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Schedario/ Lessico oggi
Paolo Branca
Jihâd
Docente di lingua araba
nell’Università Cattolica di Milano
L’Oriente ha uno strano destino: quello
di essere per così dire «condensato» in
qualche espressione esotica che spesso
lo maschera più che rivelarlo. Per quanto
riguarda il mondo dell’Islam, un tempo
predominavano nell’immaginario collettivo termini come harem o narghilé, con
un ampio corredo di altri oggetti strani
quali lampade magiche o tappeti volanti;
c’è poco da rallegrarsi se oggi predominano invece negli stessi cieli i fuochi
della contraerea e anche i meno acculturati tra noi si sono ormai familiarizzati
con parole come jihâd.
Va da sé che si tratta di realtà che andrebbero collocate in un ben più ampio
quadro di conoscenze per permetterci di
discuterne con un minimo di serietà, e
che un effetto positivo delle recenti tragedie potrebbe e dovrebbe essere quello
di suscitare un’attenzione non più episodica e superficiale nei confronti di un
universo che evidentemente non possiamo più permetterci il lusso di ignorare,
come finora abbiamo largamente fatto.
Aspetti terminologici
Per cominciare vale la pena di soffermarsi proprio sul termine jihâd. «Il»
jihâd, al maschile — per essere precisi
—, e non «la» jihâd, come comunemente
AS 11 [2001] 792-795
si dice lasciandosi influenzare dal genere
della non del tutto corretta tendenza a
tradurlo con «guerra santa».
Il senso letterale della parola araba è
«sforzo», ma l’idea più generale ad esso
correlata è quella di «combattimento».
Una forma dunque di violenza che si crede non soltanto autorizzata ma addirittura incoraggiata dal Corano, che indurrebbe i musulmani a praticarla sistematicamente.
Le cose non sono però così semplici e,
se non si vuole fare una lettura «fondamentalista» dei testi sacri, occorre appunto evitare di isolare dal loro contesto
alcuni versetti per forzarne l’interpretazione in un senso o nell’altro. Proviamo
dunque ad analizzare i termini salâm
(pace) e jihâd nel Corano, tralasciando
per brevità i loro sinonimi: i risultati ci
paiono comunque utili e significativi.
Il termine «pace» ricorre nel Corano
molte volte e, soprattutto nella parte più
antica, prevalentemente in relazione alla
vita futura. Essa è però costantemente
messa in relazione con le opere di giustizia che avranno saputo meritarsela: «in
ricompensa di quel che avranno operato.
/ E non udranno colà discorsi frivoli o eccitanti al peccato / ma solo una parola:
“Pace, Pace!”» (56.24-25).
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Jihâd - Incomprensioni e forzature di una parola-chiave
Nel Corano non manca neppure il concetto di «pace» riferito anche ai rapporti
del Profeta e dei suoi seguaci con i loro
stessi avversari.
Alcuni versetti invitano alla concordia,
a non esasperare i toni di un confronto
conflittuale che pure si prospettava: «O
Signore! Sono, costoro, gente che non crede! / Allontanati dunque da loro dicendo:
“Pace!”. Presto sapranno!» (43.88-89).
Nonostante un’opposizione dura soprattutto verso gli idolatri, si esortano talora i
fedeli ad augurare comunque la pace e a
trattare con garbo anche chi li contrasta:
«I servi del Misericordioso sono coloro
che camminano sulla terra modestamente, e quando i pagani rivolgono loro la parola rispondono: “Pace!”» (25.63).
Tanto più quando da parte altrui c’è disponibilità ad appianare le cose: «Ma se
essi preferiscono la pace, preferiscila, e
confida in Dio, ch’è in verità l’ascoltatore
sapiente» (8.61). Sembra prevalere in genere l’intento difensivo: «Se dunque essi
si tengono in disparte da voi e non vi
combattono e vi offrono la pace, Dio non
vi dà facoltà di combatterli» (4.90); ma
non mancano esortazioni a reagire con
durezza, se necessario: «se non si tengono
in disparte da voi e non vi offrono la pace
e non gettano le armi, prendeteli e uccideteli dovunque li troviate. Su questi noi
vi diamo chiaro e preciso potere» (4.91).
È comunque stigmatizzato il comportamento di chi preferisce lo scontro per assicurarsi dei vantaggi materiali: «O voi
che credete! Quando v’ingaggiate nella
via di Dio, state bene attenti, e non dite a
chi vi porge il saluto di “Pace!”, “Tu non
sei credente!” per desiderio dei beni effimeri del mondo. Anzi, presso Dio c’è bottino abbondante. Così voi facevate prima,
ma ora Dio v’ha colmato dei suoi favori»
(4.94).
Fede e combattimento
Tuttavia l’Islam è anche una religione
che non esclude il conflitto, e specificamente il termine che definisce tale
aspetto è jihâd. Tradurlo con «guerra
santa» è improprio, se non altro perché
il concetto di santità è nell’Islam del tutto diverso dal nostro, e per di più poco
sensato per un arabofono in abbinamento al termine «guerra».
Tuttavia è innegabile che nella storia
musulmana jihâd ha anche significato in
modo tutt’altro che accidentale propriamente «guerra». Alcuni moderni apologeti dell’Islam si sono impegnati nel dimostrare come il jihâd non sia mai stato
una guerra offensiva ma soltanto difensiva o, secondo altri, una guerra di liberazione; approccio che lascia francamente
perplessi. L’interpretazione difensiva è
poco plausibile: considerato che, alla
morte del Profeta, l’Islam risiedeva nella
sola Arabia e 100 anni dopo si estendeva
dall’Andalusia all’Asia centrale. Anche
l’interpretazione libertaria è una forzatura anacronistica, l’applicazione di una
concetto proprio dell’era moderna a fenomeni di molti secoli fa.
È comunque innegabile uno spiccato
legame — anche nelle fonti — fra religione e guerra. La stessa vita del Profeta, scritta da musulmani delle prime generazioni e non da orientalisti occidentali in malafede, è una serie impressionante di campagne militari. A ben guardare, però, la guerra fu così importante
alle origini non tanto per una presunta
aggressività innata negli arabi o nell’Islam, ma per la sua particolare funzione
in quel contesto politico-sociale.
Quando Maometto compì l’egira (emigrazione dalla Mecca a Medina nel 622),
stipulò con gli abitanti di Medina uno
specifico patto: questo documento parla
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diffusamente della guerra, poiché essa
era allora l’«impresa collettiva» per eccellenza. In guerra non c’era più spazio
per le divisioni interne, bisognava avere
un capo e seguirne le direttive; essa era
dunque il momento cruciale di verifica
della fedeltà e delle alleanze.
Il termine jihâd nel Corano non ha
sempre il senso di guerra, bensì, specie
nei primi tempi, quando Maometto non
aveva ancora assunto il ruolo di condottiero, vi riscontriamo il senso di sforzo e
tensione morale in coloro che s’impegnavano nella conversione e dovevano resistere alle pressioni dei parenti che si
adoperavano per farli desistere dall’aderire alla nuova fede.
Con l’egira avvenne però un vero e
proprio cambiamento di prospettiva; in
molti versetti successivi ad essa si combinano termini derivati da due radici: hjr,
da cui hijra (egira) = emigrazione, e jhd,
da cui jihâd = lotta; quelli che sono emigrati e che combattono sono particolarmente lodati e proposti ad esempio. Non
solo testimonianza, dunque, ma impegno
di tutti i beni e di tutta la vita, ivi incluso
pertanto l’uso delle armi, per riconquistare La Mecca, rimasta nelle mani degli
indifferenti e dei nemici. Si trattava di un
conflitto lacerante, raccontato in tutta la
sua durezza nella biografia del Profeta,
in cui non si esita a ricordare che i fedeli
erano esortati a scontrarsi, nella mischia,
con i loro stessi parenti, per dimostrare
che la loro vera famiglia era ormai quella
dei correligionari, uniti dalla stessa fede
piuttosto che da legami di sangue.
La parte del Corano che risale alla
Mecca si chiude senza che i termini derivati dalla radice jhd sembrino indicare
qualcosa di più e di diverso che un coinvolgimento nella nuova fede disposto al
sacrificio. Fu soltanto dopo il distacco
Paolo Branca
operato con l’egira che si ebbe un mutamento. Una simile evoluzione non poteva
mancare di riflettersi puntualmente nelle
sure (i 114 capitoli in cui è diviso il testo
del Corano) risalenti al periodo medinese, nelle quali i termini derivati dalla radice jhd non sono soltanto particolarmente numerosi, ma assumono un significato
più preciso rispetto a quello delle fasi
precedenti, abbinando quasi sempre il
concetto di emigrazione con quello della
disponibilità a combattere: «Ma quelli
che credettero, e che emigrarono, e lottarono sulla via di Dio, possono sperare la
misericordia di Dio, ché Dio perdona misericorde» (2.218).
La partecipazione al combattimento come suprema espressione di fedeltà è
esplicita all’inizio della sura 9: «Credete
forse che sarete abbandonati, e che Dio
non conosca chi è fra voi che ha combattuto e non s’è scelto altri amici che Dio, il
suo Messaggero e i fratelli credenti?»
(9.16); ma la rilevanza di questo capitolo
del Corano a proposito del tema di cui ci
stiamo occupando va ben al di là di questa
affermazione. Si tratta infatti della sura
che stabilisce fra l’altro la definitiva rottura con il politeismo e pone ai pagani l’alternativa tra la conversione e la spada, per
cui molti precedenti versetti di tono conciliante possono venire considerati abrogati.
Recenti strumentalizzazioni
In questa stessa sura, alla condanna
dei pagani fa da contrappunto costantemente il richiamo ai musulmani indecisi,
che probabilmente si sentivano appagati
dai successi ottenuti ed erano restii a
continuare la lotta: «Eran tutti lieti, quelli restati nelle loro case, d’esser stati lasciati addietro dal Messaggero di Dio, e
repugnavano a combattere con i loro beni
e le loro persone sulla Via di Dio» (9.81).
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Jihâd - Incomprensioni e forzature di una parola-chiave
Naturalmente molti di questi versetti
sono stati ripresi nel corso dei secoli e
ancor oggi vengono citati per giustificare
in chiave religiosa ogni sorta di impresa
militare, ma è evidente che soltanto una
forzatura ideologica può far ritenere sempre e comunque avallato il conflitto da
parte del Corano. Inoltre, la storia passata dimostra come l’appello al jihâd sia
stato fatto meno frequentemente che oggi
e non sempre coi risultati sperati da chi
lo lanciava. Ciò che impressiona è comunque la mancanza delle condizioni necessarie per uno sviluppo sereno e libero
di una critica testuale seria e rigorosa. Il
pensiero islamico degli ultimi secoli è
purtroppo un pensiero militante nel quale
prevalgono gli slogan sulle riflessioni
problematiche e approfondite.
Si è inoltre prodotto un fenomeno paradossale: la maggior scolarizzazione (con
relativo apprendimento della lingua araba) e il logoramento delle autorità tradizionali consentono a un più grande numero di fedeli un accesso diretto al Testo
sacro che apre la strada a interpretazioni
estreme quando non apertamente devianti. Si tratta di una modernizzazione incompiuta, che diffonde a più largo raggio
alcune conoscenze, ma non fornisce gli
strumenti critici per servirsene in modo
appropriato. Il «discorso religioso» diffuso da agenzie educative di ogni ordine e
grado è pura propaganda al servizio di
un’idea di Islam antistorica e priva di
qualsiasi senso evolutivo, dogmatica e indiscutibile al pari dei suoi tutori più o
meno ufficiali. Ridotta a strumento di legittimazione dai Governi o brandita come
strumento di contestazione da parte delle opposizioni. La religione viene così
svuotata del suo senso più vero e profondo e condivide il triste destino che nei
Paesi islamici hanno altri «valori» senza
i quali essa stessa è privata di ogni significato. La vera e compiuta promozione
umana dei musulmani è dunque l’unica
strada che possa salvare anzitutto lo
stesso Islam dall’involuzione che sembra
interessarlo, ma anche la sola speranza
per tutti di liberarsi da quel terrorismo
che da tale sviluppo bloccato trae origine e alimento.
Per saperne di più
KHADDURI M., War and peace in
the law of Islam, G. Hopkins, London 1955.
MORABIA A., Le Gihad dans l'Islam médiéval, Presses Universitaires, Paris 1993.
PIACENTINI V. F., Il pensiero militare musulmano, FrancoAngeli, Milano 1996.
SCARCIA AMORETTI B., Tolleranza e guerra santa nell'Islam, Sansoni, Firenze 1974.
KEPEL G., Jihâd. Ascesa e declino, Carocci, Roma 2001.