo rapporto
(dialettico) con l’alterità, in ogni sua forma, esterna e interna al soggetto (la coscienza,
l’inconscio, il corpo, gli altri, il linguaggio, la società ecc.).
Per Ricœur, dunque, la dissimmetria sé-altro è originaria e costitutiva del modo di
esistere soggettivo e rappresenta al tempo stesso la condizione essenziale del processo
del riconoscimento. I temi del decentramento e della dissimmetria sono sempre
accompagnati da alcuni concetti-chiave ad essi strettamente correlati, quali in
particolare quelli di «prossimità», di «distanza» e di «estraneità». Sono concetti relativi
e dinamici, che connotano a diversi livelli la relazione sé-altro come dialettica
incessante tra estraneità e riconoscimento.
In particolare la lettura che qui si propone mette in evidenza la centralità del concetto
ricœuriano di «giusta distanza» (declinato nei diversi temi della giusta memoria o
«memoria pacificata», del giusto amore di sé e degli altri, della giustizia, della
traduzione, dell’etica ecc.), che sembra esprimere in modo illuminante il nucleo
essenziale del concetto di riconoscimento in Ricœur.
In particolare l’ultimo Ricœur individua nei fenomeni del dono e della traduzione due
emblemi per eccellenza del mutuo riconoscimento, pilastri per la costruzione di
un’«etica dell’ospitalità e della gratitudine/reconnaissance» di estrema attualità per la
filosofia pratica e politica contemporanea.
Sulla dissimmetria originaria sé-altro (a causa della quale permane sempre un residuo di
estraneità insuperabile) si costruisce il processo del riconoscimento la cui finalità non è
assolutamente la fusionalità proprio-estraneo, ma il riconoscimento mutuale delle
differenze nella «giusta distanza» tra il sé e l’altro, come emblematicamente mostrano
l’esempio del dono (si ama l’altro in quanto altro) e della traduzione (nell’impossibilità
della traduzione perfetta).
All’interno di questo paradigma di pensiero - che Ricœur elabora riprendendo Axel
Honneth (Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto) e Hegel - il
conflitto (proprio nel senso del concetto hegeliano di “negazione” come motore della
dialettica), assume una valenza positiva ed essenziale: è proprio dal misconoscimento,
infatti, che nasce l’indignazione (di cui l’autore rivendica l’estremo valore) quale forza
generatrice della lotta per il riconoscimento delle identità e dei diritti negati, che
provoca l’evoluzione delle società.
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Marco Casucci
Il tema del riconoscimento in Paul Ricœur come figura del senso della storia
Il presente intervento intende indagare il tema dialettico del rapporto tra uno e
molteplice in Paul Ricœur a partire dalla questione del riconoscimento come “figura del
senso della storia”. Questa espressione, che volutamente si richiama ad Hegel, vuole
mettere in evidenza la questione del conflitto presentata nell’ultima opera del pensatore
francese Percorsi del riconoscimento in una prospettiva ermeneutica che,
confrontandosi con la dimensione speculativo-dialettica del pensiero hegeliano, sia in
grado di riconnettere il tema suddetto con la questione del senso della storia che ha
sempre animato la filosofia di Ricœur. Ad una più attenta lettura della questione
nell’orbita dell’insieme dell’opera ricœuriana si può ben comprendere come il tema del
riconoscimento rappresenti un “momento” di quella riflessione più ampia circa il senso
di orientamento del pensare in una dimensione di storicità che sempre ha interessato
Ricœur in relazione al tema della negatività e del conflitto, a partire dalle sue prime
considerazioni sull’“uomo fallibile” e sulla “simbolica del male”. In analogia con
quanto è possibile riscontrare nella filosofia di Hegel, tenendo comunque conto delle
distanze critiche prese da Ricœur rispetto al pensatore di Stoccarda, il tema del
riconoscimento e le problematiche ad esso connesse non possono essere letti come un
che di autonomo e sganciato dal “sistema”, ovvero dall’orizzonte complessivo di
indagine in cui è maturata la riflessione ricœuriana, ma rappresentano un momento
“figurale” che mostra la complessità delle connessioni che emergono nell’opera del
pensatore francese. In questo senso si vuole qui cercare di chiarire questa connessione
profonda inerente la questione del riconoscimento con la domanda filosofica
fondamentale che orienta il questionare ricœuriano e tutto il suo orizzonte ermeneutico.
Il riconoscimento, infatti, pone la questione del senso della storia nel momento in cui,
aprendosi alla sfera del dono e alla relazione con il sacro e la trascendenza a partire
dalla scoperta degli “stati di pace” pone il problema essenziale del rapporto che tali
situazioni “eccezionali” nel corso della storia, dominata dalla lotta, hanno con il
divenire del conflitto e la sua sospensione, seppur momentanea. Proprio per questo si
vuole tentare di rivalutare il termine hegeliano di “figura” in una chiave ermeneutica al
fine di mostrare come, nonostante tutte le distinzioni da fare nel caso, alla fine la
questione che rimane ad interrogare la riflessione filosofica sia sempre, in principio
come ora, quella del rapporto tra tempo ed eternità, tra molteplice ed unità, cui il tema
ricœuriano del riconoscimento di per se stesso allude nel suo offrire alla riflessione il
divenire dialettico del conflitto e il suo oltrepassamento come condizione ineliminabile
della sua leggibilità ermeneutica. La storia dominata dalla negatività dei conflitti e
costellata di “stati di pace” diviene così luogo figurale del manifestarsi della verità che
la trascende, abitandola.
Ming Yeung Cheung
Ricœur and the Recontextualization of Liberation Theology in Global Crisis
In this paper I try to answer the question what is the appropriate Christian response to
the recent crisis in the First World with reference to liberation theology, developed by
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Christians who wanted to respond to the crisis in Latin America in the 1970s and 1980s
out of the concern for socio-economic justice for the poor.
This paper will focus on two ideas of Ricœur’s thinking. First, based on Ricœur’s idea
of “initiative,” I would like to look at the recent crisis from the perspective of the
tension between “space of experience” and “horizon of expectation”, therefore seeing
the current moment a time for creative and responsible action. As a result of the recent
crisis in the First World, the problem of poverty and the concern for social justice are
not limited to the Third World. In this sense, liberation theology is a rich resource for
Christians in the First World.
Second, in his discussion of the relation between ethics and politics, Ricœur identifies
the distinctions and intersections between economy, ethics and politics. Any Christian
response to the economic crisis should pay attention to the ethical and political aspects
of the crisis — both the intersections of these realms and their distinctions. An analysis
of their intersections help us to see how the economic crisis is linked to ethical issues
and demands a political response. However, their distinctions must also be respected.
Once relied heavily on Marxist social analysis, liberation theology is suffering from a
loss of credibility after the collapse of socialism in Eastern Europe. I will argue that
Ricœur’s critique of Marxists’ conflation of the political and the economic realm may
help liberation theology to revise its theoretical base in order to re-imagine its political
praxis in the new context of global economic crisis.
In my conclusions I will turn to the contribution of a Ricœurian analysis of crisis to the
recontextualization of liberation theology in the First World, and to its transformation
into a globalized struggle for justice. The development of a liberation theology for the
First World has important implication for our globalized age. When a regional crisis can
easily become a global crisis, effective responses must also be organized as a global
network.
Chiara Chinello
Crisi e conflitto come paradigmi costitutivi dell’identità
Nella mia relazione vorrei mostrare la prolificità dell’indagine sui paradigmi di crisi e
conflitto applicati da Paul Ricoeur al problema dell’identità, qualora li si utilizzi per
analizzare un tema di stretta attualità quale quello delle radici costitutive dell’Europa,
soprattutto in relazione ai continui e imponenti flussi migratori che la vedono
protagonista. Il compito, quanto mai arduo, consiste nel provare a delineare un nuovo
orizzonte identitario per il vecchio continente, senza rischiare di perdere ciò che di
positivo è giunto fino a noi dal passato.
Come nel caso dell’identità personale è stato necessario, seguendo il suggerimento di
Ricoeur, abbandonare l’illusione di un Cogito autofondato per raggiungere la ricchezza
di un sé che nella storia della sua vita potesse riconoscersi e riconoscere l’altro, così
anche al livello dell’identità comunitaria del nostro continente si pone la sfida di
mantenere la continuità della propria tradizione, aprendosi però al confronto con l’altro,
alla scrittura di nuove storie, ad altri modi di narrarci. L’obiettivo è quello di giungere
all’integrazione dei valori eterogenei di cui sono portatrici le diverse comunità per
rendere ancora possibile il progetto di un avvenire, la costruzione utopica di quello che
Koselleck definisce orizzonte d’attesa.
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Una prima sezione del mio intervento verterà sull’analisi dei meccanismi dell’ideologia
e dell’utopia quali strumenti di quel gioco tra sedimentazione e innovazione costitutivo
della coscienza storica di un popolo. Si cercherà anche di mostrare come l’elaborazione
del patrimonio culturale europeo abbia contribuito a rendere l’identità dell’Europa un
mosaico formato da elementi diversissimi e a volte difficilmente conciliabili, ma che
hanno trovato un orizzonte che è riuscito a contenerli, anche grazie alla replica che
hanno offerto loro i racconti che formano la nostra tradizione.
A venirci in aiuto in tale impresa sarà la disamina di uno dei testi capitali che hanno
contribuito a formare la coscienza europea: la trilogia di Edipo. L’analisi che ne faremo
nella seconda parte dell’intervento sarà finalizzata, infatti, a mostrare come la tragedia
di Sofocle possa essere presa quale paradigma dell’elaborazione di un orizzonte politico
attraverso momenti di crisi dell’identità collettiva e attraverso il conflitto delle
interpretazioni sulla natura della polis. Questo studio ci permetterà anche di verificare la
validità della tesi ricoeuriana secondo la quale la replica poetica è in grado di rispondere
alle aporie che segnano la costituzione dell’identità.
Un’ultima sezione si occuperà di tracciare una proposta per un progetto di integrazione
possibile. Seguendo le indicazioni dello stesso Ricoeur: «il faut accéder à une
conception ouverte de la tradition. Plus exactement, il faut rouvrir le passé, et libérer sa
charge de futur. N'est-ce pas là une forme de migration dans l'inaccompli du passé?». La
sfida sarà quella di intendere la migrazione non come una minaccia al presente
dell’Europa ma come un ingrediente indispensabile alla costruzione del suo futuro.
Maria João Coelho
I Think, Therefore I Am Vulnerable! Thinking with Ricœur the Adventure of
Solicitude and Hope in Times of Crisis
In the current context of crisis we must not forget that the long Ricœurian philosophy
can offer us a unique reading on the question of human condition and meaning.
Ricœur’s analysis of the human subject examines and criticizes the philosophies of the
subject placing his hermeneutics of the “cogito wounded” in the position of mediation
between the prospect of an exalted cogito in Descartes and a humiliated one in a
Nietzschean perspective.
This communication contains in its very title a play on words that somehow strengthens
the important notion of attestation in an approach of selfhood as a power of acting in the
world, “the attestation can be defined as the assurance of being oneself acting and
suffering” (OAA, 1992: 22). To return to the question of the human subject as a single
man, from its finitude, its corporeality and its praxis, is the main objective of the
philosophy of mediation and of long standing tensions. Human weakness, frailty and
failure co-exist with human capability, power and possibility, and Ricœur’s analysis
may be constructed as a commitment to strive towards the possible in full cognizance of
its obstacles. This way emerges the anthropological and ethical horizon which is
constituted as project of «the capable man». We refer to an unfinished project, always
being made and remade, demanding the hermeneutic mediation.
Narrations open to the future and to hope by means of refiguration through which we
project ourselves. We understand the notion of narrative as the condition of a life’s
possibility. Therefore, we can legitimate our hypothesis of understanding narrative as
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mediation between phenomenology and the ethic of a «good life, with and for others, in
just institutions». This highlights the ethical character of debt, only empowered by
narrative through the transformation of the World in a “horizon of meaning”.
To recover the issue of the human subject as singular person, from its own finitude,
corporeity and praxis, is the biggest goal of the philosophy of long mediations and
permanent tensions. To make possible the understanding of the human person who
wants and wishes to exist and that, through that temporal effort to exist is capable of
discovering and asserting itself by means of its actions as a being that acts and suffers,
is the challenge presented by Ricœur which we try to embrace. These actions call for
solicitude and should help us build even more just behaviours adequate to the
uniqueness of the situations and, in this case, it should assert itself as a “critical
solicitude” that allows us to continue to learn, invent, imagine, shape the meaning of
living together in a commitment built and lived through ethical action.
Beatriz Contreras Tasso
L’éthique de l’imagination chez Paul Ricœur : Un contrepoids en face de l’exaltation
du paradigme économique.
Formulation du problème
La rationalité économique de l’ère globale a négligé la variable éthique. La sphère du
marché subordonne tous les autres biens et reduit le sens de la vie humaine à l’obtention
du bien-être monétaire. Le danger de cette exaltation fétichiste est la réduction de la
dimension créative des capacités humaines. Le manque d’exploration de nouveaux sens
éthico-politiques est manifesté de façon évidente par le mécontentement des gens face à
la crise globale. Nous nous proposons d’explorer les ressources herméneutiques de
l’éthique narrative du soi chez Paul Ricœur qui, sur la base du paradigme de l’homme
capable, feraient contrepoids aux objectifs du bien-être individuel tenant compte du
critère de la solidarité.
Questions à répondre
Nous nous demandons quelles « ressources » narratives de l’identité personnelle et
sociale pourraient resignifier la trame de l’action humaine pour restituer à la rationalité
économique ses fondements éthiques et philosophiques. Cette réflexion propose
d’examiner de façon critique les supposés valeurs implicites dans les théories qui
exacerbent le rôle de l’individu comme porteur ultime du sens de la rationalité, pour
faire un équilibre avec des valeurs inclusives de diverses formes de l’agir humain, qui
contribuent au développement d’une société démocratique moins injuste.
L’interprétation unilatérale sur le thème de l’intérêt peut être élargi avec l’aide des
concepts anthropologiques dévellopés dans la pensée ricoeurienne –les trois passions du
pouvoir, l’avoir et le valoir - illuminé par une éthique de la ipséité, basée sur l’idéal de
justice dans le contexte des institutions protectrices de relations humaines d’hospitalités.
Cette analyse approfondit les facteurs extra-économiques de la réflexion philosophique
qui humaniseraient la passion de l’avoir la rendant plus sociale en canalisant le désir par
de voies imaginatives moins superficielles. Finalement, nous essayerons d’éclairer, sous
l’égide de la pensée de Ricœur et un dialogue avec d’autres penseurs, le type
d’intersection que nous pourrions établir entre l’éthique de l’action et l’économie
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amplifiant la sémantique de la dimension « productive » de la vie à l’aide de l’étude de
capacités poétiques-pratiques inépuisables de l’homme pour affronter les conflits.
Originalité de la réponse
Mettre en dialogue la pensée de Ricœur avec les interprétations des philosophes
Amartya Sen et Martha Nussbaum sur l’idée de bien-être, la qualité de vie et sur la
connexion de l’éthique et l’économie pour répondre à la question « comment doit-on
vivre ? ». L’objectif est de réhabiliter un sens du développement humain plus ample
dans le contexte de la réflexion philosophique pour restituer à l’analyse économique une
base d’appui oubliée. Les pas spécifiques supposent un contrepoids de la notion de
qualité de vie avec la notion de la vie bonne dans le cadre des institutions de justice ; un
contrepoids de l’idée de bien-être individuel et l’idée des capacités de l’identité poéthique de soi-même ; un contrepoids entre la notion de justice au style libéral rawlsien
et le sens du juste illuminé par le bon tout en dialoguant avec les apports correctifs de la
philosophie se Sen et Nussbaum.
Elsio José Corá
Education, Life and Narrative Theory: Ricoeurianos Notes
This study aims to seek an approach between the philosophy of Paul Ricoeur (19132005) and Education. Through one analysis of narrative theory built by the French
philosopher, expounded, in the work “Time and Narrative”, attempts to find conceptual
assumptions that may contribute to the enrichment of educational processes. The focal
point of narrative theory of Ricouer is the fact that the narrative has the starting point in
life, that is, between narrative and life there are not exactly a breaking point, but before
a continuity and interdependence. The narrative part of life has its own moment, but
returns to life. In this circuit, it gives the person a better understanding of itself and its
role as a social agent existing historically in a given reality. From this, this paper aims
to draw a parallel between the concepts elaborated by Ricoeur and educational practice,
seeking to exploit several possibilities of an educational model that can be considered as
a narrative education.
César Correa Arias
Ricœur et la crise de l'Université contemporaine. Une philosophie politique focalisée
sur la relation Enseignant-Enseigné
La réflexion sur la nature, le présente et l'avenir de l'Université chez Paul Ricœur – bien
qu'il ne soit pas une thématique constamment travaillée tout au long de son œuvre – se
forme à travers l’affirmation d'une nouvelle pédagogie comme l'élément de
transformation des institutions de l'enseignement supérieur et comme un parcours de
formation et de construction de capacités humaines dans le domaine du langage, des
identités, de la reconnaissance sociale et des institutions justes.
De manière distinctive – à une époque de grandes transformations éducatives,
politiques, sociales et culturales, comme c'est le mouvement du 1968 en France et dans
le monde occidental – Ricœur développe deux axes d'analyse qui ont été élaborés
notamment entre les années 1960 et 1970, comme une explicitation de l’origine de la
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crise de l'Université et des possibles solution à cette crise : a) un axe structural, qui
affirme la nécessité de faire à nouveau l'Université à partir d’un changement radicale de
ses bases et de ses composantes organisationnelles, de sa propre structure administrative
et fonctionnelle et du respect de leurs objectifs éducatifs; et b) un chemin dialectique qui
amène à refaire l'Université à partir d’une reformulation de la relation entre enseignant
et enseigné.
À cet égard, Ricœur considère en première instance la structure et la nature de
l'Université comme un produit de la société contemporaine, hantée à cet époque par le
capitalisme et le corporatisme émergent dans les Universités françaises et européennes,
et comme le résultât de l'érosion du travail des universitaires.
Deuxièmement, Ricœur voit les possibilités d'une voie de transformation dans la
dialectique entre les enseignants et les étudiants qui peuvent décentrer et transformer les
conditions de pouvoir qui guident cette relation, et à partir de cette logique, opérer la
transformation totale de l'Université en commencent par ses propres bases. De même,
une nouvelle interaction dialectique entre enseignants et étudiants permettrait un
changement qualitatif dans les relations entre l'État, la société et l'Université.
C'est cette interaction qui va à étaler les besoins et les actions nécessaires pour
construire un dialogue éthique et fluide avec l'État, le marché et la société en général.
L'Université peut avoir le pouvoir de se transformer et de transformer la société et
l'idéologie fondée sur les leçons et les actions qui se produisent à l’intérieur de cette
relation enseignant-enseigné. Ce débat nous permet de considérer la possibilité d’un
changement relevant des politiques éducatives vis-à-vis de l'enseignement supérieur.
Ce travail – qu’il faut considérer comme le premier pas d’une recherche plus vaste –
analyse d’abord les idées principales chez Ricœur sur l'Université, et deuxièmement
développe l’étude de ces idées selon la perspective de certains ouvres ricœuriennes
après les années 1960 et 1970, pour enfin rendre compte des impacts de l'évolution du
capitalisme universitaire sur la structure de l'Université contemporaine.
Amy Daughton
The Self, Summoned to Struggle: constructing a dialogue between Axel Honneth and
Mary Grey, within Ricœur’s philosophical and biblical concept of the ethical person
Background:
Paul Ricœur writes of the self summoned to responsibility by the other. This is rooted in
both his philosophical anthropology and his dialogue with Judaeo-Christian origin texts.
The summoned self under the sign of religious narratives is a prophet, one transformed
by teaching, and a conscience. In his work Oneself as Another, the summoned self is
called to recognise the other, because ‘[r]ecognition is a structure of the self reflecting
on the movement that carries self-esteem towards solicitude toward justice’ (296). This
is reemphasised in his later text The Course of Recognition.
What is significant in these multiple presentations of a self summoned to act ethically, is
the centrality of the concept of the struggle. Ricœur’s use of Axel Honneth’s Hegelian
Struggle for Recognition highlights the way social confrontation has brought about a
wider, deeper recognition for specific persons and the person as such. Ricœur’s biblical
figures of summoning also struggle to respond: the prophet struggles to be heard, the
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self to be transformed by teaching, and the self to interpret her conscience in her
context.
Question:
As both Ricœur and Honneth identify, however, these images are only valuable insofar
as they are non-speculative in how they orient the self toward ethical action and moral
duty. I intend to explore the way these respective philosophical and religious resources
emphasise “struggle” in order to answer this question: can the concept of struggle
succeed in directing ethical discourse to a practical orientation toward the other?
Original contribution:
To answer this I will introduce Honneth’s work to the theological resources in the work
of Mary Grey (Prophecy and Mysticism). Both these thinkers explore struggle as a
central concept for moral action, and in Grey’s case this explicitly becomes an answer
to the summons of faith. of the other. This will be a new conversation between
Honneth’s social analysis and Grey’s theology which employs mysticism as an active
goad to social action. I will argue that together these thinkers represent profound
intellectual sources of replenishment for ethics, in Honneth’s highlighting of the
significance of collective rights, and Grey’s emphasis on social justice. This
recharacterises Ricœur’s concept of the summoned self as undergoing and enacting an
ethical struggle and in this way ethics itself becomes a ‘lovely risk’ (Figuring the
Sacred, 275).
This discourse is inter- disciplinary and in this way is partly prompted by Ricœur’s
crowning of his Course of Recognition with the gift of agape, recognition without
return. Ricœur’s use here, within his philosophical work, of a word with strong religious
connotations is interesting given his usual careful demarcation between philosopher and
biblical ‘listener’ (Figuring the Sacred, 217), and energises the dialogue I intend to
construct between Honneth and Grey.
Rossana De Angelis
Il testo conteso tra ermeneutica e semiotica. Ricœur, Greimas e la risoluzione di un
conflitto epistemologico
Ripensare la relazione ermeneutica tra esperienza e teoria vuol dire ripensare anche il
ruolo del testo. Questo oggetto linguistico permette, infatti, di gestire la relazione
ermeneutica fra l’uomo e il mondo, così come quella fra l’uomo e gli altri uomini. Per
questa ragione le teorie del testo si offrono come luogo di riflessione teorica ed
epistemologica sul modo in cui si costruisce questa duplice relazione ermeneutica.
Negli anni Ottanta le teorie del testo ermeneutica e semiotica entrano in conflitto.
Soltanto Paul Ricœur riesce, però, a far dialogare questi due approcci al testo: mentre la
prospettiva semiotica sullo studio dei testi garantisce un’«interpretazione oggettivante»
dei testi, la prospettiva ermeneutica permette, invece, di considerare «l’intero arco
ermeneutico» con cui il testo si distacca dal suo autore e fa ritorno al mondo e al lettore.
Seguendo questo filo conduttore, ci interrogheremo su alcuni aspetti delle relazioni
epistemologiche fra semiotica ed ermeneutica intese come due prospettive di ricerca sul
testo, divergenti seppur complementari, passando attraverso il dialogo svoltosi a più
riprese fra Paul Ricœur e Algirdas J. Greimas.
Già alla fine degli anni Ottanta, Michèle Coquet (1987, «Pour une sémiotique du recit.
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Rencontre entre A. J. Greimas et P. Ricœur») riassume il dialogo avvenuto fra i due
intellettuali in occasione del convegno in omaggio all’opera di Greimas (Cerisy-laSalle, 4-14 agosto 1983), il quale risponde con un intervento (1987, «Postulats,
méthodes et enjeux: Algirdas J. Greimas mis à la question») che riporta in primo piano
l’autonomia del progetto semiotico. Oltre al dialogo fra Greimas e Ricœur «Sulla
narratività» e al resoconto del dialogo scritto da Michèle Coquet, sono state pubblicate
(spesso in edizioni limitate) poche altre testimonianze di questo dibattito, che ci
proponiamo di discutere nel corso di questa comunicazione.
Gli approcci al testo di Ricœur e Greimas procedono lungo percorsi diversi. Mentre per
Greimas il testo si trova alla fine del percorso generativo del senso, presentandosi come
terminus ad quem contemporaneamente del percorso generativo del senso e del suo
percorso di ricerca, per Ricœur il testo si presenta invece come terminus a quo,
trovandosi all’inizio del percorso del senso e dell’interpretazione. Così, mentre la
semiotica strutturale e generativa di Greimas assume un modello esplicativo immanente
allo stesso oggetto di studi – così come dimostra la distinzione fra strutture superficiali e
strutture profonde –, non rapportando perciò il testo ad altro che a se stesso per
interpretarlo, l’ermeneutica di Ricœur mette immediatamente in relazione il testo con un
fuori-testo (contesto sociale e storico, soggetto, ecc.), poiché è in un fuori-testo che
inizia l’interpretazione.
Con questa comunicazione proponiamo, allora, di ricostruire il dialogo fra Ricœur e
Greimas sullo sfondo del conflitto epistemologico fra semiotica ed ermeneutica intorno
ad uno stesso oggetto di ricerca: il testo.
Moira De Iaco
Mutamenti di senso e vedere come: la metafora dell’estraneo. Ricœur, Wittgenstein,
Waldenfels
La metafora non è semplice sostituzione, bensì vero e proprio evento di senso: è una
nuova predicazione che, dischiudendoci l’inedito, avvicinandoci l’estraneo, ha la
capacità di rinnovare il linguaggio nonché il nostro modo di vedere con esso la realtà.
Essa tocca e altera le connessioni semantiche della frase, mutandone il senso, e
rinnovando il modo di sentire il mondo nell’intermondo, per noi imprescindibile, della
lingua. Contrariamente a quanto comunemente saremmo indotti a pensare, i mutamenti
di senso della metafora non sono relegati a funzioni particolari del linguaggio, non
riguardano cioè esclusivamente angoli stra-ordinari di creatività linguistica. Li cogliamo
piuttosto nel linguaggio ordinario, poiché questo è già vitalmente metaforico.
La metafora è evento dell’estraneo, manifestazione di una frattura dell’isotopia del
contesto, è irruzione dell’alterità nell’identico. Pertanto, se non interessa spazi
eccezionali del linguaggio, bensì ne è un ordinario elemento di vitalità, allora l’estraneo
che in essa si rende a noi prossimo non è affatto stra-ordinario, bensì costituisce lo
stesso ordinario in cui quotidianamente parliamo, viviamo, agiamo; esso lo intacca, lo
contamina, lo fonda in quanto fonte della sua inesauribilità senza tuttavia mai fondarlo.
La metafora appare dunque metafora dell’estraneo, metafora di ciò che irrompe
nell’ordinario che viviamo: l’estraneo costituisce l’ordinario rompendo la parvenza di
familiarità, di appartenenza, con ciò che presumiamo sia proprio. L’estraneo è la nostra
lingua, nonché il nostro essere e il mondo che entro i suoi limiti trovano forma. In
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quanto tale, noi gli apparteniamo: nella lingua noi dimoriamo senza, per via
dell’estraneità, trovarvi fissa dimora.
L’estraneo della metafora, del figurato, che intacca il proprio del linguaggio letterale, ci
chiama a guardare diversamente, a rinnovare lo sguardo, per conoscere una nuova
pertinenza. In presenza di tale evento di senso, non possiamo più vedere soltanto, ossia
vedere inconsapevolmente le parole, ma siamo piuttosto chiamati a un consapevole
passaggio alla pienezza semantica: il vedere chiamato in gioco nella metafora è
assimilabile al vedere-come di cui parla Wittgenstein. Nella metafora, il comprendere
chiama ad ausilio l’interpretare e il vedere diviene perciò “vedere-come”.
L’interpretazione dei segni nella nuova veste semantica, rende l’estraneo prossimo al
proprio, arricchendolo, rinnovandone il senso; riavvicina il figurato al non figurato,
l’ignoto al noto, il come del “vedere-come”, della somiglianza che genera la tensione
predicativa, al che del “vedere che” del quotidiano significare, lasciandoci l’irriducibile
eccedenza dell’estraneo, il resto del differente, del non assimilabile al proprio,
all’identico. È in questa eccedenza che si gioca la viva inesauribile rivelazione della
metafora.
Ci proponiamo di analizzare la riflessione di Ricouer sulla metafora, una riflessione dai
possibili risvolti politici, più che mai attuali nell’ottica di un ripensamento di categorie
oppositive quali identità/alterità, comunitario/extracomunitario, proprietà/estraneità e di
concetti quali cittadinanza, appartenenza, integrazione, in connessione con il vederecome della filosofia wittgensteiniana e il terreno fertile delle idee sull’estraneo di
Bernhard Waldenfels. Ci muoveremo entro i limiti di una filosofia del linguaggio
lasciando che si aprano le porte di una critica del presente.
Broos Delanote
Working through a Painful Past: The Role of the Historian in Times of Change
In ordinary language it is often advised to ‘Forgive and Forget’, but both concepts are at
least problematic when we apply them to a collective level. In this paper we will explore
different interpretations of what it could mean to work through [Durcharbeiten] a
painful past in a public sphere. The first part of this paper is devoted to the ways in
which the concepts of forgiveness and forgetting can be applied to the transitional
justice dilemma. In their own way Jankélévitch, Ricœur and Derrida have all argued
that the concept of (true) forgiveness can’t be applied to the collective level. But even if
public forgiveness is a contradictio in terminis, we will argue that it is at the horizon of
every effort to work through a painful past. The other idea that is used to guide the
working through on a collective level, is forgetting. The relation between forgetting and
transitional justice, or collectively working through a period of conflict, has been
problematized in the last decennia. Following Ricœur and Rancière, we will argue that
forgetting, or better: a specific form of forgetting is on the other horizon of our
collective efforts to work through. Ordinary language seems to be misleading in
combining forgiving and forgetting when applying them to collectively working
through a painful past as both concepts seem to be the boundaries between which this
process can take place.
The second part of this paper will be devoted to the role the historian has to play, or can
play, in this process. While the role of the historian has changed rapidly in the last
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decades, the social or political role of the modern historian is still a much discussed
issue. What is the role of the historian in times of change, when people are trying to
work through these periods of conflict? There are three different positions the historian
can take: (i) the historian can try to be impartial, and give an ‘objective’ analysis of
what happened (this is the position of the ‘ultimate’ witness); (ii) the historian can also
give his verdict on the events (this is the position of the judge); (iii) the historian can
also try to heal the wounds (this is the position of a therapist). In practice a historian
will sometimes take on more than one of these positions, but we will show that these
three positions can be directly linked to the three different ethical standpoints that are at
the core of what Ricœur has called our historical condition. By clarifying these different
ethical standpoints, we hope to show the difficult, if not impossible, role the historian
has, or is assigned, when dealing with a painful past that is still in many ways very
present.
René Armand Dentz
Libertà e perdono
Nel terzo argomento de la Scuola di Fenomenologia, Ricœur affronta il passaggio da
una fenomenologia trascendentale a una fenomenologia ontologica corretta. La sua
attenzione si rivolge a mostrare le caratteristiche di una fenomenologia della volontà che
compie una transizione verso l'ontologia. La fenomenologia rivela qualcosa di simile a
una carenza ontologica della volontà stessa. L'interpretazione dettagliata di questo
rifiuto può essere intesa come una fenomenologia delle passioni, una riflessione
filosofica sul senso di colpa. Si tratta di un approccio diverso, che collega le passioni ad
un principio di colpevolezza discutibile, anche interpretato come un non essere. Ricœur
ritiene carente il lavoro della psicologia delle passioni. La passione non è un certo grado
di emozione, né l'involontario. L'autore ritiene che nelle funzioni involontarie
(desiderio, abitudine, emozione) si possa trovare il percorso di infiltrazione e di
proliferazione delle passioni, però sostiene anche che le passioni siano molto
confortevoli in un modo alienato. Per quanto riguarda la questione della colpa, l'autore
non ritiene che sia chiaramente definibile, ma che sia piuttosto come composta da un
groviglio di aporie. Il segno di ogni passione deve essere decifrato attraverso l'uso nella
vita e nella cultura, necessario per decifrare i segnali provenienti da ogni esperienza e la
passione per la cultura e limitato dal carattere mitico della nozione di colpevolezza. In
questo modo si sospendono i termini della passione di volere in quanto volere e
dell'esistenza umana come qualcosa che abbia un senso. L'autore afferma che per
separare il mondo soggettivo della motivazione dall’universo oggettivo della causalità,
diventa necessario organizzare la triplice idea della motivazione attorno al “Voglio”
come costituente (trascendentale). Pertanto, è necessario "tenere in sospeso la schiavitù
che opprime la volontà di penetrare la possibilità fondamentale di sé che è la loro
responsabilità" (p. 85). L'omissione di colpa è necessaria per comprendere la reciprocità
del volontario e dell’involontario, questa reciprocità che li rende comprensibili l'uno
all'altro nella loro unità. La libertà è un costituente involontario di ogni aspetto,
compresa la necessità, poiché non è soppressa neanche dal senso di colpa. “La dialettica
della struttura volontaria e involontaria è indifferenziata dall’innocenza e dalla colpa
[...]”. L'uomo non è mezzo uomo e mezzo colpevole, egli è sempre in grado di decidere
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di muoversi e di acconsentire. La ricerca di Ricœur sul perdono comincia con un'analisi
della confessione del colpevole, che parte dalla consapevolezza che riconosce un
guasto. Questo processo porta l'individuo alla interiorizzazione di un'accusa in
considerazione delle leggi infrante. Questo solleva un problema: "Come separare
l'agente del tuo atto?" Dal momento che "i codici che disapprovano sono violazioni
della legge, ma i tribunali stanno punendo le persone" (p.497).
Dries Deweer
Ricœur and the Pertinence of a Political Education: On Crisis and Commitment
Today’s global crisis invites us in many ways to rethink society. Hence, these are
exciting times for philosophers. More than half a century ago, Paul Ricœur developed
his core social and political philosophical views in a similar era of crisis and
opportunity. My paper will analyze Ricœur’s personalist social and political philosophy
in the period between the end of World War II and 1968 in light of its relevance for the
current crisis. In reaction to the social, economic, political and spiritual challenges in the
aftermath of the war, Ricœur inquired into the task of the person in history. Inspired by
Emmanuel Mounier and the Esprit-movement, he developed a reputation as a public
intellectual with lucid reflections on many topics of general interest. I will show how
these reflections – mainly published in the journals Esprit and Le christianisme social –
contain a distinct and outspoken view on the crisis and its ethico-political implications.
This “political education” emphasized the distinctness of different aspects of the crisis
in society. Ricœur especially disentangled the socio-economical and the political
dimension and stressed the fact that a solution to the problems of society requires
attention to the particularity of both dimensions. On the one hand, he considered the
desirability of establishing a socialist system. On the other hand, he underlined the fact
that a socialist solution for socio-economic failures doesn’t necessarily solve
everything, since politics implies dangers of its own, given the political paradox, i.e. the
fact that politics constitutes freedom through rationality while it always implies a
tendency towards illegitimate domination. My paper will show how Ricœur’s
interventions are still relevant today, when we hear repeated calls for (a more strict)
government control over financial markets, managerial wages, etc, and for transnational
rules regarding public debt. What Ricœur especially teaches us is that every
enlargement of government power should be met with an equal increase of civic
commitment, which does not only include the power of contestation, but also the power
of participation. I will indicate that Ricœur’s concern is even more pressing in today’s
context, where the socio-economical solutions have to be realized at a transnational or
global level. Ricœur teaches us that the economical crisis we face today is more
fundamentally a political crisis, since the most difficult challenge is to match
economical solutions with adequate civic power of contestation and participation.
Geoffrey Dierckxsens
Responsibility, Affectivity and Desire
In my lecture I will raise the following question: What exactly is the relation between
responsibility and desire? In contemporary philosophy, a distinction is often made
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between the two terms, that is to say, responsibility is often seen as a moral issue, as
way of conduct that is guided by moral values and norms, while desire is defined in
terms of the ego, as essentially personal and, hence, amoral. Harry G. Frankfurt belongs
to those philosophers who have argued for such a distinction. Ricœur on the other hand
has defended precisely the opposite position, in that he aims, as is well-known, at
understanding the personal affective relationship at the very core of responsibility, i.e.,
of ethical responsibility for the good life with and for others – more fundamental than
morality. My presentation intends, in the first place, to defend Ricœur against Frankfurt,
i.e., I argue that Ricœur’s position shows that responsibility (either moral or ethical) for
what is good in favour of others cannot be thought of without affection. Secondly, I will
pose a question Ricœur seems to leave us with, i.e., the question of how to understand
the connection between desire and the affection within the intersubjective relation of
responsibility.
In his book, The Reasons of Love, Frankfurt suggests that responsibility cannot be
understood as love, nor as personal desire. To be precise, he makes a distinction
between morality, that describes rational moral norms and values that must conduct
people’s behaviour towards what is responsible and good in a society with others, and
personal desires, as well as love, that are both in the interest of oneself. Although he
maintains that love is also to be seen as a practical concern in favour of the beloved, he
defines love as being essentially amoral and self-interested and argues that self-love is
the supreme form of love. As he puts it, “the function of love is not to make people
good [my emphasis] (p. 99)”. If it is through love that another is favoured, it can no
longer be called responsibility for the good in favour of others, despite one’s own
interests. Furthermore, Frankfurt defends, in another text entitled The Importance of
What We Care About that care – which he calls a variant of love – must also be
distinguished from morality. In this text he claims that caring is in our self-interest – it
aims at what we care about – whereas morality defines what is in the interests of others.
People may sometimes care about their moral obligations, but only in their self-interest.
For Frankfurt, responsibility and affectivity point at two separate intersubjective
relations: the first one is the one of moral responsibility, of moral norms and obligations
that guide our moral actions in favour of others, the second one: the affective, the one of
personal desire, love and caring for either objects or persons, whether or not in favour of
others, but all in the interest of oneself.
I defend, in the first part of my presentation, that Frankfurt, when defining the affective
domain as being essentially self-interested fails somehow to designate what it means to
be responsible for what is good for others. In order to do this, I will let myself be guided
by Ricœur’s idea of the affective relation of ethical responsibility towards the other –
defined as solicitude driven by compassion – as it is introduced in Oneself as Another. I
will answer the question whether the affect of compassion must be seen as a condition
for the possibility of responsibility towards others. That is to say, I raise the question
whether being responsible for what is good for another, despite one’s own interests, can
simply be limited to being morally obliged, without being affected in relation with a
concrete other. Being called to the good by moral norms or obligations does not yet
seem to mean that one already is responsible for the good for another, i.e., already
accepts one’s obligations (both moral and ethical) towards another, even without
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experiencing any affection (of compassion) for this other. Why would I accept
responsibility for another that leaves me indifferent?
In the second part of my lecture I will investigate Ricœur’s concept of the affective
relation of responsibility in Oneself as Another – or, as he calls it, “solicitude” – and its
connection to desiring. In response of Levinas, Ricœur argues that this affective
relationship cannot simply be thought of as one of the injunction not to kill – an
injunction which is “perhaps already too moral” as Ricœur puts it (OA, 189). For him,
responsibility for what is good for the concrete other one encounters does not only mean
feeling (ethically or morally) obligated towards this other, but by all means also taking
initiative, being concerned with what is good for this particular other: caring
(solicitude). Solicitude, in its turn, must be seen as the result of the ethical aim (la visée
éthique) for the good life, with and for others, in just institutions. The ethical aim –
based on Aristotle’s idea of phronesis – is defined as wish (souhaît) or, at times, desire
(désir) for the good life. Ricœur does not explain though how exactly the ethical aim
must be thought of as desiring, nor does he elaborate on the exact relation between
desire (and the ethical aim) and solicitude, the affective relation of responsibility for
what is good for the concrete other. In short, one question remains: What exactly is the
relation between desire and the affective relation of responsibility for the good in favour
of the other? As he defends, it is in being affected with compassion for the suffering
other that the self is motivated to solicitude. Does being affected by compassion for the
suffering other already come down to desiring what is good for this other and to being
responsible for this other? And if not, is one already responsible for the good for the
other in feeling compassionate or does one need to experience a particular desire for the
good in favour of another in order to be concerned with this good?
Eléonore Dispersyn
Les enjeux du politique à l’ère de la crise économique : homme faillible ou homme
capable ?
L’objectif de notre papier consistera à tenter de penser, avec les outils et la
méthodologie herméneutique de Paul Ricoeur, le problème contemporain du pouvoir
(de la capacité) du politique face à l’économique et à la crise qui en résulte aujourd’hui.
Faut-il en effet considérer l’homme politique moderne comme un homme faillible car
constamment limité par la résistance d’un mal toujours déjà là comme symbole de la
crise économique actuelle, ou peut-on envisager une marge de manœuvre qui
accorderait au politique une capacité d’agir malgré ou en dépit des dérives de
l’économique ? Il s’agira donc, en nous appuyant à la fois sur les concepts éthiques
(Philosophie de la volonté, écrits sur le mal) et politiques au sens large (L’Idéologie et
l’utopie, le Juste) de Ricoeur, d’envisager comment joindre la trilogie (« penser, agir,
sentir ») appelée par le philosophe lui-même, de la théorie herméneutique à l’expérience
en confrontant la question de la crise économique à la possibilité de l’espérance.
L’espérance, qui est également un concept central de la pensée ricoeurienne, d’un
dépassement de la crise au profit d’une régénération du politique. Pour ce faire, il nous
faudra d’abord faire le constat de l’échec d’un certain type de politique dominé par
l’économique, pour montrer ensuite comment la crise pourrait donner lieu à penser
autrement si elle était envisagée dans la perspective herméneutique du refus de toute
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totalisation ou systématisation du politique par l’économique, en intégrant au contraire
les apports mutuels des deux domaines sans réduire l’un par l’autre. Il s’agira par
conséquent de se pencher sur la possibilité ricoeurienne d’une « phénoménologie de
l’agir en temps de crise », afin d’examiner si la promesse du double mouvement de la
phénoménologie vers la morale et de la morale vers une phénoménologie de l’agir dont
parle Ricoeur dans Réflexion faite s’applique également à la capacité du politique
dominé par la crise économique.
André Duhamel
Le tragique : du conflit à la crise
L’attention à la tragédie et au tragique est récurrente dans l’œuvre de Ricœur. Si elle est
d’abord liée au mythe et au mal (1953a, b, 1960), puis au temps et au récit (1984), et
enfin à l’action et à la mémoire (1990, 2004), elle écarte toujours l’affirmation d’un
tragique de l’être au profit d’un tragique dans l’existence ou dans l’action, susceptible
d’instruire l’éthique. Dans la « petite éthique » de Soi-même comme un autre, Ricœur
intercale entre l’examen de la norme morale et celui de la sagesse pratique un interlude
consacré au « tragique de l’action ». Or, étonnamment, cette lecture des « apories
éthico-pratiques » insiste lourdement sur l’origine de la tragédie et les passions de
l’anthropologie de la démesure dont elle témoignerait. Dans la tragédie, lit-on, les
agissants sont traversés par des « grandeurs spirituelles », des « énergies archaïques et
mythiques qui sont aussi les sources immémoriales du malheur », et leurs motivations
« plongent dans un fonds ténébreux de motivation » et de « contraintes destinales » qui
leur font toucher la « profondeur des arrière-fonds de l’action » et le « fond agonistique
de l’épreuve humaine » (p. 281-283). Cette insistance semble orienter l’instruction du
tragique moins du côté de l’action et de la sagesse tragique, pourtant rappelées en
conclusion de l’interlude, que du côté de la mémoire d’un récit primaire. Ricœur, qui
appuie son analyse sur l’interprétation hégélienne de la tragédie comme conflit
inéluctable, mais renonce aux synthèses promises par la philosophie de l’esprit
spéculative, paraît néanmoins replacer le tragique dans un passé intemporel hors de
ressources de l’agir.
Nous voudrions, pour dissiper cette ambigüité, prendre tout d’abord prétexte d’une autre
lecture de la tragédie, celle de Camus, qui s’intéresse moins à l’action qu’aux périodes
productrices de tragédies. Dans une conférence prononcée en 1955, l’auteur de La peste
écrit que « L’âge tragique semble coïncider chaque fois avec une évolution où l’homme
se détache d’une forme ancienne de civilisation et se trouve devant elle en état de
rupture sas, pour autant, avoir trouvé une nouvelle forme qui le satisfasse » (1955, p.
1703). Cette idée de « déchirement intérieur » culturel, qui resitue la tragédie dans un
contexte plus large, celui de moments pivots de l’histoire, permet de nous orienter
ensuite vers une autre notion ayant son poids dans la « philosophie de la tension » de
Ricœur, celle de « crise ». Recouper ainsi le tragique de l’action comme conflit et la
pensée de la crise serait, à notre avis, susceptible d’apporter un nouvel éclairage à
l’ambigüité signalée plus haut, en situant les apories éthico-pratiques dans le cadre de la
conscience historique : elles y apparaitraient alors comme un écart entre « l’horizon
d’attente et l’espace de l’expérience » (1988, p. 15) d’une époque donnée et
témoigneraient de la possibilité d’un passage. Cette proposition prolongerait la pensée
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de Ricœur sur le tragique en élargissant la palette herméneutique des outils pour penser
les reconfigurations de la tragédie au présent et leurs reprises dans l’action.
Jocelyn Dunphy-Blomfield
Conflict and depth in Ricœur’s ‘militant hermeneutics’
“… the conviction that discourse never exists for its own
sake, for its own glory, but that in all of its uses it
seeks to bring into language an experience, a way of
living in and of Being-in-the-world, which precedes it
and which demands to be said.” (TA, 19)
This paper argues that Ricœur’s active involvement in the crises of his time (‘this
terrible century’ xx) is not separate from his philosophy, or an application of it, but
flows from the depths of that philosophy’s coherence: what he calls ‘the concern to
combine analytical precision with ontological testimony’ (TA, 20). He articulates this
dual aspect of his work most explicitly in From Text to Action, but it can be listed
across his writings and statements from Philosophy of the Will to Memory History
Forgetting.
The issue is ‘how does this double inspiration work?’ My paper’s task is to explore this
in Ricœur’s epistemological and conceptual process. I start with his claim just quoted,
from the essay “On Interpretation” that opens From Text to Action: that his work bears
witness to an ontology, then briefly outlining that ontology as one of potency or in his
terms ‘capability’, show its central importance in his work and link it to parallels in his
social and political activities. In brief, adumbrated in Fallible Man, this ontology is
developed explicitly via linguistic processes in The Rule of Metaphor, then in Oneself
as Another as the fulfilment of a long search, foreshadowed in ‘De l’attestation’ (MRH).
Three examples of the interrelation of ontology and action follow.
The first is that of Ricœur’s involvement as Dean of the Nanterre (Paris X) Faculty of
the University of Paris in the students protests of May 1968 - a situation made
ambiguous by government intervention, and perceived by him as failure - and viewing it
through the study by the historian Michel de Certeau who understood what was at stake.
Remarkable as an analysis by a third person of an event that remained troublesome and
painful to Ricœur for many years, it opens the way to thinking more deeply (cf WMT?
270) about the risks for a philosopher of entering the political arena at a moment when
others are denying legitimacy to philosophy as such.
The second example shows Ricœur taking up his theme of ‘just institutions’ (cf OSA,
194) in terms of ‘analytical precision’ in studies of social and legal issues (IU, J). Short
examples here lead to philosophical reflections where he is able to set the parameters
and the issues in a new way.
The third example is his development of the notion of imagination as part of ‘the
historical condition’ in Memory History Forgetting. This study takes further his
ontology of capability while its exact point, as example, is his study of the ‘abuses of
memory ’- a direct confrontation with attitudes of government in many parts of the
world that is still offensive to many readers who cannot recognise its philosophic depth.
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This threefold exploration, aiming to trace the unity of Ricœur’s philosophy and
practice of action, and his ability to use confrontation as part of a dialogue with 20 th and
21st century philosophy, is shown to make sense within the framework of his ontology
of capability, as an enrichment of the Aristotelian ontology of potency within a greatly
enlarged understanding of human action in terms of imagination, affect, power and
fragility. As a diagonal ‘slice’ across Ricœur’s work it brings his work together in a way
that not only illustrates his ‘militant hermeneutics’, but is enlightening with regard to
confronting interest groups confident in their powers.
Patrick Fridlund
Dialogue et conversion – un effort de transformer la tension sans la dépasser
L’objectif de cette intervention est de discuter les tensions sous-jacentes aux notions de
dialogue et conversion. Plus spéficiquement, il s’agit de reconnaître, d’éclairer et de
penser la tension existant d’une part entre les projets contemporains de dialogue menés
par les groupes religieux et d’autre part la propension profonde de ces derniers à
s’agréger de nouveaux membres tout en évitant le départ des anciens. Il est possible de
se demander par exemple si dialogue et conversion forment deux pôles opposés ou s’ils
correspondent à des réalités parfois entremêlées sur une sorte de continuum relationnel,
celui de « l’intérêt pour l’autre ». Au-delà de la question de ce qu’on entend par «
conversion » et par « dialogue », il me semble que c’est la conception même du « cadre
» dans lequel ces événements ont lieu qui joue un rôle décisif. Quelle est la conception
du religieux ? des caractéristiques d’une tradition religieuse ? Comment l’appartenance
et l’identité religieuses sont-elles pensées ? Le théologien George A. Lindbeck et son
livre The Nature of Doctrine constituent une bonne entrée à ce questionnement.
Lindbeck évoque en effet certaines de ces questions et propose des réponses parfois de
manière implicite, parfois partiellement. Ma lecture critique de Lindbeck porte surtout
sur le fait que la vie religieuse semble produire des situations « intermédiaires » telles
que « métissages », des « bricolages », des « couples mixtes », des « multiappartenances », des « syncrétismes », etc. Parallèlement de nombreuses analyses
philosophiques (chez Austin et Derrida entre autres) montrent que tels « métissages »
n’ont rien d’étrange. Une fois que le cadre même est rendu complexe, le travail sur la
tension entre dialogue et conversion peut être reprise, mais sur un autre plan et
différemment.
Sebastiano Galanti Grollo
Riconoscimento e sensibilità: il conflitto con l’altro tra Ricœur e Lévinas
L’intervento intende affrontare la questione del conflitto con l’altro dal punto di vista
etico, rispondendo alle critiche che Ricœur muove alla concezione filosofica di Lévinas
e mostrando come il nucleo di tale concezione si collochi a un livello diverso rispetto a
quello del riconoscimento reciproco. Se per Ricœur l’origine del senso è situata nella
struttura teleologica del soggetto, secondo Lévinas essa non può essere rintracciata a
livello della coscienza né nell’ambito delle relazioni reciproche, risiedendo invece nella
sensibilità che è immediatamente passività: è nel suo stesso sentire che il sé avverte di
essere responsabile. Peraltro, in Autrement qu’être la sensibilità viene distinta dalla
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«ricettività» e quindi dall’idea moderna di sensibilità come primo momento del
processo di conoscenza, nel quale la ricezione del dato si iscrive in un percorso che ne
consente l’appropriazione. Al contrario, la sensibilità è un esporsi passivo, un Dire che
si traduce immediatamente in un «Dirsi», che tuttavia non è una designazione ma una
risposta all’altro, il quale chiama il soggetto alla responsabilità «prima di essere
riconosciuto». A tale riguardo, l’originalità della proposta interpretativa consiste nel
mostrare che quella di Lévinas non è tanto un’etica del riconoscimento quanto un’etica
senza riconoscimento, perché è fondata su un sentire la cui origine risulta anteriore a
ogni scambio comunicativo. In Soi-même comme un autre Ricœur sostiene invece che si
debba accordare al soggetto la capacità di «accoglimento», «discernimento» e
«riconoscimento», risultante da una «struttura riflessiva»: il sé deve poter riconoscere
l’autorità dell’altro, che quindi si colloca a livello epistemologico, mentre in Lévinas il
rapporto con l’altro ha a che vedere con la sensibilità. Si tratta infatti di un «trauma»
originario (l’«Altro nel Medesimo»), che il soggetto avverte ogni volta di nuovo
nell’incontro con altri. Per questo Lévinas ritiene che l’insistenza di Ricœur sul fatto
che la relazione intersoggettiva necessiti di un momento riflessivo non consenta di
cogliere il carattere immediatamente etico dell’alterità dell’altro. Alcuni interpreti, tra i
quali Marion e lo stesso Ricœur, sono invece dell’avviso che mancata differenziazione
della singolarità di autrui neghi al soggetto la possibilità di modulare la propria risposta,
ricadendo così in un equivoco che è destinato a permanere se non si avverte che l’etica
di cui parla Lévinas non ha nulla a che vedere con le forme della condotta individuale,
dato che si colloca a un diverso livello, quello del sentire. La concezione levinasiana
intende infatti descrivere il sentirsi in debito verso l’altro che il sé prova nelle situazioni
concrete. La possibilità di diversificare il proprio agire richiede certamente una capacità
di discriminazione, la quale però va al di là del livello assolutamente passivo della
sensibilità: la pluralità dei soggetti apre lo spazio del conflitto e della comparazione
dando luogo a una condotta diversificata, che tuttavia si situa su un livello ulteriore,
quello della «giustizia» e del «terzo». In realtà, il dissenso deriva dal fatto che per
Lévinas il soggetto non può restare nel compiacimento della stima di sé, della
benevolenza, la quale invece per Ricœur ha già un carattere etico.
Okan Germiyanoglu
Les représentations de la « guerre » : le processus français de légitimation et de
délégitimation du conflit à travers la violence terroriste
Représenter la guerre, c’est la dire et la faire par rapport ici à des « criminels », ce qui
renvoie à la violence terroriste vue par un Etat ou un groupe institutionnel étatique. La
violence terroriste doit être ici comprise comme « la pratique terroriste
contemporaine »11 liée à la mondialisation. Perçue par les Etats comme une menace
visible et réelle, depuis les attentats du 11 septembre 2001 aux Etats-Unis, cette forme
de violence justifie de leur part des politiques antiterroristes relevant de la « sécurité
globale »12.
3
M.-C. Smouts, Terrorisme, in M.-C. Smouts, D. Battistella, P. Venesson (dir.), Dictionnaire des
relations internationales, Dalloz, Paris 2003, pp. 481-484.
4 Commission du livre Blanc, Livre blanc de la Défense et de la Sécurité nationale, Editions Odile
Jacob/La Documentation Française, Paris 2008, p. 40.
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Mais dans une approche constructiviste, dire et faire la guerre à des criminels implique
de définir des identités, c’est-à-dire « qui nous sommes et qui sont les autres »13. Dire
ainsi que l’autre est un criminel relève de la violence symbolique, dans un processus
de déni de reconnaissance de l’adversaire.
L’analyse prend comme cas d’étude la lutte antiterroriste vue par les hauts
fonctionnaires du Ministère des Affaires étrangères français. D’un point de vue
normatif, les hauts fonctionnaires appliquent la politique étrangère de la France définie
par le président de la République. Ils accomplissent à ce titre les missions de la
diplomatie dans la lutte antiterroriste (coopération, renseignement…). Or, il apparaît
aussi une double problématique : tout d’abord, ces hauts fonctionnaires mobilisent des
discours qui se veulent rationnels à travers leur vision du terrorisme. Mais ils peuvent
mobiliser un système de croyances qui donne du sens à la politique antiterroriste. Or
peut-on également envisager que le déni de reconnaissance de l’adversaire puisse être
« un besoin psychologique d’estime de soi »14 d’un Etat comme la France sur la scène
internationale ?
L’analyse emprunte le concept d'Operational Code15 (ou OPCODE) qui cerne un
système de croyances communes aux hauts fonctionnaires à travers des questions sur la
nature de l’adversaire et sur les objectifs pour le combattre. Le matériel empirique
s’appuie sur des entretiens, des questionnaires écrits, ainsi que des productions
officielles françaises. L’OPCODE doit aider ici à définir le terrorisme vu par les hauts
fonctionnaires.
À travers l’approche constructiviste, la reconnaissance dans la lutte antiterroriste permet
d’une part de souligner l’importance des aspects identitaires et symboliques, en
particulier du point de vue d’un Etat occidental comme la France. La construction de
l’identité devient ainsi incontournable dans le processus de déni de reconnaissance de
l’adversaire : on note que l’Etat fait et défait la réputation des organisations nonétatiques lorsqu’elles emploient la violence terroriste. La corrélation entre le système de
croyances ou Operational Code majoritaire des hauts fonctionnaires du Quai d’Orsay et
les recommandations stratégiques confirment aussi un déni de reconnaissance officiel
qui passe par la criminalisation de tout acte de violence politique. Enfin, l’Etat se
redonnant de la légitimation en niant toute reconnaissance à son adversaire terroriste, on
peut considérer donc comme prééminents le rôle et l’action de l’Etat sur la scène
internationale.
Emanuela Giacca
Demitizzazione, morale, libertà religiosa. Castelli e Ricœur nei “Colloqui romani di
Filosofia della religione”
Nel 1978 esce Religione e politica, il volume che raccoglie gli Atti del Colloquio
internazionale «I nuovi aspetti della demitizzazione: religione e politica», organizzato
5 T.
Lindemann, Sauver la face, sauver la paix. Sociologie constructive des crises internationales, coll. «
Chaos international », L'Harmattan, Paris 2010, p. 21.
6
T. Lindemann, Penser la Guerre. L’apport constructiviste, coll. « Logiques politiques », L’Harmattan,
Paris 2008, p. 59.
7
A.L. George., The Operational Code : A Neglected Approach to the Study of Political Leaders and
Decision-Making, in International Studies Quarterly, 13 (2) 1969, pp. 190-222.
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nello stesso anno a Roma dal Centro Internazionale di Studi Umanistici e dall’Istituto di
Studi Filosofici. Esso rappresenta uno spartiacque significativo, perché cade a un anno
dalla morte di Enrico Castelli (1900-1977), ideatore e promotore dei «Colloqui romani
di Filosofia della religione», svoltisi annualmente presso la Sapienza di Roma a partire
dal 1961. Nella prefazione al tomo, Marco Maria Olivetti, che erediterà la gestione dei
Colloqui, riporta un appunto inedito del maestro, il quale avrebbe dovuto fungere da
nucleo dell’Introduzione al futuro incontro. Il filosofo vi assomma, in poche righe di
straordinaria attualità, le tappe del percorso teorico che si era andato snodando
attraverso le voci dei suoi interlocutori. L’esito viene individuato, appunto, in quel
binomio religione-politica che, adombrato in diversi Colloqui passati, s’imponeva ormai
prepotentemente all’attenzione del pensiero. «L’attualità della filosofia della religione»
– vi annota Castelli – «ha un’origine precisa nel rinnovamento di una problematica già
tramontata con il tramonto del modernismo, ma che la “teologia politica” ha
ripresentato come un’esigenza nuova […]. Se ieri in prima linea era il problema della
guerra, oggi c’è quello della liceità di dare la morte in determinate circostanze (aborto,
eutanasia…). Ieri il problema della proprietà individuale, oggi di quella pubblica. Ieri il
problema della giustizia, oggi quello dell’ingiustizia in un mondo fondamentalmente
ingiusto. Oggi il problema del significato (signification e signifié) e il problema di una
possibile “partecipazione” al di là del linguaggio». Questa nota, densa nella sua brevità,
potrebbe figurare come manifesto problematico dei Colloqui sulla demitizzazione. La
falsariga che la struttura ben si presta, altresì, a rappresentare un possibile filo
conduttore dello scambio che vede protagonisti, nei Colloqui, Enrico Castelli e Paul
Ricœur, una delle presenze costanti sin dal primo degli appuntamenti romani.
Nonostante i singolari tratti di predittività e applicabilità – si pensi soltanto, a titolo
d’esempio, alle discussioni sulla bioetica, la cibernetica e le implicazioni della nozione
di inconscio – i risultati di tale intreccio intellettuale restano ancora insufficientemente
esplorati. Su queste basi, mi propongo di inquadrare, attraverso la ricostruzione del
confronto Castelli-Ricœur, la questione del conflitto e della crisi nella cornice teorica
profilata dalla demitizzazione. In particolare, sullo sfondo dello sviluppo del pensiero
dei due filosofi nelle opere di questo periodo, prenderò in esame le proposte formulate
nel corso dei Colloqui del 1965, «Demitizzazione e morale», e del 1968,
«L’ermeneutica della libertà religiosa», assieme al dibattito che ne è scaturito. Nel
primo, Ricœur, col saggio intitolato Demythiser l’accusation, risponde alle
sollecitazioni offerte da Castelli nelle battute introduttive e, riallacciandosi ai motivi
della storicità e dello status deviationis, riformula, alla luce delle letture freudiane
recenti, il problema della colpa lasciato in sospeso alla fine della Symbolique du Mal. È
nel 1968, però, che i temi al centro del Colloquio su Demitizzazione e morale giungono
a piena maturazione: in consonanza col paradigma di demitizzazione configurato dal
saggio di Castelli (L’ermeneutica della libertà religiosa), Ricœur propone un Approccio
filosofico al concetto di libertà religiosa, in cui accosta filosoficamente il nucleo
kerigmatico della libertà e l’orizzonte escatologico della speranza. Ne deriva un’analisi
che, dalle due Dialettiche kantiane alla Religione nei limiti della sola ragione, passando
per la dottrina dei postulati e il nesso etica-religione, approda a una definizione del male
radicale che, alla luce di quanto detto in apertura, appare decisamente indicativa: il male
radicale – scrive – è «quello che culmina, per dir così, non nella trasgressione, ma nelle
sintesi mancate di sfera politica e religiosa».
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Le questioni che, nel complesso, emergono dai due Colloqui verranno scandite secondo
tre versanti principali, al fine di esibire le soluzioni che ne derivano in ordine alla
contemporaneità:
1La morale nel mondo secolarizzato: accusa, obbligo e male radicale;
2Storia sacra - storia profana: demitizzazione del kerigma, escatologia,
speranza;
3La libertà religiosa e la demitizzazione dei valori: è possibile restaurare la
sacralità delle virtù? O la «morale della favola» è davvero la «favola della morale»
(Castelli)?
Mark Godin
Our Debt to the Dead: A Theological Reflection on Paul Ricœur, the
Holocaust,Imagination and Responsibility
In an article entitled “Narrated Time,” Paul Ricœur explored the relationship of history
and fiction, arguing that they borrow methods from one another: history requires the
creative imagination of fiction in order not only to give some kind of order to moments
in time but also to give a voice to the dead; fiction utilizes history's way of dealing with
the past in that readers must believe that the past of the world of a novel or short story is
the past of the narrating character. With events like the Holocaust, whose horrors are
exceedingly difficult to express, imagination becomes an aid to bringing human damage
before us. We pay our debt to the dead, in part, by listening to their voices as they are
made manifest in stories. Fiction also frees up the possibilities latent in what could have
been, possibilities which may move us to pay attention to the worlds which have been
summoned up by the text.
However, in Critique and Conviction, a later book-length interview, Ricœur alluded to a
different type of debt to the dead: the debt of responsibility. He noted that western
Christianity, through theological antisemitism, had created conditions which allowed for
Nazi beliefs about and actions towards Jews. For this, the churches must confess and
attempt to make amends. Going on to talk about various reasons for paying attention to
history, Ricœur declared that one goal should centre on “the idea of rescuing an unkept
promise.” This goal hearkens back to fiction's ability to underline what could have been,
in terms of the promises that victims could never keep, but it also suggests that
victimizers who broke promises need to be called to account for their past and provided
a chance to keep their promise after all (see Ricœur, Critique and Conviction, 112 and
125). While Ricœur does not make the explicit connection, this call to renew what was
lost could link back to his statement of the need for Christians to repent the part their
theology played in the Holocaust.
This paper will be a theological reflection exploring the relationship between that debt
to the dead which we pay by attending to the voices given life in their stories and that
debt which is created by responsibility and guilt. I will follow the links between the two
notions, particularly along the trail of broken and lost promises whose memory is
nevertheless sustained by imagining the fictive world of an obliterated past, focusing on
Ricœur's references to the Holocaust but opening up implications for other instances of
crisis and conflict. Though the problems are not minimal, I will argue that the tension
evident in the two formulations of our debt to the dead could be a creative tension, one
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which carries a possibility for generating a space for attending to the lost, for tracing a
turn towards justice in the trace of compassion—not the compassion of the living alone
or even primarily, but the compassion of the dead.
Johanna González, Denis Lawson
Une lecture ricœurienne du langage politique entre sens et réification : la figure du
mal (criminel/terroriste) sous le régime d’Álvaro Uribe en Colombie.
Si Dieu a le pouvoir de créer, l’homme politique a celui de nommer, de mettre des noms
sur les choses, de les inscrire dans un registre symbolique, de marquer les différences16.
En posant le langage comme discours qui énonce, l’homme politique peut typifier, créer
des catégories et leur donner un sens au point où l’objet désigné par lui se confond avec
le symbole qu’il représente.
En s’inspirant de trois œuvres (Á l’école de la phénoménologie17, Soi-même comme un
autre moi18 et le parcours de la reconnaissance19) de Paul Ricœur, ce travail aura
comme démarche une lecture phénoménologique et herméneutique du discours
politique dans un contexte de tension violente, celui de la Colombie. Ce corpus
empirique nous donne à voir durant la présidence d’Álvaro Uribe (2002-2010) une
utilisation du langage politique comme donneur de sens. On fera ainsi l’hypothèse que :
si les Farc20 existent comme groupe c’est dans le sens du nom que le politique leur a
donné qu’on peut saisir la lutte et la détermination du pouvoir Uribéen à l’éradiquer.
Ainsi dans le processus de désignation, les Farc deviennent « le mal de l’intérieur.» En
affectant un statut aux Farc (« le mal de l’intérieur ») ils apparaitront comme des
« terroristes et des criminels », ennemis de la Colombie. C’est seulement qu’une
«grammaire du mal» devient possible. En tant que ce qui peut donner sens le langage
politique peut ainsi lier et délier, former et déformer à volonté. Il peut rendre présent
l’objet absent. Qui dit Farc, dit mal, qui dit mal dit Farc. L’idée des Farc devient les
Farc. Le langage politique devient performatif. Il est action. En donnant sens aux Farc il
les fait devenir. Il articule l’être et le non-être, ce qui doit être et ce qui perd le sens de
tout être, humain.
Dès lors, c’est sous l’identité du non-être que la possibilité de son élimination n’affecte
en rien la morale et les valeurs. Car la chose que les Farc représente est a-morale, sans
valeur aucune sinon celle de l’animal, de la bête, dont le salut ultime ne peut être que la
mort. La chose ne saurait exister parmi les hommes, il faut l'éradiquer, la tuer, la
supprimer (voir l’exemple des falsos positivos- faux positifs). Elle porte le sens de ce
dont il faut se séparer, détruire, couper, détacher du Corps social, pour qu’il retrouve la
paix. Il est ce qui perturbe l’équilibre du Corps social. Point n'est besoin de lui
témoigner de l'émotion ou de la compassion. Toute empathie et toute sollicitude lui sont
refusées. Le gain du mal c’est le déni de reconnaissance. Dans le processus de
É. Pewzner-Apeloig, Ce nom qui nous porte, in T. Ragi (dir.), Les territoires de l’identité, Licorne,
Amiens 1999, p. 24.
9 P. Ricœur, Á l’école de la phénoménologie, Vrin, Paris 1986.
10 P. Ricœur, Soi-même comme un autre, Seuil, Paris 1990.
11P. Ricœur, Parcours de la reconnaissance, Stock/Gallimard Collection Folio essais, Paris
2004/2005.
12 Forces Armées Révolutionnaires de Colombie (Farc)
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chosification, de réification, les Farc deviennent le symbole de la morbidité dont-il faut
nécessairement guérir pour retrouver la quiétude. Dès lors, le rôle régalien du politique
c’est d’éliminer l’épidémie. La traque, la chasse, de la chose, de la vermine, de l’animal,
du prédateur (les Farc), qui viole, tue, enlève des innocents, peut commencer. L’arrivée
au pouvoir d’Álvaro Uribe va ainsi correspondre à une militarisation de l’espace public
comme rempart contre la guérilla, dans le sillage et en réponse à un contexte
international nouvellement touché par le terrorisme le 11 septembre 2001.
Nel van den Haak
Free Will in Ricœur
Among scientists and philosophers we find fear that the implications of behaviour
scientists, cognition scientist and neuroscientists will undermine moral practices and,
for example, juridical practices and the law as institution. As opposed to this fear of
narrowing the moral possibilities one may also argue that the moral possibilities will be
broadened by these sciences. Already fourteen years ago in What Makes Us Think
Ricœur has argued in this line, although, according to present standards, he did not
consider the effect of brain processes on decision processes concerning good and evil in
the right way. However, he emphasized the moral reflection and the influence that the
otherness and the otherness of the other has on it. One has to focus on all what happens
in and contributes to the moral conversation and reflection. For him ethics essentially is
learning to handle that otherness.
In What makes us think Ricœur has pointed out the limitations of neurosciences, which
are often recognized by neuroscientists. For example, Ricœur criticizes the very easy
use of the term ‘cause’ (body as cause of the mental). Neurosciences inform us directly
about our brain but only indirectly about our mental processes and states. He also
indicates that the psyche on which neuroscientists speak is a laboratory-psyche and not
the rich psyche of the integral experience. For Ricœur this psyche is a construction.
Neurosciences approach the objective corporeality. However, subjective corporeality is
another dimension or experience of corporeality. Conversely, Ricœur argues that the
objectivity of physical causality and the subjectivity of agency are mutually dependently
facets of our corporeal being. He argues a dialectical ‘middle path’ in science and
philosophy, which undermines the duality of subjectivity and objectivity. The effect is
that scientific methods are justified without becoming prey to alienations.
The doubling of subjectivity and objectivity applies to both the body and the mental. At
first for Ricœur the doubling of subjectivity and objectivity was right represented in the
theory of action. This was the counterbalance of the epistemological approach of the
subject.
Ricœur’s focalizes on the ‘agent’, on ‘agency’ and on the intention. For him intention
must not be uncoupled from the agent because than it would become incomprehensible.
In order to read off the intention of the agent on the action of the agent, Ricœur searches
for the ‘who?’ of the action. That is characteristic of the ontology of the personal body.
Agency is corporeal agency especially. With the question of the ‘who’ of the action
Ricœur aims to question how to ascribe to a person psychical and physical predicates in
a new way.
37
International Congress
Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur
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This question of the ‘who?’ ends in Ricœur in Soi-même comme un autre in a
hermeneutic of the self narrowly interwoven with an ontology of the body. In it Ricœur
makes an important distinction in several meanings of the self. Ricœur analyses this
‘soi’ as a dialectic of ‘ipséité’ and ‘mêmeté’.
For Ricœur the corporeal criterion is not by nature unknown to the problem of ‘ipséité’.
The appearance to me of my body testifies to the non-reducibility of the ‘ipséité’ to the
‘mêmeté’. The also implies that willing — the central question of this paper — is
embodied. And willing, the ‘agent’, the self are neither uncoupled from the other nor
from the cultural and social context. With it we see that the dialectic of ‘ipséïté’ and
‘mêmeté’ are connected to that other dialectic, namely the dialectic of the self/’soi’ and
the other and the otherness.
We can see certain resemblances between the concept of the self in Ricœur and in that
one in Damasio, neuroscientist interested in philosophy. Damasio makes the distinction
between the changeable core-self and the unchangeable autobiographical self. Much
more than Ricœur he elaborates the biological and neurological foundation of these
concepts of the self. And Damasio does it with a concept of science and of objectivity
and subjectivity that connects to Ricœur’s philosophy. With it he offers good handles to
elaborate Ricœur’s concepts of the self, its corporeality and with it the embodiment of
the will, in which corporeality does not imply determinism but situatedness indeed.
Fernanda Henriques
Il faut raconter autrement. Mémoire, Histoire et Identité ou payer une dette aux
femmes
Ce texte veut remplir un vide thématique autour de la pensée ricoeurienne. Il s’agit de
l’exploiter du point de vue du féminisme.
Dans Parcours de la Reconnaissance, Paul Ricœur dit que les mouvements féministes
ont contribué à populariser le thème de la reconnaissance, en disant qu’ils font une
revendication autour d’une identité spécifique qui veut être reconnue comme collective
pour pouvoir permettre aux membres individuels d’atteindre l’estime de soi. En
exploitant Charles Taylor21, Ricœur reconnait aussi l’importance de la reconnaissance
pour la formation de notre identité, en disant deux choses:
 que l’identité des groupes historiquement discriminés intègre une dimension
temporelle «qui embrasse des discriminations exercées contre ces groupes dans
un passé qui peut être séculaire»22.
 qu’il faut faire une discrimination inversée envers ces groupes.
En partant de ces deux points, j’exploiterai la position de Ricœur de faire de la mémoire
la matrice de l’histoire pour montrer le besoin de raconter notre tradition de façon à
libérer un nouveau point de vue anthropologique sur les femmes. Il s’agira de montrer
l’importance de raconter autrement notre héritage de façon à donner aux femmes en tant
que collective une identité pour permettre à chaque femme d’augmenter son estime de
soi.
21
22
C. Taylor, Multiculturalisme, Flammarion, Paris 1994.
P. Ricœur, Parcours de la Reconnaissance, p. 311.
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Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur
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Quand Judy Chicago(1970) a dirigé le projet Dinner party pour donner de la visibilité
aux femmes, son travail a été réalisé au nom de l’idée que «notre héritage c’est notre
pouvoir». Ce travail se propose un but pareil : montrer qu’il faut chercher dans notre
tradition de nouvelles possibilités de penser le féminin non développées au niveau des
perspectives anthropologiques.
J’atteindrai mon but, en développant quelques thèmes soit de la pensée ricoeurienne soit
des Women’s Studies, surtout :
 Dénoncer l’inégalité des conceptions anthropologiques au regard des femmes,
depuis Aristote jusqu’à Freud, pour plaidoyer pour la nécessité d’un ‘usage
critique de la mémoire’ pour éviter qu’il n’y ait qu’une perspective unique sur
le passé, parce que «la mémoire imposée est armée par une histoire elle-même
‘autorisée’» et elle se transforme en «une mémoire enseignée»23.
 Articuler mémoire, histoire et identité et exploiter la position ricourienne que
«Le cœur du problème, c’est la mobilisation de la mémoire au service de la
quête, de la requête, de la revendication d’identité» et de cette façon souligner
le besoin pour les femmes de chercher dans le passé de nouvelles sources
anthropologiques, peut-être oubliées.
 Légitimer la possibilité de raconter autrement notre tradition sur l’idée du
‘présent comme initiative´. Par ailleurs d’expliciter la position ricoeurienne sur
espace d’expérience et horizon d’attente, de Koselleck, on montrera comment
l’idée de ’l’humanité comme capable’ permet de “donner aux choses un cours
nouveau, à partir d’une initiative qui annonce une suite et ainsi ouvre une
durée. Commencer, c’est commencer de continuer […]”24.
Ellen A. Herda
The Other in International Development: Attestation and Recognition in
Anthropological Practice
Only when the Other is recognized does the act of development begin. The lack of
success in attempts to aid the poor has been met with increasingly stringent
methodologies in efforts to improve conditions of poverty. From A Billion Lives
(Egeland) to Dead Aid (Moyo), international developers have used quantified data
grounded in economics to field the gaze of the other and to respond to international guilt
and political pressure. In view of the failures of development practices, the move toward
local participation approaches appeared on the international scene as a possible panacea
for the amelioration of poverty and disease. However, the poor are still with us. In other
words, the promises of the westernized nations are not honored in view of the
testimonies of the poor. The institutionally based need for specifically identified and
immediate results codified in development vernacular camouflages the importance of
valuing identity, culture, and tradition; moreover, a focus on a results-based orientation
in development masks understanding the relationship between Self and Other which is
the bedrock for development. Moving beyond the patronization and remediation found
in most international development approaches, this paper discusses an alternative
23
24
P. Ricœur, La Mémoire, l’Histoire, l’Oubli, p. 104.
P. Ricœur, Temps et Récit III, p. 333.
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approach drawing upon Ricœur’s concepts of identity, attestation and recognition. The
application of these concepts does not necessarily dispel the problems in international
development but they set the stage for a different approach; one that does not strive to
reduce complexity and multiplicity, but provides a way for both Others—the local and
the anthropologist—to make sense of their capabilities and worlds-in-practice.
Cristóbal Hernán Gallo
De l’estime Soi à l’estime de l’autre. Ricœur critique de Levinas. Levinas critique de
Ricœur
“Je n’exprimerai ici qu’une faible partie de ma dette à l’égard de Levinas”25. La note en
bas de page dans Soi-même comme un autre rend compte de l’importance de la pensée
de Levinas pour la philosophie de Ricœur. A plusieurs reprises Ricœur fait de Levinas
un objet de réflexion dans son ouvrage. Toutefois l’influence que Levinas exerce dans
l’ouvrage de Ricœur doit être appréciée à la lumière de la critique que Ricœur porte à
l’ouvrage de Levinas. Ainsi, la responsabilité éthique chez Levinas repose sur
l’injonction de l’autre à la responsabilité, l’assignation de moi à soi dans l’unicité de
l’élection dans l’un-pour l’autre de la sensibilité exposé à autrui. L’inquiétude
permanente pour autrui qui peut arriver jusqu’à la substitution.26 Ainsi Levinas ne laisse
aucune place pour-soi qui risquerai du même coup la porte éthique de la sollicitude
d’autrui. Or, pour Ricœur on ne saurait pas répondre à la sollicitude d’autrui sans
laisser une place à l’estime de soi. “Le maintien de soi c’est pour la personne la manière
telle de se comporter qu’autrui peut compter sur elle.”27 L’estime de soi, confiance que
fonde la capacité comme “pouvoir enfin de répondre à l’accusation par l’accusatif: Me
voici selon une expression chère à E. Levinas.”28 Sans estime de soi non seulement
l’action responsable se voit compromis sino aussi “exclurait l’instruction par le visage
du champ de la sollicitude.”29 L’échange épistolaire entre Levinas et Ricœur, publie
dans Ethique et Responsabilité, est un témoignage de cette polémique.
Néanmoins, dans la critique que Ricœur porte à Levinas dans Lectures III ainsi que dans
Soi-même comme un autre, la question du Tiers dans l’ouvrage de Levinas est omise.
Seulement plus tard dans Autrement, Lecture d’Autrement qu’être ou au-delà de
l’essence, Ricœur reviendra de façon résumée sur cette omission. Or pour Levinas
l’entre du Tiers implique que “je suis abordé en autre comme les autres.”30 D’où que,
sans laisser place à l’estime de Soi, Levinas ouvre une alternative: Une économie
sociale qui se veut réciproque où, à la fois, les autres se soutiennent dans ma
responsabilité pour eux et où la capacité de soi se soutienne dans l’estime responsable
d’autres pour moi. L’introduction du Tiers est si importante dans l’ouvrage de Levinas
que, comme Jaques Rolland l’exprime à son insu31, tout son ouvrage doit être
P. Ricœur, Soi-même comme un autre, ed. du Seuil, Paris 1990, p. 221.
E. Levinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, ed. LGF, collection Livre de Poche, Paris
2008, p.184.
27 P. Ricœur, Soi-même comme un autre, op.cit., p. 195.
28 Ibid., pp. 34-35.
29 Ibid., p. 221.
30 E. Levinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, op.cit., p.247.
31 J. Rolland, Parcours de l´autrement, ed. PUF, Paris 2000.
25
26
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réinterprété. D’où la question, si important, de faire une relecture de Ricœur à la lumière
de cette nouvelle donné, à la fois de relire Levinas à la lumière de la critique exigent que
lui porte Ricœur. Ainsi, le destin de l’une et de l’autre philosophie nous parait lié.
Ferenc Hörcher
Justice as a Virtue and the role of Phronesis in Ricœur’s Practical Philosophy
For the late Ricœur, the problem of human justice became an ever more pressing
problem. His late books of selected articles on The Just presented his detailed analyses
of classical (Aristotelian, Kantian or Hegelian) and contemporary ideas of justice
(including those of Arendt, Rawls, Dworkin, Taylor and Walzer). As a political and
legal philosopher he tried to show that justice should not be seen simply as a neutral and
institutionalised system of norms. Rather, he tried to emphasize the particularity of each
and every act or test of justice, its connection to political, ethical and aesthetic
judgement and its relationship with rehabilitation and pardoning. His small book on
Love and Justice is perhaps even more ambitious: it tries to push the concept to its
borderline case, where it is already connected to love.
In the paper I try to show that although Ricœur was not acclaimed to belong to the
group of English speaking theorists labelled as Communitarians, in more than one
respect he shared their presumptions. Himself a practising Protestant, he presented
strong arguments for a hermeneutics of the human person which echoes the
anthropology of the Communitarians (beside obvious connections to French
phenomenology and the social teaching of the Church). One of the key terms in this
respect is – as I shall try to show – the concept of phronesis, with its obvious
Aristotelian undertones, which appears in MacIntyre, Taylor or Gadamer as well, but
plays a major role in Christian moral theology as the cardinal virtue of prudence. I will
argue, that by showing that no rational human judgement can be made without practical
wisdom, Ricœur succeeds to elaborate a position in contemporary ethics where justice
and prudence, two cardinal virtues, combine to re-establish a practical philosophy which
preserves the individual responsibility of the human agent while connecting personal
decisions to the common good of a particular human community.
Skaidrīte Lasmane
The Hermeneutical Modernisation of Paul Ricœur’s Ethics
In books such as “Oneself as Another” and “The Course of Recognition,” among others,
Paul Ricœur seeks more modern terminology in describing the contemporary ethical
thinking. For the most part, he obtains these resources via a system of hermeneutic
interpretation.
This paper focuses on Ricœur’s principle of reopening meaning which has been frozen
by tradition and the completeness of the philosophical system. How is meaning
reopened in ethics? In what sense does it contribute something innovative to
contemporary ethics in terms of analysis and reflection?
In seeking answers to the first question – how meaning is reopened – the emphasis is
on the following:
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1) On Ricœur’s concept of unexploited meaning potential, which speaks to and
recognises a creative hermeneutic repetition instead of a strict equivalent. The paper
offers a comparison of three different understandings of repetition, as presented by
Kierkegaard, Deleuze and Ricœur. These understandings are of practical importance,
particularly when analysing contemporary media rituals, as well as crises and other
rhythms and repetitions.
2) The paper focuses on three cognitive activities that are a part of and of essence in
Ricœur’s ethics – distinction, subordination and complementarity. With their
intermediation, a balanced and delicately nuanced liberation of the heritage of ethical
history (as defined by Plato, Aristotle, Kant and others) is achieved. Ricœur
differentiates meanings but does not contrast them.
3) Attention is given to the hermeneutical circle, also looking at its paradoxes and the
transfer of other dialogical and narrative structures to contemporary ethics.
In response to the second question about the innovative nature of Ricœur’s
hermeneutical rewriting of ethics, there are several areas which must be considered.
First of all, concepts such as narrative wholeness and the hermeneutical circle make it
possible to overcome post-modern fragmentarism and to create visible links between
accidental situative choices and life as something that is ethical aim and higher finality.
Second, there is a distinction between ethics and morality. This is a key difference from
Michel Foucault’s individual care about oneself, which does not include the dimension
of “oneself as another.” It also differs from the communicative rationalism of Habermas
which, in turn, omits or ignores the self and the reflection of its moral identity.
Third, there is mutuality between deontology and teleology without contrasting desires
and a good life on the one hand and norms and obligations on the other.
Fourth, one can welcome Ricœur’s intellectual effort to achieve dialectical reciprocity
between universalism and relativism.
Fifth, there is an emphasis of the ability to move beyond narrowly linguistic/semantic
analysis and to enter an area of practical activities in which ethics are assigned a
specific role to establishing (the primacy of ethics over morality etc.).
Patricia Lavelle
Entre l’expérience et la théorie : sur l’unité du problème de l’imagination chez
Ricœur
Faculté intermédiaire chez Aristote comme chez Hume, l’imagination devient avec Kant
le lieu de médiation entre le sensible et l’intelligible, c’est-à-dire la fonction
d’association et de connexion qui permet de passer de l’expérience à la pensée.
Cependant, chez Kant, le problème de l’imagination, abordé de deux manières très
différentes, se scinde en deux. Dans la Critique de la raison pure, cette fonction
d’association et de synthèse est envisagée comme une contribution à l’objectivation de
l’expérience, tandis que dans la Critique de la faculté de juger, c’est son aspect
constructif ou inventif, sa libre expression dans l’art, qui est mis en avant. Or, peut-on
penser l’unité du problème de l’imagination, divisé chez Kant entre une théorie de
l’imagination cognitive et une théorie de l’imagination esthétique ? Comment pouvonsnous concevoir les rapports entre la fantaisie, l’imagination reproductive et
l’imagination productive dans l’art et dans la production théorique ? Quel est le point
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commun entre le pouvoir d’inventer et celui d’associer et de connecter ? Quel rôle joue
cette faculté médiatrice dans le passage entre l’expérience esthétique et la théorie ?
Cette problématique traverse l’œuvre de Paul Ricœur et joue en rôle fondamental,
quoique discret, dans la Métaphore vive, où il est question de la tension comparative au
cœur du schématisme symbolique, c’est-à-dire d’un type de ressemblance qui ne porte
pas sur les objets, mas sur les relations dans lesquelles nous les pensons. C’est cette
tension renvoyant au principe des affinités de l’imagination qui « travaille » à l’intérieur
de la construction métaphorique et constitue en quelque sorte sa « vie ». En effet, ce qui
s’efface dans la métaphore lexicalisée est bien l’effet de ressemblance qui permet de
voire le même dans l’autre et l’autre dans le même.
Ayant recours à la transcription du cours sur l’imagination que Ricœur a donné à
l’Université de Chicago en 1975, document qui se trouve au Fonds Ricœur, je
m’interrogerai sur la théorie de l’imagination qui soutient ses recherches des années
1970 sur la métaphore et sur le récit. Partant d’Aristote et de Kant, ce travail, qui se
propose d’élaborer théoriquement l’unité de l’imagination, met l’accent sur la tension
comparative, qui est au cœur du problème. Dans cette perspective, le « voir comme »
qui défini l’image est compris comme le corrélat du « comme si » qui indique la
position théorique.
Jean Leclercq
« Mors et vita duello » : Sur Paul Ricœur
L’idée de cette contribution est que la façon originale dont Paul Ricœur a travaillé et
pensé la question duelle (ou l’énigme, au sens augustinien) de l’identité et de l’ipséité
est singularisée, dans l’histoire de la philosophie contemporaine et spécifiquement dans
celle « des » phénoménologies, par la tension d’un double conflit ou duel, entre mort et
vie, qui ne trouve sa tentative ultime de nouage que sur le plan d’une philosophie qui
ose faire se conjoindre une vraie et complète réflexion sur le temps, les œuvres et la
résurrection. D’où l’évocation dans la titulature de l’hymne pascal.
Ainsi, à travers un exposé construit sur des textes précis de Paul Ricœur, on montrera
comment ce duel, toujours pensé entre guerre et paix, entre les Édits et les guerres, dans
l’interim des interprétations qui se heurtent, se compose à partir des forces et des
attestations de la « surrection », de l’« insurrection » et de la « résurrection », qui sont
des moments de l’affirmation originaire d’un sujet envisageant sa vie comme lieu du
capable et du responsable.
Au-delà d’une vision parfois trop irénique ou adoucie de la compréhension de la
subjectivité, selon Paul Ricœur, souvent trop lue sur l’axe des pensées de la « vie »,
nous montrerons également comment le conflit et la « crisis » sont des lieux de
discontinuité, d’effectivité et de créativité, qui permettent de « tenir » et « main-tenir »,
en « dépit de », mais « jusqu’à », pour dire cela avec des sortes d’adverbe, mais dans un
sens proche de celui d’Eckhart qui reste chez Ricœur la figure du « détachement », qui
pourrait être une des postures du sujet à la fois en crise et en conflit.
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Gonçalo Marcelo
Is There a Ricœurian Answer to the Crisis? (Or How to Save the Capable Human
Being from Social Disintegration)
Paul Ricœur was engaged in many struggles throughout his life. If, on the one hand, he
developed a hermeneutical theory of reading that stressed the importance of the conflict
of interpretations, on the other hand, his constant attention to social and political events
and the many civic and political causes that he embraced turned him into a decisive
thinker of his time. There is no sure answer as to what would his assessment of the
current financial, economic and social crisis would be but there are nonetheless several
sparse elements of his philosophy that enable us to give a “Ricœurian” response to the
crisis. On the one hand, one of the phenomena with which we are dealing nowadays is
the rising dominance of the economic sphere over the strictly political sphere. As
Ricœur has shown us (in “le paradoxe politique”) the two domains should be prevented
from fusing with each other precisely because, as he has forcefully argued in his reading
of Michael Walzer (in Le Juste), the only adequate way to ground a theory of justice is
to identify a plurality of common goods, irreducible to one another. If not, we tend to
incur in specific types of alienation, either economic or strictly political.
On the other hand, we can find in Ricœur’s thick anthropological descriptions of the
human life a positive ideal of the ethical life, whose cornerstone is the notion of
capabilities. If it is true that Ricœur’s analyses of this subject are always dialectical –
never fully separating human activity from human passivity, action from suffering – we
can argue that this positive ideal is embodied in the struggle against injustice whose
terminus ad quem would be the capable human being. And our social situation in this
day and age is witness to growing levels of social suffering and, eo ipso, the threat
against certain types of capabilities that we had taken for granted.
My claim is thus that the current crisis is the birthplace of specific types of tensions that
threaten to radically change our social situation for the worse; at the same time, what
should be identified as a common good and protected as such is the subject of ongoing
conflicts of interpretation whose result is uncertain but that will certainly determine our
future, for the better or for the worse. I further argue that Ricœur’s philosophy stems
from a multidimensional theory of conflict that operates at several different levels (both
theoretical and practical) and whose hermeneutical leaning, if successfully grafted into
social philosophy, will not only help us to understand the crisis, but also to try to forge
some provisional meaningful answers to it.
Paul Marinescu
La vulnérabilité de l’être historique. La tension d’un indécidable : oubli destructeur /
oubli fondateur
Par sa nature essentiellement temporelle, notre être historique est traversé d’un bout à
l’autre par une crise continue qui vient d’un côté, d’un futur qui s’achève dans la mort
et, de l’autre, d’un passé qu’on voit se réduire progressivement à la disparition, à
l’absence. La tension dramatique qui habite notre être historique doit donc être pensée
sous le double signe de la finitude et de la vulnérabilité. Si la finitude, largement
discutée par Martin Heidegger, a déjà fait l’objet de maintes analyses, la vulnérabilité
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humaine – dont « l’emblème » le plus saisissant est, selon Paul Ricœur, l’oubli – appelle
encore à l’interprétation.
C’est ce que nous tâcherons de faire dans notre travail, notamment approcher le
problème de la vulnérabilité humaine en questionnant l’oubli et sa phénoménalité
complexe qui ne se révèle qu’à travers des rapports problématiques avec la mémoire et
le temps. A partir des analyses de Ricœur, développées principalement dans La
mémoire, l’histoire, l’oubli, nous allons donc prêter une attention particulière à la
manière dont l’oubli met en crise notre être historique et l’y maintient, soit en atteignant
à la mémoire et à sa fidélité au passé, soit en découvrant la temporalité d’une antériorité
abyssale.
Notre interprétation sera élaborée au fil des questions suivantes : l’oubli n’est-il que
l’envers négatif de la mémoire, une menace constante à sa capacité véritative ou
entretient-il une dynamique positive avec la mémoire ? Si l’on accepte avec Ricœur que
la juste mémoire est le résultat d’une « négociation avec l’oubli », faut-il conclure sur
l’inachèvement de la réflexion historique ou plutôt sur la faillibilité de notre
connaissance historique ? Est-ce que l’oubli de réserve est vraiment une figure positive
de l’oubli ou plutôt une forme de mémoire latente ? Comment faudrait-il comprendre
l’oubli de fondations et quel est son rapport à l’oubli de l’être dont parle Heidegger dans
Être et temps, mais aussi dans les écrits après la Kehre ?
A travers ces questions, nous espérons saisir la double crise (ou la double tension) qui
relève du phénomène de l’oubli : une fois, comme crise intérieure à sa manifestation,
comme l’indécidable entre le côté destructeur et celui fondateur, et une autre fois au
niveau de ses rapports avec la mémoire et le temps, des rapports habités par la tension
dialectique entre la présence et l’absence.
Finalement, envisager la vulnérabilité de notre condition historique comme crise, c’est
comprendre qu’existentiellement, notre faillibilité est toujours doublée d’une capacité
d’être : oublier ne se réduit pas ainsi à l’effacement des traces, mais il est aussi une
condition du « faire mémoire» et du « raconter des histoires ». Car là où il y a « la
crise », il y a également « la négociation » : négociation de la mémoire avec l’oubli, en
vue de la juste mémoire.
Kátia Mendonça
Penser avec Ricœur : la bonté en temps de crise
En parlant de la bonté, Paul Ricœur disait: « Je veux dire qu’il y a une sorte de
resserrement, de renfermement sur la culpabilité et le mal. Non pas du tout que je sousestime ce problème, qui m’a beaucoup occupé pendant plusieurs décades. Mais, ce que
j’ai besoin de vérifier en quelque sorte, c’est qu’aussi radical que soit le mal, il n’est pas
aussi profond que la bonté . La bonté est la attestation du sens, la prévalence du sens
sur la mort et la rien, parce que la bonté n’est pas seulement la réponse au mal, mais
c’est aussi la réponse au non-sens »32.
Au milieu de la crise dans le monde contemporain, de l'absence de sens et de la
prévalence du mal, Ricœur nous laisse des traces de directions d'action et notre
P. Ricœur, Libertar o fundo de bondade, in: http://www.taize.fr/pt_article1719.html. Consulté:
02.05.2011, 2000
32
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Lecce
proposition est de reprendre la question de la bonté et des questions annexe, comme la
charité, l'agape et le pardon, présents dans son œuvre et qui sont comme paradigmes
éthiques qui peuvent nous guider à travers la crise.
Ricœur a dans son horizon herméneutique une double tradition: le grec et le chrétien. La
charité 33 est l'amour-agape, sans calcul et sans intérêt. Son symbole est trouvé dans la
parabole du Bon Samaritain qui, en tant que paria de son temps, fera la promotion de
l'amour du prochain. C'est parce que il est dépouillé des rôles sociaux qu’il est
disponible pour le prochain. L’agape est pris aussi dans la perspective de la tradition
grecque34. L’agape conduit à la paix par sa générosité, et Ricœur souligne que, selon le
sens grec du terme, un état de paix est un «état de l'agape» et il remarque que « les états
de paix avec l’agape sont généralement opposés aux états de lutte [...].35 »
L'agape concerne le regard favorable et miséricordieux qui implique le pardon 36 et le
pardon, quand il arrive, peut guérir les douleurs et les blessures et donner ainsi un
nouveau sens au passé. Agape est, avant tout, une façon éthique de regarder, «un coup
d'œil en faveur de l'homme qui est vu» et, nous ajoutons, il est également un coup d'œil
en faveur de la création, de la nature et du monde qui nous entoure. L’agape, la charité,
la bonté et le pardon sont marqués par la disponibilité, par le manque de calcul et de
désir de dominer la relation. Nous croyons que Ricœur, dans la mesure où il réaffirme
ce qu'il appelle une orientation vers le « oui »37 , serait d'accord à propos du fait que ce
regard serait possible et même nécessaire au milieu de la crise dans laquelle l'humanité
est actuellement immergée, parce que, comme il souligne, «il faut dire oui au oui » 38 et
de passer de la protestation à l’attestation.
Harri Meronen
Paul Ricœur’s Biblical God as an Antiontological Event and Act of Love-Himself
This paper presents Paul Ricœur’s main ideas about Biblical God, which Ricœur
develops in his Biblical interpretations. With these ideas Ricœur makes a significant
contribution to the discussion on modern secularism, especially concerning the
phenomenon of a-theism. I will present how Ricœur has developed his own respond to
the request of Nietzschean announcement of the death of God.
Ricœur interprets the diverse namings of God in both the Hebrew Bible and in the New
Testament and analyzes how these different namings have impact to their co-mutual
interpretation. For example, in his Penser la Bible’s (1998) essay De l’interprétation à
la traduction Ricœur analyzes thoroughly the linguistic and narrative functions of
Exodus 3:14-15 revelation of the divine Name, JHWH. Ricœur presents us his
interpretation of the whole history of reception (the history of reading) of this revelation
of the Name, and some new insights on the issue.
Voir P. Ricœur, Histoire et Verité, Seuil, Paris 1955.
Voir P. Ricœur, O percurso do reconhecimento. Tradução Nicolás Nyimi Campanário. SP, Loyola,
2006.
35 Idem, pp. 236.
36 Voir P. Ricœur, O perdão pode curar?, in Esprit, n. 210 (1995), pp. 77-82. Disponible en ligne sur
http://www.lusosofia.net/textos/paul_ricoeur_o_perdao_pode_curar.pdf . Consulté: 25.05.2011.
37 Voir O. Abel, Paul Ricœur: La Promesse et la Règle, Éditions Michalon, Paris 1996.
38 P. Ricœur, Libertar o fundo de bondade, cit.
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In article D’un Testament à l’autre (1992) Ricœur presents how Biblical God is the
source for both of his self-manifestation and for his ethical message (injunctions) to
humanity. This source of God is his anti-ontological existence as the event and act of
love-himself (l’amour lui-même). What remains from the ontological interpretation of
God’s Name in Ricœur’s whole work on the issue, is that in his self-manifestation as
love-himself (l’amour lui-même) God is him-self (soi). God’s personal identity is the
dialectical event and act of love. The metaphor of John 8:4 “God is love” can be
understood as an explanation of the Exodus 3:14 “I am who/which I am” through the
Trinitarian and Christological readings of the latter. In Trinitarian reading, love resigns
from being the “self-alone” and becomes the love for another and others. Already
Exodus 3:14 “I am that/who I am” revelation of the Name, presents dialectically God’s
predicative act (I am; to be, being) as his “another”. In the Gospels, Jesus is the parable
of God. At the historical event of the Cross, anti-ontological God; love-himself,
manifests himself as “the event of the union of life and death for the benefit of life”. We
can understand that God truly and really is love only when he is also the God of
suffering and death. The narrative kerygma: he is dead, he has been buried, he has risen
from the death and he has been seen by many, gives the historical matter to God who is
the anti-ontological event of love. Ricœur doesn’t reduce the meaning of resurrected
Christ to his apocalyptic return and the afterlife. For Ricœur, the logic of Biblical God
asks also the modern humanity to replace the normal and ordinary human logic of
equivalence with the logic of superabundance of gift. Ricœur suggests that this logic
could have consequences also at the field of global market-economy. For Ricœur, the
Biblical faith to God verifies itself to be true ultimately at the sphere of ordinary and
practical, everyday life.
Fabio Minazzi
Sul ruolo euristico-epistemologico dell’immaginazione in Kant, Ricœur ed Einstein
La disamina della questione dell’immaginazione in Ricœur consente di individuare un
nodo centrale della sua riflessione, che, in primo luogo, aiuta a problematizzare
criticamente il nesso tra l’immaginazione creatrice-di-pensiero e l’immaginazione
creatrice-di-realtà. Ma entro tale nesso emerge anche la tensione critica che si instaura
tra la razionalità illimitata dell’uomo e la sua altrettanto intrinseca limitatezza. La
riflessione trascendentale di Kant relativa all’immaginazione costituisce del resto un
punto di mediazione critica innovativa che Ricœur ricollega sia alla lezione di
Aristotele, sia a quella di Husserl, sviluppandola entro una concezione in grado di
recuperare la polarità critica che sussiste tra la sproporzione umana e la sua fallibilità
intrinseca.
Indagando poi, in secondo luogo, la peculiare funzione dell’immaginazione così come si
dipana sul piano costitutivo effettivo della riflessione umana, è inoltre possibile
illustrare anche il peculiare intreccio euristico che sussiste tra ontologia ed
epistemologia se lette alla luce dei paradigmi euristici delineati da Ricœur.
Muovendo dal piano del linguaggio a quello dell’immaginazione, Ricœur recupera,
inoltre, in terzo luogo, tutta l’importanza costitutiva dell’immaginazione trascendentale
di Kant e apre così un innovativo programma di ricerca filosofico che gli consente di
prospettare, in tutto il suo intrinseco valore, l’originalità costitutiva delle differenti
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ontologia regionali che sempre contraddistinguono le differenti conoscenze umana. In
questa prospettiva l’immaginazione trascendentale delinea un modello di
intermediazione critica in grado di coinvolgere la meta-riflessione filosofica e i
differenti piani di oggettività della conoscenza umana. Proprio perché l’immaginazione
è sempre in grado di spingere il pensiero ai suoi limiti estremi, si può allora intendere
come il concetto entri in relazione con il mondo della vita. Il livello concettuale
individuato tramite la intermediazione critica dell’immaginazione trascendentale
suggerita da Kant e riformulata da Ricœur in dialogo critico-integrativo con Husserl,
costituisce, pertanto, una risorsa pressoché infinita di senso che rinvia, per sua natura
intrinseca, all’indeterminatezza del simbolo stesso.
Infine un puntuale confronto analitico tra la prospettiva di Ricœur concernente
l’immaginazione trascendentale e le riflessioni epistemologiche di Einstein aiuta a
recuperare una nuova immagine critico-trascendentale ed epistemologica del conoscere
umano, che pone in luce, nuovamente, il ruolo fondamentale dell’atto immaginativo
entro il processo delimitato della conoscenza.
Michael Monhart
Seeing the Many in the One: A Ricœurian Reading of the Autobiographical Writings
of the Tibetan Buddhist Lama and Mediator, Tsewang Norbu
The central aporias of this paper were generated by a couple of notes made by Ricœur
collected in Living Up to Death. There Ricœur considers “detachment” conceived not as
a negativity, but rather as an inner dynamic that opens oneself up to the other. Writing
of the Rhineland mystics, he proposes that their “detachment” was not a loss; rather it
was a gain that made “themselves available to the essential” and suggests that, in their
active lives of teaching and travelling, they were “open to the fundamental through their
detachment.” Going further he states that “It is openness to the essential, to the
fundamental that motivates the transfer of the love of life to the other.” A few pages
later he writes, almost as an aside, that perhaps Buddhism might be of help as attestation
can conceal a resistance to such detachment.
Little work has been done placing Ricœur in dialogue with Buddhist philosophy
especially with regard to conflict mediation and the nature of ethical action. In this
paper I read through autobiographical writings of the 18th century Tibetan Buddhist
lama and diplomat Tsewang Norbu and provide an anthropological (and ultimately
ontological) perspective on non-Western based issues of crisis and conflict resolution.
Tsewang Norbu was known as a successful mediator of disputes between gods and
demons, as well as human communities and governments. I examine the nature of his
broad recognition of the other and situate the nature of this recognition in his particular
conception of the self as constructed through a life narrative of promises kept, that is,
religious vows observed.
Tsewang Norbu’s mediations of conflicts and disagreements are rooted in a specific
ontology confirming, yet also complicating, Ricœur’s rejection of Parfit’s “quasiBuddhist erasure of identity.” Tsewang Norbu takes the view that ultimately nothing
possesses a self-existing nature but nevertheless there are differences to be investigated
(as in disagreements and conflicts). He retains the paradox maintained by Ricœur (in
“Narrative Identity”) as “I am nothing.” We see, though, in Tsewang Norbu’s
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autobiographical writings a bridge deeper into this paradox through the authorship of
his actions in resolving conflicts. He broadens the horizons of Ricœur’s hermeneutic of
self rooted in attestation and leads us back to a detachment cognizant of the fundamental
which is open in wide frame to the other, and motivated, in Tsewang Norbu’s case,
towards mediating action.
Nicolas Monseu
Le conflit des possibles : le sens du projet chez Paul Ricœur
L’être humain vit toujours aux prises avec ce qui ne lui est pas (encore) donné et il se
débat constamment avec ce qui est en avant de lui et ne peut pourtant pas être assigné de
manière précise. Il vit dans une perspective d’avenir, c’est-à-dire qu’il est orienté vers
un temps à venir, sans qu’il sache exactement ce qui va bien pouvoir advenir de lui. La
philosophie de Paul Ricœur a tenté à sa manière de réévaluer le statut même de notre
rapport à l’avenir et de la légitimité de nos affirmations sur l’à-venir. Dans cette ligne,
les notions de « possible » et de « projet » ont fait l’objet d’une analyse spécifique dès
la Philosophie de la volonté qui culmine dans une des thèses les plus décisives de la
philosophie contemporaine : « je suis mon propre pouvoir-être ». La question est
d’importance puisqu’elle revient à interroger la possibilité même de l’avenir et à se
demander en quel sens « ce qui vient » – en ce compris notre identité elle-même – peut
être compris précisément comme possible, c’est-à-dire devenir spécifiquement en tant
que possible ?
L’objectif de cette communication sera donc de montrer en quel sens l’identité du sujet
ne consiste pas à être une réalité déjà faite, mais qu’elle est toujours en train de
s’accomplir, sans cesse en cours d’effectuation, singulièrement dans le projet qu’elle
peut être à elle-même : l’être humain est projet de lui-même et il est constamment un
avenir à réaliser.
Tomás Domingo Moratalla
Délibération et responsabilité: la philosophie politique de Paul Ricœur
Dans ces pages, je veux montrer brièvement les grandes lignes qui articulent la
philosophie politique de Paul Ricœur. Dans sa pensée il y a une riche, complexe et
originale philosophie politique.
Il y a beaucoup de textes qui pourraient nous servir à présenter son herméneutique
politique. Je le ferais en utilisant un texte peu connu: "La persona, desarrollo moral y
político” (en tant que tel, il existe seulement en espagnol). Il s'agit d'une conférence
donnée à la “Fundación Ortega y Gasset” (Madrid, 1994). Je crois que cette "conférence
de Madrid" soit la clé pour comprendre sa philosophie politique. Les interprètes de la
philosophie pratique ricoeurienne, ne se sont pas suffisamment arrêtés sur ce
texte, probablement parce que ils ne savent pas de son existence.
Une des particularités de la philosophie politique ricœurienne – mise clairement en
évidence dans ce texte – est la relation étroite avec la dimension éthique. La dimension
politique est le remplissement de la visée éthique. L'éthique est « le désir de vie bonne
avec et pour autrui dans des institutions justes »; la politique se poursuit donc à travers
l'éthique. La dimension éthique n'est pas ajoutée à la sphère politique; elle est plutôt
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son fondement, son enracinement. Il y a donc une justification morale de la politique: la
cité est aussi le moyen approprié pour la réalisation de l'homme. Ricœur montre la
nécessité et la légitimité du détour politique de l’éthique.
Ricœur distingue clairement entre “la politique” et “le politique”, tout comme il
distingue, dans la vie morale, entre l'éthique et la morale. Le lien entre éthique et
morale, et leur synthèse, est fragile. C’est le moment de la sagesse pratique (phronèsis).
Je tiens à souligner que la relation entre le politique et la politique a lieu de même dans
la sagesse pratique et collective, une phronèsis sociale: la délibération publique.
La cité est un espace paradoxal et donc fragile. S’il est important soutenir que la
dimension politique est inhérente à la constitution de soi-même, d’autant plus il est
important montrer que la responsabilité du citoyen est proportionnelle à la fragilité de
la/le politique. Ricœur affirme que nous sommes responsables de la fragilité. Le
paradigme de la fragilité n'est pas seulement le "nouveau-né" (Hans Jonas); la cité est
aussi paradigmatique. La cité est devenue “paradigme de fragilité”, un paradigme pour
l'expérience de la responsabilité. L'exercice de la responsabilité politique trouve
son expression la plus élevée dans la pratique de la délibération.
Fernando Nascimento
The “Phronetical Identification” as a Means to Face Crisis and Conflicts
The transition from the second to the third and final part of Ricœur´s Little Ethics in
“Soi-même comme un autre” is marked by the interlude about tragic action. One may
see in this recourse to the tragic tradition a sign of Ricœur´s recognition of the current
and maybe perennial human condition of crisis and conflicts. Our current global
situation is no exception to this diagnostic. On the contrary, one may affirm that as the
ethical, political, financial problems gain a new dimension with the steady increase of
multinational interdependency, the tragedy of action highlighted by Ricœur´s Little
Ethics is becoming even more complex and urging new forms of ethical and practical
reflections. In order to overcome the dilemma imposed by the uniqueness of the
conflicts that are always singular and irreducible to a pre-determined solution, Ricœur
defends that the solely means is to appeal to the practical wisdom. But a crucial
practical question seems to remain open: how oneself may act according to the practical
wisdom? One of the key points of the notion of phrónesis inherited from the
Aristotelian tradition is its fundamental reference to the figure of phrónimos, the man
who possesses the practical wisdom. The phrónimos is indeed the criteria for
developing and achieving the ability for choosing the best decision in conflicting
situations. This paper intends to address exactly this relationship between the practical
wisdom and the phrónimos. It seems necessary to give a step ahead with regards to
Ricœur´s reflections and investigate the course of effectuation of the practical wisdom.
How can oneself acquire or develop practical wisdom by acting as the phrónimos does?
In order to answer this question, the mechanisms of transmission and application of the
practical wisdom need to be properly scrutinized. The main hypothesis of this paper is
that a fruitful insight for this investigation can be found at the mimetic moments
described by Ricœur in Temps et Récit. This analysis will, therefore, follows a reverse
chronological order with respect to Ricœur´s publications as it will search for a possible
next step in the reflection on practical wisdom going back to the mimetic moments
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related to the bounds between time and narrative. If this hypothesis is really sustainable,
this paper will therefore start from the notion of practical wisdom, which is the ethical
response for the intrinsic conflicting condition of human action, and lead to the notion
of “phronetical identity”, which tries to capture the effectuation of practical wisdom
through the process of identification of oneself to the phrónimos.
Maria Palmo
Embracing Culture in the Realm of Development: The Interpretive Process of
Ugandan Artists
Today, a contrast in ideologies characterizes worldwide discourse on the international
and local level. In international development, culture can be a contentious issue because
of the dichotomy between western values driven largely by economics, and the
traditional values embedded in the local cultures of developing countries (Escobar 1995;
Gould and Marsh 2004). Some westerner developers inflict their ideals on marginalized
communities and prescribe blind acceptance of new development acts. This is
particularly true of countries like Uganda whose cultural traditions played a subordinate
role during the colonial era. The British imposed on Ugandans western values that
conflicted with Ugandan cultural traditions. Even today, Uganda’s national
development agenda is influenced by western ideologies that compete with long
standing cultural beliefs (Drani 2007). Alongside this, is Uganda’s highly complex
population composed of numerous and irreducible ethnic cultures.
Ugandan artists working in community development are sensitive to the unique culture
of people groups when designing their art narratives. Throughout the artistic process
individuals and communities work together with the artist to explore different facets of
their culture in the context of development. Interpretation and discourse keep the
process in a state of play. The dialectic between poetics and ethics captures the nature of
this creative process. Art mediums release the poetical imagination; cultural traditions
provide a reference for critique. The co-creation of a visual or theatrical narrative
provides the framework for an interpretive exchange, whereby understanding
development issues is not exclusive of cultural considerations.
This paper is based upon my field-research in Uganda. The artistic process of Ugandan
development artists is presented using Paul Ricœur’s theories of mimesis, identity, and
imagination. Western developers who tend to limit their field of vision to material
progress are encouraged to imagine how they might guide communities toward
reinterpreting their cultural traditions in light of development initiatives.
Claudio Paravati
Il sacro: crisi e salvezza
Il momento storico ci costringe a riflettere sul concetto stesso di crisi, e sulla sua storia:
un complesso di rimandi tra senso, possibilità, tempo e storia che filosofi come Dilthey,
Nietzsche, Husserl e Heidegger hanno delineato nel loro lavoro filosofico. Questa
eredità vuole essere messa in luce in un'intervento che inquadri la tensione tra pensiero
e possibilità del pensiero, crisi e superamento della crisi; crisi come giudizio; crisi
dell'Occidente come crisi delle scienze europee, crisi della vita. Entro questo quadro, si
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vuole leggere quella di oggi ancora una volta come crisi della metafisica. Per farlo si
ricorrerà alla nozione di sacro, come strumento ermeneutico, il cui ruolo è rilevante nel
pensiero di Heidegger, e nell'eredità che giunge a Gadamer e Ricœur. Il sacro come
crisi e salvezza, come “separazione”, “richiamo nella divisione” e “parola che salva”. Si
cercherà di mostrare come la nozione di sacro torni nell'ermeneutica contemporanea, in
Heidegger e Ricœur, come possibilità di un pensiero altro, di un linguaggio altro. Come
altra possibilità del senso dell'essere, possibilità di salvezza.
Il sacro come concetto ermeneutico di possibilità di un pensiero altro (quello
dell'Essere), di un linguaggio non-oggettivante (divino), di cui l'uomo non può che
diventare testimone-respondente: «il pensatore dice l'essere. Il poeta nomina il sacro.
Come poi, pensati dall'essenza dell'essere, il poetare [dichten], il ringraziare [danken] e
il pensare [denken] si richiamano vicendevolmente e siano insieme divisi, rimane qui
una questione aperta» (Heidegger, Poscritto a «Che cos'è metafisica?»).
La crisi è indicata come la condizione dell'uomo, come uno stare insieme divisi: krisis,
giudizio, Ur-teil, taglio originario, separazione e divisione. Heidegger individua qui la
crisi come questo stare insieme divisi e, al contempo, ri-chiamo vicendevole, originario
[Ur].
Il Linguaggio che originariamente si manifesta come possibilità altra nel poetare, e il
pensiero che è nella modalità del ringraziare; rimando continuo in tempo di crisi, il
nostro, non spoglio però di segni di salvezza (quelli per cui ringraziare), i cenni
dell'ultimo Dio, come vuole l'Heidegger dei Beiträge zur Philosophie. Questi sono i
cenni che rimandano al di là della presenza (trascendenza), a un tempo che non è
semplice presenza, misurabile quantità di senso, ma, di rovescio [umgekehrt], assenza
della presenza (quella degli déi), altra possibilità linguistica (che non di rado è
silenzio), altra modalità temporale (quella della storia dell'essere, nel suo ad-venire,
dell'altro inizio), altro “umanesimo” (quello della cura dell'essere e della risposta alla
chiamata). Questo è lo spazio differito, diviso, della crisi, in cui gli dèi esistono per
“cenni”, come angeli, ovver messaggi, modalità della Parola e del Linguaggio; come
corrispondenza del Linguaggio dell'uomo in quanto risposta all'originario appello (la
chiamata della coscienza, la chiamata dell'Essere, quella del Dio), di cui ora si vive la
crisi dell'assenza. Questione ermeneutica per eccellenza quindi, quella del sacro.
Il sacro [das Heilige] salva [heilt] originariamente. Questa salvezza originaria è il nodo
problematico centrale attorno a cui si muoverà l'intervento, nel tentativo di mostrare,
dare parola all'insieme di rimandi e tensioni di una salvezza già data (possibilità storicotemporale, fondazione), possibilità propria del Linguaggio, già av-venuta, e
continuamente incarnata nella parola respondente, quella quotidiana, l'unica possibilità
a noi concessa (quella ereditata, ovvero la metafisica), ora intesa come l'eco di quella
frattura-originaria (Ur-teil, krisis), la Parola viva dell'Evento dell'Incarnazione.
Friedrich von Petersdorff
Temporal Aspects of Intertwinement and Dichotomy
It is a significant characteristic of Ricœur’s work that he attempts to dissolve
dichotomies. He achieves this by showing the dialectical interdependency of the specific
concepts involved. Ricœur uses this method, too, in his analysis of certain aspects of
historical research and historiography – as becomes apparent when looking at the steps
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taken by Ricœur to de-dichotomize the seemingly opposing concepts of explanation and
understanding. Another example of this procedure is Ricœur’s attempt to better
understand how the concepts of memory and history are related to one another.
According to Ricœur it is possible to de-dichotomize opposing concepts by taking their
dialectical intertwinement into consideration. Ricœur, therefore, refers to the dialectical
structure of opposing but nonetheless intertwined concepts. On taking a closer look how
Ricœur handles this dialectical structure it becomes apparent that Ricœur’s approach is
characterised by a specific temporal approach. It appears to be the case that the
opposing concepts (i.e. as related to historical research and writing) are dedichotomized by viewing them as parts of a diachronic framework, i.e. not as a
synchronic process. Choosing a non-synchronic perspective enables Ricœur to identify
“a flexible articulation and a continual to and fro” between the concepts otherwise
viewed as dichotomies. Ricœur’s method of procedure, therefore, can be seen as a
process of clarifying the intertwinement of opposing concepts. In my paper I, therefore,
intend to analyse Ricœur’s steps to re-arrange intertwined but dichotomised concepts. In
order, therefore, to present the decisive points within Ricœur’s method of responding to
conflicting concepts I shall reassess specific aspects covered by his analysis of historical
scholarship. Furthermore, I argue that a better understanding of how Ricœur solves
these conceptual questions facilitates addressing further topics of conflict. It is,
therefore, the purpose of this paper to give – within the perspective of historical
research – a precise description and analysis of how Ricœur dissolves dichotomies and
which temporal aspects he relies upon.
Silvia Pierosara
Estraneità asimmetrica. Ricœur e l’ “etica del compromesso”
Il presente contributo intende investigare risorse e limiti del pensiero ricœuriano dinanzi
alla questione dell’estraneità, attraverso un percorso testuale ancora poco noto, posto a
confronto con altre voci del panorama etico contemporaneo. Lo sfondo di tale indagine
è costituito dalla riflessione ricœuriana intorno alle nozioni di conflitto e di
compromesso, recuperate attraverso la lettura approfondita di un’intervista a Ricœur
(Pour une éthique du compromis). Tale cornice teoretica ed etica sarà utile per
focalizzare la questione dell’estraneità e verificare la possibilità di pensare altrimenti
l’esperienza dell’estraneo e coglierne la valenza etico-pratica.
La presentazione sarà divisa in tre momenti: il primo sarà dedicato alla lettura analitica
di un testo di Ricœur, anch’esso poco conosciuto, intitolato La condition d’étranger. In
questo intervento Ricœur mostra come l’estraneo (o straniero) si costituisca sempre “in
negativo”, ovvero a partire dal “non appartenere a”, “non essere membro di”: «La
compréhension de nous-mêmes ne sort du non-dit et ne commence de s'expliciter qu'en
se faisant comparative, différentielle, oppositive» (La condition d’étranger, p. 4,
Copyright: Comité editorial du Fonds Ricœur). Da questo punto di vista, il compito
etico che a Ricœur appare determinante consiste nel superare tale iniziale asimmetria
anche attraverso il lavoro e le garanzie che provengono dalle istituzioni, facendo spazio
a una simmetria che passa per una comparazione di tipo analogico e che parte dal sé.
Il secondo momento della presentazione confronterà la dinamica proposta da Ricœur (il
passaggio dall’asimmetria alla simmetria) con la fenomenologia dell’estraneo proposta
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da Waldenfels. Quest’ultimo parte dall’attestazione dell’estraneità come esperienza
fenomenologica radicale, che in nessun modo può raggiungere una simmetria. La
simmetria significherebbe infatti l’inaridimento della novità radicale dell’estraneo e
l’azzeramento di qualsiasi possibile conflitto (e relazione) con l’estraneo. Partire
dall’estraneo come ciò che ci è più proprio, anziché considerarlo “simmetrico” rispetto a
noi, appare al filosofo tedesco una strada più feconda dal punto di vista etico.
Infine, il terzo momento della presentazione proporrà di declinare la relazione e
l’incontro non a partire da un punto di vista esterno, superiore o aprioristicamente
comune, ma piuttosto dall’esperienza – anche conflittuale – dell’estraneo in noi (su
questo si farà riferimento al testo di una conferenza di Ricœur intitolata appunto
Étranger, moi-même) e rispetto a noi. Solo considerando in profondità il conflitto, senza
postulare ab initio un accordo e una comunione immediata, è possibile delineare
un’etica del compromesso. In tal senso, l’estraneo non è colui rispetto al quale ogni
relazione è impossibile, ma bensì l’emblema della relazione e della possibilità di
“compromettersi” con l’altro. A tale proposito, nella conclusione si riprenderanno le
riflessioni ricœuriane intorno alla nozione di compromesso e si ipotizzerà che tale
proposta possa poggiare sul lessico della relazione che si deduce da alcune riflessioni di
Waldenfels: dinanzi al conflitto, oltre la simmetria, le risposte etiche possibili giungono
dall’esperienza effettiva dell’estraneità e dal compromesso come risposta e promessa.
Luca M. Possati, Analogia entis: Ricœur interprete di Tommaso d’Aquino
L'analogia entis nel discorso filosofico e/o teologico tra Paul Ricœur e Tommaso
d’Aquino: la comunicazione intende mettere a fuoco questo tema a partire dalle pagine
dell’ultimo studio de La métaphore vive, in cui Ricœur sviluppa una decostruzione della
dottrina tomista dell'analogia. Ricœur sceglie Tommaso come banco di prova per
difendere la tesi di un relativo pluralismo delle forme e dei livelli del discorso, di una
discontinuità limitata tra il poetico e lo speculativo. Limitata in quanto ne permetterebbe
l’interazione o inter-animazione reciproca. I veri bersagli critici, dietro Tommaso, sono
Heidegger e La mythologie blanche di Jacques Derrida. Ciò nonostante, l’Aquinate non
è soltanto un esempio tra gli altri. Ricœur distingue l’apparato causale e partecipativo
dell’analogia entis dalla sua visée sémantique per conservare soltanto quest'ultima,
considerandola admirable. La dottrina tomista pone un problema centrale al filosofo
francese: l’unité conceptuelle capable d’embrasser la diversité ordonnée des
significations de l’être rester encore à penser. Si tratta perciò di capire l’esatta gittata
teorica del gesto ricœuriano: che cosa resta della visée sémantique tomista
nell’ontologia della referenza metaforica su cui si chiude La métaphore vive? Ma esiste
per Ricœur un problema dell’analogia dell’essere in senso tomista? Oppure dobbiamo
parlare soltanto di un uso dell’analogia, nel senso che l’analogia resterebbe un concetto
operativo mai tematizzato di per sé? L’analogia dell’agire, motivo chiave in Soi-même
comme un autre, può definirsi un’analogia dell’essere in una chiave non ontometafisica?
Quali sono i risvolti del problema sul piano del linguaggio ordinario e su quello
religioso?
L’ipotesi di lettura proposta è che in Ricœur al rifiuto della classica dottrina
dell'analogia entis non corrisponda affatto la fine di qualsiasi analogia dell’essere nel
nome di una vaga frammentazione ontologica, bensì la ripresa dell'analogia dell'essere –
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la visée sémantique del tomismo – attraverso il testo e l'interpretazione. Ciò avverrebbe
non tanto sul piano del mythos, dell’organizzazione interna del testo (codici, strutture,
significanti, ecc.), quanto su quello della mimesis, della lettura, dell’applicazione del
testo. Sul piano dell’agire, insomma. L’analogia tra il testo e l’azione – motivo chiave
nel progetto di herméneutique des sciences sociales degli anni Settanta-Ottanta – va
dunque intesa non semplicemente in un senso epistemologico (anche se, ovviamente, è
questo il suo senso più evidente). Nell'interpretazione si realizza l'unità di linguaggio e
azione, di senso e forza. Da fondamento e principio metafisico, l'analogia diventa un
problema etico-pratico: l'unità dell'essere è telos, Idea kantiana, che regola l'agire.
Franz Prammer
Poetic Discourse and Reality: „Reference“ or „Refiguration“? The Rupture between
the Hermeneutical Conceptions of „La métaphore vive” and „Temps et récit”
The thesis of my paper is
a)
that the transition from the hermeneutical position of La métaphore vive
to the position of Temps et récit has to be conceived of rather as a rupture than
as a simple development, and
b)
that this rupture has mainly to do with the question of the relationship of
poetic discourse to reality.
The first part of my thesis is intended as a critique of those interpretations of Ricœur’s
hermeneutics who are trying to blend the two hermeneutical conceptions (i.e., that of La
métaphore vive and that of Temps et récit) into one consistent whole.
In the context of the second part of my thesis I will make a plea for the position that the
older hermeneutic position (of La métaphore vive) contains a „surplus of meaning” with
regard to the newer one (of Temps et récit).
I will develop my thesis in 6 steps:
1. I will start with some preliminary remarks in which I will try to sketch the main
positions taken by the literary theory of the 20th century concerning the relationship of
poetic discourse to reality. I will concentrate myself on three exemplary representatives
of literary theory, namely Erich Auerbach, Northrop Frye, and Roland Barthes.
2. The second step will consist in giving a sketch of Ricœur’s hermeneutical position as
developed by him in La métaphore vive. The key concepts will be „world of the text”
and „reference”.
3. The third part of my paper will be devoted to the main lines of Ricœur’s
hermeneutical conception as unfolded in the three volumes of Temps et récit, centred
around the key concepts „threefold mimesis”, „prefiguration”, „configuration”, and
„refiguration”.
4. The fourth step will be to shed some light on the relationship of the two
hermeneutical conceptions, with a special focus on the way in which the relationship of
poetic discourse and reality is portrayed in either of the two conceptions. The point of
depart of my reflection will be the self-critique Ricœur’s (concerning his position in La
métaphore vive) as uttered by him in the third volume of Temps et récit.
5. In the fifth step I will put forward my own position concerning the relationship of
poetic discourse to reality. My plea will be that the concept of „reference” should not –
as Ricœur proposes in the third volume of Temps et récit – be replaced by the concept
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of „refiguration”, but that the two concepts complement each other, because they
articulate different aspects of the relationship of poetic discourse and reality.
6. I will close with some remarks on the possible relevance of these considerations for
the theme of the conference. To put it shortly: only if poetic discourse talks in a certain
sense „about the world”, it can have an orientating function in helping us to steer our
course „through crisis and conflict”.
Cláudio Reichert do Nascimento
Vie et récit : le débat contemporain entre MacIntyre et Ricœur
Le phénomène de la vie humaine, d’une part, est vu par les sciences de la nature,
notamment par la biologie, comme un processus métabolique ou de reproduction. Il est
envisagé, d’autre part, par les sciences humaines, plus spécialement par des disciplines
comme la philosophie, la sociologie, l’histoire, comme persévérance dans l’existence,
laquelle s’exprime dans des manifestations culturelles qui appellent un travail
d’interprétation. Au XIXe siècle, on s’interrogeait pour savoir si les sciences humaines
pouvaient aspirer au même niveau d’objectivité que les sciences de la nature qui
explicitent les phénomènes à partir de l’explication causale et empirique. Dans le
contexte de la philosophie contemporaine du XXe siècle, plus spécifiquement depuis
1980, des philosophes comme Alasdair MacIntyre, Paul Ricœur et David Carr ont
proposé des discussions par rapport aux façons de donner sens et cohésion à la vie
humaine finie qui se déroule entre la naissance et la mort. Les principaux enjeux
soulevés par cette discussions sont de savoir: a) si l’on peut concilier la vie et le récit; b)
si la vie est une histoire mise en acte; c) si la vie est vécue et l’histoire est racontée. Le
but de notre exposé est de mettre au jour les proximités et les écarts entre les approches
de MacIntyre et Ricoeur concernant l’unité narrative de la vie et la possibilité pour le
récit de rendre compte de nos expériences vécues. Plus précisément, nous mettrons en
relief la différence entre la perspective de MacIntyre, selon laquelle la vie aurait un
début, un milieu et une fin au plan narratif, et celle de Ricoeur qui s’oppose à cette
dernière en soulignant que des parties considérables de nos vies nous échappent et ne
nous sont connues que par l’intermédiaire de nos proches, ou encore ne seront connues
que par nos successeurs. Enfin, en reprenant l’adage de la « petite éthique »
ricœurienne, à savoir, que l’éthique est aspiration à la « vie bonne, avec et pour les
autres, dans des institutions justes », nous proposerons un argument contre la thèse de
Ricœur selon laquelle nous sommes simplement coauteurs de nos récits de vie quant au
sens. Nous soutiendrons plutôt que dans l’envie de vivre bien avec et pour les autres, il
y a un désir d’être plus qu’un simple coauteur, mais d’être auteur à part entière de nos
récits de vie.
Filippo Righetti
Oltre il contesto antropologico della crisi soggettiva: pensare di più e altrimenti nella
filosofia di Paul Ricœur
Vi è un punto di vista privilegiato che ci permette di sintetizzare la filosofia di Paul
Ricœur. Certamente, attraverso il filo conduttore dell’ontologia esistenziale:
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determinare l’essere e i modi d’essere del soggetto riassume quello che è stato il
principale impegno teoretico del maestro.
Primo obiettivo: applicare il concetto di crisi, di chiara derivazione mouneriana, alla
descrizione antropologica sintetizzata in Finitudine e colpa, sulla base della categoria
centrale dell’opera: la sproporzione. Il significato di un’esistenza fondata sul conflitto e
sulla crisi del sé con se stesso, detiene un valore positivo in seno alla sua funzione
descrittiva, ma, se vogliamo, anche negativo, poiché la tensionalità del finito verso
l’infinito (il movimento della sproporzione), si staglia la tragicità della scoperta
(confermata dalla Simbolica del male) di una mestizia esistenziale. A questo tipo di
sentimento non può sfuggire, soprattutto, un’essenza decisa sull’ermeneutica dell’Io,
che è alla continua ricerca del Sé stesso, strenuamente difesa da Ricœur.
Secondo obiettivo, stavolta critico: stabilire se la chiave di lettura del binomio crisi –
fallibilità possa veramente rispecchiare un’ontologia (come è dichiarato in Finitudine e
colpa). In altre parole, ci si potrebbe domandare se la realtà ineliminabile del proprio
male afferisce all’interezza dell’essere soggetto, o se invece essa appartenga al solo
contesto teleologico – volontario, specifico del sistema antropologico dell’opera. È
proprio il nostro autore a venirci in aiuto, attraverso la grande scoperta dell’involontario
soggettivo, mutuata dall’attenzione per un’antropologia allargata, in profondità, alla
psicologia freudiana e alla dialettica tra archeologia e teleologia del sé; determinando
l’emancipazione dell’essere dal limite del voler essere e la priorità dell’io sono rispetto
alla fallibilità dell’io posso, è quindi sul binario neutro strutturale dell’involontario
soggettivo che, a nostro parere, si può dimostrare, a livello ontologico, un superamento
delle categorie relative alla cosiddetta crisi dell’esistenza.
Del resto, che cosa significa ermeneutica del sé secondo la filosofia ricœuriana?
Soltanto apertura, conflitto, lacerazione, o anche possibile soluzione del conflitto,
tensione nel ricordo (circolo ermeneutico) e nella certezza di appartenere fortemente a
sé stessi? I limiti interni all’antropologia filosofica possono essere superati sul versante
ontologico dell’esistenza.
Cristina Romanò
Verso una giustizia internazionale penale “non violenta”? Le risposte del diritto
internazionale penale ai “crimini che non si possono né punire né perdonare” tra
paradigmi retributivi e “restorative justice”.
Nel saggio Le droit de punir, pubblicato nel 2002, Ricœur evidenzia, attraverso i punti
di vista del colpevole, della vittima, della legge, come, in una prospettiva macrostorica,
si possa tracciare un cammino che porta dalla “giustizia violenta” alla “giustizia non
violenta”. Tappa finale di questo percorso sembra essere, in prospettiva futura, il
superamento del modello retributivo della giustizia penale, che non può svincolarsi
dallo “scandalo intellettuale della pena”, per accedere ad un modello alternativo
incentrato sul perdono. Il contenuto del saggio richiamato costituisce una chiave di
lettura di alcune evoluzioni della giustizia internazionale penale, la quale si confronta, a
partire dal secondo dopoguerra, con la necessità di fornire una risposta in termini di
“giustizia” a seguito della commissione di genocidi, crimini di guerra e crimini contro
l’umanità perpetrati nei contesti di conflitti, armati e non.
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Nel presente contributo individuo tre tipologie di interventi attuati nel contesto della
Comunità internazionale di fronte ai cosiddetti core crimes, ed in particolare: gli
interventi che, pur avendo basi giuridiche diverse, sembrano essere caratterizzati da un
comune paradigma retributivo; gli interventi che sembrano essere ispirati ad un concetto
“alternativo” di giustizia; gli interventi che presentano alcune caratteristiche di entrambi
i modelli.
Farebbero parte della prima categoria: l’istituzione di Tribunali militari di Norimberga e
di Tokyo; dei Tribunali ad hoc per la Ex-Yugoslavia ed il Ruanda; delle cosiddette corti
“ibride”.
Rientrerebbero nella seconda categoria gli interventi di sostegno tecnico ed economico
fornito dalle Nazioni Unite alle truth commissions sorte in paesi quali: El Salvador,
Guatemala, Timor Est, Sierra Leone, Liberia, Repubblica Democratica del Congo. Con
riguardo a tali interventi, andrebbe chiarito se e in che senso essi costituiscano esempi di
“restorative justice”, anche alla luce dei principi delle Nazioni Unite sull’uso dei
programmi di restorative justice in materia penale e dell’ Handbook pubblicato nel
2006 dall’Ufficio viennese delle Nazioni Unite sulle droghe e i crimini.
Una terza categoria, risultante da un compromesso tra i due modelli, è quella
rappresentata dal sistema della Corte Penale Internazionale, il cui statuto è entrato in
vigore nel luglio 2002. Per comprendere i termini di questo “compromesso”, appare
opportuno delineare le figure del “colpevole”, della “vittima”, della “legge” alla luce
delle norme dello statuto di Roma. Dall’analisi delle disposizioni statutarie inerenti
questi tre elementi del sistema, emerge come l’apertura verso il modello della
restorative justice consista esclusivamente in alcune innovative disposizioni “victim
oriented”. In particolare si riconosce alle vittime stesse il diritto di partecipare al
processo e di richiedere compensazioni economiche per le sofferenze patite. Per il resto,
il modello di funzionamento della Corte e la risposta sanzionatoria da essa perseguita
rientrano pienamente nel paradigma “retributivo”. Dipendono anche da ciò le potenziali
problematiche relative all’interazione tra il sistema della Corte e sistemi alternativi di
giustizia nell’ottica del principio di complementarietà.
Come osservato da Ricœur con riferimento ai sistemi penali in generale, anche nel
diritto internazionale penale il modello “retributivo” sembra essere, attualmente,
irrinunciabile, anche se accanto ad esso si delineano modi di “pensare altrimenti” il
fenomeno criminoso e le possibili risposte.
Alberto Romele
La crise de la foi. Théologie herméneutique et herméneutique théologique
À l’occasion d’un article du 1931, Bultmann définit la crise de la foi selon l’acception la
plus subjective du génitif, comme « un crise constante », dans laquelle la volonté de
Dieu « doit se réaliser dans une lutte contre la volonté propre [de l’homme] qui ne vaut
pas reconnaître ses limites » (Bultmann 1970 : 388). Le but de notre intervention est de
montrer si et dans quelle mesure on puisse parler chez Ricœur aussi d’une telle crise.
L’herméneutique ricœurienne de la foi sera mise en dialogue notamment avec celle de
G. Ebeling, vu qu’il aurait été le seul entre les théologiens de la Parole à assumer de
manière radicale la tâche ricœurienne de la distanciation qui précède toute appropriation
(Bühler 2011 : 158-161).
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Dans une première partie, nous défendrons la thèse selon laquelle on aurait tort à
rapprocher les deux herméneutiques du côté de la distanciation. Selon la théologie
herméneutique ebelingienne la distanciation entre l’homme et Dieu est opérée par Dieu
lui-même, tandis que pour l’herméneutique théologique de Ricœur c’est l’homme qui
entreprend un cheminement de liberté vers Dieu. Le courage de la foi n’est pas pour
Ebeling « une composante naturelle de l’homme », mais seul peut l’avoir « celui qui, au
lieu de Le tenir en sa possession, se laisse posséder par Lui » (Ebeling 1970 : 117-118).
Notoirement, chez Ricœur la foi chrétienne est au contraire le résultât de l’articulation
entre l’autonomie de la conscience et la symbolique de la foi sur laquelle l’homme
exerce sa capacité d’interprétation (Ricœur 2008 : 99).
Dans une deuxième partie, nous démontrerons que Ebeling et Ricœur pourraient être
rapprochés plutôt du côté de l’appropriation. En ce sens, Ricœur se montre même plus
théologien que Ebeling. Pour celui-ci, en effet, la Parole de Dieu est efficace dans la
mesure où elle engendre les possibilités humaines les plus propres, tandis que pour
Ricœur, au-delà de la familiarité du référent de la composante existentielle, c’est
l’étrangeté du référent de la chose du texte qui compte dans l’interprétation des
Écritures. Ebeling partage avec Bultmann l’idée que « la caractéristique du kérygme qui
nous touche de plus près, c’est qu’il s’agit non pas de recevoir une information mais de
répondre à une interpellation qui exige obéissance et décision » (Ebeling 1972 : 58).
Selon la perspective ricœurienne, il faut que quelque chose soit d’abord extrinsèque à
l’homme, pour qu’il soit ensuite efficace sur l’existence humaine.
Dans les conclusions de notre intervention, nous proposerons deux sériés de
considérations. Premièrement, on se questionnera à propos des différences réelles entre
une théologie herméneutique qui admet immédiatement les limites de l’interprétation et
une herméneutique théologique qui admet les mêmes limites suite à un détour de plus
en plus long par les voies de la méthode. Deuxièmement, nous interrogerons les effets
d’un telle herméneutique de la foi sur l’herméneutique philosophique ricœurienne. La
crise de la foi comme Bultmann l’a définie apparaîtra en fin le pivot d’une bonne partie
de la pensée de Ricœur.
Jose Ruiz Fernandez
Paul Ricœur’s Thinking on Imagination and the Phenomenological Material a Priori
My goal will be to defend that some traits of Paul Ricœur’s theory of imagination, used
by him to cast light on social, practical and religious discursive practices as well as
personal action, can help us also to deepen our understanding of what in the
phenomenological tradition is usually referred as “evidence of the material a priori”. It
is well known that Husserl assumed that evidence of the material a priori takes place
through a process in the imagination (“phantasy”, in his terminology). However, his
understanding of the imaginative process as something detached from linguistic
meaning contributed to his thinking of such evidence in terms of a constitutive process,
i.e., of a synthetic categorical act based on what is exhibited through that process.
Through an exemplary consideration of the evidence we have of something colored
necessarily having an extended surface, I will try to show how that evidence depends on
an imaginative process revolving around a certain “semantic rule”, that is, around a
certain “rooting” of linguistic meaning therein employed. I will argue that this type of
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evidence is better understood when taking into consideration Ricœur’s view of some
imaginative process as inherently linked with linguistic meaning, i.e., as productive
schematismus being deployed on the background of a semantic field 39. Furthermore, I
will also argue that the fact that the evidence of the material a priori can only be attained
trough an imaginative process speaks for Ricœur’s idea that imagination is a process
possessing original heuristic power40.
On the whole, my paper aims at briefly proposing a new understanding of the evidence
of the phenomenological material a priori that reconciles some central traits of Husserl’s
phenomenology with some ideas on imagination that Ricœur developed.
Franco Sarcinelli
Scuotere i rami della filosofia con Paul Ricœur. A proposito di antropologia filosofica
Da alcuni decenni antropologi, economisti e sociologi sollecitano i filosofi ad un
confronto reciproco sul tema della morale. Già agli inizi degli anni ’60 l’antropologo A.
Edel teorizzava la necessità «to bring anthropology and philosophical ethics into
common focus»; a partire dagli anni ‘80 l’economista A. Sen ha assunto la nozione
‘allargata’ di “capability approach” rispetto a quella tradizionale di “homo economicus”
e da qualche anno l’antropologo sociale D. Fassin sta lavorando sul concetto di
“economia morale”. La situazione globale di crisi economica e finanziaria, climaticoambientale e valoriale che fa prevedere scenari futuri assai critici come descritto
efficacemente nel recente libro di Comin e Speroni 2030. La tempesta perfetta, impone
ai filosofi l’urgenza non più differibile di uno scambio ed un confronto con cultori delle
altre discipline per una ridefinizione dei valori etici nel quadro di una aggiornata
antropologia filosofica. Attraversando il percorso filosofico di Ricœur si trovano
elementi particolarmente utili per possibili convergenze, in particolare nella sintesi di Sé
come un altro. Dopo aver nei primi studi di questo volume esaminato le varie modalità
di identità come risposta alla crisi del soggetto e del Cogito brisé su cui ha dibattuto la
filosofia del ‘900, nel settimo studio e successivi egli ha delineato i caratteri di una etica
e di una norma morale come fonti di saggezza pratica e praticabile. La sua formula del
“tendere ad una vita buona con e per gli altri entro istituzioni giuste” implica una
prospettiva etico-morale basata su un potenziale di identità condivisa con gli altri, una
identità non autoreferenziale ma sociale ed inserita in un contesto politico-istituzionale
fondato sui valori della giustizia. Tra le tradizionali virtù aristoteliche del ‘buono’ e del
‘giusto’ si inserisce la mediazione di una socialità umana condivisa su basi di
reciprocità. In quanto capisaldi di questa impostazione sono da esaminare le nozioni di
attestazione, riconoscimento e rispetto. Si afferma un orizzonte teorico che tiene “in
tensione” una identità personale di sé per un verso irriducibile alla pura determinazione
sociale ma che, nel contempo, è consegnata alla irrevocabile attestazione proveniente
dall’Altro nel contesto di un mutuo riconoscimento e rispetto. La riflessione di Ricœur
predispone strumenti teorici adeguati alla riformulazione di una antropologia filosofica
aggiornata dalle epocali sfide della crisi del mondo attuale, la cui gravità impone la
necessità di argomenti etico-morali e richiede nella cultura di oggi e di domani il
39
40
Cf. Ricœur, P., Du Texte à l’Action, éd. du seuil, Paris, 1986, p. 219.
Cf. Ricœur, P., La Métaphore Vive, éd. du seuil, Paris, 1975, cap. 7 .
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bisogno di “più filosofia” e non “meno” rispetto al passato. Con un rinnovamento della
tradizione il filosofo può scuotere i rami della sua disciplina offrendo utili frutti da
offrire agli studiosi della società e dei suoi sommovimenti profondi: il contributo di
Ricœur appare in questo senso illuminante.
Maria Chiara Spagnolo
Paul Ricœur legge Jürgen Habermas
L’assenza di un luogo di effettiva esistenza, riscontrabile dall’origine etimologica, pone
immediatamente in Paul Ricœur e nelle conferenze Ideologia e Utopia il limite tra i due
fenomeni: ciò che è separato, indipendente, non situato in un’unica struttura concettuale.
Nel suo carattere ‘immaginario’, l’utopia rimanda ad uno spazio ‘aperto’ in cui l’agire
sociale e individuale si arricchiscono di una dimensione della possibilità e della libertà
tipica del moderno homo faber, contro ogni immagine dell’esistente intesa come
concezione ‘chiusa’ e aliena da ogni valutazione critica. «L’immaginazione sociale è
“costitutiva della realtà sociale”». In questa prospettiva, tuttavia, esiste un’altra visione
dell’utopia. I progetti utopici di emancipazione e libertà possono rovesciarsi nel loro
opposto, in delle distopie, in omologazioni culturali o in formazioni totalitarie. È
interessante notare come Ricœur riconosca come prima funzione dell’ideologia quella di
fabbricare un’immagine rovesciata della realtà, una alterazione mediante rovesciamento.
Ecco dunque che la lettura ricœuriana di Habermas è il tentativo di coniugare il
processo critico dell’Ideologiekritik con la psicoanalisi, la riflessività, l’auto-riflessione,
con quel situare e ripensare la vita sociale mediante la funzione immaginativa e
utopica. Si tratta di un continuum, di un unico processo comunicativo in cui la critica
dell’ideologia si configura come il momento critico all’interno del stesso processo, un
passo verso il “riconoscimento”, verso la restaurazione della comunicazione. Ciò che
Ricœur propone, attraverso lo studioso tedesco e l’analisi di Conoscenza e interesse, è
una riformulazione della relazione che intercorre tra ideologia e vita sociale reale, una
connessione più che una netta opposizione che passa attraverso le variazioni
immaginative – Phantasie – che l’utopia introduce, sia essa un progetto di legislazione
sociale o un viaggio immaginario o ancora un modello di sovranità o di autorità in cui
l’esperienza critica e comunicativa passano dallo stesso grado (dalla simbolizzazione a
un momento di desimbolizzazione, dal riconoscimento alla comunicazione) e l’utopia
stessa è una forma del pensiero critico-ideologico, un ipotetico atto linguistico di una
comunicazione senza ostacoli e libera da vincoli. Si tratta di tracciare dei significati
aperti in cui ciò che conta non è l’affermazione di certezze, ma porre degli interrogativi.
L’utopia può creare nuovi scenari di esistenza? L’esito dell’atto comunicativo è reso
incerto poiché è affidato all’utopico, a ciò che non può essere mai definito e definitivo,
non ridotto allo strumentale. La lettura del messaggio utopico avviene in uno spazio
transitorio, in cui il possibile e l’impossibile se pur per un frangente di tempo
ridottissimo coesistono. Nel corso dell’intervento saranno tematizzate alcune delle
principali questioni aperte, con una particolare attenzione per le prospettive e gli
approcci teorici che sottostanno alla definizione dei singoli temi e alla selezione delle
metodologie con cui essi sono affrontati. Rientra in questa cornice l’intreccio tra la
visione antropologica habermasiana che pone le basi e fornisce una transizione del
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discorso verso il modello psicanalitico e l’adeguatezza di tale modello nel tentativo di
collegare Marx e Freud e la conseguente, parallela, interpretazione ricœuriana.
Giovanni Todaro
La metafisica devant Dieu del primo Ricœur
Il contributo che s’intende promuovere, attraverso queste righe, si propone lo scopo di
porre in risalto un periodo e una serie di suggestioni ben precise dell’iter ricœuriano.
Come attesta la pluriennale produzione filosofica di Paul Ricœur, l’orizzonte religioso
rappresenta di certo la risorsa principale di un pensiero sempre sulla frontiera fra
filosofia e teologia. In considerazione di tale motivo conduttore e del suo predominare
nei testi ricœuriani, si può proporre una messa a fuoco di quattro testi giovanili assai
significativi e che, a nostro avviso, permettono di ritrovare una chiave di lettura del
pensiero religioso di Ricœur. Si tratta di una sorta di tetralogia filosofico-teologica che
si colloca lungo un arco di tempo che si stende negli anni Cinquanta.
Gli scritti sono La condition du philosophe chrétien (Roger Mehl) del 1948,
Philosophie et prophétisme I del 1952, Philosophie et prophétisme II del 1955 e Un
philosophe protestant: Pierre Thévenaz del 1956. Essi consentono la tematizzazione di
alcuni punti cardine del successivo impegno filosofico ricœuriano. In primo luogo
consentono di tratteggiare soprattutto il profilo filosofico e religioso dell’autore,
lasciandone intravedere il coinvolgimento in prima persona su temi come la convivenza
fra credo professato e attività letteraria e filosofica. A tuttotondo emerge le figura di un
pensatore che non si rassegna a condurre il proprio impegno entro gli schemi di una
corrente o di una scuola ben precisa e consolidata. L’attenzione verso pensatori tutto
sommato marginali, quali a ragione o a torto possono essere considerati Mehl, Neher e
Thévenaz, è il pretesto per condurre un’indagine scevra di posizioni rigide e assodate.
Ricœur, scrivendo di tali autori, scopre in sé stesso le fattezze intellettuali di un filosofo
che guarda alla propria fede come a una risorsa, non già dogmaticamente presupposta
ma sviluppatasi parallelamente all’impegno della teoresi e dell’analisi ermeneutica delle
fonti classiche.
In secondo luogo, possono rinvenirsi nel percorso di analisi delle filosofie religiose,
soprattutto in quella dell’amico Thévenaz, i tentativi di tratteggiare un cristianesimo
operante nella tradizione francese del pensiero della réflexion; tradizione di chiare
ascendenze cartesiane, ma che negli anni dello spiritualismo ha ritrovato vigore e si è
gradualmente affrancata dalla nomea di neo-scolastica in salsa moderna.
Nel primo articolo in questione, redatto nel 1948 e dedicato all’analisi della filosofia di
Mehl, dal titolo La condition du philosophe chrétien. Ricœur dichiara la propria
posizione in merito al rapporto fra filosofia e fede cristiana, chiarendo, in maniera
inequivocabile, di non aderire al progetto di una “filosofia cristiana” imperante negli
ambienti del neotomismo francese.
Il Nostro trae da Mehl un bagaglio notevole di spunti non indifferenti. Fra le righe di
questo testo vengono delineati i tratti salienti di un cristianesimo incastonato nel cuore
di una “filosofia senza assoluto”, lasciando trapelare al contempo la configurazione di
un pensiero che comporti il radicamento in una condizione sradicata in primo luogo
dalla pretenziosa concezione dell’essere come totalità e del sapere come sistema. A
fronte di un’umanità totalmente décrochée da ogni idea assoluta, di un’umanità nuda
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dinanzi all’abisso del Totalmente Altro, si staglia all’orizzonte un percorso filosofico
scevro d’ogni formulazione metafisica, ovvero un orizzonte di pensiero che prenda
progressivamente coscienza della natura asfittica della metafisica classica. Parimenti, da
una tale situazione, esistenziale e intellettuale al contempo, si evince giocoforza che il
devant Dieu (categoria eminentemente kierkegaardiana) non sia una fonte veritativa,
bensì la messa in crisi di tutto ciò che ancora, nella metafisica come nella religione
stessa, sa di dogmatismo preconcetto.
Se si focalizzano invece i due articoli sul profetismo biblico, variamente ispirati agli
studi di André Neher, si evince un’idea ancor più critica di filosofia. Il filosofare è
anche uno stare fuori dalla stessa filosofia; questa condizione consente un ritorno sul
pensiero filosofico alla luce chiaroscurale dei presupposti stessi del pensiero; in altre
parole il filosofare puro non sussiste. Si è sempre invischiati in una prospettica
esistenziale che fornisce l’angolazione fondamentale di ogni argomentazione. Sulla base
di una tale contestualizzazione vengono fornite le caratteristiche salienti del concetto
ricœuriano di esistenza intesa alla stregua di un conglomerato di presupposti
inalienabili. La fede è di sicuro, in questa prospettiva, il più irriducibile dei presupposti
esistenziali, in questo senso una filosofia della religione si candida a essere una filosofia
esistenziale tout court.
Ancor più incisivo e determinante appare il confronto con Thévenaz. In un articolo del
1956, dal titolo Un philosophe protestant: Pierre Thévenaz, Ricœur pare ricalchi
fedelmente i punti emersi nell’articolo pubblicato otto anni prima, allorché se ne
ribadisce la medesima suggestione di fondo. Il punto di svolta decisivo è rappresentato
dall’adesione accordata al concetto thévenaziano di désabsolutisation. Si tratta di un
passaggio nodale della massima rilevanza, se si vogliono comprendere la genesi e le
motivazioni dell’itinerario filosofico e teologico di Ricœur nel suo insieme. In
considerazione del contesto storico-filosofico, entro il quale maturano quelle che
potremmo a ragione ritenere le opzioni fondamentali della filosofia ricœuriana, la
“filosofia senza assoluto” di Thévenaz diviene segno del tentativo di coniugare la
tradizione riflessiva francese (incentrata sull’ermeneutica del Cogito cartesiano) con le
più vivaci istanze della teologia dialettica di Barth. Per l’appunto tali opzioni
fondamentali possono sommariamente sintetizzarsi in due punti: in prima battuta affiora
uno spiccato interesse per una filosofia meno autoreferenziale e più propensa al dialogo
con le espressioni della cultura e con le scienze umane; in seconda battuta viene alla
luce un costante interesse per le implicazioni filosofiche di cui è portatrice la teologia
barthiana. Un tale contesto di base costituisce il retroterra che dà luogo, nel corso delle
fasi successive del filosofare di Ricœur, a una sempre più scaltrita tematizzazione del
ruolo della religione cristiana nell’ambito delle questioni più spinose della filosofia del
‘900, prime fra tutte quelle del male radicale e della sofferenza ingiusta
Ciò che Ricœur evidenzia senza indugi è il fatto, apparentemente singolare, che
Thévenaz utilizzi l’aggettivo protestante per designare la propria filosofia e lo faccia al
fine di rendere perspicua l’affinità fra il proprio modus philosophandi e la critica rivolta
all’indirizzo delle filosofie autoritarie, dogmatiche e razionalistiche, prima fra tutte
quella cartesiana. Detto altrimenti, nell’ambito del neobarthismo francese è opinione
assai diffusa credere che Lutero, rampognando la pretesa soggettiva di accedere alla
salvezza mediante le opere umane, abbia inaugurato un modo di pensare diametralmente
opposto a quello accentratore che prenderà forma successivamente nelle filosofie
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d’ispirazione cartesiana ed hegeliana. Con la Riforma, in poche parole, l’uomo moderno
viene spodestato e si ritrova dinanzi all’abisso dell’indisponibile. Thévenaz asserisce
con vigore che la Croce di Cristo è quanto di più lungi possa essere pensato dal Cogito,
a suo modo di vedere contraltare filosofico della concupiscenza del cuore tanto
avversata dallo stesso Lutero.
Quindi, se il Riformatore tedesco, a suo modo, ha dato il via alla concezione del
decentramento dell’esistenza, il Cartesio riletto dagli epigoni dell’idealismo e slegato
dalla tradizione francese della réflexion, da par suo, ha gettato le basi di tutti i processi
di pensiero speculativi che tendono a costruire un assoluto artificioso e avulso. Per certi
versi tale argomento appare equipollente alla critica di Maritain a Cartesio, sennonché
nel pensatore cattolico il ricorso alla Rivelazione è sostanzialmente legato all’esigenza
di fondare un’epistemologia forte, mentre nel pensatore protestante un tale ricorso
risponde a tutt’altra esigenza: rendere la filosofia più flessibile verso l’alterità
irrinunciabile della Rivelazione cristiana. Stante a tale dato storico, Thévenaz esorta sé
stesso a intraprendere la strada di una filosofia che funga da désabsolutisation del
pensiero forte e del sapere assoluto. Una filosofia protestante sarebbe una filosofia
libera e quest’ultima sarebbe giocoforza una philosophie sans absolu. In definitiva resta
da capire da cosa s’intenda liberare il pensiero protestante. A un tale quesito il tragitto
seguito da Ricœur risponderà negli anni ’60 con la riflessione intorno alla Simbolica del
male, cuore e svolgimento dell’anti-teodicea ricœuriana.
Il filosofo protestante, secondo Ricœur incarnato appieno dallo stesso Thévenaz, è il
pensatore conscio che la considerazione filosofica della Croce contenga in nuce tutta la
carica esplosiva della cesura pascaliana fra il dio dei filosofi e il Dio della Bibbia,
insomma una forza dirompente e decisamente iconoclastica che si scontra con le
presupposizioni metafisiche e le verità dogmatiche di chi piega l’esperienza drammatica
e irriducibile della fede agli schemi del filosofare greco. La fede non è quindi una
modalità conoscitiva, bensì stabile assenza di staticità; è presupporre il nulla per il
mondo e il tutto per il credente. Mantenere viva questa carica paradossale, nel credente
che sceglie di esprimere la propria condizione nella filosofia, equivale a sperimentare un
metodo che blandisce le contructions systématiques e assapora la vertigine degli
ébranlements aporétique di un pensiero difforme dalle forme metafisiche.
Sulla scia di Paolo, che ha innescato un moto di dédivinisation delle opere della Legge,
a suo dire non completamente immuni dalla concupiscenza umana, il filosofo
protestante amplifica tale moto mediante una sua ricollocazione nella filosofia,
permettendo alla dédivinisation di tradursi in désabsolutisation delle forme di pensiero
che ricorrono a cornici sistematiche pretenziosamente esaustive, incapaci perlopiù di
cogliere la fede cristiana nella sua portata rivoluzionaria e, perché no, aporetica.
Marc-Antoine Vallée
Répondre à la crise: l'expérience herméneutique du sens
Dans « Meurt le personnalisme, revient la personne… » (1983), Ricœur soutient qu’il
est caractéristique de la situation herméneutique de l’existence humaine que d’être le
lieu d’une crise. En fait, la crise serait inhérente à la constitution ontologique de la
personne humaine : « Est personne cette entité pour laquelle la notion de crise est le
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repère essentiel de sa situation41 ». Que cette situation soit dominée par la crise signifie
d’abord et avant tout que l’homme ne saurait pas quelle est sa place exacte dans
l’univers. De ce point de vue, la crise est ce qui initie la recherche de sens, c’est-à-dire
la quête de repères permettant à l’homme de s’orienter dans l’existence. L’objectif de
cette communication est d’examiner, selon une approche phénoménologique,
l’expérience de la personne humaine qui affronte la crise et oriente son action en
s’appuyant sur la conviction. Plus précisément, nous chercherons à proposer une
description phénoménologique de l’expérience de la conscience (au sens de Gewissen),
comme le lieu même du drame entre la crise et le sens, entre le soupçon et la conviction.
Pour ce faire, nous proposerons une lecture croisée des thèses de Ricœur, Heidegger et
Ebeling sur la conscience, qui placent cette dernière au point de rencontre de l’éthique,
de l’ontologie et du théologique. À travers cette discussion critique, nous nous
efforcerons de mettre au jour un moment-clé dans la pensée de Ricœur où une
dimension d’activité, d’invention ou de recherche se voit simultanément liée à une
dimension de passivité, de découverte ou d’accueil, au point où les deux dimensions
deviennent difficilement discernables. Nous verrons comment ce moment-clé, que l’on
trouve au cœur de l’expérience de la conscience, se laisse éclairer selon différents
modèles appartenant à la philosophie de Ricœur, soit celui du témoignage (l’attestation),
de la métaphore (l’invention-découverte) et de la mémoire (le petit miracle de la
reconnaissance).
Maria Cristina Clorinda Vendra
La relazione d’alterità e la libertà meta-conflittuale
Nell’epoca contemporanea, caratterizzata da conflitti mondiali, da scontri religiosi e
crisi economiche, è diventato sempre più problematico rispettare la dignità della
relazione interumana. Negli eventi più estremi, l’uomo è stato completamente spogliato
della propria unicità e irripetibilità, ridotto a paziente narcotizzato dalla ragione
strumentale legata alla tecnica.
Il mio elaborato ha come obiettivo la possibilità di ripensare un’autentica relazione
d’Alterità dal punto di vista della libertà. I riferimenti principali sono costituiti da due
opere: la seconda e quarta sezione di Totalità e Infinito di Emmanuel Lévinas e Percorsi
del Riconoscimento di Paul Ricœur.
Il problema che accomuna i filosofi in analisi è il riconoscimento dell’alterità umana,
più precisamente la possibilità di una relazione intersoggettiva in cui ogni uomo possa
essere liberamente e pienamente partecipe.
La riflessione prende avvio da una delle tesi centrali del pensiero lévinassiano: la libertà
non è originaria ma originata. L’autentica libertà non è monologica, ossia proprietà di
un io separato, soggetto di totalità, bensì è donata a se stessa da un primum
trascendente. Di conseguenza, il vero soggetto non è l’io causa sui, il Medesimo egoista
e dominatore della totalità, ma l’io che si costituisce attraverso un processo di
gestazione nel quale è sempre dipendente dall’alterità.
41
P. Ricœur, Lectures 2, Seuil, Paris 1992 (1999), p. 199.
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In primo luogo, l’io si afferma come io di godimento, ossia un io che soddisfa i propri
bisogni grazie agli elementi che però si sottraggono al suo dominio ponendolo in una
situazione d’insicurezza.
L’io di godimento tenta, quindi, di porre fine alla suddetta incertezza, trasformando le
cose in oggetti al fine di ripararle dalla possibilità di distruzione: l’io, può emergere
dall’elementare nel quale è sommerso e prenderne le distanze.
Il corpo rappresenta il fenomeno grazie al quale l’io emerge dal mondo di godimento
tentando, con un movimento di raccoglimento, di allontanarsi dalla situazione di
insicurezza.
L’io, quindi, esercita in questo momento della sua gestazione, la propria libertà come
libero possesso delle cose.
La definitiva affermazione dell’io in quanto soggetto richiede un ulteriore sforzo in cui
dovrà liberarsi non solo della libertà di godimento, ma anche di quella di possesso: «per
poter rifiutare sia il godimento sia il possesso, è necessario che io sappia donare quello
che possiedo. […] Ma per questo è necessario che incontri il volto in-discreto di Altri
che mi mette in questione» (E. LÉVINAS, Totalità e Infinito. Saggio sull’Esteriorità,
1961, Jaca Book, Milano 1980, p. 174).
In questi termini è affermata la possibilità di un altro-pensiero, il quale non si riconosce
nel viaggio di Ulisse compiuto dal pensiero occidentale, ossia nel ritorno a sé dell’io e
nel disconoscimento dell’incontro con l’alterità, ma nel cammino compiuto da Abramo
verso l’Altro.
Riprendendo Lévinas, Ricœur sostiene che l’io si costituisce come persona grazie alla
dialettica con l’alterità, ma di contro afferma che la relazione con Altri è simmetrica e la
responsabilità reciproca. L’etica della reciprocità legata alla logica del dono,
dell’apertura e del rispetto dell’altro, costituisce la via d’uscita dallo spazio della
violenza e del dominio.
La relazione d’Altri così intesa mostra la fisionomia e la possibilità di una libertà metaconflittuale.
Ernst Wolff
Compétences et moyens de l’homme capable. Vers l’inévitable complément technique
de l’anthropologie philosophique de Ricœur.
Depuis Soi-même comme un autre, Ricœur place la notion de capacité ou du « je peux »
au cœur de l’herméneutique du soi. Autant il explore l’éventail des capacités, autant la
notion même de capacité reste indéterminée d’un point de vue que l’on peut appeler
« technique ». La thèse que je défends dans cette conférence est que l’herméneutique de
l’homme capable exige un développement de sa dimension technique, c’est-à-dire une
réflexion sur les compétences et les moyens du « je peux ».
Dans mon argumentation, je mets d’abord en évidence un nombre de passages dans
lesquels Ricœur pointe vers la technicité de la capacité d’agir (cf. e.g. les textes sur le
calendrier, sur l’archive ou sur l’architecture). Ensuite, je réexamine la reformulation
herméneutique et réflexive que Ricœur a faite de l’intentionnalité phénoménologique
(voir le « quoi ? », « comment ? », « qui ? » e.g. Parcours de la reconnaissance, p.
181). Ici, ma réflexion sera guidée par une lecture de l’idée d’excellence de l’action
dans l’Ethique à Nicomaque. Cette lecture sera complexifiée par une prise en
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considération du versant négatif de la capacité, l’incapacité : on se reconnaît capable de
parler, d’agir, de raconter, d’imputer, face aux mises à l’épreuve successives de ses
capacités par l’attestation de l’incapacité. Ainsi, la dialectique de capacité-incapacité
montre que la variabilité des degrés de compétences est constitutive de la notion de
capacité.
Je montrerai ensuite que cette dialectique est quasi-organiquement liée aux moyens par
lesquels les capacités sont activées – moyens qui partiellement facilitent, partiellement
gênent l’action des individus (cf. Ihde). En portant mon attention sur la médiation de
l’agir par des moyens techniques variés, j’ébaucherai une perspective plus complète sur
l’action collective et/ou la collaboration organisée.
Ainsi, l’action et l’interaction de l’homme capable révèlent une structure que
j’appellerai un « paradoxe technique » : pour être efficace, on doit intégrer des moyens
puissants dans l’action, mais ces moyens ne traduisent pas toujours fidèlement
l’intention de l’action ; le paradoxe politique ricoeurien est une variante du paradoxe
technique. En tirant inspiration du travail de Nussbaum sur la privation de capacités
(capability deprivation), je soutiendrai que l’enrichissement « technique » de
l’herméneutique de l’homme capable, fait ressortir un potentiel critique trop peu
développé de cette théorie : des questions telles que « qui a (ou est privé de la possibilité
d’avoir) une compétence à parler ou agir dans tel ou tel contexte ? » ou « qui a accès à
quels moyens pour raconter ou pour juger une suite d’actions ? » pourront désormais
être thématisées. Ces questions informent l’indignation qui est le moteur de la lutte pour
la reconnaissance. De la sorte, je démontrerai que la transition que Ricœur fait de la
reconnaissance de soi vers la reconnaissance mutuelle exige et profite d’une telle force
critique de la notion de capacité enrichie.
Tomoaki Yamada
“Un philosophe sans absolu” : Une interprétation du Fragment(0)1 de Vivant jusqu’à
la mort à travers le conflit entre la philosophie et la foi biblique
Comment interprétons-nous “un philosophe sans absolu” chez Paul Ricœur? Cette
expression est issue d’ “une philosophie sans absolu ” sur laquelle Pierre Thévenaz a
insisté dans son enquête sur la philosophie protestante. À travers cette expression,
Ricœur a élaboré à nouveaux frais une réflexion sur l’articulation entre la philosophie et
la théologie. Ce souci d’articulation a pour arrière-plan la réponse à la critique de
Bouchindhomme qui porte sur la présupposition de l’investigation philosophique
ricœurienne42. Dans sa réponse à aux critiques suscitées par son ouvrage, Ricoeur
déclare, en citant l’expression de Thévenaz, que le dieu de la foi biblique n’intervient
pas dans son investigation. Le souci d’articuler philosophie et foi est donc rattaché à
l’autonomie du discours philosophique tel qu’on le trouve dans Soi-même comme un
autre, La Critique et La Conviction, Réflexion faite et, Fragment (0)1. Ce souci, que
nous appelons le motif thévenazien, traverse l’œuvre de Ricœur.
D’ailleurs, dans ce Fragment (0)1 , Ricœur met l’accent plus que jamais sur l’autonomie
de la philosophie comme une “autarcie” propre à la recherche philosophique et à la
Voir Temps et Récit de Paul Ricœur en débat, Édité et préfacé par Ch. Bouchidhomme.
et R. Rocholitz, Éd. du Cerf, Paris 1990. Ricœur a renforcé ce souci d’articulation depuis les années 1980.
42
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structuration de son propre discours. Cependant il nous semble que d’une part, ce thème
garde sa cohérence jusqu’au Fragment (0)1, et d’autre part, que l’ambiguïté du rapport
entre la philosophie et la foi biblique perdure. Car dans ce Fragment, la distinction entre
le philosophe professionnel et le chrétien philosophant conduit à assumer « une
situation schizoïde qui a sa dynamique, ses souffrances et ses petits bonheurs »(p. 108 ).
Nous prenons cette « situation schizoïde » comme l’expression du conflit entre le
philosophique et la foi biblique. Pour décrire notre enquête, d’abord il s’agit de traiter
l’articulation de la philosophie et la théologie dans la préface de Soi-même comme un
autre. À travers cette marque, nous trouvons le pôle de la question et la réponse dans le
discours philosophique, et celui de l’appel et la réponse dans le discours théologique;
qui fait partie du genre de la foi biblique. Cette articulation au niveau du discours est
prolongée au niveau du conflit interne dans le Fragment (0)1.
Ensuite nous essaierons d’interpréter l’expression de “philosophe sans absolu” en citant
Lectures 3, l’étude intitulée « Un philosophe protestant », qui a servi de préface à
l’ouvrage de Thévenaz. La résultat attendu de notre enquête est une description de la
portée de l’expression “ philosophe sans absolu’’ qui manifeste le conflit entre la
philosophie et la foi biblique.
Serge Zenkine
Les actes libérateurs : entre symbole et récit
Dans quelques textes datant des années 1970, notamment dans « Manifestation et
proclamation » (publié en 1974 dans les actes d’un colloque organisé par Enrico
Castelli), Paul Ricœur évoque brièvement le concept d’ « actes libérateurs » : il s’agit de
grands événements qui annoncent le commencement de « l’histoire de délivrance » de
l’humanité et qui revêtent une pertinence omni-temporelle. Les modèles de ces
événements singuliers seraient l’Exode et la Passion du Christ ; par leur caractère
narratif et « textuel » (au sens où Ricœur proposait, à la même époque, de considérer
l’action comme un texte), ces événements jouent un rôle crucial dans le passage de la
mythologie « païenne » à l’eschatologie judéo-chrétienne, qui correspond lui-même au
clivage entre deux modes d’être du sacré : «la manifestation » et « la proclamation ». Il
ne serait pas abusif de voir dans ces événements exceptionnels, tels qu’ils sont traités
chez Ricœur, une réécriture herméneutique de ce que les grandes révolutions politiques
représentent pour la mémoire historique des peuples modernes. Né d’une réflexion sur
le sacré et la pensée religieuse, le concept d’acte libérateur finit par déborder son champ
initial pour faire partie d’un ensemble plus vaste de l’herméneutique des récits
historiques modernes.
Dans la communication proposée, on étudiera d’abord la genèse du concept, remontant
au chapitre de Finitude et culpabilité sur les mythes du commencement et de la fin (où
la délivrance eschatologique est encore traitée dans une perspective symbolique et non
proprement narratologique), on suivra son rapport avec la catégorie d’« l’expressionlimite » qui l’englobe chez Ricœur, et finalement on tentera d’éclairer le même concept
dans le contexte de l’herméneutique narrative de Temps et récit. La complexité du
concept autorise à l’utiliser comme un outil contribuant à expliquer la nature du mythe
moderne, par lequel notre civilisation cherche à rendre compte des situations et
mouvements critiques qu’elle traverse.
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