International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce Abstracts Parallel Sessions Fabrizia Abbate La crisi del riconoscimento sociale. Dalle analisi di Paul Ricœur ai dubbi di Vladimir Jankélévith, alle provocazioni di Pierre Bourdieu La filosofia della soggettività di Ricœur approda nei “percorsi del riconoscimento”. Che valore ha oggi, in termini sociali, il riconoscimento di cui parlava Paul Ricœur? Nella odierna crisi europea delle istituzioni, della memoria collettiva e delle politiche sociali, nell’incertezza di una integrazione multietnica e multiculturale problematica: possiamo parlare di felice riconoscimento di intersoggettività, o piuttosto di infelice “misconoscimento” tra identità (Jankélévitch)? E se incombono le insidie dell’illusio sociale e dei rapporti di forza tra i campi sociali come denuncia la sociologia di Bourdieu, allora la sfida del “mutuo riconoscimento” proposta da Ricœur è ancora valida? Luca Alici Il potere politico: luogo di crisi della ragione? Due sono i riferimenti iniziali che questo contributo vorrebbe intrecciare. Il primo rinvia a La crise: un phénomène spécifiquement moderne? («Revue de Théologie et de Philosophie», 120, 1988), in cui Ricœur mette in evidenza come la ragione strumentale moderna abbia esaurito il proprio potenziale di liberazione. Il secondo, relativo alla riflessione complessiva del filosofo francese, sottolinea il costante richiamo alla fragilità della dimensione politica e ad alcuni suoi paradossi (forma e forza, orizzontale e verticale, origine e inizio, superiore e anteriore). A stimolare l’accostamento di questi spunti è il carattere di duplicità che Ricœur riconosce al potere politico, ovvero la sua razionalità (relativa alla portata ordinatrice delle relazioni e alla orizzontalità della convivenza) e al contempo irrazionalità (concernente l’inafferrabilità dell’origine e l’ineliminabilità della violenza). Tale duplicità giustifica una riflessione sul rapporto tra ambito politico e paradigmi della razionalità, almeno in due direzioni. In primo luogo, occorre sottoporre alla prova dei paradossi del politico il paradigma moderno della razionalità, per riflettere sull’ammissibilità di un residuo irrazionale, fisiologicamente connesso a questa sfera costitutiva della relazionalità umana. Centrale sarà allora la necessità di argomentare la distinzione tra il politico e la politica, illustrando perché Ricœur dica che “la politica, come manipolazione del potere, non esaurisce il politico come struttura della realtà umana” e che “il politico non esaurisce tutto il campo antropologico” (cfr. La critica e la convinzione, Jaca Book, 1997). Che cosa è il politico? Può esso convivere serenamente con l’enigma del proprio inizio e 1 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce quindi sottrarsi alla razionalità onnicomprensiva e more geometrico della modernità? Quale paradigma di razionalità risulta sensibile a tale sua specificità? In secondo luogo è opportuno concentrarsi sul tema del potere e sul versante in virtù del quale può essere considerato una messa in crisi della razionalità dell’ordine politico: nel potere vi è infatti la possibilità che il male più grande (la violenza esercitata) aderisca alla razionalità più grande (l’ordine); nel potere la finalità dell’organizzazione razionale della forza ha storicamente un inizio connotato da una violenza istitutrice. Si potrà forse dire che anche il potere come dimensione fondamentale del politico costituisca qualcosa di connotato da una sorta di difetto di origine, nel senso di un’origine mai presente a se stessa e quindi mai rappresentabile e rappresentata? Si può ravvisare uno scarto tra origine e inizio? Rispetto a tale scarto, che tipo di fondamento ha il potere e attraverso quale ragione se ne può rendere conto? Ricardo Almeida De Paula Mounier’s Personalist Anthropology: Imergency/Emergency of the Person before a World without Face We must instill the ambiguity proposed by the binomial immanence/ transcendence (imergency / emergency) in Mounier’s thought. If the status of anthropocentrism constitutes in solipsism, transcendence will be in the same way, by proclaiming externalism as the true level of knowledge, transforming or extending it even to agnosticism. Through the Cogito’s dialogical, between immanence and transcendence, Mounier demonstrates the element of balance between these two premises through the categorization of the person, stating she can not be treated in the same order of natural objects. That is, "the person is not an object. She is above all that each man can not be treated as an object” In proposing this dialogue we must remember that the person can not be considered "as a thing or substance that possesses certain qualities or is next to their actions or simply with them”, but should be considered its ontological status in the face of the ontological reality - their "being" in the face of Being. Max Scheler says that the person “is the unit immediately lived of living, not just something thought out of the immediately experienced. Thus, we must consider the person as a dynamic reality, running away and sealed design of the reductionist material or psychic. The epistemological reality proposed by Scheler is reflected in the condition that there isn’t knowledge in person without opening and giving. This assumes reciprocity in the act of love, from which derives the unity and continuity of conscience; means, therefore, that other persons exists to me because there is no person before the indifference to the existence of another. This act, of course, does not conclude that through the conscience one become to contemplate an “I” that is there. It deals more to foresee an “I” in “conscience and by conscience, as opposed to a ‘not-me’” (Borau, 2007). The meaning of the Personalist Cogito is the transcendence of the ontological premise to the ontological one, that is, to consider not only the existence of God, but God’ personal character. It is always instructive to remember that Personalism develops its idea about the person from the Judeo-Christian concept. The 2 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce sense incarnational Christology shows the character of the imago Dei restored in the person and redefines the meaning of prósopon, namely from mere the translation as “face" to the person in his full character and existential. We are facing a philosophy whose starting point is the same of the finish: love. Love is for Mounier the stronger sure of human being "stronger than reason, is the most obvious existential cogito on which there is no doubt". The Cartesian cogito, "I think, therefore I am", is converted in Mounier by Amo, ergo sum, the strongest assurance of human beings, the unanswerable existential cogito: "I love, just being and life is worth living. Not confirmed only by movement in which I affirm, but by being that the other offer to me" (Mounier, 1964, p. 69). Marco Angella Alterità e reciprocità nella teoria del riconoscimento. Honneth e Ricœur a confronto Può sembrare peregrino interrogare l'opera di Ricoeur sul rapporto tra essa e la Teoria critica. A darcene l'occasione è però l'ultimo fra i suoi lavori, Parcours de la reconnaissance. Nel terzo degli studi qui raccolti, egli instaura infatti un dialogo con Axel Honneth, il maggior esponente di una terza generazione di teorici critici. L'interesse di Ricoeur al riconoscimento come categoria epistemologica e sopratutto etica deriva, come in Honneth, dal fatto che essa pare in grado di superare, integrandoli, i due momenti principali dell'alterità nel rapporto intersoggettivo, Ego e Alter. Il problema di Ricoeur: come salvare la reciprocità senza rinunciare all'alterità? Per risolverlo, il filosofo francese segue Honneth nella sua ricostruzione “post-metafisica” dell'Anerkennung hegeliana. Essa sembra infatti capace di mediare tra Ego e Alter, di mantenere l'alterità nella relazione reciproca. Rispondendo alla sfida lanciatagli da Hobbes, lo Hegel degli scritti giovanili pensa la costituzione sociale (reciprocità) non come un assembramento di individui intesi come entità isolate l'una dall'altra, al quale essi sarebbero costretti per la paura di perdere la vita, ma come una costituzione etica originaria: per vivere, essi hanno bisogno di riconoscersi l'un l'altro nella propria specificità. L'Anerkennung (la reciprocità del riconoscersi vicendevolmente) sarebbe allora l'affermazione reciproca dell'alterità dell'altro. Reciprocità et alterità sarebbero così strette da un legame immanente. Nonostante con ciò Ricoeur sposi la ricostruzione honnethiana della teoria del riconoscimento, egli se ne allontana in un punto fondamentale là dove rimprovera ad Honneth che il suo salvataggio del binomio reciprocità-alterità implica una lotta perpetua, necessaria affinché sempre nuove dimensioni dell'identità del singolo siano riconosciute. Si perde così la possibilità teorica di pensare, accanto alla lotta, uno stato di pace o, se si vuole, di riconciliazione. A ciò si può rimediare, per Ricoeur, completando la reciprocità che si esprime nel riconoscimento con quella di cui il dono è il simbolo: una reciprocità pacificata, festiva, che mantiene in sé anche il momento dell'alterità, nel luogo in cui nel dono vi è gratuità, gesto incondizionato verso l'altro. Secondo il filosofo francese, la superiorità del riconoscimento che si esprime nel dono sta nel fatto che esso, pur mantenendo in sé una carica conflittuale, (che si esprime nei momenti in cui la sua intenzione fallisce), è testimone di uno stato di riconciliazione che nella teoria di Honneth manca. 3 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce Nel nostro intervento, ci proponiamo di sondare la filosofia di Honneth (e, con essa, quella del giovane Hegel) alla luce delle obiezioni a lui mosse da Ricoeur. La teoria del riconoscimento è davvero così chiusa alla riconciliazione quanto lo afferma Ricoeur, oppure è possibile discernervi elementi di pacificazione? Tali elementi sono utili ad una teoria critica come quella di Honneth? La tematica del dono, tale che Ricoeur la presenta, può contribuire in qualche modo alle finalità critiche della teoria, oppure questa può integrare in sé, senza ricorrervi, quell'incondizionatezza nei confronti dell'altro di cui il dono vuole essere simbolo? In altre parole, il dono è necessario per pensare, assieme, reciprocità e alterità, lotta e riconciliazione? E’ davvero possibile articolare assieme riconoscimento e “economia del dono”? Quali fini la teoria deve porsi affinché ciò sia possibile? Infine, in un ultimo momento, vorremmo fare un passo ulteriore e domandarci: che genere di alterità è in gioco in Ricoeur et in Honneth (dal punto di vista dell’etica)? Se essa non fosse che la semplice alterità di un Ego di fronte ad un Alter, nella loro reciproca particolarità (come pare nel terzo degli studi dei Parcours de la reconnaissance, che sarà il nostro punto di partenza), non si tralasciano altri modi d'intenderla (per esempio quella di un Ego con sé stesso, con i suoi propri desideri, la cui origine non si esaurisce nella dimensione egologica; e quella della dimensione simbolica che è supposta mediare il rapporto riflessivo a sé stessi e le relazioni intersoggettive)? Nell'opera di Ricoeur stesso cercheremo, al di là del dono, altri modi di declinare l'alterità e la reciprocità al fine di completare e radicalizzare la teoria del riconoscimento e, forse, di ripensarla in un senso altro rispetto a quello che entrambe questi filosofi hanno voluto dargli. Claudia Elisa Annovazzi Crisi e conflitto delle immagini. Iconoclastia ed ermeneutica della testimonianza nel’epoca dell’imperialismo iconico Crisi: dal greco krino, giudico, ha assunto con Ippocrate il significato con cui indichiamo anche oggi il conclamarsi violento ed esacerbato di uno stato di malessere e malfunzionamento di un organismo che ha potuto essere fino a quel momento ignorato e che reclama ora inappellabile attenzione, bloccando il funzionamento e costringendo alla cura. Ogni crisi è un’apocalissi che toglie il velo sul benessere apparente, rivelandone la falsità. Essa mette di fronte alla scelta decisiva che impone la critica delle convinzioni cha hanno guidato il nostro agire e il discernimento tra le immagini che vivificano e gli idoli che vanificano, poiché, come ricordava Ricœur in Finitudine e colpa, l’uomo diviene ciò che adora. Questo significato di crisi raccoglie quello grecokantiano di critica come giudizio e di conflitto come discriminazione e contrapposizione tra ermeneutiche rivali. Come discernere tra idoli del nulla e immagini di libertà? Per l’uomo che ha operato il lutto della conoscenza assoluta hegeliana, la pietra di paragone con cui distinguere le vere dalle false testimonianze manca. Noi, che siamo chiamati ad essere giudici delle testimonianze della storia, e che saremo giudicati per il nostro giudizio, possiamo intravvedere la verità, come la terra promessa di Mosè, attraverso il turbinio delle testimonianze particolari in conflitto. M.-J. Mondzain si è interrogata su una crisi e un conflitto molto distanti da noi sia cronologicamente sia tematicamente: l’iconoclastia dell’VIII secolo che ha visto 4 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce contrapporsi due concezioni dell’immagine religiosa. Il conflitto iconoclasta, che sembrerebbe non aver nulla da spartire con la concezione attuale della crisi e del conflitto, che vengono associati a questioni o economiche o politico-militari, presenta profonde consonanze con il cannibalismo iconico contemporaneo, rivelate dalla polisemia del termine economia inteso come mediazione relazionale sia nel contesto religioso medievale, sia in quello monetario attuale. I visual studies si sono occupati di questo evento cruciale come lente per valutare lo strapotere delle immagini che sembra sfuggire a ogni forma di controllo, persino quello del potere politico-economico che se n’è sempre servito strumentalmente. In questo contesto secolarizzato di proliferazione indiscriminata delle immagini, il richiamo al saggio ricœuriano del ’72, L’herméneutique du témoignage, suona tanto opportuno quanto inattuale. Sulla scorta di Nabert, Ricœur pone la domanda che di fronte alle immagini si ripropone oggi: abbiamo il diritto di investire di un carattere assoluto un momento della storia? Ripercorrendo le tappe dell’ermeneutica ricœuriana della testimonianza intendo approdare alla possibilità di riscoprire la capacità delle immagini d’arte di trasmettere la forma della verità di cui vogliono essere testimonianza. Ricœur è un protagonista del linguistic turn, piuttosto che del pictorial o iconic turn. Eppure le sue sporadiche considerazioni sull’estetica e l’intera elaborazione della sua poetica suggeriscono l’idea di interpretare le immagini come testimonianze. L’originalità di questa proposta ermeneutica consente di aprire i Ricœur’s studies a una nuova applicazione negli studi di estetica, imprimendo a questi ultimi sviluppi inediti. L’ermeneutica della testimonianza, connotata dalla probabilità, non garantisce un superamento assoluto e definitivo della crisi, ma consente di superare l’impasse di un dominio incontrollato delle immagini, restituendo all’uomo la sua libertà di giudizio. Sophie-Jan Arrien Impuissance et attestation en temps de crise De la « crise financière » à la « crise climatique », en passant par la crise de « l’éducation », la crise de la « culture », la crise de la « religion », la crise des « institutions » et, au final, la crise de la « démocratie », l’individu occidental contemporain semble se comprendre spontanément dans l’horizon d’un monde et d’une société « en crise ». A quoi renvoient ces différentes manifestations de la crise ? La première chose à faire est d’identifier quelque chose qui pourrait unir ces manifestations sans pour autant éradiquer par un concept ou une généralité abstraite la pluralité et la spécificité de leur expression concrète. Plus précisément, la dimension commune que nous recherchons pour penser l’idée de crise semble devoir renvoyer pas tant à un contenu de sens qu’à un certain caractère vécu de la crise ou « sentiment » d’« être en crise ». Ce vécu de la crise, s’il caractérise d’abord des individus, doit-il pour autant être considéré uniquement comme une manifestation d’ordre psychologique ? Nous estimons plutôt que la question commande un regard proprement herméneutique et phénoménologique capable de formaliser le vécu de l’être-en-crise sans, d’une part, le réduire à un simple affect et sans, d’autre part, lui faire perdre sa concrétude par un processus de généralisation ou d’abstraction. C’est en ce sens que nous traiterons le vécu de la crise en tant qu’il manifeste un visage possible de l’attestation du soi, pour reprendre le terme de Paul Ricœur. 5 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce Quand l’individu se définit, se raconte et se vit fondamentalement dans un horizon de « crise », c’est son être-soi ou ipséité qui se trouve institué et attesté, certes en creux voire sous un mode négatif, mais à travers tout cela de façon déterminante. Nous développerons cette proposition en prenant pour guide de façon inédite la phénoménologie herméneutique de l’homme capable chez Ricœur. Notre hypothèse est en effet que le vécu de la crise, en tant qu’il est constitutif de l’homme contemporain dans son rapport à soi et au monde, renvoie en dernière instance à un profond sentiment d’impuissance. Or, cette impuissance elle-même relève, sinon de la mise en échec, du moins de la mise à mal de la dimension de « l’être-capable » dans laquelle culmine, s’ouvre et se résout l’herméneutique du soi de Ricœur. En utilisant donc, un peu comme un révélateur photographique, la phénoménologie herméneutique ricœurienne de « l’homme capable », nous tenterons d’identifier le prix à payer en termes de dignité, d’estime de soi et de responsabilité quand l’homme s’atteste dans son impuissance. En d’autres termes, nous essaierons de voir comment la phénoménologie herméneutique de « l’homme capable » permet d’éclairer et de comprendre via negationis l’impuissance qui caractérise, du point de vue de l’attestation du soi, la situation généralisée de « l’être en crise » à notre époque. Luz Ascárate La phénoménologie paradoxale de la Krisis L’originalité de notre proposition de contribution consiste à réinterroger la notion de « crise » à partir d’une tradition phénoménologique héritée de Husserl et revisitée par Ricœur. Ricœur est connu pour être non seulement un lecteur attentif de Husserl, mais encore un lecteur des paradoxes. A l’égard de l’interprétation de Ricœur de la Crise des Sciences européennes et la phénoménologie transcendantale1 de Husserl, nous voudrions montrer les apports, tant au regard de l’interprétation de la totalité de la phénoménologie husserlienne qu’au regard de l’interprétation de la conception de la phénoménologie de Ricœur lui-même, à partir d’une lecture qui rend compte des paradoxes implicites dans la Krisis. Nous nous centrerons sur deux articles rassemblés dans À l’école de la phénoménologie : « Husserl et le sens de l’histoire »2, écrit par Ricœur à la lumière de la lecture des manuscrits encore inédits de la Krisis, et « L’originaire et la question-enretour dans la Krisis de Husserl »3, dédié « au fondateur des études husserliennes en France »4, selon Ricœur : Emmanuel Levinas. Nous présenterons la lecture de Ricœur autour de trois concepts paradoxaux : a) le « souci de l’histoire », présenté dans la dernière phase de la pensée husserlienne où la tâche de la phénoménologie génétique signifie une révision profonde de « l’idéalisme E Husserl, La Crise des sciences européennes et la phénoménologie transcendantale, trad. G. Granel, Paris, Gallimard, 1976. 2 P. Ricœur, « Husserl et le sens de l’histoire », À l’école de la phénoménologie, Paris, Vrin, coll. « Bibliothèque de l’histoire de la philosophie », 1986, pp. 21-57. 3 P. Ricœur, « L’originaire et la question-en-retour dans la Krisis de Husserl », À l’école de la phénoménologie, Paris, Vrin, coll. « Bibliothèque de l’histoire de la philosophie », 1986, pp. 285-295. 4 Ibid., p. 287. 1 6 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce transcendantal »5, à propos de la possibilité d’une « phénoménologie de l’histoire » opposée à la répugnance de la phénoménologie transcendantale pour les considérations historiques, ainsi qu’à propos du concept de l’histoire comme flux d’événements et comme avènement ; b) la Rückfrage, en ce qui concerne le caractère indirect de la méthode, « en dépit du fait qu’elle est orientée vers ce qui est le plus ultime, le plus originaire, le plus authentique » 6, et c) la Lebenswelt, quant à sa fonction épistémologique, par rapport à « la scientificité du pré-scientifique ». Notre chemin interprétatif sera éclairé par la recherche des réponses à deux questions : en premier lieu, sur la spécificité de l’interprétation de Ricœur de la Krisis de Husserl ; et, en deuxième lieu, sur l’interprétation de la conception que Ricœur lui-même a eu de la phénoménologie. Il est commun d’interpréter le projet de la phénoménologie husserlienne à partir des discontinuités entre un premier moment pré-transcendantal qui aurait lieu dans les Recherches Logiques ; un deuxième moment transcendantal fortement critiqué à cause de la primauté d’un « idéalisme subjectiviste », à partir de la lecture des Ideen et des Méditations cartésiennes ; et un troisième moment auquel appartient la phénoménologie de la Krisis. Corrélativement à cette interprétation, mutatis mutandis, la conception que Ricœur a eu de la phénoménologie a été malheureusement interprétée comme celle qui trouverait des discontinuités entre une certaine conception idéaliste et une conception proprement herméneutique. Nos réponses, ayant comme point de départ l’explicitation de paradoxes de la lecture ricœurienne de la Krisis, demeurent, ainsi, dans la ligne d’une revendication de l’importance de la période transcendantale de la phénoménologie de Husserl. Nous insisterons ainsi sur la richesse de l’interprétation de Ricœur sur la Krisis comme un apport aux interprétations de l’école de la phénoménologie française, en soulignant ce que Ricœur nomme « l’unité d’intention de la phénoménologie husserlienne »7. Finalement, nous montrerons que la lecture de Ricœur de la Krisis lui a donné des éléments interprétatifs importants pour sa propre philosophie, ceux qui ont rendu possible que le philosophe puisse toujours se maintenir dans une phénoménologie, même herméneutique, jusqu’à la fin de son œuvre, et continuer de penser « la crise du sens ». Carlo Alberto Augieri Simile, dissimile, differente; contraddizione logica, senso improprio ed impertinenza semantica: Ricœur e la retorica del “vedere come” o del significare evocativo Pensare con Ricœur l’altrimenti dell’esistere (e dell’essere) è fare i conti con il senso, con l’attività del significare, problema non solo filosofico, ma retorico, linguistico, semantico, poetico-narrativo, dunque anche letterario. ‘In principio’ non è la lingua della linguistica (strutturalistica e/o semiologica), ma la parola di una semantica fenomenologica ed enunciativa, che ha nel soggetto parlante il protagonista di un nuovo significare ed interpretare; che trova nella polisemia la potenzialità di significare altrimenti, di conoscere e riconoscersi diversamente. Cf. P. Ricœur, À l’école de la phénoménologie, p. 19. P. Ricœur, « L’originaire et la question-en-retour dans la Krisis de Husserl », p, 288. 7 P. Ricœur, À l’école de la phénoménologie, p. 145. 5 6 7 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce Dalla polisemia semantica dei lessemi in discorso si formano ‘sorgenti di senso’, quali i simboli; oppure possibilità di intravedere nuove analogie e relazioni di somiglianza con l’apporto metaforico del pensiero ‘parlante’: entro cui le cose differenti vengono ad interagire per creare una nuova logica del rassomigliare, non sostituente, ma dell’essere simile in forma ‘tensiva’ e pure ‘estraniante’. Diversità dell’esistere non significa abitare in un altrove differente, ma riconoscere l’affine in cose che prima del nostro parlare creativo ci sembravano estranee, tanto da riconoscerle appena come straniere. Annie Barthélémy Le lien social en tension entre justice et sollicitude : l'horizon politique de la sollicitude chez Ricœur et de la pitié chez Rousseau. En cette année où l'on célèbre le tricentenaire de la naissance de Jean-Jacques Rousseau, cette communication se propose de confronter la pensée de Ricœur sur la sollicitude à l'égard des proches et les relations juridiques fondées sur l'universalité de la norme avec la fonction de la pitié dans la philosophie sociale et politique de Rousseau. Ce rapprochement n'est pas seulement le fruit de circonstances commémoratives, car il y a des affinités entre l'anthropologie rousseauiste et celle de Ricœur en ce qu'elles soulignent la fragilité de l'homme souffrant, en ce qu'elles articulent étroitement relation à soi et relation à l'autre et en ce qu'elles sont animées d'une même conviction sur la dimension originelle de la propension au bien. La confrontation entre les deux auteurs peut nourrir utilement la réflexion sur lien social, au cœur de nombreux débats sur la crise. Ces deux philosophies s'interrogent en effet sur la spécificité du lien politique au regard des relations intersubjectives et des rapports que les hommes nouent entre eux sous la pression de la nécessité. Comment ces deux auteurs, en partant de prémisses différentes, traitent-ils des rapports entre les relations intersubjectives et les relations civiques contractuelles ? Nous aborderons cette question en posant une problématique à double versant: le lien civique peut-il s'inscrire dans la simple continuité du souci de l'autre ? Les relations de sollicitude ou de pitié peuvent-elles s'étendre au-delà de la sphère des proches ? Nous inspirant de ce qu' Olivier Abel nomme la "philosophie du proche"8 chez Ricœur et de ce que Paul Audi appelle "l'universalisation de la compassion" à laquelle participe la philosophie de Rousseau"9, nous explorerons les tensions entre sentiment et raison, entre charité et justice dans les gestes de sollicitude et de pitié. La lecture croisée des textes de Ricœur et de Rousseau, entreprise dans un souci de comprendre philosophiquement les implications anthropologiques et politiques de la compassion, peut renouveler la manière de penser ces tensions voire de les réévaluer. L'analyse, qui invite à repenser les fondements du lien civique, rejoint les débats contemporains sur les droits des personnes en situation de précarité et sur les conflits entre éthique du care et éthique de la justice. 8 9 O. Abel, La philosophie du proche, Esprit, n°33 (2008), pp. 109-118. P. Audi, D'une compassion à l'autre in Revue du Mauss, n°31 (2008), pp. 190-194. 8 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce Cătălin Bobb Attestation of the Self: Philosophical Boundaries In Soi même come un autre Ricœur utters a very bare truth: we found ourselves in the peculiar position in which in order to understand ourselves we cannot appeal neither to a foundational cogito neither to a multiple cogito. The foundational cogito is atemporal and the multiple cogito is afoundational; a middle position is required: “hermeneutics of the self takes an epistemological place, even an ontological one, situated beyond this double alternative – cogito and anti-cogito”. Thus, the solution needed is to be found in the concept of attestation: „Attestation defines, in our eyes, the sort of certitude that hermeneutics requires, not only in regard to the epistemic exaltation of the Cogito as we can find it in Descartes, but in regard to the humiliation of the Cogito as we can find it in Nietzsche and his successors”. Thus, in my talk, my primary intention is to address the problem of attestation in Ricœur’s philosophy in order to find the mere philosophical limits of such a concept; that is to say, the mere philosophical limits of a concept that can easily be regarded as a theological one. But, beyond my primary intention, I want to address a second question: how can we conceive the self in nowadays: as a subject that “acts and suffers” and by his acts and miseries attests himself, or as a subject as a product of a series of operation in a “transcendental field” (Deleuze). Thus, my second intention is to see how can we conceive “the self” in the current global situation (postmodern, global and multicultural world), appealing to Ricœur or Deleuze? Or, perhaps, appealing to both of them. Vereno Brugiatelli Paul Ricœur e Amartya Sen su facoltà di agire e giustizia sociale In un passaggio di particolare rilevanza teoretica dell’opera Parcours de la reconnaissance (2004), Paul Ricœur si richiama esplicitamente all’idea di capacità sociale elaborata dall’economista A.K. Sen. Questo incontro si situa nel contesto in cui al filosofo francese si impone la necessità di passare dalla considerazione delle forme individuali di capacità a quelle forme sociali di capacità che risultano di massima importanza per sostenere il passaggio dal riconoscimento di sé al mutuo riconoscimento. Con la presa in esame delle capacità sul piano sociale e collettivo, il concetto di capacità riceve un ulteriore ampliamento e le modalità di riconoscimento subiscono una profonda trasformazione. Si passa infatti dall’attestazione-riconoscimento di certe capacità che un individuo fa a se stesso al riconoscimento di capacità sociali nel contesto dello spazio pubblico e giuridico. Ricœur considera la relazione concettuale che Sen stabilisce tra diritti (rights) e capabilità (capabilities), come «la forma più elaborata di capacità sociale». Secondo quest’ottica, essa risulta di notevole importanza poiché consente di approfondire ulteriormente l’antropologia filosofica di Ricœur e richiama direttamente il problema della giustizia sociale. Ricœur da filosofo e Sen da economista, mettono in evidenza i motivi conflittuali che sono al fondo del riconoscimento dei diritti e delle capacità umane. Su questo piano essi condividono un comune punto di riferimento etico: quello dato dallo sforzo che ogni uomo compie per realizzare la propria idea di «vita buona». Per entrambi il riconoscimento delle capacità sociali, insieme a quello dei diritti civili e politici, risulta 9 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce fondamentale nella realizzazione etica di se stessi e contribuisce alla costruzione responsabile di una comunità umana retta dall’idea di giustizia sociale. Nella presente trattazione, mi propongo di mostrare che i due pensatori, su rilevanti tematiche come riconoscimento delle capacità, libertà, responsabilità, giustizia sociale, elaborano concezioni che si richiamano a vicenda, tanto da rendere possibile una relazione sinergica tra le loro prospettive. Seguendo queste linee guida e facendo incrociare il percorso ricœuriano sulle capacità con quello di Sen riguardante le capabilità, cercherò di far emergere, da un lato il fondamento etico dei diritti e della giustizia; dall’altro, un concetto di giustizia sociale elaborato alla luce delle lotte che gli uomini conducono per realizzare modalità etiche di superamento dei conflitti. Vinicio Busacchi Conflitto e crisi nella filosofia di Paul Ricœur Le due nozioni di conflitto e crisi marcano considerevolmente il discorso filosofico moderno e contemporaneo. L'opera di Paul Ricœur lo riflette in modo emblematico. Ciò non lo si deve tanto alle dimensioni di quest'opera (propriamente colossali) ed agli ampi e vari itinerari interni, quanto alla conseguenza dello specialismo interdisciplinare e della metodologia dell'ermeneutica critica [id est, il suo procedimento] sul senso e l'impiego filosofico, ed extra-filosofico, di questi concetti di crisi e conflitto. In questo contributo, l'autore, da un lato focalizza le sue analisi sul ruolo che tali nozioni svolgono nel contesto del pensiero ricœuriano (sia dal punto di vista del prospetto filosofico generale, sia in relazione alle analisi sviluppate in contributi “a tema”), da un altro lato esamina l'effetto di rideterminazione e ridefinizione che questo pensiero fenomenologico e critico ha prodotto su tali concetti e sulle pratiche ad essi collegate. Tre sono gli assi discorsivi e [inter-]disciplinari entro la cui intersezione si sviluppa, secondo l'autore, la filosofia ricœuriana della crisi e del conflitto. Un primo asse è disposto tra il polo tematico dell'identità ed il polo del riconoscimento – entro tale asse si definisce in linea dominante un'antropologia filosofica (quella dell'homme capable, nella declinazione finale del Parcours de la reconnaissance) –, un secondo asse si dispone tra il polo tematico della coscienza e quello della memoria – entro cui è in opera [su più fronti disciplinari, secondo gradi distinti di discorso] l'ermeneutica critica – un terzo asse si colloca tematicamente tra filosofia della storia e critica della modernità – in esso è prospettata una filosofia politico-pratica dell'azione. Lo studio, che tiene conto del nesso dialettico-tensionale di tali assi discorsivi e dei rispettivi poli tematici, si sviluppa secondo l'ordine di questa disposizione tentando di ricalibrare la polisemia delle nozioni di conflitto e crisi sulla prospettiva aperta dalle indagini e dalle riflessioni di Paul Ricœur. L'esito che si profila nelle battute conclusive è quello di una polisemia al crocevia tra differenti saperi, differenti teorie, differenti pratiche. Al di là della filosofia, ovvero dove più lontano giunge la risposta ricœuriana a queste domande: Cosa / come / perché il conflitto? Cosa / come / perché la crisi? 10 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce Davide Caliaro Crisi e forma-di-vita.Un paradigma teologico politico L’oggetto del paper che propongo è la nozione di crisi. La questione di fondo è rappresentata dall’interrogativo circa la pregnanza ermeneutica di tale nozione per la comprensione della contemporaneità. Al fine di giungere ad una risposta, la struttura dell’intervento prevede: 1. una breve indicazione circa il carattere irriducibile della nozione di crisi per la tradizione occidentale, 2. la definizione del paradigma teologico della nozione di crisi e del nesso crisi-fine, 3. la definizione nel passaggio fine imminente-fine immanente come cifra del nostro tempo (Ricœur); 4. l’interrogazione circa le implicazioni politiche di questo passaggio (Benjamin) e la definizione di tali implicazioni sotto la nozione di forma-di-vita. I risultati attesi da questa interrogazione della nozione di crisi consistono nella definizione di un nesso tra tempo della crisi, inteso come transizione senza fine, ed il mutamento contemporaneo del paradigma del politico. La nozione di crisi rappresenta, con buona approssimazione, un campione delle stratificazioni culturali che segnano la tradizione occidentale. Essa nasce, infatti, in Grecia, dove il termine – derivato da krino (separare, scegliere, decidere) – stava ad indicare una decisione definitiva, irrevocabile. Questa assume una coloritura teologica nel passaggio al mondo cristiano-latino, dove crisis è da intendersi innanzitutto al fianco di judicium come giudizio di Dio, sia esso il giudizio finale o quello già presente nella vita dei fedeli grazie all’incarnazione del Cristo. La tradizione apocalittica giudaica si incontra dunque, attraverso il cristianesimo, con il pensiero greco, sino ad una comprensione della nozione di crisi come necessità di decidere e di agire sotto l’incalzare di un tempo che – escatologicamente – stringe. Tale nozione subirà poi, a partire dal Seicento e in maniera decisiva nel Settecento, una ridefinizione nell’ambito della storia della filosofia. Crisi si trasforma in concetto storico-filosofico che si pone come criterio per l’interpretazione del corso storico passato e futuro a partire dalla criticità del presente. Comune a queste accezioni della crisi è l’idea di fine. La crisi è sempre interpretata come fine di uno stato di cose e, dialetticamente, come presupposto per un nuovo inizio. Modellata sul paradigma teologico dell’Apocalisse giovannea (Kermode 1966; Ricœur 1984), la fine rappresenta, al contempo, la condizione di possibilità per l’individuazione di un senso, sia esso storico-collettivo o esistenziale-singolare. La fine sarebbe, in altre parole, l’orizzonte all’interno del quale trova spazio, per la tradizione occidentale, l’esperienza del senso. Rispetto alla comprensione della crisi come fine, decisiva è la precisazione che si può leggere nel secondo volume dell’opera Tempo e Racconto di Paul Ricœur. Caratteristica della cultura e della letteratura contemporanea sarebbe, infatti, lo spostamento della fine da imminente a immanente. La crisi, intesa come transizione senza fine, viene a sostituire la fine, inaugurando un tempo spettrale nel quale nulla può realmente accadere. Nel passaggio dall’imminenza all’immanenza si trova implicata una radicale messa in discussione della dialettica fine-senso. Se, all’interno di questa, la crisi è l’eccezione funzionale alla definizione di un senso, la crisi come transizione senza fine interrompe tale rapporto dialettico, esponendo piuttosto la sospensione del senso come cifra della condizione contemporanea. Come pensare allora questa condizione nelle sue implicazioni politiche? 11 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce Chi ha pensato politicamente la crisi come transizione è stato, nel Novecento, Walter Benjamin. La categoria portante è, per lui, quella di eccezione. Riprendendo l’indicazione schmittiana per cui l’eccezione è ciò di cui vive la norma (e con essa l’ordine e il senso), Benjamin ne propone un totale rovesciamento: non solo l’eccezione fonda la norma ma – e questa è la cifra del nostro tempo – norma ed eccezione sono ormai indistinguibili. Lo stato di eccezione è divenuto la regola (Benjamin 1974). La conseguenza politica di questa crisi permanente e spettrale è una modificazione dello stesso potere: la legge si trova ricollocata in uno spazio di indeterminazione rispetto alla vita. Nel tempo della crisi, ovvero nel tempo indefinitamente disteso dell’eccezione, la legge smette le figure del comando e del divieto per farsi onnipervasiva forma-di-vita. In questo senso, l’analisi benjaminiana e quella ricœuriana sembrano trovare una conferma nella situazione contemporanea. In questa, infatti, non solo la crisi si lascia pensare come virtualmente sempre in atto, ma ad essa corrisponde un radicale spostamento del baricentro del potere, che si esercita sempre più attraverso la definizione microfisica di comportamenti, desideri e paure ai quali, solo in funzione subordinata, fa seguito la vigenza della legge. Daniele Cananzi L’ermeneutica dell’azione sensata. Ricœur e il mondo come testo Le considerazioni che intendo svolgere nel mio intervento attengono ad un aspetto che ritengo centrale del pensiero ricœuriano e che evidenzia il particolare e originale modo di pensare del filosofo francese: la sua ermeneutica. Un tema che propongo perché mi appare di assoluta attualità rispetto al dibattito filosofico in corso non solo nel nostro paese ma a livello internazionale. Partirò proprio dall’ambientazione nel momento presente e risalirò poi all’originalità della riflessione ricoeuriana. In questo momento è infatti molto acceso il dibattito sul nuovo realismo che si propone quale superamento dell’idea postmoderna. Ad una ermeneutica a vocazione nichilista – come appunto quella prevalente nel novecento – che trova le proprie radici spesso caotiche e contraddittorie nella riflessione di autori quali Rorty e Derrida, Foucault e Heidegger, Gadamer e Lyotard, ponente e ipotizzante una ontologia della verità divenuta favola attraverso il superamento dei grandi racconti, si vorrebbe oggi (si può pensare a Ferraris o a Eco) far prevalere una forma di nuova ontologia per la quale la realtà si riconosce emancipata dalla volontà e si presenta quale nocciolo duro inemendabile, ostacolo ad una volontà di potenza logocentrica perché egocentrica. A ben vedere se il postmoderno è da superare non è possibile non meditare attentamente almeno alcuni passaggi di questa nuova ontologia del reale che lo vorrebbe sostituire. Proprio per fare questo mi appare molto rilevante l’itinerario di Ricœur che non solo elabora una ermeneutica altra rispetto a quella postmoderna e novecentesca attraverso il costante confronto tra analitici e continentali ma che proprio grazie a questo confronto evita criticamente tanto il testualismo forte di Derrida e Gadamer, quanto l’ontologismo dalla via breve che in fondo avvicina – per certi versi, almeno negli esiti – il sentiero heideggeriano e il nuovo realismo. Punti qualificanti di questo itinerario originale sono: - il testo come racconto; 12 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce - il racconto come azione; - l’ontologia interrogante del se stesso. Nel mio intervento intendo concentrarmi su alcuni di questi aspetti collegati in quell’insieme che mi appare costituire l’unicum del percorso ermeneutico ricœuriano e il suo nucleo più intenso. Basti ricordare come su questa “via lunga” possono essere rintracciati tutti i lavori che dagli studi sul volontario e l’involontario portano ai percorsi del riconoscimento passando dalla metafora e dal racconto, dalla memoria e dalla storia, dal soggetto di diritto e dall’uomo capace, vivo fino alla morte. Quella di Ricœur rappresenta forse la risposta ermeneutica alla realtà contemporanea? È questa la domanda che vorrei propormi di affrontare e che permette sia in ambito di ermeneutica generale, sia dall’ottica dell’ermeneutica giuridica di evidenziare alcuni snodi teoretici essenziali. La traccia così delineata non intende naturalmente programmare la messa in discussione dell’intero percorso ricœuriano ma solo evidenziare le ragioni per le quali il piccolo ambito che intendo trattare mi appare di interesse. Marco Castagna L’utopia della lettura. Indicazioni per un’ermeneutica (ricœuriana) del presente L’intervento individua nella lettura – così come essa si configura nell’evoluzione dell’ermeneutica ricœuriana e con particolare riferimento al rapporto con il pragmatismo semiotico peirciano – il momento paradigmatico della “scelta” che, da un lato, definisce la ragione ermeneutica come pensiero critico, e dall’altro, colloca la dialettica ideologia\utopia a fondamento dell’originale superamento ricœuriano del concetto di conflitto in quello di riconoscimento. In relazione alla dialettica di divisione “interno\esterno”, il fenomeno della lettura si costituisce come esperienza di un luogo di confine. Il posto del lettore, infatti, non è qui o là, uno o l'altro, ma né l'uno né l'altro, altrove, simultaneamente all'interno e all'esterno. Dissolvendo e mescolando insieme entrambi, leggere è un esercizio utopico di ubiquità. In altre parole, si tratta di mettere in discussione l’idea che in un testo – ovvero in qualsiasi configurazione narrativa – si “entra”; piuttosto, ogni testo è tale solo quando sia significativamente percorso, ovvero offerto alla contingenza della scelta etica dell’interpretazione. Nell’atto di lettura è, dunque, possibile osservare la messa in opera della ragione ermeneutica. In essa, il continuo richiamo alla scelta riconfigura il rapporto conoscitivo soggetto\oggetto come labirinto che continuamente costruendo rispetto al quale perciò si è sempre “dentro” (il lettore è la raffigurazione emblematica dell’impossibilità per il soggetto di collocarsi “fuori” ovvero della possibilità di un rapporto conoscitivo “esterno-interno”). Collocato nel quadro dell’argomentazione e dell’intelligenza narrativa, l’atto di lettura non solo “svela” l’eticità di ogni atto interpretativo (evidente nell’attestazione dell’illegibile) ma diviene paradigmatico delle dinamiche di relazione tra strutture ideologiche e richieste utopiche nelle relazioni sociali (politiche o culturali), o, in altri termini, delle dinamiche di riconoscimento intersoggettivo. Il rapporto tra il lettore e il testo non è, forse, il modo in cui ogni soggetto – individuale o collettivo – cerca di 13 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce collocare la propria singolarità all’interno di un ordine simbolico più ampio? O, in altri termini, di intrecciare la propria esperienza narrativa con le più ampie narrative sociali? Alla stregua della lettura, l’utopia è al tempo stesso antagonista e consensuale: antagonista nell’iniziale asimmetria della posizione dell’individuo; consensuale nella successiva ricerca di un quadro normativo che consenta il riconoscimento. Emerge, in tal modo, l’importanza della forma utopica, che è l’unica possibilità di immaginare la narrazione sociale (politica) altrimenti. In più, Ricœur evidenza spesso il legame tra immaginazione utopica, innovazione semantica e azione: la pratica dell’utopia – come quella della lettura – necessita di un testo che sia semanticamente “aperto” a letture sempre ulteriori, e di lettori che siano in grado di agirlo “altrimenti”. Cosa succede, allora, quando il lessico etico-politico si impoverisce in favore della comunicazione economico-amministrativa? Quando la popolazione che non rientra nelle élites economiche, politiche o amministrative, non dispone più di un lessico attraverso cui autorappresentarsi? È possibile parlare, oggi, di un’ideologia della crisi? Abbiamo gli strumenti per una lettura utopica del presente? In accordo con la dimensione internazionale del convegno, l’intervento sarà presentato in lingua italiana, ma corredato da una versione scritta in lingua inglese. Chiara Castiglioni Il concetto di riconoscimento in Paul Ricœur. Verso un’etica dell’ospitalità e della gratitudine/reconnaissance Il concetto di riconoscimento, di eredità hegeliana, rappresenta un tema centrale in Paul Ricœur e non soltanto nella sua ultima opera, Percorsi del riconoscimento (2004), ma nell’arco dell’intero percorso filosofico dell’autore dai primi anni fino agli ultimi, come ho tentato di mostrare in Tra estraneità e riconoscimento. Il sé e l’altro in Paul Ricœur10. 10 C. Castiglioni, Tra estraneità e riconoscimento. Il sé e l’altro in Paul Ricœur, Mimesis, Milano 2012 (in corso di pubblicazione). Il libro, che costituisce una rielaborazione della tesi di dottorato di ricerca in filosofia, mostra attraverso l’esplorazione della vasta produzione di Ricœur – dai primi scritti raccolti negli anni ’50 in À l’école de la phénoménologie, a Il volontario e l’involontario (1950) e Finitudine e colpa 1. L’uomo fallibile (1960), Dell’interpretazione, saggio su Freud (1965), Il Conflitto delle interpretazioni (1969), fino ai più recenti Tempo e racconto I, II, III (1983/’84/’85), Sé come un altro (1990) e i vari testi riguardanti la giustizia, Il Giusto (1995) e Il Giusto II (2001), Il giusto, la giustizia e i suoi fallimenti (2004), Amore e giustizia (1990), Ricordare, dimenticare, perdonare (1998) e La memoria, la storia, l’oblio (2000) fino ad arrivare a Percorsi del riconoscimento (2004) – come il tema del riconoscimento, dapprima in forme più latenti e poi sempre più esplicite, rappresenti una sorta di filo conduttore costante nel percorso filosofico dell’autore e un’efficace prospettiva da cui ricostruire una lettura integrale della sua concezione del soggetto (e dell’intersoggettività), che ne mette in evidenza l’evoluzione e ne testimonia l’unità nel corso del tempo. In questa rilettura emerge anche l’importanza dell’eredità del pensiero di Hegel in Ricœur (seppure nella rinuncia al sapere assoluto nella prospettiva ermeneutica), in particolare per quanto riguarda il concetto di riconoscimento e di dialettica (applicato all’agire umano). Ricœur in Percorsi del riconoscimento riprende in particolare lo Hegel del periodo jenese letto e riattualizzato attraverso la mediazione di Axel Honneth (Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto). 14 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce In questo contesto può essere interessante focalizzare l’attenzione su come il tema del riconoscimento in Ricœur diventi anche rappresentativo di uno stile di pensiero e di azione, che potremmo definire “tensionale” (costruito sulla incessante e imprescindibile dialettica sé-altro) e al tempo stesso non-violento, a partire dal quale è possibile costruire un’etica fondata sul rispetto reciproco sé-altro e sull’accoglienza di ogni forma di estraneità (culturale, religiosa, politica ecc.) considerata in prospettiva ermeneutica nella sua intima e costitutiva relazione al proprio, al familiare. L’ermeneutica del sé (Sé come un altro), è il prodotto di una continua mediazione dialettica sé-altro, proprio-estraneo, operata dal «movimento del riconoscere» e costituisce in questo senso il modello teoretico su cui è possibile fondare un’etica universale di ispirazione kantiana e aristotelica (l’idea di giusto “in situazione” quale ripresa del concetto di prhonesis), i cui punti di partenza sono proprio il conflitto e la crisi, intesi quali strutture costitutive del soggetto umano, che esiste nella forma dell’ipseità, ossia nella perenne non-coincidenza con se stesso e in continuo rapporto (dialettico) con l’alterità, in ogni sua forma, esterna e interna al soggetto (la coscienza, l’inconscio, il corpo, gli altri, il linguaggio, la società ecc.). Per Ricœur, dunque, la dissimmetria sé-altro è originaria e costitutiva del modo di esistere soggettivo e rappresenta al tempo stesso la condizione essenziale del processo del riconoscimento. I temi del decentramento e della dissimmetria sono sempre accompagnati da alcuni concetti-chiave ad essi strettamente correlati, quali in particolare quelli di «prossimità», di «distanza» e di «estraneità». Sono concetti relativi e dinamici, che connotano a diversi livelli la relazione sé-altro come dialettica incessante tra estraneità e riconoscimento. In particolare la lettura che qui si propone mette in evidenza la centralità del concetto ricœuriano di «giusta distanza» (declinato nei diversi temi della giusta memoria o «memoria pacificata», del giusto amore di sé e degli altri, della giustizia, della traduzione, dell’etica ecc.), che sembra esprimere in modo illuminante il nucleo essenziale del concetto di riconoscimento in Ricœur. In particolare l’ultimo Ricœur individua nei fenomeni del dono e della traduzione due emblemi per eccellenza del mutuo riconoscimento, pilastri per la costruzione di un’«etica dell’ospitalità e della gratitudine/reconnaissance» di estrema attualità per la filosofia pratica e politica contemporanea. Sulla dissimmetria originaria sé-altro (a causa della quale permane sempre un residuo di estraneità insuperabile) si costruisce il processo del riconoscimento la cui finalità non è assolutamente la fusionalità proprio-estraneo, ma il riconoscimento mutuale delle differenze nella «giusta distanza» tra il sé e l’altro, come emblematicamente mostrano l’esempio del dono (si ama l’altro in quanto altro) e della traduzione (nell’impossibilità della traduzione perfetta). All’interno di questo paradigma di pensiero - che Ricœur elabora riprendendo Axel Honneth (Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto) e Hegel - il conflitto (proprio nel senso del concetto hegeliano di “negazione” come motore della dialettica), assume una valenza positiva ed essenziale: è proprio dal misconoscimento, infatti, che nasce l’indignazione (di cui l’autore rivendica l’estremo valore) quale forza generatrice della lotta per il riconoscimento delle identità e dei diritti negati, che provoca l’evoluzione delle società. 15 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce Marco Casucci Il tema del riconoscimento in Paul Ricœur come figura del senso della storia Il presente intervento intende indagare il tema dialettico del rapporto tra uno e molteplice in Paul Ricœur a partire dalla questione del riconoscimento come “figura del senso della storia”. Questa espressione, che volutamente si richiama ad Hegel, vuole mettere in evidenza la questione del conflitto presentata nell’ultima opera del pensatore francese Percorsi del riconoscimento in una prospettiva ermeneutica che, confrontandosi con la dimensione speculativo-dialettica del pensiero hegeliano, sia in grado di riconnettere il tema suddetto con la questione del senso della storia che ha sempre animato la filosofia di Ricœur. Ad una più attenta lettura della questione nell’orbita dell’insieme dell’opera ricœuriana si può ben comprendere come il tema del riconoscimento rappresenti un “momento” di quella riflessione più ampia circa il senso di orientamento del pensare in una dimensione di storicità che sempre ha interessato Ricœur in relazione al tema della negatività e del conflitto, a partire dalle sue prime considerazioni sull’“uomo fallibile” e sulla “simbolica del male”. In analogia con quanto è possibile riscontrare nella filosofia di Hegel, tenendo comunque conto delle distanze critiche prese da Ricœur rispetto al pensatore di Stoccarda, il tema del riconoscimento e le problematiche ad esso connesse non possono essere letti come un che di autonomo e sganciato dal “sistema”, ovvero dall’orizzonte complessivo di indagine in cui è maturata la riflessione ricœuriana, ma rappresentano un momento “figurale” che mostra la complessità delle connessioni che emergono nell’opera del pensatore francese. In questo senso si vuole qui cercare di chiarire questa connessione profonda inerente la questione del riconoscimento con la domanda filosofica fondamentale che orienta il questionare ricœuriano e tutto il suo orizzonte ermeneutico. Il riconoscimento, infatti, pone la questione del senso della storia nel momento in cui, aprendosi alla sfera del dono e alla relazione con il sacro e la trascendenza a partire dalla scoperta degli “stati di pace” pone il problema essenziale del rapporto che tali situazioni “eccezionali” nel corso della storia, dominata dalla lotta, hanno con il divenire del conflitto e la sua sospensione, seppur momentanea. Proprio per questo si vuole tentare di rivalutare il termine hegeliano di “figura” in una chiave ermeneutica al fine di mostrare come, nonostante tutte le distinzioni da fare nel caso, alla fine la questione che rimane ad interrogare la riflessione filosofica sia sempre, in principio come ora, quella del rapporto tra tempo ed eternità, tra molteplice ed unità, cui il tema ricœuriano del riconoscimento di per se stesso allude nel suo offrire alla riflessione il divenire dialettico del conflitto e il suo oltrepassamento come condizione ineliminabile della sua leggibilità ermeneutica. La storia dominata dalla negatività dei conflitti e costellata di “stati di pace” diviene così luogo figurale del manifestarsi della verità che la trascende, abitandola. Ming Yeung Cheung Ricœur and the Recontextualization of Liberation Theology in Global Crisis In this paper I try to answer the question what is the appropriate Christian response to the recent crisis in the First World with reference to liberation theology, developed by 16 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce Christians who wanted to respond to the crisis in Latin America in the 1970s and 1980s out of the concern for socio-economic justice for the poor. This paper will focus on two ideas of Ricœur’s thinking. First, based on Ricœur’s idea of “initiative,” I would like to look at the recent crisis from the perspective of the tension between “space of experience” and “horizon of expectation”, therefore seeing the current moment a time for creative and responsible action. As a result of the recent crisis in the First World, the problem of poverty and the concern for social justice are not limited to the Third World. In this sense, liberation theology is a rich resource for Christians in the First World. Second, in his discussion of the relation between ethics and politics, Ricœur identifies the distinctions and intersections between economy, ethics and politics. Any Christian response to the economic crisis should pay attention to the ethical and political aspects of the crisis — both the intersections of these realms and their distinctions. An analysis of their intersections help us to see how the economic crisis is linked to ethical issues and demands a political response. However, their distinctions must also be respected. Once relied heavily on Marxist social analysis, liberation theology is suffering from a loss of credibility after the collapse of socialism in Eastern Europe. I will argue that Ricœur’s critique of Marxists’ conflation of the political and the economic realm may help liberation theology to revise its theoretical base in order to re-imagine its political praxis in the new context of global economic crisis. In my conclusions I will turn to the contribution of a Ricœurian analysis of crisis to the recontextualization of liberation theology in the First World, and to its transformation into a globalized struggle for justice. The development of a liberation theology for the First World has important implication for our globalized age. When a regional crisis can easily become a global crisis, effective responses must also be organized as a global network. Chiara Chinello Crisi e conflitto come paradigmi costitutivi dell’identità Nella mia relazione vorrei mostrare la prolificità dell’indagine sui paradigmi di crisi e conflitto applicati da Paul Ricoeur al problema dell’identità, qualora li si utilizzi per analizzare un tema di stretta attualità quale quello delle radici costitutive dell’Europa, soprattutto in relazione ai continui e imponenti flussi migratori che la vedono protagonista. Il compito, quanto mai arduo, consiste nel provare a delineare un nuovo orizzonte identitario per il vecchio continente, senza rischiare di perdere ciò che di positivo è giunto fino a noi dal passato. Come nel caso dell’identità personale è stato necessario, seguendo il suggerimento di Ricoeur, abbandonare l’illusione di un Cogito autofondato per raggiungere la ricchezza di un sé che nella storia della sua vita potesse riconoscersi e riconoscere l’altro, così anche al livello dell’identità comunitaria del nostro continente si pone la sfida di mantenere la continuità della propria tradizione, aprendosi però al confronto con l’altro, alla scrittura di nuove storie, ad altri modi di narrarci. L’obiettivo è quello di giungere all’integrazione dei valori eterogenei di cui sono portatrici le diverse comunità per rendere ancora possibile il progetto di un avvenire, la costruzione utopica di quello che Koselleck definisce orizzonte d’attesa. 17 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce Una prima sezione del mio intervento verterà sull’analisi dei meccanismi dell’ideologia e dell’utopia quali strumenti di quel gioco tra sedimentazione e innovazione costitutivo della coscienza storica di un popolo. Si cercherà anche di mostrare come l’elaborazione del patrimonio culturale europeo abbia contribuito a rendere l’identità dell’Europa un mosaico formato da elementi diversissimi e a volte difficilmente conciliabili, ma che hanno trovato un orizzonte che è riuscito a contenerli, anche grazie alla replica che hanno offerto loro i racconti che formano la nostra tradizione. A venirci in aiuto in tale impresa sarà la disamina di uno dei testi capitali che hanno contribuito a formare la coscienza europea: la trilogia di Edipo. L’analisi che ne faremo nella seconda parte dell’intervento sarà finalizzata, infatti, a mostrare come la tragedia di Sofocle possa essere presa quale paradigma dell’elaborazione di un orizzonte politico attraverso momenti di crisi dell’identità collettiva e attraverso il conflitto delle interpretazioni sulla natura della polis. Questo studio ci permetterà anche di verificare la validità della tesi ricoeuriana secondo la quale la replica poetica è in grado di rispondere alle aporie che segnano la costituzione dell’identità. Un’ultima sezione si occuperà di tracciare una proposta per un progetto di integrazione possibile. Seguendo le indicazioni dello stesso Ricoeur: «il faut accéder à une conception ouverte de la tradition. Plus exactement, il faut rouvrir le passé, et libérer sa charge de futur. N'est-ce pas là une forme de migration dans l'inaccompli du passé?». La sfida sarà quella di intendere la migrazione non come una minaccia al presente dell’Europa ma come un ingrediente indispensabile alla costruzione del suo futuro. Maria João Coelho I Think, Therefore I Am Vulnerable! Thinking with Ricœur the Adventure of Solicitude and Hope in Times of Crisis In the current context of crisis we must not forget that the long Ricœurian philosophy can offer us a unique reading on the question of human condition and meaning. Ricœur’s analysis of the human subject examines and criticizes the philosophies of the subject placing his hermeneutics of the “cogito wounded” in the position of mediation between the prospect of an exalted cogito in Descartes and a humiliated one in a Nietzschean perspective. This communication contains in its very title a play on words that somehow strengthens the important notion of attestation in an approach of selfhood as a power of acting in the world, “the attestation can be defined as the assurance of being oneself acting and suffering” (OAA, 1992: 22). To return to the question of the human subject as a single man, from its finitude, its corporeality and its praxis, is the main objective of the philosophy of mediation and of long standing tensions. Human weakness, frailty and failure co-exist with human capability, power and possibility, and Ricœur’s analysis may be constructed as a commitment to strive towards the possible in full cognizance of its obstacles. This way emerges the anthropological and ethical horizon which is constituted as project of «the capable man». We refer to an unfinished project, always being made and remade, demanding the hermeneutic mediation. Narrations open to the future and to hope by means of refiguration through which we project ourselves. We understand the notion of narrative as the condition of a life’s possibility. Therefore, we can legitimate our hypothesis of understanding narrative as 18 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce mediation between phenomenology and the ethic of a «good life, with and for others, in just institutions». This highlights the ethical character of debt, only empowered by narrative through the transformation of the World in a “horizon of meaning”. To recover the issue of the human subject as singular person, from its own finitude, corporeity and praxis, is the biggest goal of the philosophy of long mediations and permanent tensions. To make possible the understanding of the human person who wants and wishes to exist and that, through that temporal effort to exist is capable of discovering and asserting itself by means of its actions as a being that acts and suffers, is the challenge presented by Ricœur which we try to embrace. These actions call for solicitude and should help us build even more just behaviours adequate to the uniqueness of the situations and, in this case, it should assert itself as a “critical solicitude” that allows us to continue to learn, invent, imagine, shape the meaning of living together in a commitment built and lived through ethical action. Beatriz Contreras Tasso L’éthique de l’imagination chez Paul Ricœur : Un contrepoids en face de l’exaltation du paradigme économique. Formulation du problème La rationalité économique de l’ère globale a négligé la variable éthique. La sphère du marché subordonne tous les autres biens et reduit le sens de la vie humaine à l’obtention du bien-être monétaire. Le danger de cette exaltation fétichiste est la réduction de la dimension créative des capacités humaines. Le manque d’exploration de nouveaux sens éthico-politiques est manifesté de façon évidente par le mécontentement des gens face à la crise globale. Nous nous proposons d’explorer les ressources herméneutiques de l’éthique narrative du soi chez Paul Ricœur qui, sur la base du paradigme de l’homme capable, feraient contrepoids aux objectifs du bien-être individuel tenant compte du critère de la solidarité. Questions à répondre Nous nous demandons quelles « ressources » narratives de l’identité personnelle et sociale pourraient resignifier la trame de l’action humaine pour restituer à la rationalité économique ses fondements éthiques et philosophiques. Cette réflexion propose d’examiner de façon critique les supposés valeurs implicites dans les théories qui exacerbent le rôle de l’individu comme porteur ultime du sens de la rationalité, pour faire un équilibre avec des valeurs inclusives de diverses formes de l’agir humain, qui contribuent au développement d’une société démocratique moins injuste. L’interprétation unilatérale sur le thème de l’intérêt peut être élargi avec l’aide des concepts anthropologiques dévellopés dans la pensée ricoeurienne –les trois passions du pouvoir, l’avoir et le valoir - illuminé par une éthique de la ipséité, basée sur l’idéal de justice dans le contexte des institutions protectrices de relations humaines d’hospitalités. Cette analyse approfondit les facteurs extra-économiques de la réflexion philosophique qui humaniseraient la passion de l’avoir la rendant plus sociale en canalisant le désir par de voies imaginatives moins superficielles. Finalement, nous essayerons d’éclairer, sous l’égide de la pensée de Ricœur et un dialogue avec d’autres penseurs, le type d’intersection que nous pourrions établir entre l’éthique de l’action et l’économie 19 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce amplifiant la sémantique de la dimension « productive » de la vie à l’aide de l’étude de capacités poétiques-pratiques inépuisables de l’homme pour affronter les conflits. Originalité de la réponse Mettre en dialogue la pensée de Ricœur avec les interprétations des philosophes Amartya Sen et Martha Nussbaum sur l’idée de bien-être, la qualité de vie et sur la connexion de l’éthique et l’économie pour répondre à la question « comment doit-on vivre ? ». L’objectif est de réhabiliter un sens du développement humain plus ample dans le contexte de la réflexion philosophique pour restituer à l’analyse économique une base d’appui oubliée. Les pas spécifiques supposent un contrepoids de la notion de qualité de vie avec la notion de la vie bonne dans le cadre des institutions de justice ; un contrepoids de l’idée de bien-être individuel et l’idée des capacités de l’identité poéthique de soi-même ; un contrepoids entre la notion de justice au style libéral rawlsien et le sens du juste illuminé par le bon tout en dialoguant avec les apports correctifs de la philosophie se Sen et Nussbaum. Elsio José Corá Education, Life and Narrative Theory: Ricoeurianos Notes This study aims to seek an approach between the philosophy of Paul Ricoeur (19132005) and Education. Through one analysis of narrative theory built by the French philosopher, expounded, in the work “Time and Narrative”, attempts to find conceptual assumptions that may contribute to the enrichment of educational processes. The focal point of narrative theory of Ricouer is the fact that the narrative has the starting point in life, that is, between narrative and life there are not exactly a breaking point, but before a continuity and interdependence. The narrative part of life has its own moment, but returns to life. In this circuit, it gives the person a better understanding of itself and its role as a social agent existing historically in a given reality. From this, this paper aims to draw a parallel between the concepts elaborated by Ricoeur and educational practice, seeking to exploit several possibilities of an educational model that can be considered as a narrative education. César Correa Arias Ricœur et la crise de l'Université contemporaine. Une philosophie politique focalisée sur la relation Enseignant-Enseigné La réflexion sur la nature, le présente et l'avenir de l'Université chez Paul Ricœur – bien qu'il ne soit pas une thématique constamment travaillée tout au long de son œuvre – se forme à travers l’affirmation d'une nouvelle pédagogie comme l'élément de transformation des institutions de l'enseignement supérieur et comme un parcours de formation et de construction de capacités humaines dans le domaine du langage, des identités, de la reconnaissance sociale et des institutions justes. De manière distinctive – à une époque de grandes transformations éducatives, politiques, sociales et culturales, comme c'est le mouvement du 1968 en France et dans le monde occidental – Ricœur développe deux axes d'analyse qui ont été élaborés notamment entre les années 1960 et 1970, comme une explicitation de l’origine de la 20 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce crise de l'Université et des possibles solution à cette crise : a) un axe structural, qui affirme la nécessité de faire à nouveau l'Université à partir d’un changement radicale de ses bases et de ses composantes organisationnelles, de sa propre structure administrative et fonctionnelle et du respect de leurs objectifs éducatifs; et b) un chemin dialectique qui amène à refaire l'Université à partir d’une reformulation de la relation entre enseignant et enseigné. À cet égard, Ricœur considère en première instance la structure et la nature de l'Université comme un produit de la société contemporaine, hantée à cet époque par le capitalisme et le corporatisme émergent dans les Universités françaises et européennes, et comme le résultât de l'érosion du travail des universitaires. Deuxièmement, Ricœur voit les possibilités d'une voie de transformation dans la dialectique entre les enseignants et les étudiants qui peuvent décentrer et transformer les conditions de pouvoir qui guident cette relation, et à partir de cette logique, opérer la transformation totale de l'Université en commencent par ses propres bases. De même, une nouvelle interaction dialectique entre enseignants et étudiants permettrait un changement qualitatif dans les relations entre l'État, la société et l'Université. C'est cette interaction qui va à étaler les besoins et les actions nécessaires pour construire un dialogue éthique et fluide avec l'État, le marché et la société en général. L'Université peut avoir le pouvoir de se transformer et de transformer la société et l'idéologie fondée sur les leçons et les actions qui se produisent à l’intérieur de cette relation enseignant-enseigné. Ce débat nous permet de considérer la possibilité d’un changement relevant des politiques éducatives vis-à-vis de l'enseignement supérieur. Ce travail – qu’il faut considérer comme le premier pas d’une recherche plus vaste – analyse d’abord les idées principales chez Ricœur sur l'Université, et deuxièmement développe l’étude de ces idées selon la perspective de certains ouvres ricœuriennes après les années 1960 et 1970, pour enfin rendre compte des impacts de l'évolution du capitalisme universitaire sur la structure de l'Université contemporaine. Amy Daughton The Self, Summoned to Struggle: constructing a dialogue between Axel Honneth and Mary Grey, within Ricœur’s philosophical and biblical concept of the ethical person Background: Paul Ricœur writes of the self summoned to responsibility by the other. This is rooted in both his philosophical anthropology and his dialogue with Judaeo-Christian origin texts. The summoned self under the sign of religious narratives is a prophet, one transformed by teaching, and a conscience. In his work Oneself as Another, the summoned self is called to recognise the other, because ‘[r]ecognition is a structure of the self reflecting on the movement that carries self-esteem towards solicitude toward justice’ (296). This is reemphasised in his later text The Course of Recognition. What is significant in these multiple presentations of a self summoned to act ethically, is the centrality of the concept of the struggle. Ricœur’s use of Axel Honneth’s Hegelian Struggle for Recognition highlights the way social confrontation has brought about a wider, deeper recognition for specific persons and the person as such. Ricœur’s biblical figures of summoning also struggle to respond: the prophet struggles to be heard, the 21 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce self to be transformed by teaching, and the self to interpret her conscience in her context. Question: As both Ricœur and Honneth identify, however, these images are only valuable insofar as they are non-speculative in how they orient the self toward ethical action and moral duty. I intend to explore the way these respective philosophical and religious resources emphasise “struggle” in order to answer this question: can the concept of struggle succeed in directing ethical discourse to a practical orientation toward the other? Original contribution: To answer this I will introduce Honneth’s work to the theological resources in the work of Mary Grey (Prophecy and Mysticism). Both these thinkers explore struggle as a central concept for moral action, and in Grey’s case this explicitly becomes an answer to the summons of faith. of the other. This will be a new conversation between Honneth’s social analysis and Grey’s theology which employs mysticism as an active goad to social action. I will argue that together these thinkers represent profound intellectual sources of replenishment for ethics, in Honneth’s highlighting of the significance of collective rights, and Grey’s emphasis on social justice. This recharacterises Ricœur’s concept of the summoned self as undergoing and enacting an ethical struggle and in this way ethics itself becomes a ‘lovely risk’ (Figuring the Sacred, 275). This discourse is inter- disciplinary and in this way is partly prompted by Ricœur’s crowning of his Course of Recognition with the gift of agape, recognition without return. Ricœur’s use here, within his philosophical work, of a word with strong religious connotations is interesting given his usual careful demarcation between philosopher and biblical ‘listener’ (Figuring the Sacred, 217), and energises the dialogue I intend to construct between Honneth and Grey. Rossana De Angelis Il testo conteso tra ermeneutica e semiotica. Ricœur, Greimas e la risoluzione di un conflitto epistemologico Ripensare la relazione ermeneutica tra esperienza e teoria vuol dire ripensare anche il ruolo del testo. Questo oggetto linguistico permette, infatti, di gestire la relazione ermeneutica fra l’uomo e il mondo, così come quella fra l’uomo e gli altri uomini. Per questa ragione le teorie del testo si offrono come luogo di riflessione teorica ed epistemologica sul modo in cui si costruisce questa duplice relazione ermeneutica. Negli anni Ottanta le teorie del testo ermeneutica e semiotica entrano in conflitto. Soltanto Paul Ricœur riesce, però, a far dialogare questi due approcci al testo: mentre la prospettiva semiotica sullo studio dei testi garantisce un’«interpretazione oggettivante» dei testi, la prospettiva ermeneutica permette, invece, di considerare «l’intero arco ermeneutico» con cui il testo si distacca dal suo autore e fa ritorno al mondo e al lettore. Seguendo questo filo conduttore, ci interrogheremo su alcuni aspetti delle relazioni epistemologiche fra semiotica ed ermeneutica intese come due prospettive di ricerca sul testo, divergenti seppur complementari, passando attraverso il dialogo svoltosi a più riprese fra Paul Ricœur e Algirdas J. Greimas. Già alla fine degli anni Ottanta, Michèle Coquet (1987, «Pour une sémiotique du recit. 22 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce Rencontre entre A. J. Greimas et P. Ricœur») riassume il dialogo avvenuto fra i due intellettuali in occasione del convegno in omaggio all’opera di Greimas (Cerisy-laSalle, 4-14 agosto 1983), il quale risponde con un intervento (1987, «Postulats, méthodes et enjeux: Algirdas J. Greimas mis à la question») che riporta in primo piano l’autonomia del progetto semiotico. Oltre al dialogo fra Greimas e Ricœur «Sulla narratività» e al resoconto del dialogo scritto da Michèle Coquet, sono state pubblicate (spesso in edizioni limitate) poche altre testimonianze di questo dibattito, che ci proponiamo di discutere nel corso di questa comunicazione. Gli approcci al testo di Ricœur e Greimas procedono lungo percorsi diversi. Mentre per Greimas il testo si trova alla fine del percorso generativo del senso, presentandosi come terminus ad quem contemporaneamente del percorso generativo del senso e del suo percorso di ricerca, per Ricœur il testo si presenta invece come terminus a quo, trovandosi all’inizio del percorso del senso e dell’interpretazione. Così, mentre la semiotica strutturale e generativa di Greimas assume un modello esplicativo immanente allo stesso oggetto di studi – così come dimostra la distinzione fra strutture superficiali e strutture profonde –, non rapportando perciò il testo ad altro che a se stesso per interpretarlo, l’ermeneutica di Ricœur mette immediatamente in relazione il testo con un fuori-testo (contesto sociale e storico, soggetto, ecc.), poiché è in un fuori-testo che inizia l’interpretazione. Con questa comunicazione proponiamo, allora, di ricostruire il dialogo fra Ricœur e Greimas sullo sfondo del conflitto epistemologico fra semiotica ed ermeneutica intorno ad uno stesso oggetto di ricerca: il testo. Moira De Iaco Mutamenti di senso e vedere come: la metafora dell’estraneo. Ricœur, Wittgenstein, Waldenfels La metafora non è semplice sostituzione, bensì vero e proprio evento di senso: è una nuova predicazione che, dischiudendoci l’inedito, avvicinandoci l’estraneo, ha la capacità di rinnovare il linguaggio nonché il nostro modo di vedere con esso la realtà. Essa tocca e altera le connessioni semantiche della frase, mutandone il senso, e rinnovando il modo di sentire il mondo nell’intermondo, per noi imprescindibile, della lingua. Contrariamente a quanto comunemente saremmo indotti a pensare, i mutamenti di senso della metafora non sono relegati a funzioni particolari del linguaggio, non riguardano cioè esclusivamente angoli stra-ordinari di creatività linguistica. Li cogliamo piuttosto nel linguaggio ordinario, poiché questo è già vitalmente metaforico. La metafora è evento dell’estraneo, manifestazione di una frattura dell’isotopia del contesto, è irruzione dell’alterità nell’identico. Pertanto, se non interessa spazi eccezionali del linguaggio, bensì ne è un ordinario elemento di vitalità, allora l’estraneo che in essa si rende a noi prossimo non è affatto stra-ordinario, bensì costituisce lo stesso ordinario in cui quotidianamente parliamo, viviamo, agiamo; esso lo intacca, lo contamina, lo fonda in quanto fonte della sua inesauribilità senza tuttavia mai fondarlo. La metafora appare dunque metafora dell’estraneo, metafora di ciò che irrompe nell’ordinario che viviamo: l’estraneo costituisce l’ordinario rompendo la parvenza di familiarità, di appartenenza, con ciò che presumiamo sia proprio. L’estraneo è la nostra lingua, nonché il nostro essere e il mondo che entro i suoi limiti trovano forma. In 23 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce quanto tale, noi gli apparteniamo: nella lingua noi dimoriamo senza, per via dell’estraneità, trovarvi fissa dimora. L’estraneo della metafora, del figurato, che intacca il proprio del linguaggio letterale, ci chiama a guardare diversamente, a rinnovare lo sguardo, per conoscere una nuova pertinenza. In presenza di tale evento di senso, non possiamo più vedere soltanto, ossia vedere inconsapevolmente le parole, ma siamo piuttosto chiamati a un consapevole passaggio alla pienezza semantica: il vedere chiamato in gioco nella metafora è assimilabile al vedere-come di cui parla Wittgenstein. Nella metafora, il comprendere chiama ad ausilio l’interpretare e il vedere diviene perciò “vedere-come”. L’interpretazione dei segni nella nuova veste semantica, rende l’estraneo prossimo al proprio, arricchendolo, rinnovandone il senso; riavvicina il figurato al non figurato, l’ignoto al noto, il come del “vedere-come”, della somiglianza che genera la tensione predicativa, al che del “vedere che” del quotidiano significare, lasciandoci l’irriducibile eccedenza dell’estraneo, il resto del differente, del non assimilabile al proprio, all’identico. È in questa eccedenza che si gioca la viva inesauribile rivelazione della metafora. Ci proponiamo di analizzare la riflessione di Ricouer sulla metafora, una riflessione dai possibili risvolti politici, più che mai attuali nell’ottica di un ripensamento di categorie oppositive quali identità/alterità, comunitario/extracomunitario, proprietà/estraneità e di concetti quali cittadinanza, appartenenza, integrazione, in connessione con il vederecome della filosofia wittgensteiniana e il terreno fertile delle idee sull’estraneo di Bernhard Waldenfels. Ci muoveremo entro i limiti di una filosofia del linguaggio lasciando che si aprano le porte di una critica del presente. Broos Delanote Working through a Painful Past: The Role of the Historian in Times of Change In ordinary language it is often advised to ‘Forgive and Forget’, but both concepts are at least problematic when we apply them to a collective level. In this paper we will explore different interpretations of what it could mean to work through [Durcharbeiten] a painful past in a public sphere. The first part of this paper is devoted to the ways in which the concepts of forgiveness and forgetting can be applied to the transitional justice dilemma. In their own way Jankélévitch, Ricœur and Derrida have all argued that the concept of (true) forgiveness can’t be applied to the collective level. But even if public forgiveness is a contradictio in terminis, we will argue that it is at the horizon of every effort to work through a painful past. The other idea that is used to guide the working through on a collective level, is forgetting. The relation between forgetting and transitional justice, or collectively working through a period of conflict, has been problematized in the last decennia. Following Ricœur and Rancière, we will argue that forgetting, or better: a specific form of forgetting is on the other horizon of our collective efforts to work through. Ordinary language seems to be misleading in combining forgiving and forgetting when applying them to collectively working through a painful past as both concepts seem to be the boundaries between which this process can take place. The second part of this paper will be devoted to the role the historian has to play, or can play, in this process. While the role of the historian has changed rapidly in the last 24 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce decades, the social or political role of the modern historian is still a much discussed issue. What is the role of the historian in times of change, when people are trying to work through these periods of conflict? There are three different positions the historian can take: (i) the historian can try to be impartial, and give an ‘objective’ analysis of what happened (this is the position of the ‘ultimate’ witness); (ii) the historian can also give his verdict on the events (this is the position of the judge); (iii) the historian can also try to heal the wounds (this is the position of a therapist). In practice a historian will sometimes take on more than one of these positions, but we will show that these three positions can be directly linked to the three different ethical standpoints that are at the core of what Ricœur has called our historical condition. By clarifying these different ethical standpoints, we hope to show the difficult, if not impossible, role the historian has, or is assigned, when dealing with a painful past that is still in many ways very present. René Armand Dentz Libertà e perdono Nel terzo argomento de la Scuola di Fenomenologia, Ricœur affronta il passaggio da una fenomenologia trascendentale a una fenomenologia ontologica corretta. La sua attenzione si rivolge a mostrare le caratteristiche di una fenomenologia della volontà che compie una transizione verso l'ontologia. La fenomenologia rivela qualcosa di simile a una carenza ontologica della volontà stessa. L'interpretazione dettagliata di questo rifiuto può essere intesa come una fenomenologia delle passioni, una riflessione filosofica sul senso di colpa. Si tratta di un approccio diverso, che collega le passioni ad un principio di colpevolezza discutibile, anche interpretato come un non essere. Ricœur ritiene carente il lavoro della psicologia delle passioni. La passione non è un certo grado di emozione, né l'involontario. L'autore ritiene che nelle funzioni involontarie (desiderio, abitudine, emozione) si possa trovare il percorso di infiltrazione e di proliferazione delle passioni, però sostiene anche che le passioni siano molto confortevoli in un modo alienato. Per quanto riguarda la questione della colpa, l'autore non ritiene che sia chiaramente definibile, ma che sia piuttosto come composta da un groviglio di aporie. Il segno di ogni passione deve essere decifrato attraverso l'uso nella vita e nella cultura, necessario per decifrare i segnali provenienti da ogni esperienza e la passione per la cultura e limitato dal carattere mitico della nozione di colpevolezza. In questo modo si sospendono i termini della passione di volere in quanto volere e dell'esistenza umana come qualcosa che abbia un senso. L'autore afferma che per separare il mondo soggettivo della motivazione dall’universo oggettivo della causalità, diventa necessario organizzare la triplice idea della motivazione attorno al “Voglio” come costituente (trascendentale). Pertanto, è necessario "tenere in sospeso la schiavitù che opprime la volontà di penetrare la possibilità fondamentale di sé che è la loro responsabilità" (p. 85). L'omissione di colpa è necessaria per comprendere la reciprocità del volontario e dell’involontario, questa reciprocità che li rende comprensibili l'uno all'altro nella loro unità. La libertà è un costituente involontario di ogni aspetto, compresa la necessità, poiché non è soppressa neanche dal senso di colpa. “La dialettica della struttura volontaria e involontaria è indifferenziata dall’innocenza e dalla colpa [...]”. L'uomo non è mezzo uomo e mezzo colpevole, egli è sempre in grado di decidere 25 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce di muoversi e di acconsentire. La ricerca di Ricœur sul perdono comincia con un'analisi della confessione del colpevole, che parte dalla consapevolezza che riconosce un guasto. Questo processo porta l'individuo alla interiorizzazione di un'accusa in considerazione delle leggi infrante. Questo solleva un problema: "Come separare l'agente del tuo atto?" Dal momento che "i codici che disapprovano sono violazioni della legge, ma i tribunali stanno punendo le persone" (p.497). Dries Deweer Ricœur and the Pertinence of a Political Education: On Crisis and Commitment Today’s global crisis invites us in many ways to rethink society. Hence, these are exciting times for philosophers. More than half a century ago, Paul Ricœur developed his core social and political philosophical views in a similar era of crisis and opportunity. My paper will analyze Ricœur’s personalist social and political philosophy in the period between the end of World War II and 1968 in light of its relevance for the current crisis. In reaction to the social, economic, political and spiritual challenges in the aftermath of the war, Ricœur inquired into the task of the person in history. Inspired by Emmanuel Mounier and the Esprit-movement, he developed a reputation as a public intellectual with lucid reflections on many topics of general interest. I will show how these reflections – mainly published in the journals Esprit and Le christianisme social – contain a distinct and outspoken view on the crisis and its ethico-political implications. This “political education” emphasized the distinctness of different aspects of the crisis in society. Ricœur especially disentangled the socio-economical and the political dimension and stressed the fact that a solution to the problems of society requires attention to the particularity of both dimensions. On the one hand, he considered the desirability of establishing a socialist system. On the other hand, he underlined the fact that a socialist solution for socio-economic failures doesn’t necessarily solve everything, since politics implies dangers of its own, given the political paradox, i.e. the fact that politics constitutes freedom through rationality while it always implies a tendency towards illegitimate domination. My paper will show how Ricœur’s interventions are still relevant today, when we hear repeated calls for (a more strict) government control over financial markets, managerial wages, etc, and for transnational rules regarding public debt. What Ricœur especially teaches us is that every enlargement of government power should be met with an equal increase of civic commitment, which does not only include the power of contestation, but also the power of participation. I will indicate that Ricœur’s concern is even more pressing in today’s context, where the socio-economical solutions have to be realized at a transnational or global level. Ricœur teaches us that the economical crisis we face today is more fundamentally a political crisis, since the most difficult challenge is to match economical solutions with adequate civic power of contestation and participation. Geoffrey Dierckxsens Responsibility, Affectivity and Desire In my lecture I will raise the following question: What exactly is the relation between responsibility and desire? In contemporary philosophy, a distinction is often made 26 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce between the two terms, that is to say, responsibility is often seen as a moral issue, as way of conduct that is guided by moral values and norms, while desire is defined in terms of the ego, as essentially personal and, hence, amoral. Harry G. Frankfurt belongs to those philosophers who have argued for such a distinction. Ricœur on the other hand has defended precisely the opposite position, in that he aims, as is well-known, at understanding the personal affective relationship at the very core of responsibility, i.e., of ethical responsibility for the good life with and for others – more fundamental than morality. My presentation intends, in the first place, to defend Ricœur against Frankfurt, i.e., I argue that Ricœur’s position shows that responsibility (either moral or ethical) for what is good in favour of others cannot be thought of without affection. Secondly, I will pose a question Ricœur seems to leave us with, i.e., the question of how to understand the connection between desire and the affection within the intersubjective relation of responsibility. In his book, The Reasons of Love, Frankfurt suggests that responsibility cannot be understood as love, nor as personal desire. To be precise, he makes a distinction between morality, that describes rational moral norms and values that must conduct people’s behaviour towards what is responsible and good in a society with others, and personal desires, as well as love, that are both in the interest of oneself. Although he maintains that love is also to be seen as a practical concern in favour of the beloved, he defines love as being essentially amoral and self-interested and argues that self-love is the supreme form of love. As he puts it, “the function of love is not to make people good [my emphasis] (p. 99)”. If it is through love that another is favoured, it can no longer be called responsibility for the good in favour of others, despite one’s own interests. Furthermore, Frankfurt defends, in another text entitled The Importance of What We Care About that care – which he calls a variant of love – must also be distinguished from morality. In this text he claims that caring is in our self-interest – it aims at what we care about – whereas morality defines what is in the interests of others. People may sometimes care about their moral obligations, but only in their self-interest. For Frankfurt, responsibility and affectivity point at two separate intersubjective relations: the first one is the one of moral responsibility, of moral norms and obligations that guide our moral actions in favour of others, the second one: the affective, the one of personal desire, love and caring for either objects or persons, whether or not in favour of others, but all in the interest of oneself. I defend, in the first part of my presentation, that Frankfurt, when defining the affective domain as being essentially self-interested fails somehow to designate what it means to be responsible for what is good for others. In order to do this, I will let myself be guided by Ricœur’s idea of the affective relation of ethical responsibility towards the other – defined as solicitude driven by compassion – as it is introduced in Oneself as Another. I will answer the question whether the affect of compassion must be seen as a condition for the possibility of responsibility towards others. That is to say, I raise the question whether being responsible for what is good for another, despite one’s own interests, can simply be limited to being morally obliged, without being affected in relation with a concrete other. Being called to the good by moral norms or obligations does not yet seem to mean that one already is responsible for the good for another, i.e., already accepts one’s obligations (both moral and ethical) towards another, even without 27 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce experiencing any affection (of compassion) for this other. Why would I accept responsibility for another that leaves me indifferent? In the second part of my lecture I will investigate Ricœur’s concept of the affective relation of responsibility in Oneself as Another – or, as he calls it, “solicitude” – and its connection to desiring. In response of Levinas, Ricœur argues that this affective relationship cannot simply be thought of as one of the injunction not to kill – an injunction which is “perhaps already too moral” as Ricœur puts it (OA, 189). For him, responsibility for what is good for the concrete other one encounters does not only mean feeling (ethically or morally) obligated towards this other, but by all means also taking initiative, being concerned with what is good for this particular other: caring (solicitude). Solicitude, in its turn, must be seen as the result of the ethical aim (la visée éthique) for the good life, with and for others, in just institutions. The ethical aim – based on Aristotle’s idea of phronesis – is defined as wish (souhaît) or, at times, desire (désir) for the good life. Ricœur does not explain though how exactly the ethical aim must be thought of as desiring, nor does he elaborate on the exact relation between desire (and the ethical aim) and solicitude, the affective relation of responsibility for what is good for the concrete other. In short, one question remains: What exactly is the relation between desire and the affective relation of responsibility for the good in favour of the other? As he defends, it is in being affected with compassion for the suffering other that the self is motivated to solicitude. Does being affected by compassion for the suffering other already come down to desiring what is good for this other and to being responsible for this other? And if not, is one already responsible for the good for the other in feeling compassionate or does one need to experience a particular desire for the good in favour of another in order to be concerned with this good? Eléonore Dispersyn Les enjeux du politique à l’ère de la crise économique : homme faillible ou homme capable ? L’objectif de notre papier consistera à tenter de penser, avec les outils et la méthodologie herméneutique de Paul Ricoeur, le problème contemporain du pouvoir (de la capacité) du politique face à l’économique et à la crise qui en résulte aujourd’hui. Faut-il en effet considérer l’homme politique moderne comme un homme faillible car constamment limité par la résistance d’un mal toujours déjà là comme symbole de la crise économique actuelle, ou peut-on envisager une marge de manœuvre qui accorderait au politique une capacité d’agir malgré ou en dépit des dérives de l’économique ? Il s’agira donc, en nous appuyant à la fois sur les concepts éthiques (Philosophie de la volonté, écrits sur le mal) et politiques au sens large (L’Idéologie et l’utopie, le Juste) de Ricoeur, d’envisager comment joindre la trilogie (« penser, agir, sentir ») appelée par le philosophe lui-même, de la théorie herméneutique à l’expérience en confrontant la question de la crise économique à la possibilité de l’espérance. L’espérance, qui est également un concept central de la pensée ricoeurienne, d’un dépassement de la crise au profit d’une régénération du politique. Pour ce faire, il nous faudra d’abord faire le constat de l’échec d’un certain type de politique dominé par l’économique, pour montrer ensuite comment la crise pourrait donner lieu à penser autrement si elle était envisagée dans la perspective herméneutique du refus de toute 28 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce totalisation ou systématisation du politique par l’économique, en intégrant au contraire les apports mutuels des deux domaines sans réduire l’un par l’autre. Il s’agira par conséquent de se pencher sur la possibilité ricoeurienne d’une « phénoménologie de l’agir en temps de crise », afin d’examiner si la promesse du double mouvement de la phénoménologie vers la morale et de la morale vers une phénoménologie de l’agir dont parle Ricoeur dans Réflexion faite s’applique également à la capacité du politique dominé par la crise économique. André Duhamel Le tragique : du conflit à la crise L’attention à la tragédie et au tragique est récurrente dans l’œuvre de Ricœur. Si elle est d’abord liée au mythe et au mal (1953a, b, 1960), puis au temps et au récit (1984), et enfin à l’action et à la mémoire (1990, 2004), elle écarte toujours l’affirmation d’un tragique de l’être au profit d’un tragique dans l’existence ou dans l’action, susceptible d’instruire l’éthique. Dans la « petite éthique » de Soi-même comme un autre, Ricœur intercale entre l’examen de la norme morale et celui de la sagesse pratique un interlude consacré au « tragique de l’action ». Or, étonnamment, cette lecture des « apories éthico-pratiques » insiste lourdement sur l’origine de la tragédie et les passions de l’anthropologie de la démesure dont elle témoignerait. Dans la tragédie, lit-on, les agissants sont traversés par des « grandeurs spirituelles », des « énergies archaïques et mythiques qui sont aussi les sources immémoriales du malheur », et leurs motivations « plongent dans un fonds ténébreux de motivation » et de « contraintes destinales » qui leur font toucher la « profondeur des arrière-fonds de l’action » et le « fond agonistique de l’épreuve humaine » (p. 281-283). Cette insistance semble orienter l’instruction du tragique moins du côté de l’action et de la sagesse tragique, pourtant rappelées en conclusion de l’interlude, que du côté de la mémoire d’un récit primaire. Ricœur, qui appuie son analyse sur l’interprétation hégélienne de la tragédie comme conflit inéluctable, mais renonce aux synthèses promises par la philosophie de l’esprit spéculative, paraît néanmoins replacer le tragique dans un passé intemporel hors de ressources de l’agir. Nous voudrions, pour dissiper cette ambigüité, prendre tout d’abord prétexte d’une autre lecture de la tragédie, celle de Camus, qui s’intéresse moins à l’action qu’aux périodes productrices de tragédies. Dans une conférence prononcée en 1955, l’auteur de La peste écrit que « L’âge tragique semble coïncider chaque fois avec une évolution où l’homme se détache d’une forme ancienne de civilisation et se trouve devant elle en état de rupture sas, pour autant, avoir trouvé une nouvelle forme qui le satisfasse » (1955, p. 1703). Cette idée de « déchirement intérieur » culturel, qui resitue la tragédie dans un contexte plus large, celui de moments pivots de l’histoire, permet de nous orienter ensuite vers une autre notion ayant son poids dans la « philosophie de la tension » de Ricœur, celle de « crise ». Recouper ainsi le tragique de l’action comme conflit et la pensée de la crise serait, à notre avis, susceptible d’apporter un nouvel éclairage à l’ambigüité signalée plus haut, en situant les apories éthico-pratiques dans le cadre de la conscience historique : elles y apparaitraient alors comme un écart entre « l’horizon d’attente et l’espace de l’expérience » (1988, p. 15) d’une époque donnée et témoigneraient de la possibilité d’un passage. Cette proposition prolongerait la pensée 29 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce de Ricœur sur le tragique en élargissant la palette herméneutique des outils pour penser les reconfigurations de la tragédie au présent et leurs reprises dans l’action. Jocelyn Dunphy-Blomfield Conflict and depth in Ricœur’s ‘militant hermeneutics’ “… the conviction that discourse never exists for its own sake, for its own glory, but that in all of its uses it seeks to bring into language an experience, a way of living in and of Being-in-the-world, which precedes it and which demands to be said.” (TA, 19) This paper argues that Ricœur’s active involvement in the crises of his time (‘this terrible century’ xx) is not separate from his philosophy, or an application of it, but flows from the depths of that philosophy’s coherence: what he calls ‘the concern to combine analytical precision with ontological testimony’ (TA, 20). He articulates this dual aspect of his work most explicitly in From Text to Action, but it can be listed across his writings and statements from Philosophy of the Will to Memory History Forgetting. The issue is ‘how does this double inspiration work?’ My paper’s task is to explore this in Ricœur’s epistemological and conceptual process. I start with his claim just quoted, from the essay “On Interpretation” that opens From Text to Action: that his work bears witness to an ontology, then briefly outlining that ontology as one of potency or in his terms ‘capability’, show its central importance in his work and link it to parallels in his social and political activities. In brief, adumbrated in Fallible Man, this ontology is developed explicitly via linguistic processes in The Rule of Metaphor, then in Oneself as Another as the fulfilment of a long search, foreshadowed in ‘De l’attestation’ (MRH). Three examples of the interrelation of ontology and action follow. The first is that of Ricœur’s involvement as Dean of the Nanterre (Paris X) Faculty of the University of Paris in the students protests of May 1968 - a situation made ambiguous by government intervention, and perceived by him as failure - and viewing it through the study by the historian Michel de Certeau who understood what was at stake. Remarkable as an analysis by a third person of an event that remained troublesome and painful to Ricœur for many years, it opens the way to thinking more deeply (cf WMT? 270) about the risks for a philosopher of entering the political arena at a moment when others are denying legitimacy to philosophy as such. The second example shows Ricœur taking up his theme of ‘just institutions’ (cf OSA, 194) in terms of ‘analytical precision’ in studies of social and legal issues (IU, J). Short examples here lead to philosophical reflections where he is able to set the parameters and the issues in a new way. The third example is his development of the notion of imagination as part of ‘the historical condition’ in Memory History Forgetting. This study takes further his ontology of capability while its exact point, as example, is his study of the ‘abuses of memory ’- a direct confrontation with attitudes of government in many parts of the world that is still offensive to many readers who cannot recognise its philosophic depth. 30 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce This threefold exploration, aiming to trace the unity of Ricœur’s philosophy and practice of action, and his ability to use confrontation as part of a dialogue with 20 th and 21st century philosophy, is shown to make sense within the framework of his ontology of capability, as an enrichment of the Aristotelian ontology of potency within a greatly enlarged understanding of human action in terms of imagination, affect, power and fragility. As a diagonal ‘slice’ across Ricœur’s work it brings his work together in a way that not only illustrates his ‘militant hermeneutics’, but is enlightening with regard to confronting interest groups confident in their powers. Patrick Fridlund Dialogue et conversion – un effort de transformer la tension sans la dépasser L’objectif de cette intervention est de discuter les tensions sous-jacentes aux notions de dialogue et conversion. Plus spéficiquement, il s’agit de reconnaître, d’éclairer et de penser la tension existant d’une part entre les projets contemporains de dialogue menés par les groupes religieux et d’autre part la propension profonde de ces derniers à s’agréger de nouveaux membres tout en évitant le départ des anciens. Il est possible de se demander par exemple si dialogue et conversion forment deux pôles opposés ou s’ils correspondent à des réalités parfois entremêlées sur une sorte de continuum relationnel, celui de « l’intérêt pour l’autre ». Au-delà de la question de ce qu’on entend par « conversion » et par « dialogue », il me semble que c’est la conception même du « cadre » dans lequel ces événements ont lieu qui joue un rôle décisif. Quelle est la conception du religieux ? des caractéristiques d’une tradition religieuse ? Comment l’appartenance et l’identité religieuses sont-elles pensées ? Le théologien George A. Lindbeck et son livre The Nature of Doctrine constituent une bonne entrée à ce questionnement. Lindbeck évoque en effet certaines de ces questions et propose des réponses parfois de manière implicite, parfois partiellement. Ma lecture critique de Lindbeck porte surtout sur le fait que la vie religieuse semble produire des situations « intermédiaires » telles que « métissages », des « bricolages », des « couples mixtes », des « multiappartenances », des « syncrétismes », etc. Parallèlement de nombreuses analyses philosophiques (chez Austin et Derrida entre autres) montrent que tels « métissages » n’ont rien d’étrange. Une fois que le cadre même est rendu complexe, le travail sur la tension entre dialogue et conversion peut être reprise, mais sur un autre plan et différemment. Sebastiano Galanti Grollo Riconoscimento e sensibilità: il conflitto con l’altro tra Ricœur e Lévinas L’intervento intende affrontare la questione del conflitto con l’altro dal punto di vista etico, rispondendo alle critiche che Ricœur muove alla concezione filosofica di Lévinas e mostrando come il nucleo di tale concezione si collochi a un livello diverso rispetto a quello del riconoscimento reciproco. Se per Ricœur l’origine del senso è situata nella struttura teleologica del soggetto, secondo Lévinas essa non può essere rintracciata a livello della coscienza né nell’ambito delle relazioni reciproche, risiedendo invece nella sensibilità che è immediatamente passività: è nel suo stesso sentire che il sé avverte di essere responsabile. Peraltro, in Autrement qu’être la sensibilità viene distinta dalla 31 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce «ricettività» e quindi dall’idea moderna di sensibilità come primo momento del processo di conoscenza, nel quale la ricezione del dato si iscrive in un percorso che ne consente l’appropriazione. Al contrario, la sensibilità è un esporsi passivo, un Dire che si traduce immediatamente in un «Dirsi», che tuttavia non è una designazione ma una risposta all’altro, il quale chiama il soggetto alla responsabilità «prima di essere riconosciuto». A tale riguardo, l’originalità della proposta interpretativa consiste nel mostrare che quella di Lévinas non è tanto un’etica del riconoscimento quanto un’etica senza riconoscimento, perché è fondata su un sentire la cui origine risulta anteriore a ogni scambio comunicativo. In Soi-même comme un autre Ricœur sostiene invece che si debba accordare al soggetto la capacità di «accoglimento», «discernimento» e «riconoscimento», risultante da una «struttura riflessiva»: il sé deve poter riconoscere l’autorità dell’altro, che quindi si colloca a livello epistemologico, mentre in Lévinas il rapporto con l’altro ha a che vedere con la sensibilità. Si tratta infatti di un «trauma» originario (l’«Altro nel Medesimo»), che il soggetto avverte ogni volta di nuovo nell’incontro con altri. Per questo Lévinas ritiene che l’insistenza di Ricœur sul fatto che la relazione intersoggettiva necessiti di un momento riflessivo non consenta di cogliere il carattere immediatamente etico dell’alterità dell’altro. Alcuni interpreti, tra i quali Marion e lo stesso Ricœur, sono invece dell’avviso che mancata differenziazione della singolarità di autrui neghi al soggetto la possibilità di modulare la propria risposta, ricadendo così in un equivoco che è destinato a permanere se non si avverte che l’etica di cui parla Lévinas non ha nulla a che vedere con le forme della condotta individuale, dato che si colloca a un diverso livello, quello del sentire. La concezione levinasiana intende infatti descrivere il sentirsi in debito verso l’altro che il sé prova nelle situazioni concrete. La possibilità di diversificare il proprio agire richiede certamente una capacità di discriminazione, la quale però va al di là del livello assolutamente passivo della sensibilità: la pluralità dei soggetti apre lo spazio del conflitto e della comparazione dando luogo a una condotta diversificata, che tuttavia si situa su un livello ulteriore, quello della «giustizia» e del «terzo». In realtà, il dissenso deriva dal fatto che per Lévinas il soggetto non può restare nel compiacimento della stima di sé, della benevolenza, la quale invece per Ricœur ha già un carattere etico. Okan Germiyanoglu Les représentations de la « guerre » : le processus français de légitimation et de délégitimation du conflit à travers la violence terroriste Représenter la guerre, c’est la dire et la faire par rapport ici à des « criminels », ce qui renvoie à la violence terroriste vue par un Etat ou un groupe institutionnel étatique. La violence terroriste doit être ici comprise comme « la pratique terroriste contemporaine »11 liée à la mondialisation. Perçue par les Etats comme une menace visible et réelle, depuis les attentats du 11 septembre 2001 aux Etats-Unis, cette forme de violence justifie de leur part des politiques antiterroristes relevant de la « sécurité globale »12. 3 M.-C. Smouts, Terrorisme, in M.-C. Smouts, D. Battistella, P. Venesson (dir.), Dictionnaire des relations internationales, Dalloz, Paris 2003, pp. 481-484. 4 Commission du livre Blanc, Livre blanc de la Défense et de la Sécurité nationale, Editions Odile Jacob/La Documentation Française, Paris 2008, p. 40. 32 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce Mais dans une approche constructiviste, dire et faire la guerre à des criminels implique de définir des identités, c’est-à-dire « qui nous sommes et qui sont les autres »13. Dire ainsi que l’autre est un criminel relève de la violence symbolique, dans un processus de déni de reconnaissance de l’adversaire. L’analyse prend comme cas d’étude la lutte antiterroriste vue par les hauts fonctionnaires du Ministère des Affaires étrangères français. D’un point de vue normatif, les hauts fonctionnaires appliquent la politique étrangère de la France définie par le président de la République. Ils accomplissent à ce titre les missions de la diplomatie dans la lutte antiterroriste (coopération, renseignement…). Or, il apparaît aussi une double problématique : tout d’abord, ces hauts fonctionnaires mobilisent des discours qui se veulent rationnels à travers leur vision du terrorisme. Mais ils peuvent mobiliser un système de croyances qui donne du sens à la politique antiterroriste. Or peut-on également envisager que le déni de reconnaissance de l’adversaire puisse être « un besoin psychologique d’estime de soi »14 d’un Etat comme la France sur la scène internationale ? L’analyse emprunte le concept d'Operational Code15 (ou OPCODE) qui cerne un système de croyances communes aux hauts fonctionnaires à travers des questions sur la nature de l’adversaire et sur les objectifs pour le combattre. Le matériel empirique s’appuie sur des entretiens, des questionnaires écrits, ainsi que des productions officielles françaises. L’OPCODE doit aider ici à définir le terrorisme vu par les hauts fonctionnaires. À travers l’approche constructiviste, la reconnaissance dans la lutte antiterroriste permet d’une part de souligner l’importance des aspects identitaires et symboliques, en particulier du point de vue d’un Etat occidental comme la France. La construction de l’identité devient ainsi incontournable dans le processus de déni de reconnaissance de l’adversaire : on note que l’Etat fait et défait la réputation des organisations nonétatiques lorsqu’elles emploient la violence terroriste. La corrélation entre le système de croyances ou Operational Code majoritaire des hauts fonctionnaires du Quai d’Orsay et les recommandations stratégiques confirment aussi un déni de reconnaissance officiel qui passe par la criminalisation de tout acte de violence politique. Enfin, l’Etat se redonnant de la légitimation en niant toute reconnaissance à son adversaire terroriste, on peut considérer donc comme prééminents le rôle et l’action de l’Etat sur la scène internationale. Emanuela Giacca Demitizzazione, morale, libertà religiosa. Castelli e Ricœur nei “Colloqui romani di Filosofia della religione” Nel 1978 esce Religione e politica, il volume che raccoglie gli Atti del Colloquio internazionale «I nuovi aspetti della demitizzazione: religione e politica», organizzato 5 T. Lindemann, Sauver la face, sauver la paix. Sociologie constructive des crises internationales, coll. « Chaos international », L'Harmattan, Paris 2010, p. 21. 6 T. Lindemann, Penser la Guerre. L’apport constructiviste, coll. « Logiques politiques », L’Harmattan, Paris 2008, p. 59. 7 A.L. George., The Operational Code : A Neglected Approach to the Study of Political Leaders and Decision-Making, in International Studies Quarterly, 13 (2) 1969, pp. 190-222. 33 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce nello stesso anno a Roma dal Centro Internazionale di Studi Umanistici e dall’Istituto di Studi Filosofici. Esso rappresenta uno spartiacque significativo, perché cade a un anno dalla morte di Enrico Castelli (1900-1977), ideatore e promotore dei «Colloqui romani di Filosofia della religione», svoltisi annualmente presso la Sapienza di Roma a partire dal 1961. Nella prefazione al tomo, Marco Maria Olivetti, che erediterà la gestione dei Colloqui, riporta un appunto inedito del maestro, il quale avrebbe dovuto fungere da nucleo dell’Introduzione al futuro incontro. Il filosofo vi assomma, in poche righe di straordinaria attualità, le tappe del percorso teorico che si era andato snodando attraverso le voci dei suoi interlocutori. L’esito viene individuato, appunto, in quel binomio religione-politica che, adombrato in diversi Colloqui passati, s’imponeva ormai prepotentemente all’attenzione del pensiero. «L’attualità della filosofia della religione» – vi annota Castelli – «ha un’origine precisa nel rinnovamento di una problematica già tramontata con il tramonto del modernismo, ma che la “teologia politica” ha ripresentato come un’esigenza nuova […]. Se ieri in prima linea era il problema della guerra, oggi c’è quello della liceità di dare la morte in determinate circostanze (aborto, eutanasia…). Ieri il problema della proprietà individuale, oggi di quella pubblica. Ieri il problema della giustizia, oggi quello dell’ingiustizia in un mondo fondamentalmente ingiusto. Oggi il problema del significato (signification e signifié) e il problema di una possibile “partecipazione” al di là del linguaggio». Questa nota, densa nella sua brevità, potrebbe figurare come manifesto problematico dei Colloqui sulla demitizzazione. La falsariga che la struttura ben si presta, altresì, a rappresentare un possibile filo conduttore dello scambio che vede protagonisti, nei Colloqui, Enrico Castelli e Paul Ricœur, una delle presenze costanti sin dal primo degli appuntamenti romani. Nonostante i singolari tratti di predittività e applicabilità – si pensi soltanto, a titolo d’esempio, alle discussioni sulla bioetica, la cibernetica e le implicazioni della nozione di inconscio – i risultati di tale intreccio intellettuale restano ancora insufficientemente esplorati. Su queste basi, mi propongo di inquadrare, attraverso la ricostruzione del confronto Castelli-Ricœur, la questione del conflitto e della crisi nella cornice teorica profilata dalla demitizzazione. In particolare, sullo sfondo dello sviluppo del pensiero dei due filosofi nelle opere di questo periodo, prenderò in esame le proposte formulate nel corso dei Colloqui del 1965, «Demitizzazione e morale», e del 1968, «L’ermeneutica della libertà religiosa», assieme al dibattito che ne è scaturito. Nel primo, Ricœur, col saggio intitolato Demythiser l’accusation, risponde alle sollecitazioni offerte da Castelli nelle battute introduttive e, riallacciandosi ai motivi della storicità e dello status deviationis, riformula, alla luce delle letture freudiane recenti, il problema della colpa lasciato in sospeso alla fine della Symbolique du Mal. È nel 1968, però, che i temi al centro del Colloquio su Demitizzazione e morale giungono a piena maturazione: in consonanza col paradigma di demitizzazione configurato dal saggio di Castelli (L’ermeneutica della libertà religiosa), Ricœur propone un Approccio filosofico al concetto di libertà religiosa, in cui accosta filosoficamente il nucleo kerigmatico della libertà e l’orizzonte escatologico della speranza. Ne deriva un’analisi che, dalle due Dialettiche kantiane alla Religione nei limiti della sola ragione, passando per la dottrina dei postulati e il nesso etica-religione, approda a una definizione del male radicale che, alla luce di quanto detto in apertura, appare decisamente indicativa: il male radicale – scrive – è «quello che culmina, per dir così, non nella trasgressione, ma nelle sintesi mancate di sfera politica e religiosa». 34 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce Le questioni che, nel complesso, emergono dai due Colloqui verranno scandite secondo tre versanti principali, al fine di esibire le soluzioni che ne derivano in ordine alla contemporaneità: 1La morale nel mondo secolarizzato: accusa, obbligo e male radicale; 2Storia sacra - storia profana: demitizzazione del kerigma, escatologia, speranza; 3La libertà religiosa e la demitizzazione dei valori: è possibile restaurare la sacralità delle virtù? O la «morale della favola» è davvero la «favola della morale» (Castelli)? Mark Godin Our Debt to the Dead: A Theological Reflection on Paul Ricœur, the Holocaust,Imagination and Responsibility In an article entitled “Narrated Time,” Paul Ricœur explored the relationship of history and fiction, arguing that they borrow methods from one another: history requires the creative imagination of fiction in order not only to give some kind of order to moments in time but also to give a voice to the dead; fiction utilizes history's way of dealing with the past in that readers must believe that the past of the world of a novel or short story is the past of the narrating character. With events like the Holocaust, whose horrors are exceedingly difficult to express, imagination becomes an aid to bringing human damage before us. We pay our debt to the dead, in part, by listening to their voices as they are made manifest in stories. Fiction also frees up the possibilities latent in what could have been, possibilities which may move us to pay attention to the worlds which have been summoned up by the text. However, in Critique and Conviction, a later book-length interview, Ricœur alluded to a different type of debt to the dead: the debt of responsibility. He noted that western Christianity, through theological antisemitism, had created conditions which allowed for Nazi beliefs about and actions towards Jews. For this, the churches must confess and attempt to make amends. Going on to talk about various reasons for paying attention to history, Ricœur declared that one goal should centre on “the idea of rescuing an unkept promise.” This goal hearkens back to fiction's ability to underline what could have been, in terms of the promises that victims could never keep, but it also suggests that victimizers who broke promises need to be called to account for their past and provided a chance to keep their promise after all (see Ricœur, Critique and Conviction, 112 and 125). While Ricœur does not make the explicit connection, this call to renew what was lost could link back to his statement of the need for Christians to repent the part their theology played in the Holocaust. This paper will be a theological reflection exploring the relationship between that debt to the dead which we pay by attending to the voices given life in their stories and that debt which is created by responsibility and guilt. I will follow the links between the two notions, particularly along the trail of broken and lost promises whose memory is nevertheless sustained by imagining the fictive world of an obliterated past, focusing on Ricœur's references to the Holocaust but opening up implications for other instances of crisis and conflict. Though the problems are not minimal, I will argue that the tension evident in the two formulations of our debt to the dead could be a creative tension, one 35 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce which carries a possibility for generating a space for attending to the lost, for tracing a turn towards justice in the trace of compassion—not the compassion of the living alone or even primarily, but the compassion of the dead. Johanna González, Denis Lawson Une lecture ricœurienne du langage politique entre sens et réification : la figure du mal (criminel/terroriste) sous le régime d’Álvaro Uribe en Colombie. Si Dieu a le pouvoir de créer, l’homme politique a celui de nommer, de mettre des noms sur les choses, de les inscrire dans un registre symbolique, de marquer les différences16. En posant le langage comme discours qui énonce, l’homme politique peut typifier, créer des catégories et leur donner un sens au point où l’objet désigné par lui se confond avec le symbole qu’il représente. En s’inspirant de trois œuvres (Á l’école de la phénoménologie17, Soi-même comme un autre moi18 et le parcours de la reconnaissance19) de Paul Ricœur, ce travail aura comme démarche une lecture phénoménologique et herméneutique du discours politique dans un contexte de tension violente, celui de la Colombie. Ce corpus empirique nous donne à voir durant la présidence d’Álvaro Uribe (2002-2010) une utilisation du langage politique comme donneur de sens. On fera ainsi l’hypothèse que : si les Farc20 existent comme groupe c’est dans le sens du nom que le politique leur a donné qu’on peut saisir la lutte et la détermination du pouvoir Uribéen à l’éradiquer. Ainsi dans le processus de désignation, les Farc deviennent « le mal de l’intérieur.» En affectant un statut aux Farc (« le mal de l’intérieur ») ils apparaitront comme des « terroristes et des criminels », ennemis de la Colombie. C’est seulement qu’une «grammaire du mal» devient possible. En tant que ce qui peut donner sens le langage politique peut ainsi lier et délier, former et déformer à volonté. Il peut rendre présent l’objet absent. Qui dit Farc, dit mal, qui dit mal dit Farc. L’idée des Farc devient les Farc. Le langage politique devient performatif. Il est action. En donnant sens aux Farc il les fait devenir. Il articule l’être et le non-être, ce qui doit être et ce qui perd le sens de tout être, humain. Dès lors, c’est sous l’identité du non-être que la possibilité de son élimination n’affecte en rien la morale et les valeurs. Car la chose que les Farc représente est a-morale, sans valeur aucune sinon celle de l’animal, de la bête, dont le salut ultime ne peut être que la mort. La chose ne saurait exister parmi les hommes, il faut l'éradiquer, la tuer, la supprimer (voir l’exemple des falsos positivos- faux positifs). Elle porte le sens de ce dont il faut se séparer, détruire, couper, détacher du Corps social, pour qu’il retrouve la paix. Il est ce qui perturbe l’équilibre du Corps social. Point n'est besoin de lui témoigner de l'émotion ou de la compassion. Toute empathie et toute sollicitude lui sont refusées. Le gain du mal c’est le déni de reconnaissance. Dans le processus de É. Pewzner-Apeloig, Ce nom qui nous porte, in T. Ragi (dir.), Les territoires de l’identité, Licorne, Amiens 1999, p. 24. 9 P. Ricœur, Á l’école de la phénoménologie, Vrin, Paris 1986. 10 P. Ricœur, Soi-même comme un autre, Seuil, Paris 1990. 11P. Ricœur, Parcours de la reconnaissance, Stock/Gallimard Collection Folio essais, Paris 2004/2005. 12 Forces Armées Révolutionnaires de Colombie (Farc) 8 36 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce chosification, de réification, les Farc deviennent le symbole de la morbidité dont-il faut nécessairement guérir pour retrouver la quiétude. Dès lors, le rôle régalien du politique c’est d’éliminer l’épidémie. La traque, la chasse, de la chose, de la vermine, de l’animal, du prédateur (les Farc), qui viole, tue, enlève des innocents, peut commencer. L’arrivée au pouvoir d’Álvaro Uribe va ainsi correspondre à une militarisation de l’espace public comme rempart contre la guérilla, dans le sillage et en réponse à un contexte international nouvellement touché par le terrorisme le 11 septembre 2001. Nel van den Haak Free Will in Ricœur Among scientists and philosophers we find fear that the implications of behaviour scientists, cognition scientist and neuroscientists will undermine moral practices and, for example, juridical practices and the law as institution. As opposed to this fear of narrowing the moral possibilities one may also argue that the moral possibilities will be broadened by these sciences. Already fourteen years ago in What Makes Us Think Ricœur has argued in this line, although, according to present standards, he did not consider the effect of brain processes on decision processes concerning good and evil in the right way. However, he emphasized the moral reflection and the influence that the otherness and the otherness of the other has on it. One has to focus on all what happens in and contributes to the moral conversation and reflection. For him ethics essentially is learning to handle that otherness. In What makes us think Ricœur has pointed out the limitations of neurosciences, which are often recognized by neuroscientists. For example, Ricœur criticizes the very easy use of the term ‘cause’ (body as cause of the mental). Neurosciences inform us directly about our brain but only indirectly about our mental processes and states. He also indicates that the psyche on which neuroscientists speak is a laboratory-psyche and not the rich psyche of the integral experience. For Ricœur this psyche is a construction. Neurosciences approach the objective corporeality. However, subjective corporeality is another dimension or experience of corporeality. Conversely, Ricœur argues that the objectivity of physical causality and the subjectivity of agency are mutually dependently facets of our corporeal being. He argues a dialectical ‘middle path’ in science and philosophy, which undermines the duality of subjectivity and objectivity. The effect is that scientific methods are justified without becoming prey to alienations. The doubling of subjectivity and objectivity applies to both the body and the mental. At first for Ricœur the doubling of subjectivity and objectivity was right represented in the theory of action. This was the counterbalance of the epistemological approach of the subject. Ricœur’s focalizes on the ‘agent’, on ‘agency’ and on the intention. For him intention must not be uncoupled from the agent because than it would become incomprehensible. In order to read off the intention of the agent on the action of the agent, Ricœur searches for the ‘who?’ of the action. That is characteristic of the ontology of the personal body. Agency is corporeal agency especially. With the question of the ‘who’ of the action Ricœur aims to question how to ascribe to a person psychical and physical predicates in a new way. 37 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce This question of the ‘who?’ ends in Ricœur in Soi-même comme un autre in a hermeneutic of the self narrowly interwoven with an ontology of the body. In it Ricœur makes an important distinction in several meanings of the self. Ricœur analyses this ‘soi’ as a dialectic of ‘ipséité’ and ‘mêmeté’. For Ricœur the corporeal criterion is not by nature unknown to the problem of ‘ipséité’. The appearance to me of my body testifies to the non-reducibility of the ‘ipséité’ to the ‘mêmeté’. The also implies that willing — the central question of this paper — is embodied. And willing, the ‘agent’, the self are neither uncoupled from the other nor from the cultural and social context. With it we see that the dialectic of ‘ipséïté’ and ‘mêmeté’ are connected to that other dialectic, namely the dialectic of the self/’soi’ and the other and the otherness. We can see certain resemblances between the concept of the self in Ricœur and in that one in Damasio, neuroscientist interested in philosophy. Damasio makes the distinction between the changeable core-self and the unchangeable autobiographical self. Much more than Ricœur he elaborates the biological and neurological foundation of these concepts of the self. And Damasio does it with a concept of science and of objectivity and subjectivity that connects to Ricœur’s philosophy. With it he offers good handles to elaborate Ricœur’s concepts of the self, its corporeality and with it the embodiment of the will, in which corporeality does not imply determinism but situatedness indeed. Fernanda Henriques Il faut raconter autrement. Mémoire, Histoire et Identité ou payer une dette aux femmes Ce texte veut remplir un vide thématique autour de la pensée ricoeurienne. Il s’agit de l’exploiter du point de vue du féminisme. Dans Parcours de la Reconnaissance, Paul Ricœur dit que les mouvements féministes ont contribué à populariser le thème de la reconnaissance, en disant qu’ils font une revendication autour d’une identité spécifique qui veut être reconnue comme collective pour pouvoir permettre aux membres individuels d’atteindre l’estime de soi. En exploitant Charles Taylor21, Ricœur reconnait aussi l’importance de la reconnaissance pour la formation de notre identité, en disant deux choses: que l’identité des groupes historiquement discriminés intègre une dimension temporelle «qui embrasse des discriminations exercées contre ces groupes dans un passé qui peut être séculaire»22. qu’il faut faire une discrimination inversée envers ces groupes. En partant de ces deux points, j’exploiterai la position de Ricœur de faire de la mémoire la matrice de l’histoire pour montrer le besoin de raconter notre tradition de façon à libérer un nouveau point de vue anthropologique sur les femmes. Il s’agira de montrer l’importance de raconter autrement notre héritage de façon à donner aux femmes en tant que collective une identité pour permettre à chaque femme d’augmenter son estime de soi. 21 22 C. Taylor, Multiculturalisme, Flammarion, Paris 1994. P. Ricœur, Parcours de la Reconnaissance, p. 311. 38 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce Quand Judy Chicago(1970) a dirigé le projet Dinner party pour donner de la visibilité aux femmes, son travail a été réalisé au nom de l’idée que «notre héritage c’est notre pouvoir». Ce travail se propose un but pareil : montrer qu’il faut chercher dans notre tradition de nouvelles possibilités de penser le féminin non développées au niveau des perspectives anthropologiques. J’atteindrai mon but, en développant quelques thèmes soit de la pensée ricoeurienne soit des Women’s Studies, surtout : Dénoncer l’inégalité des conceptions anthropologiques au regard des femmes, depuis Aristote jusqu’à Freud, pour plaidoyer pour la nécessité d’un ‘usage critique de la mémoire’ pour éviter qu’il n’y ait qu’une perspective unique sur le passé, parce que «la mémoire imposée est armée par une histoire elle-même ‘autorisée’» et elle se transforme en «une mémoire enseignée»23. Articuler mémoire, histoire et identité et exploiter la position ricourienne que «Le cœur du problème, c’est la mobilisation de la mémoire au service de la quête, de la requête, de la revendication d’identité» et de cette façon souligner le besoin pour les femmes de chercher dans le passé de nouvelles sources anthropologiques, peut-être oubliées. Légitimer la possibilité de raconter autrement notre tradition sur l’idée du ‘présent comme initiative´. Par ailleurs d’expliciter la position ricoeurienne sur espace d’expérience et horizon d’attente, de Koselleck, on montrera comment l’idée de ’l’humanité comme capable’ permet de “donner aux choses un cours nouveau, à partir d’une initiative qui annonce une suite et ainsi ouvre une durée. Commencer, c’est commencer de continuer […]”24. Ellen A. Herda The Other in International Development: Attestation and Recognition in Anthropological Practice Only when the Other is recognized does the act of development begin. The lack of success in attempts to aid the poor has been met with increasingly stringent methodologies in efforts to improve conditions of poverty. From A Billion Lives (Egeland) to Dead Aid (Moyo), international developers have used quantified data grounded in economics to field the gaze of the other and to respond to international guilt and political pressure. In view of the failures of development practices, the move toward local participation approaches appeared on the international scene as a possible panacea for the amelioration of poverty and disease. However, the poor are still with us. In other words, the promises of the westernized nations are not honored in view of the testimonies of the poor. The institutionally based need for specifically identified and immediate results codified in development vernacular camouflages the importance of valuing identity, culture, and tradition; moreover, a focus on a results-based orientation in development masks understanding the relationship between Self and Other which is the bedrock for development. Moving beyond the patronization and remediation found in most international development approaches, this paper discusses an alternative 23 24 P. Ricœur, La Mémoire, l’Histoire, l’Oubli, p. 104. P. Ricœur, Temps et Récit III, p. 333. 39 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce approach drawing upon Ricœur’s concepts of identity, attestation and recognition. The application of these concepts does not necessarily dispel the problems in international development but they set the stage for a different approach; one that does not strive to reduce complexity and multiplicity, but provides a way for both Others—the local and the anthropologist—to make sense of their capabilities and worlds-in-practice. Cristóbal Hernán Gallo De l’estime Soi à l’estime de l’autre. Ricœur critique de Levinas. Levinas critique de Ricœur “Je n’exprimerai ici qu’une faible partie de ma dette à l’égard de Levinas”25. La note en bas de page dans Soi-même comme un autre rend compte de l’importance de la pensée de Levinas pour la philosophie de Ricœur. A plusieurs reprises Ricœur fait de Levinas un objet de réflexion dans son ouvrage. Toutefois l’influence que Levinas exerce dans l’ouvrage de Ricœur doit être appréciée à la lumière de la critique que Ricœur porte à l’ouvrage de Levinas. Ainsi, la responsabilité éthique chez Levinas repose sur l’injonction de l’autre à la responsabilité, l’assignation de moi à soi dans l’unicité de l’élection dans l’un-pour l’autre de la sensibilité exposé à autrui. L’inquiétude permanente pour autrui qui peut arriver jusqu’à la substitution.26 Ainsi Levinas ne laisse aucune place pour-soi qui risquerai du même coup la porte éthique de la sollicitude d’autrui. Or, pour Ricœur on ne saurait pas répondre à la sollicitude d’autrui sans laisser une place à l’estime de soi. “Le maintien de soi c’est pour la personne la manière telle de se comporter qu’autrui peut compter sur elle.”27 L’estime de soi, confiance que fonde la capacité comme “pouvoir enfin de répondre à l’accusation par l’accusatif: Me voici selon une expression chère à E. Levinas.”28 Sans estime de soi non seulement l’action responsable se voit compromis sino aussi “exclurait l’instruction par le visage du champ de la sollicitude.”29 L’échange épistolaire entre Levinas et Ricœur, publie dans Ethique et Responsabilité, est un témoignage de cette polémique. Néanmoins, dans la critique que Ricœur porte à Levinas dans Lectures III ainsi que dans Soi-même comme un autre, la question du Tiers dans l’ouvrage de Levinas est omise. Seulement plus tard dans Autrement, Lecture d’Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Ricœur reviendra de façon résumée sur cette omission. Or pour Levinas l’entre du Tiers implique que “je suis abordé en autre comme les autres.”30 D’où que, sans laisser place à l’estime de Soi, Levinas ouvre une alternative: Une économie sociale qui se veut réciproque où, à la fois, les autres se soutiennent dans ma responsabilité pour eux et où la capacité de soi se soutienne dans l’estime responsable d’autres pour moi. L’introduction du Tiers est si importante dans l’ouvrage de Levinas que, comme Jaques Rolland l’exprime à son insu31, tout son ouvrage doit être P. Ricœur, Soi-même comme un autre, ed. du Seuil, Paris 1990, p. 221. E. Levinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, ed. LGF, collection Livre de Poche, Paris 2008, p.184. 27 P. Ricœur, Soi-même comme un autre, op.cit., p. 195. 28 Ibid., pp. 34-35. 29 Ibid., p. 221. 30 E. Levinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, op.cit., p.247. 31 J. Rolland, Parcours de l´autrement, ed. PUF, Paris 2000. 25 26 40 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce réinterprété. D’où la question, si important, de faire une relecture de Ricœur à la lumière de cette nouvelle donné, à la fois de relire Levinas à la lumière de la critique exigent que lui porte Ricœur. Ainsi, le destin de l’une et de l’autre philosophie nous parait lié. Ferenc Hörcher Justice as a Virtue and the role of Phronesis in Ricœur’s Practical Philosophy For the late Ricœur, the problem of human justice became an ever more pressing problem. His late books of selected articles on The Just presented his detailed analyses of classical (Aristotelian, Kantian or Hegelian) and contemporary ideas of justice (including those of Arendt, Rawls, Dworkin, Taylor and Walzer). As a political and legal philosopher he tried to show that justice should not be seen simply as a neutral and institutionalised system of norms. Rather, he tried to emphasize the particularity of each and every act or test of justice, its connection to political, ethical and aesthetic judgement and its relationship with rehabilitation and pardoning. His small book on Love and Justice is perhaps even more ambitious: it tries to push the concept to its borderline case, where it is already connected to love. In the paper I try to show that although Ricœur was not acclaimed to belong to the group of English speaking theorists labelled as Communitarians, in more than one respect he shared their presumptions. Himself a practising Protestant, he presented strong arguments for a hermeneutics of the human person which echoes the anthropology of the Communitarians (beside obvious connections to French phenomenology and the social teaching of the Church). One of the key terms in this respect is – as I shall try to show – the concept of phronesis, with its obvious Aristotelian undertones, which appears in MacIntyre, Taylor or Gadamer as well, but plays a major role in Christian moral theology as the cardinal virtue of prudence. I will argue, that by showing that no rational human judgement can be made without practical wisdom, Ricœur succeeds to elaborate a position in contemporary ethics where justice and prudence, two cardinal virtues, combine to re-establish a practical philosophy which preserves the individual responsibility of the human agent while connecting personal decisions to the common good of a particular human community. Skaidrīte Lasmane The Hermeneutical Modernisation of Paul Ricœur’s Ethics In books such as “Oneself as Another” and “The Course of Recognition,” among others, Paul Ricœur seeks more modern terminology in describing the contemporary ethical thinking. For the most part, he obtains these resources via a system of hermeneutic interpretation. This paper focuses on Ricœur’s principle of reopening meaning which has been frozen by tradition and the completeness of the philosophical system. How is meaning reopened in ethics? In what sense does it contribute something innovative to contemporary ethics in terms of analysis and reflection? In seeking answers to the first question – how meaning is reopened – the emphasis is on the following: 41 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce 1) On Ricœur’s concept of unexploited meaning potential, which speaks to and recognises a creative hermeneutic repetition instead of a strict equivalent. The paper offers a comparison of three different understandings of repetition, as presented by Kierkegaard, Deleuze and Ricœur. These understandings are of practical importance, particularly when analysing contemporary media rituals, as well as crises and other rhythms and repetitions. 2) The paper focuses on three cognitive activities that are a part of and of essence in Ricœur’s ethics – distinction, subordination and complementarity. With their intermediation, a balanced and delicately nuanced liberation of the heritage of ethical history (as defined by Plato, Aristotle, Kant and others) is achieved. Ricœur differentiates meanings but does not contrast them. 3) Attention is given to the hermeneutical circle, also looking at its paradoxes and the transfer of other dialogical and narrative structures to contemporary ethics. In response to the second question about the innovative nature of Ricœur’s hermeneutical rewriting of ethics, there are several areas which must be considered. First of all, concepts such as narrative wholeness and the hermeneutical circle make it possible to overcome post-modern fragmentarism and to create visible links between accidental situative choices and life as something that is ethical aim and higher finality. Second, there is a distinction between ethics and morality. This is a key difference from Michel Foucault’s individual care about oneself, which does not include the dimension of “oneself as another.” It also differs from the communicative rationalism of Habermas which, in turn, omits or ignores the self and the reflection of its moral identity. Third, there is mutuality between deontology and teleology without contrasting desires and a good life on the one hand and norms and obligations on the other. Fourth, one can welcome Ricœur’s intellectual effort to achieve dialectical reciprocity between universalism and relativism. Fifth, there is an emphasis of the ability to move beyond narrowly linguistic/semantic analysis and to enter an area of practical activities in which ethics are assigned a specific role to establishing (the primacy of ethics over morality etc.). Patricia Lavelle Entre l’expérience et la théorie : sur l’unité du problème de l’imagination chez Ricœur Faculté intermédiaire chez Aristote comme chez Hume, l’imagination devient avec Kant le lieu de médiation entre le sensible et l’intelligible, c’est-à-dire la fonction d’association et de connexion qui permet de passer de l’expérience à la pensée. Cependant, chez Kant, le problème de l’imagination, abordé de deux manières très différentes, se scinde en deux. Dans la Critique de la raison pure, cette fonction d’association et de synthèse est envisagée comme une contribution à l’objectivation de l’expérience, tandis que dans la Critique de la faculté de juger, c’est son aspect constructif ou inventif, sa libre expression dans l’art, qui est mis en avant. Or, peut-on penser l’unité du problème de l’imagination, divisé chez Kant entre une théorie de l’imagination cognitive et une théorie de l’imagination esthétique ? Comment pouvonsnous concevoir les rapports entre la fantaisie, l’imagination reproductive et l’imagination productive dans l’art et dans la production théorique ? Quel est le point 42 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce commun entre le pouvoir d’inventer et celui d’associer et de connecter ? Quel rôle joue cette faculté médiatrice dans le passage entre l’expérience esthétique et la théorie ? Cette problématique traverse l’œuvre de Paul Ricœur et joue en rôle fondamental, quoique discret, dans la Métaphore vive, où il est question de la tension comparative au cœur du schématisme symbolique, c’est-à-dire d’un type de ressemblance qui ne porte pas sur les objets, mas sur les relations dans lesquelles nous les pensons. C’est cette tension renvoyant au principe des affinités de l’imagination qui « travaille » à l’intérieur de la construction métaphorique et constitue en quelque sorte sa « vie ». En effet, ce qui s’efface dans la métaphore lexicalisée est bien l’effet de ressemblance qui permet de voire le même dans l’autre et l’autre dans le même. Ayant recours à la transcription du cours sur l’imagination que Ricœur a donné à l’Université de Chicago en 1975, document qui se trouve au Fonds Ricœur, je m’interrogerai sur la théorie de l’imagination qui soutient ses recherches des années 1970 sur la métaphore et sur le récit. Partant d’Aristote et de Kant, ce travail, qui se propose d’élaborer théoriquement l’unité de l’imagination, met l’accent sur la tension comparative, qui est au cœur du problème. Dans cette perspective, le « voir comme » qui défini l’image est compris comme le corrélat du « comme si » qui indique la position théorique. Jean Leclercq « Mors et vita duello » : Sur Paul Ricœur L’idée de cette contribution est que la façon originale dont Paul Ricœur a travaillé et pensé la question duelle (ou l’énigme, au sens augustinien) de l’identité et de l’ipséité est singularisée, dans l’histoire de la philosophie contemporaine et spécifiquement dans celle « des » phénoménologies, par la tension d’un double conflit ou duel, entre mort et vie, qui ne trouve sa tentative ultime de nouage que sur le plan d’une philosophie qui ose faire se conjoindre une vraie et complète réflexion sur le temps, les œuvres et la résurrection. D’où l’évocation dans la titulature de l’hymne pascal. Ainsi, à travers un exposé construit sur des textes précis de Paul Ricœur, on montrera comment ce duel, toujours pensé entre guerre et paix, entre les Édits et les guerres, dans l’interim des interprétations qui se heurtent, se compose à partir des forces et des attestations de la « surrection », de l’« insurrection » et de la « résurrection », qui sont des moments de l’affirmation originaire d’un sujet envisageant sa vie comme lieu du capable et du responsable. Au-delà d’une vision parfois trop irénique ou adoucie de la compréhension de la subjectivité, selon Paul Ricœur, souvent trop lue sur l’axe des pensées de la « vie », nous montrerons également comment le conflit et la « crisis » sont des lieux de discontinuité, d’effectivité et de créativité, qui permettent de « tenir » et « main-tenir », en « dépit de », mais « jusqu’à », pour dire cela avec des sortes d’adverbe, mais dans un sens proche de celui d’Eckhart qui reste chez Ricœur la figure du « détachement », qui pourrait être une des postures du sujet à la fois en crise et en conflit. 43 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce Gonçalo Marcelo Is There a Ricœurian Answer to the Crisis? (Or How to Save the Capable Human Being from Social Disintegration) Paul Ricœur was engaged in many struggles throughout his life. If, on the one hand, he developed a hermeneutical theory of reading that stressed the importance of the conflict of interpretations, on the other hand, his constant attention to social and political events and the many civic and political causes that he embraced turned him into a decisive thinker of his time. There is no sure answer as to what would his assessment of the current financial, economic and social crisis would be but there are nonetheless several sparse elements of his philosophy that enable us to give a “Ricœurian” response to the crisis. On the one hand, one of the phenomena with which we are dealing nowadays is the rising dominance of the economic sphere over the strictly political sphere. As Ricœur has shown us (in “le paradoxe politique”) the two domains should be prevented from fusing with each other precisely because, as he has forcefully argued in his reading of Michael Walzer (in Le Juste), the only adequate way to ground a theory of justice is to identify a plurality of common goods, irreducible to one another. If not, we tend to incur in specific types of alienation, either economic or strictly political. On the other hand, we can find in Ricœur’s thick anthropological descriptions of the human life a positive ideal of the ethical life, whose cornerstone is the notion of capabilities. If it is true that Ricœur’s analyses of this subject are always dialectical – never fully separating human activity from human passivity, action from suffering – we can argue that this positive ideal is embodied in the struggle against injustice whose terminus ad quem would be the capable human being. And our social situation in this day and age is witness to growing levels of social suffering and, eo ipso, the threat against certain types of capabilities that we had taken for granted. My claim is thus that the current crisis is the birthplace of specific types of tensions that threaten to radically change our social situation for the worse; at the same time, what should be identified as a common good and protected as such is the subject of ongoing conflicts of interpretation whose result is uncertain but that will certainly determine our future, for the better or for the worse. I further argue that Ricœur’s philosophy stems from a multidimensional theory of conflict that operates at several different levels (both theoretical and practical) and whose hermeneutical leaning, if successfully grafted into social philosophy, will not only help us to understand the crisis, but also to try to forge some provisional meaningful answers to it. Paul Marinescu La vulnérabilité de l’être historique. La tension d’un indécidable : oubli destructeur / oubli fondateur Par sa nature essentiellement temporelle, notre être historique est traversé d’un bout à l’autre par une crise continue qui vient d’un côté, d’un futur qui s’achève dans la mort et, de l’autre, d’un passé qu’on voit se réduire progressivement à la disparition, à l’absence. La tension dramatique qui habite notre être historique doit donc être pensée sous le double signe de la finitude et de la vulnérabilité. Si la finitude, largement discutée par Martin Heidegger, a déjà fait l’objet de maintes analyses, la vulnérabilité 44 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce humaine – dont « l’emblème » le plus saisissant est, selon Paul Ricœur, l’oubli – appelle encore à l’interprétation. C’est ce que nous tâcherons de faire dans notre travail, notamment approcher le problème de la vulnérabilité humaine en questionnant l’oubli et sa phénoménalité complexe qui ne se révèle qu’à travers des rapports problématiques avec la mémoire et le temps. A partir des analyses de Ricœur, développées principalement dans La mémoire, l’histoire, l’oubli, nous allons donc prêter une attention particulière à la manière dont l’oubli met en crise notre être historique et l’y maintient, soit en atteignant à la mémoire et à sa fidélité au passé, soit en découvrant la temporalité d’une antériorité abyssale. Notre interprétation sera élaborée au fil des questions suivantes : l’oubli n’est-il que l’envers négatif de la mémoire, une menace constante à sa capacité véritative ou entretient-il une dynamique positive avec la mémoire ? Si l’on accepte avec Ricœur que la juste mémoire est le résultat d’une « négociation avec l’oubli », faut-il conclure sur l’inachèvement de la réflexion historique ou plutôt sur la faillibilité de notre connaissance historique ? Est-ce que l’oubli de réserve est vraiment une figure positive de l’oubli ou plutôt une forme de mémoire latente ? Comment faudrait-il comprendre l’oubli de fondations et quel est son rapport à l’oubli de l’être dont parle Heidegger dans Être et temps, mais aussi dans les écrits après la Kehre ? A travers ces questions, nous espérons saisir la double crise (ou la double tension) qui relève du phénomène de l’oubli : une fois, comme crise intérieure à sa manifestation, comme l’indécidable entre le côté destructeur et celui fondateur, et une autre fois au niveau de ses rapports avec la mémoire et le temps, des rapports habités par la tension dialectique entre la présence et l’absence. Finalement, envisager la vulnérabilité de notre condition historique comme crise, c’est comprendre qu’existentiellement, notre faillibilité est toujours doublée d’une capacité d’être : oublier ne se réduit pas ainsi à l’effacement des traces, mais il est aussi une condition du « faire mémoire» et du « raconter des histoires ». Car là où il y a « la crise », il y a également « la négociation » : négociation de la mémoire avec l’oubli, en vue de la juste mémoire. Kátia Mendonça Penser avec Ricœur : la bonté en temps de crise En parlant de la bonté, Paul Ricœur disait: « Je veux dire qu’il y a une sorte de resserrement, de renfermement sur la culpabilité et le mal. Non pas du tout que je sousestime ce problème, qui m’a beaucoup occupé pendant plusieurs décades. Mais, ce que j’ai besoin de vérifier en quelque sorte, c’est qu’aussi radical que soit le mal, il n’est pas aussi profond que la bonté . La bonté est la attestation du sens, la prévalence du sens sur la mort et la rien, parce que la bonté n’est pas seulement la réponse au mal, mais c’est aussi la réponse au non-sens »32. Au milieu de la crise dans le monde contemporain, de l'absence de sens et de la prévalence du mal, Ricœur nous laisse des traces de directions d'action et notre P. Ricœur, Libertar o fundo de bondade, in: http://www.taize.fr/pt_article1719.html. Consulté: 02.05.2011, 2000 32 45 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce proposition est de reprendre la question de la bonté et des questions annexe, comme la charité, l'agape et le pardon, présents dans son œuvre et qui sont comme paradigmes éthiques qui peuvent nous guider à travers la crise. Ricœur a dans son horizon herméneutique une double tradition: le grec et le chrétien. La charité 33 est l'amour-agape, sans calcul et sans intérêt. Son symbole est trouvé dans la parabole du Bon Samaritain qui, en tant que paria de son temps, fera la promotion de l'amour du prochain. C'est parce que il est dépouillé des rôles sociaux qu’il est disponible pour le prochain. L’agape est pris aussi dans la perspective de la tradition grecque34. L’agape conduit à la paix par sa générosité, et Ricœur souligne que, selon le sens grec du terme, un état de paix est un «état de l'agape» et il remarque que « les états de paix avec l’agape sont généralement opposés aux états de lutte [...].35 » L'agape concerne le regard favorable et miséricordieux qui implique le pardon 36 et le pardon, quand il arrive, peut guérir les douleurs et les blessures et donner ainsi un nouveau sens au passé. Agape est, avant tout, une façon éthique de regarder, «un coup d'œil en faveur de l'homme qui est vu» et, nous ajoutons, il est également un coup d'œil en faveur de la création, de la nature et du monde qui nous entoure. L’agape, la charité, la bonté et le pardon sont marqués par la disponibilité, par le manque de calcul et de désir de dominer la relation. Nous croyons que Ricœur, dans la mesure où il réaffirme ce qu'il appelle une orientation vers le « oui »37 , serait d'accord à propos du fait que ce regard serait possible et même nécessaire au milieu de la crise dans laquelle l'humanité est actuellement immergée, parce que, comme il souligne, «il faut dire oui au oui » 38 et de passer de la protestation à l’attestation. Harri Meronen Paul Ricœur’s Biblical God as an Antiontological Event and Act of Love-Himself This paper presents Paul Ricœur’s main ideas about Biblical God, which Ricœur develops in his Biblical interpretations. With these ideas Ricœur makes a significant contribution to the discussion on modern secularism, especially concerning the phenomenon of a-theism. I will present how Ricœur has developed his own respond to the request of Nietzschean announcement of the death of God. Ricœur interprets the diverse namings of God in both the Hebrew Bible and in the New Testament and analyzes how these different namings have impact to their co-mutual interpretation. For example, in his Penser la Bible’s (1998) essay De l’interprétation à la traduction Ricœur analyzes thoroughly the linguistic and narrative functions of Exodus 3:14-15 revelation of the divine Name, JHWH. Ricœur presents us his interpretation of the whole history of reception (the history of reading) of this revelation of the Name, and some new insights on the issue. Voir P. Ricœur, Histoire et Verité, Seuil, Paris 1955. Voir P. Ricœur, O percurso do reconhecimento. Tradução Nicolás Nyimi Campanário. SP, Loyola, 2006. 35 Idem, pp. 236. 36 Voir P. Ricœur, O perdão pode curar?, in Esprit, n. 210 (1995), pp. 77-82. Disponible en ligne sur http://www.lusosofia.net/textos/paul_ricoeur_o_perdao_pode_curar.pdf . Consulté: 25.05.2011. 37 Voir O. Abel, Paul Ricœur: La Promesse et la Règle, Éditions Michalon, Paris 1996. 38 P. Ricœur, Libertar o fundo de bondade, cit. 33 34 46 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce In article D’un Testament à l’autre (1992) Ricœur presents how Biblical God is the source for both of his self-manifestation and for his ethical message (injunctions) to humanity. This source of God is his anti-ontological existence as the event and act of love-himself (l’amour lui-même). What remains from the ontological interpretation of God’s Name in Ricœur’s whole work on the issue, is that in his self-manifestation as love-himself (l’amour lui-même) God is him-self (soi). God’s personal identity is the dialectical event and act of love. The metaphor of John 8:4 “God is love” can be understood as an explanation of the Exodus 3:14 “I am who/which I am” through the Trinitarian and Christological readings of the latter. In Trinitarian reading, love resigns from being the “self-alone” and becomes the love for another and others. Already Exodus 3:14 “I am that/who I am” revelation of the Name, presents dialectically God’s predicative act (I am; to be, being) as his “another”. In the Gospels, Jesus is the parable of God. At the historical event of the Cross, anti-ontological God; love-himself, manifests himself as “the event of the union of life and death for the benefit of life”. We can understand that God truly and really is love only when he is also the God of suffering and death. The narrative kerygma: he is dead, he has been buried, he has risen from the death and he has been seen by many, gives the historical matter to God who is the anti-ontological event of love. Ricœur doesn’t reduce the meaning of resurrected Christ to his apocalyptic return and the afterlife. For Ricœur, the logic of Biblical God asks also the modern humanity to replace the normal and ordinary human logic of equivalence with the logic of superabundance of gift. Ricœur suggests that this logic could have consequences also at the field of global market-economy. For Ricœur, the Biblical faith to God verifies itself to be true ultimately at the sphere of ordinary and practical, everyday life. Fabio Minazzi Sul ruolo euristico-epistemologico dell’immaginazione in Kant, Ricœur ed Einstein La disamina della questione dell’immaginazione in Ricœur consente di individuare un nodo centrale della sua riflessione, che, in primo luogo, aiuta a problematizzare criticamente il nesso tra l’immaginazione creatrice-di-pensiero e l’immaginazione creatrice-di-realtà. Ma entro tale nesso emerge anche la tensione critica che si instaura tra la razionalità illimitata dell’uomo e la sua altrettanto intrinseca limitatezza. La riflessione trascendentale di Kant relativa all’immaginazione costituisce del resto un punto di mediazione critica innovativa che Ricœur ricollega sia alla lezione di Aristotele, sia a quella di Husserl, sviluppandola entro una concezione in grado di recuperare la polarità critica che sussiste tra la sproporzione umana e la sua fallibilità intrinseca. Indagando poi, in secondo luogo, la peculiare funzione dell’immaginazione così come si dipana sul piano costitutivo effettivo della riflessione umana, è inoltre possibile illustrare anche il peculiare intreccio euristico che sussiste tra ontologia ed epistemologia se lette alla luce dei paradigmi euristici delineati da Ricœur. Muovendo dal piano del linguaggio a quello dell’immaginazione, Ricœur recupera, inoltre, in terzo luogo, tutta l’importanza costitutiva dell’immaginazione trascendentale di Kant e apre così un innovativo programma di ricerca filosofico che gli consente di prospettare, in tutto il suo intrinseco valore, l’originalità costitutiva delle differenti 47 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce ontologia regionali che sempre contraddistinguono le differenti conoscenze umana. In questa prospettiva l’immaginazione trascendentale delinea un modello di intermediazione critica in grado di coinvolgere la meta-riflessione filosofica e i differenti piani di oggettività della conoscenza umana. Proprio perché l’immaginazione è sempre in grado di spingere il pensiero ai suoi limiti estremi, si può allora intendere come il concetto entri in relazione con il mondo della vita. Il livello concettuale individuato tramite la intermediazione critica dell’immaginazione trascendentale suggerita da Kant e riformulata da Ricœur in dialogo critico-integrativo con Husserl, costituisce, pertanto, una risorsa pressoché infinita di senso che rinvia, per sua natura intrinseca, all’indeterminatezza del simbolo stesso. Infine un puntuale confronto analitico tra la prospettiva di Ricœur concernente l’immaginazione trascendentale e le riflessioni epistemologiche di Einstein aiuta a recuperare una nuova immagine critico-trascendentale ed epistemologica del conoscere umano, che pone in luce, nuovamente, il ruolo fondamentale dell’atto immaginativo entro il processo delimitato della conoscenza. Michael Monhart Seeing the Many in the One: A Ricœurian Reading of the Autobiographical Writings of the Tibetan Buddhist Lama and Mediator, Tsewang Norbu The central aporias of this paper were generated by a couple of notes made by Ricœur collected in Living Up to Death. There Ricœur considers “detachment” conceived not as a negativity, but rather as an inner dynamic that opens oneself up to the other. Writing of the Rhineland mystics, he proposes that their “detachment” was not a loss; rather it was a gain that made “themselves available to the essential” and suggests that, in their active lives of teaching and travelling, they were “open to the fundamental through their detachment.” Going further he states that “It is openness to the essential, to the fundamental that motivates the transfer of the love of life to the other.” A few pages later he writes, almost as an aside, that perhaps Buddhism might be of help as attestation can conceal a resistance to such detachment. Little work has been done placing Ricœur in dialogue with Buddhist philosophy especially with regard to conflict mediation and the nature of ethical action. In this paper I read through autobiographical writings of the 18th century Tibetan Buddhist lama and diplomat Tsewang Norbu and provide an anthropological (and ultimately ontological) perspective on non-Western based issues of crisis and conflict resolution. Tsewang Norbu was known as a successful mediator of disputes between gods and demons, as well as human communities and governments. I examine the nature of his broad recognition of the other and situate the nature of this recognition in his particular conception of the self as constructed through a life narrative of promises kept, that is, religious vows observed. Tsewang Norbu’s mediations of conflicts and disagreements are rooted in a specific ontology confirming, yet also complicating, Ricœur’s rejection of Parfit’s “quasiBuddhist erasure of identity.” Tsewang Norbu takes the view that ultimately nothing possesses a self-existing nature but nevertheless there are differences to be investigated (as in disagreements and conflicts). He retains the paradox maintained by Ricœur (in “Narrative Identity”) as “I am nothing.” We see, though, in Tsewang Norbu’s 48 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce autobiographical writings a bridge deeper into this paradox through the authorship of his actions in resolving conflicts. He broadens the horizons of Ricœur’s hermeneutic of self rooted in attestation and leads us back to a detachment cognizant of the fundamental which is open in wide frame to the other, and motivated, in Tsewang Norbu’s case, towards mediating action. Nicolas Monseu Le conflit des possibles : le sens du projet chez Paul Ricœur L’être humain vit toujours aux prises avec ce qui ne lui est pas (encore) donné et il se débat constamment avec ce qui est en avant de lui et ne peut pourtant pas être assigné de manière précise. Il vit dans une perspective d’avenir, c’est-à-dire qu’il est orienté vers un temps à venir, sans qu’il sache exactement ce qui va bien pouvoir advenir de lui. La philosophie de Paul Ricœur a tenté à sa manière de réévaluer le statut même de notre rapport à l’avenir et de la légitimité de nos affirmations sur l’à-venir. Dans cette ligne, les notions de « possible » et de « projet » ont fait l’objet d’une analyse spécifique dès la Philosophie de la volonté qui culmine dans une des thèses les plus décisives de la philosophie contemporaine : « je suis mon propre pouvoir-être ». La question est d’importance puisqu’elle revient à interroger la possibilité même de l’avenir et à se demander en quel sens « ce qui vient » – en ce compris notre identité elle-même – peut être compris précisément comme possible, c’est-à-dire devenir spécifiquement en tant que possible ? L’objectif de cette communication sera donc de montrer en quel sens l’identité du sujet ne consiste pas à être une réalité déjà faite, mais qu’elle est toujours en train de s’accomplir, sans cesse en cours d’effectuation, singulièrement dans le projet qu’elle peut être à elle-même : l’être humain est projet de lui-même et il est constamment un avenir à réaliser. Tomás Domingo Moratalla Délibération et responsabilité: la philosophie politique de Paul Ricœur Dans ces pages, je veux montrer brièvement les grandes lignes qui articulent la philosophie politique de Paul Ricœur. Dans sa pensée il y a une riche, complexe et originale philosophie politique. Il y a beaucoup de textes qui pourraient nous servir à présenter son herméneutique politique. Je le ferais en utilisant un texte peu connu: "La persona, desarrollo moral y político” (en tant que tel, il existe seulement en espagnol). Il s'agit d'une conférence donnée à la “Fundación Ortega y Gasset” (Madrid, 1994). Je crois que cette "conférence de Madrid" soit la clé pour comprendre sa philosophie politique. Les interprètes de la philosophie pratique ricoeurienne, ne se sont pas suffisamment arrêtés sur ce texte, probablement parce que ils ne savent pas de son existence. Une des particularités de la philosophie politique ricœurienne – mise clairement en évidence dans ce texte – est la relation étroite avec la dimension éthique. La dimension politique est le remplissement de la visée éthique. L'éthique est « le désir de vie bonne avec et pour autrui dans des institutions justes »; la politique se poursuit donc à travers l'éthique. La dimension éthique n'est pas ajoutée à la sphère politique; elle est plutôt 49 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce son fondement, son enracinement. Il y a donc une justification morale de la politique: la cité est aussi le moyen approprié pour la réalisation de l'homme. Ricœur montre la nécessité et la légitimité du détour politique de l’éthique. Ricœur distingue clairement entre “la politique” et “le politique”, tout comme il distingue, dans la vie morale, entre l'éthique et la morale. Le lien entre éthique et morale, et leur synthèse, est fragile. C’est le moment de la sagesse pratique (phronèsis). Je tiens à souligner que la relation entre le politique et la politique a lieu de même dans la sagesse pratique et collective, une phronèsis sociale: la délibération publique. La cité est un espace paradoxal et donc fragile. S’il est important soutenir que la dimension politique est inhérente à la constitution de soi-même, d’autant plus il est important montrer que la responsabilité du citoyen est proportionnelle à la fragilité de la/le politique. Ricœur affirme que nous sommes responsables de la fragilité. Le paradigme de la fragilité n'est pas seulement le "nouveau-né" (Hans Jonas); la cité est aussi paradigmatique. La cité est devenue “paradigme de fragilité”, un paradigme pour l'expérience de la responsabilité. L'exercice de la responsabilité politique trouve son expression la plus élevée dans la pratique de la délibération. Fernando Nascimento The “Phronetical Identification” as a Means to Face Crisis and Conflicts The transition from the second to the third and final part of Ricœur´s Little Ethics in “Soi-même comme un autre” is marked by the interlude about tragic action. One may see in this recourse to the tragic tradition a sign of Ricœur´s recognition of the current and maybe perennial human condition of crisis and conflicts. Our current global situation is no exception to this diagnostic. On the contrary, one may affirm that as the ethical, political, financial problems gain a new dimension with the steady increase of multinational interdependency, the tragedy of action highlighted by Ricœur´s Little Ethics is becoming even more complex and urging new forms of ethical and practical reflections. In order to overcome the dilemma imposed by the uniqueness of the conflicts that are always singular and irreducible to a pre-determined solution, Ricœur defends that the solely means is to appeal to the practical wisdom. But a crucial practical question seems to remain open: how oneself may act according to the practical wisdom? One of the key points of the notion of phrónesis inherited from the Aristotelian tradition is its fundamental reference to the figure of phrónimos, the man who possesses the practical wisdom. The phrónimos is indeed the criteria for developing and achieving the ability for choosing the best decision in conflicting situations. This paper intends to address exactly this relationship between the practical wisdom and the phrónimos. It seems necessary to give a step ahead with regards to Ricœur´s reflections and investigate the course of effectuation of the practical wisdom. How can oneself acquire or develop practical wisdom by acting as the phrónimos does? In order to answer this question, the mechanisms of transmission and application of the practical wisdom need to be properly scrutinized. The main hypothesis of this paper is that a fruitful insight for this investigation can be found at the mimetic moments described by Ricœur in Temps et Récit. This analysis will, therefore, follows a reverse chronological order with respect to Ricœur´s publications as it will search for a possible next step in the reflection on practical wisdom going back to the mimetic moments 50 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce related to the bounds between time and narrative. If this hypothesis is really sustainable, this paper will therefore start from the notion of practical wisdom, which is the ethical response for the intrinsic conflicting condition of human action, and lead to the notion of “phronetical identity”, which tries to capture the effectuation of practical wisdom through the process of identification of oneself to the phrónimos. Maria Palmo Embracing Culture in the Realm of Development: The Interpretive Process of Ugandan Artists Today, a contrast in ideologies characterizes worldwide discourse on the international and local level. In international development, culture can be a contentious issue because of the dichotomy between western values driven largely by economics, and the traditional values embedded in the local cultures of developing countries (Escobar 1995; Gould and Marsh 2004). Some westerner developers inflict their ideals on marginalized communities and prescribe blind acceptance of new development acts. This is particularly true of countries like Uganda whose cultural traditions played a subordinate role during the colonial era. The British imposed on Ugandans western values that conflicted with Ugandan cultural traditions. Even today, Uganda’s national development agenda is influenced by western ideologies that compete with long standing cultural beliefs (Drani 2007). Alongside this, is Uganda’s highly complex population composed of numerous and irreducible ethnic cultures. Ugandan artists working in community development are sensitive to the unique culture of people groups when designing their art narratives. Throughout the artistic process individuals and communities work together with the artist to explore different facets of their culture in the context of development. Interpretation and discourse keep the process in a state of play. The dialectic between poetics and ethics captures the nature of this creative process. Art mediums release the poetical imagination; cultural traditions provide a reference for critique. The co-creation of a visual or theatrical narrative provides the framework for an interpretive exchange, whereby understanding development issues is not exclusive of cultural considerations. This paper is based upon my field-research in Uganda. The artistic process of Ugandan development artists is presented using Paul Ricœur’s theories of mimesis, identity, and imagination. Western developers who tend to limit their field of vision to material progress are encouraged to imagine how they might guide communities toward reinterpreting their cultural traditions in light of development initiatives. Claudio Paravati Il sacro: crisi e salvezza Il momento storico ci costringe a riflettere sul concetto stesso di crisi, e sulla sua storia: un complesso di rimandi tra senso, possibilità, tempo e storia che filosofi come Dilthey, Nietzsche, Husserl e Heidegger hanno delineato nel loro lavoro filosofico. Questa eredità vuole essere messa in luce in un'intervento che inquadri la tensione tra pensiero e possibilità del pensiero, crisi e superamento della crisi; crisi come giudizio; crisi dell'Occidente come crisi delle scienze europee, crisi della vita. Entro questo quadro, si 51 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce vuole leggere quella di oggi ancora una volta come crisi della metafisica. Per farlo si ricorrerà alla nozione di sacro, come strumento ermeneutico, il cui ruolo è rilevante nel pensiero di Heidegger, e nell'eredità che giunge a Gadamer e Ricœur. Il sacro come crisi e salvezza, come “separazione”, “richiamo nella divisione” e “parola che salva”. Si cercherà di mostrare come la nozione di sacro torni nell'ermeneutica contemporanea, in Heidegger e Ricœur, come possibilità di un pensiero altro, di un linguaggio altro. Come altra possibilità del senso dell'essere, possibilità di salvezza. Il sacro come concetto ermeneutico di possibilità di un pensiero altro (quello dell'Essere), di un linguaggio non-oggettivante (divino), di cui l'uomo non può che diventare testimone-respondente: «il pensatore dice l'essere. Il poeta nomina il sacro. Come poi, pensati dall'essenza dell'essere, il poetare [dichten], il ringraziare [danken] e il pensare [denken] si richiamano vicendevolmente e siano insieme divisi, rimane qui una questione aperta» (Heidegger, Poscritto a «Che cos'è metafisica?»). La crisi è indicata come la condizione dell'uomo, come uno stare insieme divisi: krisis, giudizio, Ur-teil, taglio originario, separazione e divisione. Heidegger individua qui la crisi come questo stare insieme divisi e, al contempo, ri-chiamo vicendevole, originario [Ur]. Il Linguaggio che originariamente si manifesta come possibilità altra nel poetare, e il pensiero che è nella modalità del ringraziare; rimando continuo in tempo di crisi, il nostro, non spoglio però di segni di salvezza (quelli per cui ringraziare), i cenni dell'ultimo Dio, come vuole l'Heidegger dei Beiträge zur Philosophie. Questi sono i cenni che rimandano al di là della presenza (trascendenza), a un tempo che non è semplice presenza, misurabile quantità di senso, ma, di rovescio [umgekehrt], assenza della presenza (quella degli déi), altra possibilità linguistica (che non di rado è silenzio), altra modalità temporale (quella della storia dell'essere, nel suo ad-venire, dell'altro inizio), altro “umanesimo” (quello della cura dell'essere e della risposta alla chiamata). Questo è lo spazio differito, diviso, della crisi, in cui gli dèi esistono per “cenni”, come angeli, ovver messaggi, modalità della Parola e del Linguaggio; come corrispondenza del Linguaggio dell'uomo in quanto risposta all'originario appello (la chiamata della coscienza, la chiamata dell'Essere, quella del Dio), di cui ora si vive la crisi dell'assenza. Questione ermeneutica per eccellenza quindi, quella del sacro. Il sacro [das Heilige] salva [heilt] originariamente. Questa salvezza originaria è il nodo problematico centrale attorno a cui si muoverà l'intervento, nel tentativo di mostrare, dare parola all'insieme di rimandi e tensioni di una salvezza già data (possibilità storicotemporale, fondazione), possibilità propria del Linguaggio, già av-venuta, e continuamente incarnata nella parola respondente, quella quotidiana, l'unica possibilità a noi concessa (quella ereditata, ovvero la metafisica), ora intesa come l'eco di quella frattura-originaria (Ur-teil, krisis), la Parola viva dell'Evento dell'Incarnazione. Friedrich von Petersdorff Temporal Aspects of Intertwinement and Dichotomy It is a significant characteristic of Ricœur’s work that he attempts to dissolve dichotomies. He achieves this by showing the dialectical interdependency of the specific concepts involved. Ricœur uses this method, too, in his analysis of certain aspects of historical research and historiography – as becomes apparent when looking at the steps 52 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce taken by Ricœur to de-dichotomize the seemingly opposing concepts of explanation and understanding. Another example of this procedure is Ricœur’s attempt to better understand how the concepts of memory and history are related to one another. According to Ricœur it is possible to de-dichotomize opposing concepts by taking their dialectical intertwinement into consideration. Ricœur, therefore, refers to the dialectical structure of opposing but nonetheless intertwined concepts. On taking a closer look how Ricœur handles this dialectical structure it becomes apparent that Ricœur’s approach is characterised by a specific temporal approach. It appears to be the case that the opposing concepts (i.e. as related to historical research and writing) are dedichotomized by viewing them as parts of a diachronic framework, i.e. not as a synchronic process. Choosing a non-synchronic perspective enables Ricœur to identify “a flexible articulation and a continual to and fro” between the concepts otherwise viewed as dichotomies. Ricœur’s method of procedure, therefore, can be seen as a process of clarifying the intertwinement of opposing concepts. In my paper I, therefore, intend to analyse Ricœur’s steps to re-arrange intertwined but dichotomised concepts. In order, therefore, to present the decisive points within Ricœur’s method of responding to conflicting concepts I shall reassess specific aspects covered by his analysis of historical scholarship. Furthermore, I argue that a better understanding of how Ricœur solves these conceptual questions facilitates addressing further topics of conflict. It is, therefore, the purpose of this paper to give – within the perspective of historical research – a precise description and analysis of how Ricœur dissolves dichotomies and which temporal aspects he relies upon. Silvia Pierosara Estraneità asimmetrica. Ricœur e l’ “etica del compromesso” Il presente contributo intende investigare risorse e limiti del pensiero ricœuriano dinanzi alla questione dell’estraneità, attraverso un percorso testuale ancora poco noto, posto a confronto con altre voci del panorama etico contemporaneo. Lo sfondo di tale indagine è costituito dalla riflessione ricœuriana intorno alle nozioni di conflitto e di compromesso, recuperate attraverso la lettura approfondita di un’intervista a Ricœur (Pour une éthique du compromis). Tale cornice teoretica ed etica sarà utile per focalizzare la questione dell’estraneità e verificare la possibilità di pensare altrimenti l’esperienza dell’estraneo e coglierne la valenza etico-pratica. La presentazione sarà divisa in tre momenti: il primo sarà dedicato alla lettura analitica di un testo di Ricœur, anch’esso poco conosciuto, intitolato La condition d’étranger. In questo intervento Ricœur mostra come l’estraneo (o straniero) si costituisca sempre “in negativo”, ovvero a partire dal “non appartenere a”, “non essere membro di”: «La compréhension de nous-mêmes ne sort du non-dit et ne commence de s'expliciter qu'en se faisant comparative, différentielle, oppositive» (La condition d’étranger, p. 4, Copyright: Comité editorial du Fonds Ricœur). Da questo punto di vista, il compito etico che a Ricœur appare determinante consiste nel superare tale iniziale asimmetria anche attraverso il lavoro e le garanzie che provengono dalle istituzioni, facendo spazio a una simmetria che passa per una comparazione di tipo analogico e che parte dal sé. Il secondo momento della presentazione confronterà la dinamica proposta da Ricœur (il passaggio dall’asimmetria alla simmetria) con la fenomenologia dell’estraneo proposta 53 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce da Waldenfels. Quest’ultimo parte dall’attestazione dell’estraneità come esperienza fenomenologica radicale, che in nessun modo può raggiungere una simmetria. La simmetria significherebbe infatti l’inaridimento della novità radicale dell’estraneo e l’azzeramento di qualsiasi possibile conflitto (e relazione) con l’estraneo. Partire dall’estraneo come ciò che ci è più proprio, anziché considerarlo “simmetrico” rispetto a noi, appare al filosofo tedesco una strada più feconda dal punto di vista etico. Infine, il terzo momento della presentazione proporrà di declinare la relazione e l’incontro non a partire da un punto di vista esterno, superiore o aprioristicamente comune, ma piuttosto dall’esperienza – anche conflittuale – dell’estraneo in noi (su questo si farà riferimento al testo di una conferenza di Ricœur intitolata appunto Étranger, moi-même) e rispetto a noi. Solo considerando in profondità il conflitto, senza postulare ab initio un accordo e una comunione immediata, è possibile delineare un’etica del compromesso. In tal senso, l’estraneo non è colui rispetto al quale ogni relazione è impossibile, ma bensì l’emblema della relazione e della possibilità di “compromettersi” con l’altro. A tale proposito, nella conclusione si riprenderanno le riflessioni ricœuriane intorno alla nozione di compromesso e si ipotizzerà che tale proposta possa poggiare sul lessico della relazione che si deduce da alcune riflessioni di Waldenfels: dinanzi al conflitto, oltre la simmetria, le risposte etiche possibili giungono dall’esperienza effettiva dell’estraneità e dal compromesso come risposta e promessa. Luca M. Possati, Analogia entis: Ricœur interprete di Tommaso d’Aquino L'analogia entis nel discorso filosofico e/o teologico tra Paul Ricœur e Tommaso d’Aquino: la comunicazione intende mettere a fuoco questo tema a partire dalle pagine dell’ultimo studio de La métaphore vive, in cui Ricœur sviluppa una decostruzione della dottrina tomista dell'analogia. Ricœur sceglie Tommaso come banco di prova per difendere la tesi di un relativo pluralismo delle forme e dei livelli del discorso, di una discontinuità limitata tra il poetico e lo speculativo. Limitata in quanto ne permetterebbe l’interazione o inter-animazione reciproca. I veri bersagli critici, dietro Tommaso, sono Heidegger e La mythologie blanche di Jacques Derrida. Ciò nonostante, l’Aquinate non è soltanto un esempio tra gli altri. Ricœur distingue l’apparato causale e partecipativo dell’analogia entis dalla sua visée sémantique per conservare soltanto quest'ultima, considerandola admirable. La dottrina tomista pone un problema centrale al filosofo francese: l’unité conceptuelle capable d’embrasser la diversité ordonnée des significations de l’être rester encore à penser. Si tratta perciò di capire l’esatta gittata teorica del gesto ricœuriano: che cosa resta della visée sémantique tomista nell’ontologia della referenza metaforica su cui si chiude La métaphore vive? Ma esiste per Ricœur un problema dell’analogia dell’essere in senso tomista? Oppure dobbiamo parlare soltanto di un uso dell’analogia, nel senso che l’analogia resterebbe un concetto operativo mai tematizzato di per sé? L’analogia dell’agire, motivo chiave in Soi-même comme un autre, può definirsi un’analogia dell’essere in una chiave non ontometafisica? Quali sono i risvolti del problema sul piano del linguaggio ordinario e su quello religioso? L’ipotesi di lettura proposta è che in Ricœur al rifiuto della classica dottrina dell'analogia entis non corrisponda affatto la fine di qualsiasi analogia dell’essere nel nome di una vaga frammentazione ontologica, bensì la ripresa dell'analogia dell'essere – 54 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce la visée sémantique del tomismo – attraverso il testo e l'interpretazione. Ciò avverrebbe non tanto sul piano del mythos, dell’organizzazione interna del testo (codici, strutture, significanti, ecc.), quanto su quello della mimesis, della lettura, dell’applicazione del testo. Sul piano dell’agire, insomma. L’analogia tra il testo e l’azione – motivo chiave nel progetto di herméneutique des sciences sociales degli anni Settanta-Ottanta – va dunque intesa non semplicemente in un senso epistemologico (anche se, ovviamente, è questo il suo senso più evidente). Nell'interpretazione si realizza l'unità di linguaggio e azione, di senso e forza. Da fondamento e principio metafisico, l'analogia diventa un problema etico-pratico: l'unità dell'essere è telos, Idea kantiana, che regola l'agire. Franz Prammer Poetic Discourse and Reality: „Reference“ or „Refiguration“? The Rupture between the Hermeneutical Conceptions of „La métaphore vive” and „Temps et récit” The thesis of my paper is a) that the transition from the hermeneutical position of La métaphore vive to the position of Temps et récit has to be conceived of rather as a rupture than as a simple development, and b) that this rupture has mainly to do with the question of the relationship of poetic discourse to reality. The first part of my thesis is intended as a critique of those interpretations of Ricœur’s hermeneutics who are trying to blend the two hermeneutical conceptions (i.e., that of La métaphore vive and that of Temps et récit) into one consistent whole. In the context of the second part of my thesis I will make a plea for the position that the older hermeneutic position (of La métaphore vive) contains a „surplus of meaning” with regard to the newer one (of Temps et récit). I will develop my thesis in 6 steps: 1. I will start with some preliminary remarks in which I will try to sketch the main positions taken by the literary theory of the 20th century concerning the relationship of poetic discourse to reality. I will concentrate myself on three exemplary representatives of literary theory, namely Erich Auerbach, Northrop Frye, and Roland Barthes. 2. The second step will consist in giving a sketch of Ricœur’s hermeneutical position as developed by him in La métaphore vive. The key concepts will be „world of the text” and „reference”. 3. The third part of my paper will be devoted to the main lines of Ricœur’s hermeneutical conception as unfolded in the three volumes of Temps et récit, centred around the key concepts „threefold mimesis”, „prefiguration”, „configuration”, and „refiguration”. 4. The fourth step will be to shed some light on the relationship of the two hermeneutical conceptions, with a special focus on the way in which the relationship of poetic discourse and reality is portrayed in either of the two conceptions. The point of depart of my reflection will be the self-critique Ricœur’s (concerning his position in La métaphore vive) as uttered by him in the third volume of Temps et récit. 5. In the fifth step I will put forward my own position concerning the relationship of poetic discourse to reality. My plea will be that the concept of „reference” should not – as Ricœur proposes in the third volume of Temps et récit – be replaced by the concept 55 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce of „refiguration”, but that the two concepts complement each other, because they articulate different aspects of the relationship of poetic discourse and reality. 6. I will close with some remarks on the possible relevance of these considerations for the theme of the conference. To put it shortly: only if poetic discourse talks in a certain sense „about the world”, it can have an orientating function in helping us to steer our course „through crisis and conflict”. Cláudio Reichert do Nascimento Vie et récit : le débat contemporain entre MacIntyre et Ricœur Le phénomène de la vie humaine, d’une part, est vu par les sciences de la nature, notamment par la biologie, comme un processus métabolique ou de reproduction. Il est envisagé, d’autre part, par les sciences humaines, plus spécialement par des disciplines comme la philosophie, la sociologie, l’histoire, comme persévérance dans l’existence, laquelle s’exprime dans des manifestations culturelles qui appellent un travail d’interprétation. Au XIXe siècle, on s’interrogeait pour savoir si les sciences humaines pouvaient aspirer au même niveau d’objectivité que les sciences de la nature qui explicitent les phénomènes à partir de l’explication causale et empirique. Dans le contexte de la philosophie contemporaine du XXe siècle, plus spécifiquement depuis 1980, des philosophes comme Alasdair MacIntyre, Paul Ricœur et David Carr ont proposé des discussions par rapport aux façons de donner sens et cohésion à la vie humaine finie qui se déroule entre la naissance et la mort. Les principaux enjeux soulevés par cette discussions sont de savoir: a) si l’on peut concilier la vie et le récit; b) si la vie est une histoire mise en acte; c) si la vie est vécue et l’histoire est racontée. Le but de notre exposé est de mettre au jour les proximités et les écarts entre les approches de MacIntyre et Ricoeur concernant l’unité narrative de la vie et la possibilité pour le récit de rendre compte de nos expériences vécues. Plus précisément, nous mettrons en relief la différence entre la perspective de MacIntyre, selon laquelle la vie aurait un début, un milieu et une fin au plan narratif, et celle de Ricoeur qui s’oppose à cette dernière en soulignant que des parties considérables de nos vies nous échappent et ne nous sont connues que par l’intermédiaire de nos proches, ou encore ne seront connues que par nos successeurs. Enfin, en reprenant l’adage de la « petite éthique » ricœurienne, à savoir, que l’éthique est aspiration à la « vie bonne, avec et pour les autres, dans des institutions justes », nous proposerons un argument contre la thèse de Ricœur selon laquelle nous sommes simplement coauteurs de nos récits de vie quant au sens. Nous soutiendrons plutôt que dans l’envie de vivre bien avec et pour les autres, il y a un désir d’être plus qu’un simple coauteur, mais d’être auteur à part entière de nos récits de vie. Filippo Righetti Oltre il contesto antropologico della crisi soggettiva: pensare di più e altrimenti nella filosofia di Paul Ricœur Vi è un punto di vista privilegiato che ci permette di sintetizzare la filosofia di Paul Ricœur. Certamente, attraverso il filo conduttore dell’ontologia esistenziale: 56 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce determinare l’essere e i modi d’essere del soggetto riassume quello che è stato il principale impegno teoretico del maestro. Primo obiettivo: applicare il concetto di crisi, di chiara derivazione mouneriana, alla descrizione antropologica sintetizzata in Finitudine e colpa, sulla base della categoria centrale dell’opera: la sproporzione. Il significato di un’esistenza fondata sul conflitto e sulla crisi del sé con se stesso, detiene un valore positivo in seno alla sua funzione descrittiva, ma, se vogliamo, anche negativo, poiché la tensionalità del finito verso l’infinito (il movimento della sproporzione), si staglia la tragicità della scoperta (confermata dalla Simbolica del male) di una mestizia esistenziale. A questo tipo di sentimento non può sfuggire, soprattutto, un’essenza decisa sull’ermeneutica dell’Io, che è alla continua ricerca del Sé stesso, strenuamente difesa da Ricœur. Secondo obiettivo, stavolta critico: stabilire se la chiave di lettura del binomio crisi – fallibilità possa veramente rispecchiare un’ontologia (come è dichiarato in Finitudine e colpa). In altre parole, ci si potrebbe domandare se la realtà ineliminabile del proprio male afferisce all’interezza dell’essere soggetto, o se invece essa appartenga al solo contesto teleologico – volontario, specifico del sistema antropologico dell’opera. È proprio il nostro autore a venirci in aiuto, attraverso la grande scoperta dell’involontario soggettivo, mutuata dall’attenzione per un’antropologia allargata, in profondità, alla psicologia freudiana e alla dialettica tra archeologia e teleologia del sé; determinando l’emancipazione dell’essere dal limite del voler essere e la priorità dell’io sono rispetto alla fallibilità dell’io posso, è quindi sul binario neutro strutturale dell’involontario soggettivo che, a nostro parere, si può dimostrare, a livello ontologico, un superamento delle categorie relative alla cosiddetta crisi dell’esistenza. Del resto, che cosa significa ermeneutica del sé secondo la filosofia ricœuriana? Soltanto apertura, conflitto, lacerazione, o anche possibile soluzione del conflitto, tensione nel ricordo (circolo ermeneutico) e nella certezza di appartenere fortemente a sé stessi? I limiti interni all’antropologia filosofica possono essere superati sul versante ontologico dell’esistenza. Cristina Romanò Verso una giustizia internazionale penale “non violenta”? Le risposte del diritto internazionale penale ai “crimini che non si possono né punire né perdonare” tra paradigmi retributivi e “restorative justice”. Nel saggio Le droit de punir, pubblicato nel 2002, Ricœur evidenzia, attraverso i punti di vista del colpevole, della vittima, della legge, come, in una prospettiva macrostorica, si possa tracciare un cammino che porta dalla “giustizia violenta” alla “giustizia non violenta”. Tappa finale di questo percorso sembra essere, in prospettiva futura, il superamento del modello retributivo della giustizia penale, che non può svincolarsi dallo “scandalo intellettuale della pena”, per accedere ad un modello alternativo incentrato sul perdono. Il contenuto del saggio richiamato costituisce una chiave di lettura di alcune evoluzioni della giustizia internazionale penale, la quale si confronta, a partire dal secondo dopoguerra, con la necessità di fornire una risposta in termini di “giustizia” a seguito della commissione di genocidi, crimini di guerra e crimini contro l’umanità perpetrati nei contesti di conflitti, armati e non. 57 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce Nel presente contributo individuo tre tipologie di interventi attuati nel contesto della Comunità internazionale di fronte ai cosiddetti core crimes, ed in particolare: gli interventi che, pur avendo basi giuridiche diverse, sembrano essere caratterizzati da un comune paradigma retributivo; gli interventi che sembrano essere ispirati ad un concetto “alternativo” di giustizia; gli interventi che presentano alcune caratteristiche di entrambi i modelli. Farebbero parte della prima categoria: l’istituzione di Tribunali militari di Norimberga e di Tokyo; dei Tribunali ad hoc per la Ex-Yugoslavia ed il Ruanda; delle cosiddette corti “ibride”. Rientrerebbero nella seconda categoria gli interventi di sostegno tecnico ed economico fornito dalle Nazioni Unite alle truth commissions sorte in paesi quali: El Salvador, Guatemala, Timor Est, Sierra Leone, Liberia, Repubblica Democratica del Congo. Con riguardo a tali interventi, andrebbe chiarito se e in che senso essi costituiscano esempi di “restorative justice”, anche alla luce dei principi delle Nazioni Unite sull’uso dei programmi di restorative justice in materia penale e dell’ Handbook pubblicato nel 2006 dall’Ufficio viennese delle Nazioni Unite sulle droghe e i crimini. Una terza categoria, risultante da un compromesso tra i due modelli, è quella rappresentata dal sistema della Corte Penale Internazionale, il cui statuto è entrato in vigore nel luglio 2002. Per comprendere i termini di questo “compromesso”, appare opportuno delineare le figure del “colpevole”, della “vittima”, della “legge” alla luce delle norme dello statuto di Roma. Dall’analisi delle disposizioni statutarie inerenti questi tre elementi del sistema, emerge come l’apertura verso il modello della restorative justice consista esclusivamente in alcune innovative disposizioni “victim oriented”. In particolare si riconosce alle vittime stesse il diritto di partecipare al processo e di richiedere compensazioni economiche per le sofferenze patite. Per il resto, il modello di funzionamento della Corte e la risposta sanzionatoria da essa perseguita rientrano pienamente nel paradigma “retributivo”. Dipendono anche da ciò le potenziali problematiche relative all’interazione tra il sistema della Corte e sistemi alternativi di giustizia nell’ottica del principio di complementarietà. Come osservato da Ricœur con riferimento ai sistemi penali in generale, anche nel diritto internazionale penale il modello “retributivo” sembra essere, attualmente, irrinunciabile, anche se accanto ad esso si delineano modi di “pensare altrimenti” il fenomeno criminoso e le possibili risposte. Alberto Romele La crise de la foi. Théologie herméneutique et herméneutique théologique À l’occasion d’un article du 1931, Bultmann définit la crise de la foi selon l’acception la plus subjective du génitif, comme « un crise constante », dans laquelle la volonté de Dieu « doit se réaliser dans une lutte contre la volonté propre [de l’homme] qui ne vaut pas reconnaître ses limites » (Bultmann 1970 : 388). Le but de notre intervention est de montrer si et dans quelle mesure on puisse parler chez Ricœur aussi d’une telle crise. L’herméneutique ricœurienne de la foi sera mise en dialogue notamment avec celle de G. Ebeling, vu qu’il aurait été le seul entre les théologiens de la Parole à assumer de manière radicale la tâche ricœurienne de la distanciation qui précède toute appropriation (Bühler 2011 : 158-161). 58 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce Dans une première partie, nous défendrons la thèse selon laquelle on aurait tort à rapprocher les deux herméneutiques du côté de la distanciation. Selon la théologie herméneutique ebelingienne la distanciation entre l’homme et Dieu est opérée par Dieu lui-même, tandis que pour l’herméneutique théologique de Ricœur c’est l’homme qui entreprend un cheminement de liberté vers Dieu. Le courage de la foi n’est pas pour Ebeling « une composante naturelle de l’homme », mais seul peut l’avoir « celui qui, au lieu de Le tenir en sa possession, se laisse posséder par Lui » (Ebeling 1970 : 117-118). Notoirement, chez Ricœur la foi chrétienne est au contraire le résultât de l’articulation entre l’autonomie de la conscience et la symbolique de la foi sur laquelle l’homme exerce sa capacité d’interprétation (Ricœur 2008 : 99). Dans une deuxième partie, nous démontrerons que Ebeling et Ricœur pourraient être rapprochés plutôt du côté de l’appropriation. En ce sens, Ricœur se montre même plus théologien que Ebeling. Pour celui-ci, en effet, la Parole de Dieu est efficace dans la mesure où elle engendre les possibilités humaines les plus propres, tandis que pour Ricœur, au-delà de la familiarité du référent de la composante existentielle, c’est l’étrangeté du référent de la chose du texte qui compte dans l’interprétation des Écritures. Ebeling partage avec Bultmann l’idée que « la caractéristique du kérygme qui nous touche de plus près, c’est qu’il s’agit non pas de recevoir une information mais de répondre à une interpellation qui exige obéissance et décision » (Ebeling 1972 : 58). Selon la perspective ricœurienne, il faut que quelque chose soit d’abord extrinsèque à l’homme, pour qu’il soit ensuite efficace sur l’existence humaine. Dans les conclusions de notre intervention, nous proposerons deux sériés de considérations. Premièrement, on se questionnera à propos des différences réelles entre une théologie herméneutique qui admet immédiatement les limites de l’interprétation et une herméneutique théologique qui admet les mêmes limites suite à un détour de plus en plus long par les voies de la méthode. Deuxièmement, nous interrogerons les effets d’un telle herméneutique de la foi sur l’herméneutique philosophique ricœurienne. La crise de la foi comme Bultmann l’a définie apparaîtra en fin le pivot d’une bonne partie de la pensée de Ricœur. Jose Ruiz Fernandez Paul Ricœur’s Thinking on Imagination and the Phenomenological Material a Priori My goal will be to defend that some traits of Paul Ricœur’s theory of imagination, used by him to cast light on social, practical and religious discursive practices as well as personal action, can help us also to deepen our understanding of what in the phenomenological tradition is usually referred as “evidence of the material a priori”. It is well known that Husserl assumed that evidence of the material a priori takes place through a process in the imagination (“phantasy”, in his terminology). However, his understanding of the imaginative process as something detached from linguistic meaning contributed to his thinking of such evidence in terms of a constitutive process, i.e., of a synthetic categorical act based on what is exhibited through that process. Through an exemplary consideration of the evidence we have of something colored necessarily having an extended surface, I will try to show how that evidence depends on an imaginative process revolving around a certain “semantic rule”, that is, around a certain “rooting” of linguistic meaning therein employed. I will argue that this type of 59 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce evidence is better understood when taking into consideration Ricœur’s view of some imaginative process as inherently linked with linguistic meaning, i.e., as productive schematismus being deployed on the background of a semantic field 39. Furthermore, I will also argue that the fact that the evidence of the material a priori can only be attained trough an imaginative process speaks for Ricœur’s idea that imagination is a process possessing original heuristic power40. On the whole, my paper aims at briefly proposing a new understanding of the evidence of the phenomenological material a priori that reconciles some central traits of Husserl’s phenomenology with some ideas on imagination that Ricœur developed. Franco Sarcinelli Scuotere i rami della filosofia con Paul Ricœur. A proposito di antropologia filosofica Da alcuni decenni antropologi, economisti e sociologi sollecitano i filosofi ad un confronto reciproco sul tema della morale. Già agli inizi degli anni ’60 l’antropologo A. Edel teorizzava la necessità «to bring anthropology and philosophical ethics into common focus»; a partire dagli anni ‘80 l’economista A. Sen ha assunto la nozione ‘allargata’ di “capability approach” rispetto a quella tradizionale di “homo economicus” e da qualche anno l’antropologo sociale D. Fassin sta lavorando sul concetto di “economia morale”. La situazione globale di crisi economica e finanziaria, climaticoambientale e valoriale che fa prevedere scenari futuri assai critici come descritto efficacemente nel recente libro di Comin e Speroni 2030. La tempesta perfetta, impone ai filosofi l’urgenza non più differibile di uno scambio ed un confronto con cultori delle altre discipline per una ridefinizione dei valori etici nel quadro di una aggiornata antropologia filosofica. Attraversando il percorso filosofico di Ricœur si trovano elementi particolarmente utili per possibili convergenze, in particolare nella sintesi di Sé come un altro. Dopo aver nei primi studi di questo volume esaminato le varie modalità di identità come risposta alla crisi del soggetto e del Cogito brisé su cui ha dibattuto la filosofia del ‘900, nel settimo studio e successivi egli ha delineato i caratteri di una etica e di una norma morale come fonti di saggezza pratica e praticabile. La sua formula del “tendere ad una vita buona con e per gli altri entro istituzioni giuste” implica una prospettiva etico-morale basata su un potenziale di identità condivisa con gli altri, una identità non autoreferenziale ma sociale ed inserita in un contesto politico-istituzionale fondato sui valori della giustizia. Tra le tradizionali virtù aristoteliche del ‘buono’ e del ‘giusto’ si inserisce la mediazione di una socialità umana condivisa su basi di reciprocità. In quanto capisaldi di questa impostazione sono da esaminare le nozioni di attestazione, riconoscimento e rispetto. Si afferma un orizzonte teorico che tiene “in tensione” una identità personale di sé per un verso irriducibile alla pura determinazione sociale ma che, nel contempo, è consegnata alla irrevocabile attestazione proveniente dall’Altro nel contesto di un mutuo riconoscimento e rispetto. La riflessione di Ricœur predispone strumenti teorici adeguati alla riformulazione di una antropologia filosofica aggiornata dalle epocali sfide della crisi del mondo attuale, la cui gravità impone la necessità di argomenti etico-morali e richiede nella cultura di oggi e di domani il 39 40 Cf. Ricœur, P., Du Texte à l’Action, éd. du seuil, Paris, 1986, p. 219. Cf. Ricœur, P., La Métaphore Vive, éd. du seuil, Paris, 1975, cap. 7 . 60 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce bisogno di “più filosofia” e non “meno” rispetto al passato. Con un rinnovamento della tradizione il filosofo può scuotere i rami della sua disciplina offrendo utili frutti da offrire agli studiosi della società e dei suoi sommovimenti profondi: il contributo di Ricœur appare in questo senso illuminante. Maria Chiara Spagnolo Paul Ricœur legge Jürgen Habermas L’assenza di un luogo di effettiva esistenza, riscontrabile dall’origine etimologica, pone immediatamente in Paul Ricœur e nelle conferenze Ideologia e Utopia il limite tra i due fenomeni: ciò che è separato, indipendente, non situato in un’unica struttura concettuale. Nel suo carattere ‘immaginario’, l’utopia rimanda ad uno spazio ‘aperto’ in cui l’agire sociale e individuale si arricchiscono di una dimensione della possibilità e della libertà tipica del moderno homo faber, contro ogni immagine dell’esistente intesa come concezione ‘chiusa’ e aliena da ogni valutazione critica. «L’immaginazione sociale è “costitutiva della realtà sociale”». In questa prospettiva, tuttavia, esiste un’altra visione dell’utopia. I progetti utopici di emancipazione e libertà possono rovesciarsi nel loro opposto, in delle distopie, in omologazioni culturali o in formazioni totalitarie. È interessante notare come Ricœur riconosca come prima funzione dell’ideologia quella di fabbricare un’immagine rovesciata della realtà, una alterazione mediante rovesciamento. Ecco dunque che la lettura ricœuriana di Habermas è il tentativo di coniugare il processo critico dell’Ideologiekritik con la psicoanalisi, la riflessività, l’auto-riflessione, con quel situare e ripensare la vita sociale mediante la funzione immaginativa e utopica. Si tratta di un continuum, di un unico processo comunicativo in cui la critica dell’ideologia si configura come il momento critico all’interno del stesso processo, un passo verso il “riconoscimento”, verso la restaurazione della comunicazione. Ciò che Ricœur propone, attraverso lo studioso tedesco e l’analisi di Conoscenza e interesse, è una riformulazione della relazione che intercorre tra ideologia e vita sociale reale, una connessione più che una netta opposizione che passa attraverso le variazioni immaginative – Phantasie – che l’utopia introduce, sia essa un progetto di legislazione sociale o un viaggio immaginario o ancora un modello di sovranità o di autorità in cui l’esperienza critica e comunicativa passano dallo stesso grado (dalla simbolizzazione a un momento di desimbolizzazione, dal riconoscimento alla comunicazione) e l’utopia stessa è una forma del pensiero critico-ideologico, un ipotetico atto linguistico di una comunicazione senza ostacoli e libera da vincoli. Si tratta di tracciare dei significati aperti in cui ciò che conta non è l’affermazione di certezze, ma porre degli interrogativi. L’utopia può creare nuovi scenari di esistenza? L’esito dell’atto comunicativo è reso incerto poiché è affidato all’utopico, a ciò che non può essere mai definito e definitivo, non ridotto allo strumentale. La lettura del messaggio utopico avviene in uno spazio transitorio, in cui il possibile e l’impossibile se pur per un frangente di tempo ridottissimo coesistono. Nel corso dell’intervento saranno tematizzate alcune delle principali questioni aperte, con una particolare attenzione per le prospettive e gli approcci teorici che sottostanno alla definizione dei singoli temi e alla selezione delle metodologie con cui essi sono affrontati. Rientra in questa cornice l’intreccio tra la visione antropologica habermasiana che pone le basi e fornisce una transizione del 61 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce discorso verso il modello psicanalitico e l’adeguatezza di tale modello nel tentativo di collegare Marx e Freud e la conseguente, parallela, interpretazione ricœuriana. Giovanni Todaro La metafisica devant Dieu del primo Ricœur Il contributo che s’intende promuovere, attraverso queste righe, si propone lo scopo di porre in risalto un periodo e una serie di suggestioni ben precise dell’iter ricœuriano. Come attesta la pluriennale produzione filosofica di Paul Ricœur, l’orizzonte religioso rappresenta di certo la risorsa principale di un pensiero sempre sulla frontiera fra filosofia e teologia. In considerazione di tale motivo conduttore e del suo predominare nei testi ricœuriani, si può proporre una messa a fuoco di quattro testi giovanili assai significativi e che, a nostro avviso, permettono di ritrovare una chiave di lettura del pensiero religioso di Ricœur. Si tratta di una sorta di tetralogia filosofico-teologica che si colloca lungo un arco di tempo che si stende negli anni Cinquanta. Gli scritti sono La condition du philosophe chrétien (Roger Mehl) del 1948, Philosophie et prophétisme I del 1952, Philosophie et prophétisme II del 1955 e Un philosophe protestant: Pierre Thévenaz del 1956. Essi consentono la tematizzazione di alcuni punti cardine del successivo impegno filosofico ricœuriano. In primo luogo consentono di tratteggiare soprattutto il profilo filosofico e religioso dell’autore, lasciandone intravedere il coinvolgimento in prima persona su temi come la convivenza fra credo professato e attività letteraria e filosofica. A tuttotondo emerge le figura di un pensatore che non si rassegna a condurre il proprio impegno entro gli schemi di una corrente o di una scuola ben precisa e consolidata. L’attenzione verso pensatori tutto sommato marginali, quali a ragione o a torto possono essere considerati Mehl, Neher e Thévenaz, è il pretesto per condurre un’indagine scevra di posizioni rigide e assodate. Ricœur, scrivendo di tali autori, scopre in sé stesso le fattezze intellettuali di un filosofo che guarda alla propria fede come a una risorsa, non già dogmaticamente presupposta ma sviluppatasi parallelamente all’impegno della teoresi e dell’analisi ermeneutica delle fonti classiche. In secondo luogo, possono rinvenirsi nel percorso di analisi delle filosofie religiose, soprattutto in quella dell’amico Thévenaz, i tentativi di tratteggiare un cristianesimo operante nella tradizione francese del pensiero della réflexion; tradizione di chiare ascendenze cartesiane, ma che negli anni dello spiritualismo ha ritrovato vigore e si è gradualmente affrancata dalla nomea di neo-scolastica in salsa moderna. Nel primo articolo in questione, redatto nel 1948 e dedicato all’analisi della filosofia di Mehl, dal titolo La condition du philosophe chrétien. Ricœur dichiara la propria posizione in merito al rapporto fra filosofia e fede cristiana, chiarendo, in maniera inequivocabile, di non aderire al progetto di una “filosofia cristiana” imperante negli ambienti del neotomismo francese. Il Nostro trae da Mehl un bagaglio notevole di spunti non indifferenti. Fra le righe di questo testo vengono delineati i tratti salienti di un cristianesimo incastonato nel cuore di una “filosofia senza assoluto”, lasciando trapelare al contempo la configurazione di un pensiero che comporti il radicamento in una condizione sradicata in primo luogo dalla pretenziosa concezione dell’essere come totalità e del sapere come sistema. A fronte di un’umanità totalmente décrochée da ogni idea assoluta, di un’umanità nuda 62 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce dinanzi all’abisso del Totalmente Altro, si staglia all’orizzonte un percorso filosofico scevro d’ogni formulazione metafisica, ovvero un orizzonte di pensiero che prenda progressivamente coscienza della natura asfittica della metafisica classica. Parimenti, da una tale situazione, esistenziale e intellettuale al contempo, si evince giocoforza che il devant Dieu (categoria eminentemente kierkegaardiana) non sia una fonte veritativa, bensì la messa in crisi di tutto ciò che ancora, nella metafisica come nella religione stessa, sa di dogmatismo preconcetto. Se si focalizzano invece i due articoli sul profetismo biblico, variamente ispirati agli studi di André Neher, si evince un’idea ancor più critica di filosofia. Il filosofare è anche uno stare fuori dalla stessa filosofia; questa condizione consente un ritorno sul pensiero filosofico alla luce chiaroscurale dei presupposti stessi del pensiero; in altre parole il filosofare puro non sussiste. Si è sempre invischiati in una prospettica esistenziale che fornisce l’angolazione fondamentale di ogni argomentazione. Sulla base di una tale contestualizzazione vengono fornite le caratteristiche salienti del concetto ricœuriano di esistenza intesa alla stregua di un conglomerato di presupposti inalienabili. La fede è di sicuro, in questa prospettiva, il più irriducibile dei presupposti esistenziali, in questo senso una filosofia della religione si candida a essere una filosofia esistenziale tout court. Ancor più incisivo e determinante appare il confronto con Thévenaz. In un articolo del 1956, dal titolo Un philosophe protestant: Pierre Thévenaz, Ricœur pare ricalchi fedelmente i punti emersi nell’articolo pubblicato otto anni prima, allorché se ne ribadisce la medesima suggestione di fondo. Il punto di svolta decisivo è rappresentato dall’adesione accordata al concetto thévenaziano di désabsolutisation. Si tratta di un passaggio nodale della massima rilevanza, se si vogliono comprendere la genesi e le motivazioni dell’itinerario filosofico e teologico di Ricœur nel suo insieme. In considerazione del contesto storico-filosofico, entro il quale maturano quelle che potremmo a ragione ritenere le opzioni fondamentali della filosofia ricœuriana, la “filosofia senza assoluto” di Thévenaz diviene segno del tentativo di coniugare la tradizione riflessiva francese (incentrata sull’ermeneutica del Cogito cartesiano) con le più vivaci istanze della teologia dialettica di Barth. Per l’appunto tali opzioni fondamentali possono sommariamente sintetizzarsi in due punti: in prima battuta affiora uno spiccato interesse per una filosofia meno autoreferenziale e più propensa al dialogo con le espressioni della cultura e con le scienze umane; in seconda battuta viene alla luce un costante interesse per le implicazioni filosofiche di cui è portatrice la teologia barthiana. Un tale contesto di base costituisce il retroterra che dà luogo, nel corso delle fasi successive del filosofare di Ricœur, a una sempre più scaltrita tematizzazione del ruolo della religione cristiana nell’ambito delle questioni più spinose della filosofia del ‘900, prime fra tutte quelle del male radicale e della sofferenza ingiusta Ciò che Ricœur evidenzia senza indugi è il fatto, apparentemente singolare, che Thévenaz utilizzi l’aggettivo protestante per designare la propria filosofia e lo faccia al fine di rendere perspicua l’affinità fra il proprio modus philosophandi e la critica rivolta all’indirizzo delle filosofie autoritarie, dogmatiche e razionalistiche, prima fra tutte quella cartesiana. Detto altrimenti, nell’ambito del neobarthismo francese è opinione assai diffusa credere che Lutero, rampognando la pretesa soggettiva di accedere alla salvezza mediante le opere umane, abbia inaugurato un modo di pensare diametralmente opposto a quello accentratore che prenderà forma successivamente nelle filosofie 63 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce d’ispirazione cartesiana ed hegeliana. Con la Riforma, in poche parole, l’uomo moderno viene spodestato e si ritrova dinanzi all’abisso dell’indisponibile. Thévenaz asserisce con vigore che la Croce di Cristo è quanto di più lungi possa essere pensato dal Cogito, a suo modo di vedere contraltare filosofico della concupiscenza del cuore tanto avversata dallo stesso Lutero. Quindi, se il Riformatore tedesco, a suo modo, ha dato il via alla concezione del decentramento dell’esistenza, il Cartesio riletto dagli epigoni dell’idealismo e slegato dalla tradizione francese della réflexion, da par suo, ha gettato le basi di tutti i processi di pensiero speculativi che tendono a costruire un assoluto artificioso e avulso. Per certi versi tale argomento appare equipollente alla critica di Maritain a Cartesio, sennonché nel pensatore cattolico il ricorso alla Rivelazione è sostanzialmente legato all’esigenza di fondare un’epistemologia forte, mentre nel pensatore protestante un tale ricorso risponde a tutt’altra esigenza: rendere la filosofia più flessibile verso l’alterità irrinunciabile della Rivelazione cristiana. Stante a tale dato storico, Thévenaz esorta sé stesso a intraprendere la strada di una filosofia che funga da désabsolutisation del pensiero forte e del sapere assoluto. Una filosofia protestante sarebbe una filosofia libera e quest’ultima sarebbe giocoforza una philosophie sans absolu. In definitiva resta da capire da cosa s’intenda liberare il pensiero protestante. A un tale quesito il tragitto seguito da Ricœur risponderà negli anni ’60 con la riflessione intorno alla Simbolica del male, cuore e svolgimento dell’anti-teodicea ricœuriana. Il filosofo protestante, secondo Ricœur incarnato appieno dallo stesso Thévenaz, è il pensatore conscio che la considerazione filosofica della Croce contenga in nuce tutta la carica esplosiva della cesura pascaliana fra il dio dei filosofi e il Dio della Bibbia, insomma una forza dirompente e decisamente iconoclastica che si scontra con le presupposizioni metafisiche e le verità dogmatiche di chi piega l’esperienza drammatica e irriducibile della fede agli schemi del filosofare greco. La fede non è quindi una modalità conoscitiva, bensì stabile assenza di staticità; è presupporre il nulla per il mondo e il tutto per il credente. Mantenere viva questa carica paradossale, nel credente che sceglie di esprimere la propria condizione nella filosofia, equivale a sperimentare un metodo che blandisce le contructions systématiques e assapora la vertigine degli ébranlements aporétique di un pensiero difforme dalle forme metafisiche. Sulla scia di Paolo, che ha innescato un moto di dédivinisation delle opere della Legge, a suo dire non completamente immuni dalla concupiscenza umana, il filosofo protestante amplifica tale moto mediante una sua ricollocazione nella filosofia, permettendo alla dédivinisation di tradursi in désabsolutisation delle forme di pensiero che ricorrono a cornici sistematiche pretenziosamente esaustive, incapaci perlopiù di cogliere la fede cristiana nella sua portata rivoluzionaria e, perché no, aporetica. Marc-Antoine Vallée Répondre à la crise: l'expérience herméneutique du sens Dans « Meurt le personnalisme, revient la personne… » (1983), Ricœur soutient qu’il est caractéristique de la situation herméneutique de l’existence humaine que d’être le lieu d’une crise. En fait, la crise serait inhérente à la constitution ontologique de la personne humaine : « Est personne cette entité pour laquelle la notion de crise est le 64 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce repère essentiel de sa situation41 ». Que cette situation soit dominée par la crise signifie d’abord et avant tout que l’homme ne saurait pas quelle est sa place exacte dans l’univers. De ce point de vue, la crise est ce qui initie la recherche de sens, c’est-à-dire la quête de repères permettant à l’homme de s’orienter dans l’existence. L’objectif de cette communication est d’examiner, selon une approche phénoménologique, l’expérience de la personne humaine qui affronte la crise et oriente son action en s’appuyant sur la conviction. Plus précisément, nous chercherons à proposer une description phénoménologique de l’expérience de la conscience (au sens de Gewissen), comme le lieu même du drame entre la crise et le sens, entre le soupçon et la conviction. Pour ce faire, nous proposerons une lecture croisée des thèses de Ricœur, Heidegger et Ebeling sur la conscience, qui placent cette dernière au point de rencontre de l’éthique, de l’ontologie et du théologique. À travers cette discussion critique, nous nous efforcerons de mettre au jour un moment-clé dans la pensée de Ricœur où une dimension d’activité, d’invention ou de recherche se voit simultanément liée à une dimension de passivité, de découverte ou d’accueil, au point où les deux dimensions deviennent difficilement discernables. Nous verrons comment ce moment-clé, que l’on trouve au cœur de l’expérience de la conscience, se laisse éclairer selon différents modèles appartenant à la philosophie de Ricœur, soit celui du témoignage (l’attestation), de la métaphore (l’invention-découverte) et de la mémoire (le petit miracle de la reconnaissance). Maria Cristina Clorinda Vendra La relazione d’alterità e la libertà meta-conflittuale Nell’epoca contemporanea, caratterizzata da conflitti mondiali, da scontri religiosi e crisi economiche, è diventato sempre più problematico rispettare la dignità della relazione interumana. Negli eventi più estremi, l’uomo è stato completamente spogliato della propria unicità e irripetibilità, ridotto a paziente narcotizzato dalla ragione strumentale legata alla tecnica. Il mio elaborato ha come obiettivo la possibilità di ripensare un’autentica relazione d’Alterità dal punto di vista della libertà. I riferimenti principali sono costituiti da due opere: la seconda e quarta sezione di Totalità e Infinito di Emmanuel Lévinas e Percorsi del Riconoscimento di Paul Ricœur. Il problema che accomuna i filosofi in analisi è il riconoscimento dell’alterità umana, più precisamente la possibilità di una relazione intersoggettiva in cui ogni uomo possa essere liberamente e pienamente partecipe. La riflessione prende avvio da una delle tesi centrali del pensiero lévinassiano: la libertà non è originaria ma originata. L’autentica libertà non è monologica, ossia proprietà di un io separato, soggetto di totalità, bensì è donata a se stessa da un primum trascendente. Di conseguenza, il vero soggetto non è l’io causa sui, il Medesimo egoista e dominatore della totalità, ma l’io che si costituisce attraverso un processo di gestazione nel quale è sempre dipendente dall’alterità. 41 P. Ricœur, Lectures 2, Seuil, Paris 1992 (1999), p. 199. 65 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce In primo luogo, l’io si afferma come io di godimento, ossia un io che soddisfa i propri bisogni grazie agli elementi che però si sottraggono al suo dominio ponendolo in una situazione d’insicurezza. L’io di godimento tenta, quindi, di porre fine alla suddetta incertezza, trasformando le cose in oggetti al fine di ripararle dalla possibilità di distruzione: l’io, può emergere dall’elementare nel quale è sommerso e prenderne le distanze. Il corpo rappresenta il fenomeno grazie al quale l’io emerge dal mondo di godimento tentando, con un movimento di raccoglimento, di allontanarsi dalla situazione di insicurezza. L’io, quindi, esercita in questo momento della sua gestazione, la propria libertà come libero possesso delle cose. La definitiva affermazione dell’io in quanto soggetto richiede un ulteriore sforzo in cui dovrà liberarsi non solo della libertà di godimento, ma anche di quella di possesso: «per poter rifiutare sia il godimento sia il possesso, è necessario che io sappia donare quello che possiedo. […] Ma per questo è necessario che incontri il volto in-discreto di Altri che mi mette in questione» (E. LÉVINAS, Totalità e Infinito. Saggio sull’Esteriorità, 1961, Jaca Book, Milano 1980, p. 174). In questi termini è affermata la possibilità di un altro-pensiero, il quale non si riconosce nel viaggio di Ulisse compiuto dal pensiero occidentale, ossia nel ritorno a sé dell’io e nel disconoscimento dell’incontro con l’alterità, ma nel cammino compiuto da Abramo verso l’Altro. Riprendendo Lévinas, Ricœur sostiene che l’io si costituisce come persona grazie alla dialettica con l’alterità, ma di contro afferma che la relazione con Altri è simmetrica e la responsabilità reciproca. L’etica della reciprocità legata alla logica del dono, dell’apertura e del rispetto dell’altro, costituisce la via d’uscita dallo spazio della violenza e del dominio. La relazione d’Altri così intesa mostra la fisionomia e la possibilità di una libertà metaconflittuale. Ernst Wolff Compétences et moyens de l’homme capable. Vers l’inévitable complément technique de l’anthropologie philosophique de Ricœur. Depuis Soi-même comme un autre, Ricœur place la notion de capacité ou du « je peux » au cœur de l’herméneutique du soi. Autant il explore l’éventail des capacités, autant la notion même de capacité reste indéterminée d’un point de vue que l’on peut appeler « technique ». La thèse que je défends dans cette conférence est que l’herméneutique de l’homme capable exige un développement de sa dimension technique, c’est-à-dire une réflexion sur les compétences et les moyens du « je peux ». Dans mon argumentation, je mets d’abord en évidence un nombre de passages dans lesquels Ricœur pointe vers la technicité de la capacité d’agir (cf. e.g. les textes sur le calendrier, sur l’archive ou sur l’architecture). Ensuite, je réexamine la reformulation herméneutique et réflexive que Ricœur a faite de l’intentionnalité phénoménologique (voir le « quoi ? », « comment ? », « qui ? » e.g. Parcours de la reconnaissance, p. 181). Ici, ma réflexion sera guidée par une lecture de l’idée d’excellence de l’action dans l’Ethique à Nicomaque. Cette lecture sera complexifiée par une prise en 66 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce considération du versant négatif de la capacité, l’incapacité : on se reconnaît capable de parler, d’agir, de raconter, d’imputer, face aux mises à l’épreuve successives de ses capacités par l’attestation de l’incapacité. Ainsi, la dialectique de capacité-incapacité montre que la variabilité des degrés de compétences est constitutive de la notion de capacité. Je montrerai ensuite que cette dialectique est quasi-organiquement liée aux moyens par lesquels les capacités sont activées – moyens qui partiellement facilitent, partiellement gênent l’action des individus (cf. Ihde). En portant mon attention sur la médiation de l’agir par des moyens techniques variés, j’ébaucherai une perspective plus complète sur l’action collective et/ou la collaboration organisée. Ainsi, l’action et l’interaction de l’homme capable révèlent une structure que j’appellerai un « paradoxe technique » : pour être efficace, on doit intégrer des moyens puissants dans l’action, mais ces moyens ne traduisent pas toujours fidèlement l’intention de l’action ; le paradoxe politique ricoeurien est une variante du paradoxe technique. En tirant inspiration du travail de Nussbaum sur la privation de capacités (capability deprivation), je soutiendrai que l’enrichissement « technique » de l’herméneutique de l’homme capable, fait ressortir un potentiel critique trop peu développé de cette théorie : des questions telles que « qui a (ou est privé de la possibilité d’avoir) une compétence à parler ou agir dans tel ou tel contexte ? » ou « qui a accès à quels moyens pour raconter ou pour juger une suite d’actions ? » pourront désormais être thématisées. Ces questions informent l’indignation qui est le moteur de la lutte pour la reconnaissance. De la sorte, je démontrerai que la transition que Ricœur fait de la reconnaissance de soi vers la reconnaissance mutuelle exige et profite d’une telle force critique de la notion de capacité enrichie. Tomoaki Yamada “Un philosophe sans absolu” : Une interprétation du Fragment(0)1 de Vivant jusqu’à la mort à travers le conflit entre la philosophie et la foi biblique Comment interprétons-nous “un philosophe sans absolu” chez Paul Ricœur? Cette expression est issue d’ “une philosophie sans absolu ” sur laquelle Pierre Thévenaz a insisté dans son enquête sur la philosophie protestante. À travers cette expression, Ricœur a élaboré à nouveaux frais une réflexion sur l’articulation entre la philosophie et la théologie. Ce souci d’articulation a pour arrière-plan la réponse à la critique de Bouchindhomme qui porte sur la présupposition de l’investigation philosophique ricœurienne42. Dans sa réponse à aux critiques suscitées par son ouvrage, Ricoeur déclare, en citant l’expression de Thévenaz, que le dieu de la foi biblique n’intervient pas dans son investigation. Le souci d’articuler philosophie et foi est donc rattaché à l’autonomie du discours philosophique tel qu’on le trouve dans Soi-même comme un autre, La Critique et La Conviction, Réflexion faite et, Fragment (0)1. Ce souci, que nous appelons le motif thévenazien, traverse l’œuvre de Ricœur. D’ailleurs, dans ce Fragment (0)1 , Ricœur met l’accent plus que jamais sur l’autonomie de la philosophie comme une “autarcie” propre à la recherche philosophique et à la Voir Temps et Récit de Paul Ricœur en débat, Édité et préfacé par Ch. Bouchidhomme. et R. Rocholitz, Éd. du Cerf, Paris 1990. Ricœur a renforcé ce souci d’articulation depuis les années 1980. 42 67 International Congress Through crisis and conflict. Thinking differently with Paul Ricœur September 2012, 24-27 Lecce structuration de son propre discours. Cependant il nous semble que d’une part, ce thème garde sa cohérence jusqu’au Fragment (0)1, et d’autre part, que l’ambiguïté du rapport entre la philosophie et la foi biblique perdure. Car dans ce Fragment, la distinction entre le philosophe professionnel et le chrétien philosophant conduit à assumer « une situation schizoïde qui a sa dynamique, ses souffrances et ses petits bonheurs »(p. 108 ). Nous prenons cette « situation schizoïde » comme l’expression du conflit entre le philosophique et la foi biblique. Pour décrire notre enquête, d’abord il s’agit de traiter l’articulation de la philosophie et la théologie dans la préface de Soi-même comme un autre. À travers cette marque, nous trouvons le pôle de la question et la réponse dans le discours philosophique, et celui de l’appel et la réponse dans le discours théologique; qui fait partie du genre de la foi biblique. Cette articulation au niveau du discours est prolongée au niveau du conflit interne dans le Fragment (0)1. Ensuite nous essaierons d’interpréter l’expression de “philosophe sans absolu” en citant Lectures 3, l’étude intitulée « Un philosophe protestant », qui a servi de préface à l’ouvrage de Thévenaz. La résultat attendu de notre enquête est une description de la portée de l’expression “ philosophe sans absolu’’ qui manifeste le conflit entre la philosophie et la foi biblique. Serge Zenkine Les actes libérateurs : entre symbole et récit Dans quelques textes datant des années 1970, notamment dans « Manifestation et proclamation » (publié en 1974 dans les actes d’un colloque organisé par Enrico Castelli), Paul Ricœur évoque brièvement le concept d’ « actes libérateurs » : il s’agit de grands événements qui annoncent le commencement de « l’histoire de délivrance » de l’humanité et qui revêtent une pertinence omni-temporelle. Les modèles de ces événements singuliers seraient l’Exode et la Passion du Christ ; par leur caractère narratif et « textuel » (au sens où Ricœur proposait, à la même époque, de considérer l’action comme un texte), ces événements jouent un rôle crucial dans le passage de la mythologie « païenne » à l’eschatologie judéo-chrétienne, qui correspond lui-même au clivage entre deux modes d’être du sacré : «la manifestation » et « la proclamation ». Il ne serait pas abusif de voir dans ces événements exceptionnels, tels qu’ils sont traités chez Ricœur, une réécriture herméneutique de ce que les grandes révolutions politiques représentent pour la mémoire historique des peuples modernes. Né d’une réflexion sur le sacré et la pensée religieuse, le concept d’acte libérateur finit par déborder son champ initial pour faire partie d’un ensemble plus vaste de l’herméneutique des récits historiques modernes. Dans la communication proposée, on étudiera d’abord la genèse du concept, remontant au chapitre de Finitude et culpabilité sur les mythes du commencement et de la fin (où la délivrance eschatologique est encore traitée dans une perspective symbolique et non proprement narratologique), on suivra son rapport avec la catégorie d’« l’expressionlimite » qui l’englobe chez Ricœur, et finalement on tentera d’éclairer le même concept dans le contexte de l’herméneutique narrative de Temps et récit. La complexité du concept autorise à l’utiliser comme un outil contribuant à expliquer la nature du mythe moderne, par lequel notre civilisation cherche à rendre compte des situations et mouvements critiques qu’elle traverse. 68