SETTIMANA n. 4/03

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approfondimenti
“DIO, IL MISTERO DELL’UNICO”: L’ULTIMO LIBRO DEL TEOLOGO ANGELO BERTULETTI
Il nichilismo
e il Dio di Gesù
Esce, dopo decenni di ricerca e di insegnamento, l’opera di Angelo Bertuletti, professore
a Bergamo e alla Facoltà teologica di Milano. Che Dio sia unico non risponde solo alla
questione del “quanti”, ma anzitutto alla questione del “Chi”, cioè dell’identità di Dio.
Quale rapporto tra teologia e filosofia nella ricerca della verità?
I
n occasione dell’uscita del volume Dio, il mistero dell’Unico (Queriniana,
Brescia 2014), abbiamo contattato l’autore con una impegnativa intervista. L’unicità di Dio non è questione di numeri, ma del Tu che ci libera. E
noi lo comprendiamo solo attraverso la persona di Gesù. Il concetto di Dio
è da sempre cristologico e il concetto dell’uomo è inseparabile dal Verbo.
L’esito della riflessione filosofica che teorizza la scomparsa dell’evidenza di Dio compie un lungo processo di differenziazione e di implicazione fra teologia e filosofia. L’agnosticismo teologico moderno e il nichilismo aprono possibilità nuove. L’autonomia della filosofia è un’esigenza
interna della teologia. Più la teologia si avvicina al suo centro, più la filosofia guadagna la sua indipendenza.
La questione di Dio non proviene dal pensiero ma si impone al pensiero. Come la questione della verità non è sorretta dalla sua fondazione,
ma è all’origine della domanda di fondazione. E, se Dio lo raggiungiamo
solo attraverso Gesù, teologia, cristologia e antropologia sono da sempre
unite nella comunicazione del mistero. Non c’è comunicazione di Dio
senza la compresenza di questi tre orizzonti. (ndr)
L’Origine e l’evento cristologico
settimana 13 luglio 2014 | n° 27
n Professor Bertuletti, è appena uscito il suo libro Dio, il mistero dell’Unico, edito da Queriniana. Ci può dire qualcosa sul suo contenuto a
partire proprio dal titolo?
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L’idea di unicità che ho scelto per designare il mistero di Dio presenta
il vantaggio di esprimere insieme il tema del libro e la prospettiva teorica che presiede alla sua elaborazione. L’idea di unicità deve questo privilegio al legame che nella confessione di
fede di Israele («JHWH è il nostro Dio,
JHWH è uno solo»: Dt 6,4), essa intrattiene
con il dispositivo generativo di tutta la Scrittura. Che Dio sia unico non risponde solo
alla questione del “quanti” (ciò significherebbe esporsi al rischio di un monoteismo
senza contenuto) ma innanzitutto alla questione del “Chi”: «Colui che ti ha liberato, te»
(Es 20,2; Dt 5,6). Nella tradizione biblica Dio
non è solo un termine generale ma un nome
singolare, la cui manifestazione, assolutamente indisponibile, comporta la costituzione dell’uomo come il suo destinatario, colui senza il quale Dio non può rivelarsi.
È in questa esperienza che sorge lo
schema fondamentale del concetto biblico
di rivelazione, il quale è inseparabile da
quello di alleanza: una parola che abilita
l’uomo a una risposta in cui è la parola
stessa di Dio che si fa sentire. Questa esperienza struttura il racconto biblico, il quale ha, fin dall’inizio, un’apertura universale. L’idea di creazione, che è posta all’ingresso del libro (Gn
1,1-2,4) separa l’inizio dalla fine e pone il processo che conduce dall’uno
all’altra come rilevante.
La verità dell’Origine non diviene effettiva se non tramite un’interruzione del tempo che la significa, poiché anticipa nel processo l’avvento
dell’Origine, che avrà la stessa universalità e unicità dell’atto creatore.
L’evento cristologico non succede semplicemente al processo ma lo
“compie”, poiché lo realizza come una componente della sua unicità.
Esso è “compimento dei compimenti”. Nel processo è la sua unicità che
si anticipa, perché nel suo avvento il processo concorra a determinare la
sua assolutezza. Il concetto biblico di Dio è, fin dalla sua origine, un concetto cristologico; e lo è perché esso è, in ogni sua parte, inseparabile dall’antropologia.
In ciò consiste la portata sistematica del concetto di unicità. Ora, se la
sua individuazione come principio generativo della fede biblica è già in
se stesso un fatto ermeneutico maggiore, questo non acquisisce una portata teoretica se non attraverso la rilettura della tradizione del pensiero
occidentale, che si è costituito nell’incontro della fede biblica con la filosofia greca.
In ciò consiste l’altra opzione qualificante della mia ricerca: la convinzione che la via più produttiva per elaborare la rete concettuale in cui
si iscrive l’idea di unicità consista nella decostruzione delle figure della
concettualità teologica che si sono costituite nell’incontro della fede cristologica con la metafisica, all’intersezione dei due paradigmi, biblico e
metafisico, e le loro rispettive pretese veritative. In questa prospettiva,
la storia del pensiero occidentale appare come un lungo processo di ridefinizione del concetto di verità, che trasforma il paradigma metafisico
poiché iscrive l’uomo nell’evento della verità.
Verità e fondazione
n Leggendo i suoi scritti, si nota la grande importanza che lei attribui-
sce a una teoria – interna al discorso teologico – capace di fondare la ragione teologica. Cos’è che deve essere fondato innanzitutto? E ancora:
il pensiero postmoderno non ha rinunciato
a qualsiasi fondazione ultima?
Con la questione della “fondazione” si nomina uno dei problemi fondamentali di
questo processo. È all’interno della “contaminazione” fra i due paradigmi che si deve
comprendere il legame, insieme necessario
e problematico che, nella tradizione del pensiero occidentale, si è stabilito tra la questione della verità e l’ideale della ragione
fondativa. La teologia non può ignorare la
questione metafisica della fondazione, poiché essa non può rinunciare alla questione
della verità. Ma l’interrogativo è se è la questione della fondazione che determina la
questione della verità, ovvero se è la questione della verità che determina la questione della fondazione.
In questo “rovesciamento” consiste il nucleo teorico dell’ipotesi che presiede alla “decostruzione” delle figure epocali della concettualità teologica, di cui si occupa la prima parte del libro. Esso può essere formulato sinteticamente così: non si può raggiungere il concetto
teologico di verità senza riconoscere l’appartenenza dell’uomo alla verità. Essa è la verità che conferisce all’atto del suo riconoscimento la sua
stessa assolutezza: quella di consentire a Dio di manifestarsi, di rendere
effettiva l’intenzione che è all’origine della sua destinazione all’uomo.
La libertà non si aggiunge alla verità né semplicemente deriva dalla verità ma è interna alla sua essenza, poiché l’uomo non è capace della verità se non nell’atto, insieme assolutamente necessario e irriducibilmente
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n Come dovrebbe essere pensato il rapporto tra teologia e filosofia?
Coerentemente lei collega alla questione della legittimazione della teologia quella del rapporto tra la teologia e la filosofia. Ora, anche a questo riguardo, l’approccio storico è più istruttivo di qualsiasi definizione
aprioristica. Il processo che, nel pensiero occidentale, è all’origine della
distinzione delle due discipline e della continua ridefinizione del loro
rapporto ha come tale una rilevanza teorica, poiché è la fede cristologica
che l’ha prodotto. Da essa procedono i due vettori, apparentemente contrari, che ne determinano il movimento: quello dell’autodifferenziazione
della teologia dalla filosofia e quello della necessaria implicazione della
filosofia nella teologia. La teologia si distingue dalla filosofia, poiché ciò
che la rende possibile come teologia e non come semplice determinazione della filosofia è l’evento cristologico, il quale non è subordinato a
una verità che è più originaria della sua effettività. Ma, poiché l’accesso
alla verità cristologica è interno alla sua effettività e costitutivo della sua
unicità, per la stessa ragione l’interrogazione filosofica ha una portata
teologica e la teologia non può sviluppare l’intelligenza della fede se non
realizzandola come propria, interna alla teologia in quanto altra da essa.
L’autonomia della filosofia è un’esigenza interna della teologia. A questa
logica risponde il rapporto di teologia e filosofia che ha segnato la storia
del pensiero occidentale, insieme come un destino e un compito sempre
aperto.
Le opzioni teoriche fondamentali sono già contenute nella svolta del
XIII secolo, in cui l’ingresso della teologia nella sua prima modernità
coincide con l’elaborazione degli schemi concettuali mediante i quali la
filosofia moderna si definirà nella sua autonomia dalla teologia. La stessa
struttura è disponibile a una duplice lettura: quella finalizzata a giustificare l’irriducibilità della teologia alla filosofia e quella che ne ritrascrive
il motivo teologico all’interno della fondazione autonoma della filosofia. Questa convergenza profonda è un fatto ermeneutico di importanza
capitale. La sua ambivalenza non può essere sciolta sul piano formale.
Essa rinvia alle condizioni effettive di esercizio del sapere critico: essa
rinvia alla nostra contemporaneità.
Le opportunità
della non-evidenza di Dio
stione della verità all’effettività della coscienza e in questo modo ritrova
l’unico luogo per cui si può e si deve parlare di verità in senso teologico.
È per questa via che il pensiero contemporaneo interpella e istruisce l’intelligenza della fede, piuttosto che in quella di una ripresa “allegorizzante” della Scrittura che fa della cristologia il “sostituto” di un’antropologia debole, come in alcune espressioni della filosofia contemporanea.
n Possiamo pensare la riflessione teologica come, al tempo stesso, capace di una sua autonomia e tuttavia al servizio delle pratiche pastorali?
Cosa può dire al riguardo?
La riscoperta del carattere intrinsecamente pastorale della teologia è
una delle acquisizioni fondamentali del concilio Vaticano II. Il concilio
non ha potuto dare seguito al principio di pastoralità della dottrina del
discorso di apertura di Giovanni XXIII se non riaprendo la questione
fondamentale della rivelazione.
A questo livello, il principio di pastoralità non riguarda solo le pratiche pastorali ma l’autocomprensione stessa della fede, la quale è intrinsecamente storica, poiché non c’è annuncio del Vangelo senza la presa
in conto del destinatario, nel quale il Vangelo è già all’opera poiché egli
vi possa aderire in piena libertà.
La recezione del principio di pastoralità ha impegnato tutta l’ermeneutica conciliare, fino alla controversia recente delle due ermeneutiche,
quella della discontinuità e quella della riforma nella continuità, la quale
ripropone la questione dello statuto della dottrina nella tradizione della
fede. Questo dibattito chiama in causa la riflessione teologica nel suo
profilo sistematico, il quale non consiste nell’elaborare una nuova sintesi
dottrinale ma nel pensare la tradizione vivente della fede come l’atto ermeneutico radicale che restituisce ogni volta la verità cristologica di Dio
poiché la comprende come la verità ultima dell’autocomprensione storica dell’uomo.
A questo profilo risponde la ripresa della dottrina trinitaria dell’ultimo capitolo del libro, la quale costituisce una messa alla prova del suo
principio direttivo. Questo permette di pensare fino in fondo la reciprocità fra la teologia e l’antropologia, poiché la riconduce nel mistero
stesso di Dio. La verità trinitaria di Dio può essere pensata nella sua incomparabile unicità, poiché essa costituisce la forma originaria, riguarda
cioè l’essere stesso dell’Origine, della verità che fonda il realismo della
fede. Nei tre ordini, teologico, cristologico e antropologico, non si tratta
di una gerarchia ontologica ma della triplice determinazione dell’“autocomunicazione di Dio come mistero” (DV 2 e 6).
a cura di
Maurizio Rossi
n Lei dedica molta attenzione e cura al pensiero filosofico. Come le pia-
cerebbe reagisse la comunità filosofica italiana ai contenuti del suo libro? Quale domanda le piacerebbe che le rivolgesse un filosofo?
Il teologo non può sviluppare l’intelligenza della fede senza “immaginare” il filosofo che egli adotta come interlocutore. Ma il teologo non
può predeterminare la decisione del filosofo nei confronti dell’interrogazione che gli è propria e che non dipende dalla teologia. La “messa tra
parentesi” della fede, che nella nostra contemporaneità non è più solo
metodologica, è un fatto di rilevanza teologica. Essa non comporta in
nessun modo l’astrazione dalle condizioni esistenziali e storiche, le quali
sono, per qualsiasi forma del pensiero critico, un dato a procedere dal
quale noi pensiamo senza poterle pensare per se stesse.
A queste condizioni appartiene la qualità della nostra contemporaneità designata come “nichilismo”, che Nietzsche per primo ha compreso
come scomparsa dell’evidenza di Dio. Tra le sue molteplici declinazioni
preferisco riferirmi a quella più neutrale, poiché formulata su un piano
epistemologico, ma che interpella immediatamente la teologia. Si tratta
della tesi dell’“agnosticismo teologico” della filosofia, sostenuta da Ricoeur, uno degli esponenti più lucidi e costruttivi del pensiero contemporaneo.
La teologia razionale, in cui la filosofia moderna vedeva la garanzia ultima della ragione fondativa e l’idealismo tedesco l’essenza veritativa
della fede cristiana al di là della distinzione tra filosofia e teologia, è divenuta nella contemporaneità una questione teoreticamente indecidibile.
Ora, è nell’interpretazione di questa situazione, la quale accomuna il
filosofo e il teologo, che appare il carattere epocale della svolta postmoderna, la quale apre la possibilità di uno sguardo nuovo sulle rispettive
tradizioni di pensiero. L’interpretazione filosofica ha un’irriducibile portata teologica, che la riguarda, anche se essa si mantiene al di qua della
nominazione di Dio o addirittura ne sospetta il non-senso, poiché la questione di Dio non proviene dal pensiero ma si impone al pensiero a procedere dalla necessità in cui l’uomo è posto di decidere di sé come un
tutto e perciò di decidere della verità.
Il carattere “nichilistico” del postmoderno è una soglia a partire dalla
quale è possibile un’interrogazione più originaria che restituisce la que-
KATIA RONCALLI
Parola e sandali
Un alfabeto per camminare
V
entuno riflessioni – una per ogni lettera dell’alfabeto – intrecciano vita vissuta e richiamo
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settimana 13 luglio 2014 | n° 27
singolare, che riconosce nell’istanza trascendente che lo rivendica l’origine della sua insostituibile unicità. Questo atto non appartiene alla ragione fondativa, poiché l’effettività del sé è costitutiva dell’evidenza della
verità.
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