792 Schedario/ Lessico oggi Paolo Branca Jihâd Docente di lingua araba nell’Università Cattolica di Milano L’Oriente ha uno strano destino: quello di essere per così dire «condensato» in qualche espressione esotica che spesso lo maschera più che rivelarlo. Per quanto riguarda il mondo dell’Islam, un tempo predominavano nell’immaginario collettivo termini come harem o narghilé, con un ampio corredo di altri oggetti strani quali lampade magiche o tappeti volanti; c’è poco da rallegrarsi se oggi predominano invece negli stessi cieli i fuochi della contraerea e anche i meno acculturati tra noi si sono ormai familiarizzati con parole come jihâd. Va da sé che si tratta di realtà che andrebbero collocate in un ben più ampio quadro di conoscenze per permetterci di discuterne con un minimo di serietà, e che un effetto positivo delle recenti tragedie potrebbe e dovrebbe essere quello di suscitare un’attenzione non più episodica e superficiale nei confronti di un universo che evidentemente non possiamo più permetterci il lusso di ignorare, come finora abbiamo largamente fatto. Aspetti terminologici Per cominciare vale la pena di soffermarsi proprio sul termine jihâd. «Il» jihâd, al maschile — per essere precisi —, e non «la» jihâd, come comunemente AS 11 [2001] 792-795 si dice lasciandosi influenzare dal genere della non del tutto corretta tendenza a tradurlo con «guerra santa». Il senso letterale della parola araba è «sforzo», ma l’idea più generale ad esso correlata è quella di «combattimento». Una forma dunque di violenza che si crede non soltanto autorizzata ma addirittura incoraggiata dal Corano, che indurrebbe i musulmani a praticarla sistematicamente. Le cose non sono però così semplici e, se non si vuole fare una lettura «fondamentalista» dei testi sacri, occorre appunto evitare di isolare dal loro contesto alcuni versetti per forzarne l’interpretazione in un senso o nell’altro. Proviamo dunque ad analizzare i termini salâm (pace) e jihâd nel Corano, tralasciando per brevità i loro sinonimi: i risultati ci paiono comunque utili e significativi. Il termine «pace» ricorre nel Corano molte volte e, soprattutto nella parte più antica, prevalentemente in relazione alla vita futura. Essa è però costantemente messa in relazione con le opere di giustizia che avranno saputo meritarsela: «in ricompensa di quel che avranno operato. / E non udranno colà discorsi frivoli o eccitanti al peccato / ma solo una parola: “Pace, Pace!”» (56.24-25). 793 Jihâd - Incomprensioni e forzature di una parola-chiave Nel Corano non manca neppure il concetto di «pace» riferito anche ai rapporti del Profeta e dei suoi seguaci con i loro stessi avversari. Alcuni versetti invitano alla concordia, a non esasperare i toni di un confronto conflittuale che pure si prospettava: «O Signore! Sono, costoro, gente che non crede! / Allontanati dunque da loro dicendo: “Pace!”. Presto sapranno!» (43.88-89). Nonostante un’opposizione dura soprattutto verso gli idolatri, si esortano talora i fedeli ad augurare comunque la pace e a trattare con garbo anche chi li contrasta: «I servi del Misericordioso sono coloro che camminano sulla terra modestamente, e quando i pagani rivolgono loro la parola rispondono: “Pace!”» (25.63). Tanto più quando da parte altrui c’è disponibilità ad appianare le cose: «Ma se essi preferiscono la pace, preferiscila, e confida in Dio, ch’è in verità l’ascoltatore sapiente» (8.61). Sembra prevalere in genere l’intento difensivo: «Se dunque essi si tengono in disparte da voi e non vi combattono e vi offrono la pace, Dio non vi dà facoltà di combatterli» (4.90); ma non mancano esortazioni a reagire con durezza, se necessario: «se non si tengono in disparte da voi e non vi offrono la pace e non gettano le armi, prendeteli e uccideteli dovunque li troviate. Su questi noi vi diamo chiaro e preciso potere» (4.91). È comunque stigmatizzato il comportamento di chi preferisce lo scontro per assicurarsi dei vantaggi materiali: «O voi che credete! Quando v’ingaggiate nella via di Dio, state bene attenti, e non dite a chi vi porge il saluto di “Pace!”, “Tu non sei credente!” per desiderio dei beni effimeri del mondo. Anzi, presso Dio c’è bottino abbondante. Così voi facevate prima, ma ora Dio v’ha colmato dei suoi favori» (4.94). Fede e combattimento Tuttavia l’Islam è anche una religione che non esclude il conflitto, e specificamente il termine che definisce tale aspetto è jihâd. Tradurlo con «guerra santa» è improprio, se non altro perché il concetto di santità è nell’Islam del tutto diverso dal nostro, e per di più poco sensato per un arabofono in abbinamento al termine «guerra». Tuttavia è innegabile che nella storia musulmana jihâd ha anche significato in modo tutt’altro che accidentale propriamente «guerra». Alcuni moderni apologeti dell’Islam si sono impegnati nel dimostrare come il jihâd non sia mai stato una guerra offensiva ma soltanto difensiva o, secondo altri, una guerra di liberazione; approccio che lascia francamente perplessi. L’interpretazione difensiva è poco plausibile: considerato che, alla morte del Profeta, l’Islam risiedeva nella sola Arabia e 100 anni dopo si estendeva dall’Andalusia all’Asia centrale. Anche l’interpretazione libertaria è una forzatura anacronistica, l’applicazione di una concetto proprio dell’era moderna a fenomeni di molti secoli fa. È comunque innegabile uno spiccato legame — anche nelle fonti — fra religione e guerra. La stessa vita del Profeta, scritta da musulmani delle prime generazioni e non da orientalisti occidentali in malafede, è una serie impressionante di campagne militari. A ben guardare, però, la guerra fu così importante alle origini non tanto per una presunta aggressività innata negli arabi o nell’Islam, ma per la sua particolare funzione in quel contesto politico-sociale. Quando Maometto compì l’egira (emigrazione dalla Mecca a Medina nel 622), stipulò con gli abitanti di Medina uno specifico patto: questo documento parla 794 diffusamente della guerra, poiché essa era allora l’«impresa collettiva» per eccellenza. In guerra non c’era più spazio per le divisioni interne, bisognava avere un capo e seguirne le direttive; essa era dunque il momento cruciale di verifica della fedeltà e delle alleanze. Il termine jihâd nel Corano non ha sempre il senso di guerra, bensì, specie nei primi tempi, quando Maometto non aveva ancora assunto il ruolo di condottiero, vi riscontriamo il senso di sforzo e tensione morale in coloro che s’impegnavano nella conversione e dovevano resistere alle pressioni dei parenti che si adoperavano per farli desistere dall’aderire alla nuova fede. Con l’egira avvenne però un vero e proprio cambiamento di prospettiva; in molti versetti successivi ad essa si combinano termini derivati da due radici: hjr, da cui hijra (egira) = emigrazione, e jhd, da cui jihâd = lotta; quelli che sono emigrati e che combattono sono particolarmente lodati e proposti ad esempio. Non solo testimonianza, dunque, ma impegno di tutti i beni e di tutta la vita, ivi incluso pertanto l’uso delle armi, per riconquistare La Mecca, rimasta nelle mani degli indifferenti e dei nemici. Si trattava di un conflitto lacerante, raccontato in tutta la sua durezza nella biografia del Profeta, in cui non si esita a ricordare che i fedeli erano esortati a scontrarsi, nella mischia, con i loro stessi parenti, per dimostrare che la loro vera famiglia era ormai quella dei correligionari, uniti dalla stessa fede piuttosto che da legami di sangue. La parte del Corano che risale alla Mecca si chiude senza che i termini derivati dalla radice jhd sembrino indicare qualcosa di più e di diverso che un coinvolgimento nella nuova fede disposto al sacrificio. Fu soltanto dopo il distacco Paolo Branca operato con l’egira che si ebbe un mutamento. Una simile evoluzione non poteva mancare di riflettersi puntualmente nelle sure (i 114 capitoli in cui è diviso il testo del Corano) risalenti al periodo medinese, nelle quali i termini derivati dalla radice jhd non sono soltanto particolarmente numerosi, ma assumono un significato più preciso rispetto a quello delle fasi precedenti, abbinando quasi sempre il concetto di emigrazione con quello della disponibilità a combattere: «Ma quelli che credettero, e che emigrarono, e lottarono sulla via di Dio, possono sperare la misericordia di Dio, ché Dio perdona misericorde» (2.218). La partecipazione al combattimento come suprema espressione di fedeltà è esplicita all’inizio della sura 9: «Credete forse che sarete abbandonati, e che Dio non conosca chi è fra voi che ha combattuto e non s’è scelto altri amici che Dio, il suo Messaggero e i fratelli credenti?» (9.16); ma la rilevanza di questo capitolo del Corano a proposito del tema di cui ci stiamo occupando va ben al di là di questa affermazione. Si tratta infatti della sura che stabilisce fra l’altro la definitiva rottura con il politeismo e pone ai pagani l’alternativa tra la conversione e la spada, per cui molti precedenti versetti di tono conciliante possono venire considerati abrogati. Recenti strumentalizzazioni In questa stessa sura, alla condanna dei pagani fa da contrappunto costantemente il richiamo ai musulmani indecisi, che probabilmente si sentivano appagati dai successi ottenuti ed erano restii a continuare la lotta: «Eran tutti lieti, quelli restati nelle loro case, d’esser stati lasciati addietro dal Messaggero di Dio, e repugnavano a combattere con i loro beni e le loro persone sulla Via di Dio» (9.81). 795 Jihâd - Incomprensioni e forzature di una parola-chiave Naturalmente molti di questi versetti sono stati ripresi nel corso dei secoli e ancor oggi vengono citati per giustificare in chiave religiosa ogni sorta di impresa militare, ma è evidente che soltanto una forzatura ideologica può far ritenere sempre e comunque avallato il conflitto da parte del Corano. Inoltre, la storia passata dimostra come l’appello al jihâd sia stato fatto meno frequentemente che oggi e non sempre coi risultati sperati da chi lo lanciava. Ciò che impressiona è comunque la mancanza delle condizioni necessarie per uno sviluppo sereno e libero di una critica testuale seria e rigorosa. Il pensiero islamico degli ultimi secoli è purtroppo un pensiero militante nel quale prevalgono gli slogan sulle riflessioni problematiche e approfondite. Si è inoltre prodotto un fenomeno paradossale: la maggior scolarizzazione (con relativo apprendimento della lingua araba) e il logoramento delle autorità tradizionali consentono a un più grande numero di fedeli un accesso diretto al Testo sacro che apre la strada a interpretazioni estreme quando non apertamente devianti. Si tratta di una modernizzazione incompiuta, che diffonde a più largo raggio alcune conoscenze, ma non fornisce gli strumenti critici per servirsene in modo appropriato. Il «discorso religioso» diffuso da agenzie educative di ogni ordine e grado è pura propaganda al servizio di un’idea di Islam antistorica e priva di qualsiasi senso evolutivo, dogmatica e indiscutibile al pari dei suoi tutori più o meno ufficiali. Ridotta a strumento di legittimazione dai Governi o brandita come strumento di contestazione da parte delle opposizioni. La religione viene così svuotata del suo senso più vero e profondo e condivide il triste destino che nei Paesi islamici hanno altri «valori» senza i quali essa stessa è privata di ogni significato. La vera e compiuta promozione umana dei musulmani è dunque l’unica strada che possa salvare anzitutto lo stesso Islam dall’involuzione che sembra interessarlo, ma anche la sola speranza per tutti di liberarsi da quel terrorismo che da tale sviluppo bloccato trae origine e alimento. Per saperne di più KHADDURI M., War and peace in the law of Islam, G. Hopkins, London 1955. MORABIA A., Le Gihad dans l'Islam médiéval, Presses Universitaires, Paris 1993. PIACENTINI V. F., Il pensiero militare musulmano, FrancoAngeli, Milano 1996. SCARCIA AMORETTI B., Tolleranza e guerra santa nell'Islam, Sansoni, Firenze 1974. KEPEL G., Jihâd. Ascesa e declino, Carocci, Roma 2001.