SERVO DI SCENA
di Ronald Harwood
traduzione Masolino d’Amico
regia Franco Branciaroli
con Franco Branciaroli, Tommaso Cardarelli
e con (in o.a.) Lisa Galantini, Melania Giglio, Daniele Griggio, Giorgio Lanza,Valentina
Violo
scene e costumi Margherita Palli
luci Gigi Saccomandi
CTB Teatro Stabile di Brescia, Teatro de gli Incamminati
Teatro Storchi, Modena:
11 e 12 gennaio 2013, ore 21.00
13 gennaio 2013, ore 15.30
Teatro Walter Mac Mazzieri, Pavullo:
17 gennaio 2013, ore 21.00
Teatro Dadà, Castelfranco Emilia:
13 febbraio 2013, ore 21.00
Servo di scena è uno dei più celebri testi teatrali del sudafricano Ronald Harwood che
curò anche l’adattamento cinematografico dell’omonimo film culto del 1983 di Peter
Yates, interpretato da Albert Finney e da Tom Courtenay.
Il testo, scritto in un affascinante linguaggio tipico dello stile della commedia inglese,
affronta con tono ironico le rocambolesche vicende di Sir (Franco Branciaroli), grande
attore giunto ormai al tramonto della sua carriera, e della sua precaria compagnia di
provincia. Oltre che un grandissimo omaggio a Shakespeare e all’Inghilterra, il testo è
soprattutto un inno al teatro, alla sua capacità di resistere in tempi difficili e alla sua
insostituibilità. Nella figura del servo Norman trapela la ragione profonda della sua
forza: il teatro è invincibile perché non ha padroni, non cerca ricompense, è invincibile
perché la ragione profonda della sua esistenza sta nella sua gratuità e proprio per
questo sa pronunciare le parole più importanti e profonde con estrema ironia.
È il 1940, pur devastata dai bombardamenti nazisti, Londra riesce a conservare
l’aplomb che l’ha sempre contraddistinta. La vita procede meglio che può: pub e
ristoranti restano aperti finché una bomba non li distrugge, i circoli e i club non
variano nemmeno gli orari di apertura e di chiusura, e anche il teatro continua a
vivere a dispetto della stupidità che sembra sul punto di conquistare il mondo. E
Shakespeare diviene non solo poeta di un intero popolo, ma anche il suo profeta, e il
teatro il suo tempio.
Servo di scena racconta la storia di una di queste compagnie eroiche e spericolate e
del suo vecchio capocomico, un non meglio identificato “Sir”, attore shakespeariano
un tempo osannato dalle folle e dalla critica. Colpito da malore proprio alla vigilia del
Emilia Romagna Teatro Fondazione – Teatro Stabile Pubblico Regionale, Sede Legale: Teatro Storchi, Largo Garibaldi 15, 41124 Modena. Sede Organizzativa: Via Ganaceto, 129 ‐ 41121, Modena Centralino: Tel. 059 2136011, Biglietteria:. 059 2136021, e‐mail: [email protected] C.F. e P.IVA 01989060361 debutto di Re Lear, Sir sembra sul punto di dare forfait: sarebbe la prima volta nella
sua onorata, lunghissima carriera. Ma Norman, il suo fedele servo di scena, da
perfetto inglese non concepisce che non si possa andare in scena. Magari morti, ma gli
spettatori hanno pagato il biglietto e hanno perciò diritto allo spettacolo.
Sir è messo male: non solo ha dimenticato quasi tutte le battute del testo, ma ha
dimenticato perfino quale testo dev’essere rappresentato. Comincia a vestirsi da
Otello, poi si mette a recitare il Macbeth. Infine sembra rimettersi in carreggiata, ma
sono troppe le cose che non vanno. Se la prende con la moglie, Milady, una Cordelia
decisamente troppo grassa. Se la prende perfino con l’ennesimo bombardamento
nazista, che scambia per l’effetto-temporale giunto però troppo presto.
Dopo numerosi esilaranti contrattempi, Sir si sente di nuovo male e, al termine dello
spettacolo, mentre gli altri attori (compresa sua moglie, Milady) se ne vanno a casa,
solo il buon Norman lo assiste. Sir, sentendo di essere in punto di morte, gli consegna
la propria autobiografia, una specie di testamento spirituale in cui ringrazia tutti i
membri della sua compagnia, lodandoli uno per uno, dal primo all’ultimo, tranne guarda caso - proprio il suo servo di scena. Chissà perché, si è dimenticato proprio di
lui.
Da Servo di scena al teatro contemporaneo
Estratti da una conversazione di Franco Branciaroli con Luca Doninelli
Il teatro e la storia, il teatro e la guerra. C’è un parallelo tra l’ambiente storico in cui si
svolge Servo di scena, lo spettacolo che segna anche il tuo esordio come consulente
artistico del CTB di Brescia, e il drammatico momento attuale?
A voler essere pessimisti, be’, il parallelo è evidente. A dare ascolto alle voci che si
levano oggi un po’ dappertutto a casa nostra, allora sì, potremmo dire che il livello di
barbarie raggiunto durante l’attacco nazista all’Inghilterra è lo stesso che si manifesta
oggi nel costume politico e culturale. Io però non credo in queste cose, sono immune
dal catastrofismo.
Piuttosto, Servo di scena ci presenta un cambio nella cultura del tempo: siamo alla
fine di una grande epoca del teatro inglese, crolla il teatro dei grandi capocomici. Nella
nostra pièce, per esempio, ce n’è uno che si fa chiamare Sir, anche se non lo è affatto,
e tutti lo sanno. E come il teatro, così crolla l’intera Inghilterra. Ma perché questo
accada il teatro dev’essere molto importante, deve stare all’altezza del Paese che
rappresenta.
Sento nelle tue parole un accento polemico.
No, polemico no, per carità. Mi viene solo da sorridere - non da ridere, questo mai, ma
sorridere sì - al pensiero che da noi il teatro non ha mai conosciuto una simile caduta.
E questo perché? Perché non è mai salito così in alto. Detto fuori dai denti, non è mai
caduto perché non è mai stato importante. Questi capocomici portavano in giro
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autore di teatro come altri: da loro Shakespeare era il cuore della cultura, erano le
storie che raccontavano ai bambini la sera, era la mitologia nazionale, erano gli
spauracchi: guarda che se non mangi arriva Puck...
Per reggere una simile tradizione ci voleva una grande drammaturgia, il loro è sempre
stato un teatro di drammaturgia - oggi forse no, perché il rimbecillimento è generale e non di regia, come il nostro.
Durante la guerra il teatro fu uno strumento privilegiato per tenere desta la coscienza
dei popoli: penso non solo al caso inglese, ma a quello tedesco e anche, in circostanze
storiche affatto diverse, alla Polonia. Il teatro come forma di conoscenza, insomma.
Oggi questo succede ancora?
In questi paesi il teatro ha potuto diventare qualcosa di grande perché lì, a differenza
dell’Italia, il palcoscenico ha sempre coinciso con il territorio urbano: non un edificio
per l’intrattenimento, ma un edificio pubblico essenziale alla vita pubblica, al pari del
municipio. Nei paesi protestanti l’endiadi era “municipio e teatro”, da noi è sempre
stata “municipio e chiesa”. Parlo della chiesa di mattoni, dell’edificio-chiesa. (…) In
questi paesi il teatro era il luogo in cui la coscienza civile e religiosa si alimentava,
andare a teatro equivaleva - specialmente in certi periodi - a pregare. Perciò il teatro
non era solo intrattenimento, ma anche una forma di conoscenza. Il palcoscenico era
la Patria, lì erano custoditi i tesori della tradizione. (…)
L’attesa che Servo di scena ha destato in Italia dimostra l’attrattiva che il teatro
inglese esercita sul pubblico italiano. Da cosa dipende, secondo te, questa attrattiva?
Cos’ha la drammaturgia inglese che manca a quella italiana?
Questo dipende dal fatto che il teatro inglese ha avuto molti grandi maestri, anche nel
XX secolo. Io sono sempre stato affascinato dal loro teatro cosiddetto “di
conversazione”, un’invenzione egregia. Siccome il teatro non sopporta discorsi troppo
impegnati, soprattutto nel nostro tempo, gli autori del Teatro inglese hanno sviluppato
la capacità di far passare le metafore dentro un linguaggio colloquiale apparentemente
frivolo, da tè con i dolcetti. La prosa inglese è piena di questi sapienti buontemponi:
leggi, che so, Ivy Compton-Burnett, oppure lo stesso Harold Pinter, e naturalmente
anche Ronald Harwood. (…)
Titolo originale: The Dresser. Nel teatro inglese di una volta, quello dominato dagli
“actor-managers” o attori-capocomici, il “dresser” era il segretario personale-factotum
del primattore: colui che aveva l’incarico di stargli sempre accanto, aiutarlo a
ripassare la parte, portargli il tè o altre bevande, tenergli in ordine il guardaroba, e
naturalmente aiutarlo con il costume. Nel teatro all’italiana un personaggio simile non
esiste, almeno come istituzione; le sue incombenze principali sono affidate, di solito, a
una sarta. La traduzione letterale di “dresser” sarebbe comunque “vestiarista”. Il
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tecnico, al servizio della compagnia e non di un suo membro in particolare. Ma
naturalmente la suggestione dell’espressione “servo di scena” era irresistibile, e
quando lo proposi per il titolo italiano della commedia, dopo aver scartato varie altri
ipotesi, fu adottato immediatamente e le rimase appiccicato in tutte le sue fortunate
edizioni nostrane successive, per tacere del film.
Sia per il personaggio del “dresser” sia per quello del monumentale vecchio grande
attore al servizio del quale costui si prodiga, Ronald Harwood attinse alla propria
esperienza dei primissimi anni 1950, quando, appena approdato dal Sudafrica e
giovane attore di belle speranze, era entrato come generico nella compagnia
dell’ultimo eroico actor-manager itinerante della tradizione inglese, Donald Wolfit.
Harwood – destinato a diventare, lui sì, Sir Ronald, mentre l’innominato dinosauro
shakespeariano della commedia non è mai stato insignito del titolo, che i componenti
della troupe gli dànno, un po’ ironicamente, lo stesso smise presto di recitare per
diventare “dresser” del dittatoriale capocomico, condividendone così splendori e
miserie da distanza ravvicinata; e non sarà esagerato presumere che portare
Shakespeare in giro per l’Inghilterra con un ampio repertorio e una piccola troupe in
cui tutti devono fare tutto sia risultato una scuola di teatro incomparabile (né solo per
lui, se un altro membro di quella compagnia, suo compagno di lavoro allora e poi suo
grande amico per tutta la vita, si chiamava Harold Pinter).
Nel Servo di scena, primo grande successo del futuro premio Oscar (per Il pianista di
Polanski), si rievoca dunque una gloriosa stagione del teatro inglese che non c’è più,
quella dei capocomici-mattatori che si consacravano al verbo del sommo poeta
nazionale e dedicavano la vita alla sua diffusione. Custodi della tradizione, fieramente
indipendenti (l’Arts Council e gli aiuti statali allo spettacolo erano ancora di là da
venire), costoro si autonominavano officianti del culto del Bardo e contavano solo sulle
proprie forze e sul proprio prestigio. Animali da palcoscenico, solo sul palcoscenico
vivevano, al punto di faticare a distinguere tra recita e vita quotidiana; ma della scena
conoscevano tutte le leggi e tutti i meccanismi. Attraverso la dedizione del “dresser”
Norman, Harwood traccia il ritratto di uno di costoro, giunto alla fine della sua
parabola in una modesta sala di provincia, nelle ristrettezze e addirittura sotto i
bombardamenti della guerra contro Hitler; e le miserie della vitarella dietro le quinte
(situazione classica nel teatro di ogni tempo ma particolarmente viva in quello inglese,
dove anticipando Pirandello (e Michael Frayn) le hanno recato indimenticabili omaggi,
tra gli altri, Shakespeare, Sheridan, Pinero) diventano senza parere addirittura la
parabola della Cultura e della Fantasia che malgrado tutto lottano con le loro armi
incruente contro la barbarie, e non rimangono sconfitte.
Masolino d’Amico
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