Quinto Sertorio: Storia Di Un Ribelle

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Quinto Sertorio: Storia Di Un Ribelle
di Fabio Mazza
Tra le tante figure misconosciute dalla storia, relegate per aver combattuto dalla parte perdente, ad un perenne limbo,
quando non condannate come “mostri” e “nemici della patria”, emerge quella di Quinto
Sertorio. Nella figura di Sertorio, si condensano tutte le qualità che fecero grande Roma e la sua civiltà, scevre dalle
bassezze e dal disonore con cui il potere e la gloria avvelenarono le radici della cultura italica.
Generale romano, nato a Norcia nel 126 a.C, distintosi sotto Mario nelle guerre contro cimbri e teutoni (102 a.C.), si
schierò per il “popolare” Mario anche nella successiva e cruentissima guerra civile (90 a.C.), la prima che
vide romani combattere contro altri romani per l’egemonia dell’Urbe.
Stratega abilissimo, sconfisse i generali sillani a Tangeri, in Mauritania, successo che contribuì ad aumentare il suo
prestigio presso le popolazioni ispaniche, che egli già conosceva e rispettava, per aver svolto un precedente incarico
come proconsole in Spagna. Questa era sempre stata oppressa dalle armi romane, sia perché era una provincia molto
ricca, sia perché difficilmente i celtiberi che la abitavano accettavano la dominazione capitolina, imponendo alle legioni
un lungo periodo di guerriglia e costi umani altissimi.
In un epoca in cui la fedeltà alla res pubblica e alle istituzioni sacre di Roma, cominciava a vacillare sotto i colpi di
ambiziosi generali ed uomini d’arme, che con la loro personalità e il loro carisma, trasformarono le legioni in armate
personali, devote solo ai propri comandanti e disposte a seguirli in ogni impresa per la gloria e il bottino, anche la meno
onorevole, Sertorio è decisamente un eccezione.
Oltre che coraggioso e abile stratega, era al contempo un uomo gentile e rispettoso delle genti locali, dotato di un
eloquenza impressionante, era stato soprannominato dalla milizia locale, da lui creata, “nuovo Annibale”.
Molto rigoroso, non tollerava la mancanza di disciplina e di onore tra le truppe, a cui parallelamente i generali romani del
tempo concedevano razzie e saccheggi per ingraziarseli. Uomo rude, frugale e dedito ai culti tradizionali romani, vero
soldato in un epoca che cominciava già a mostrare i segni della corruzione morale del benessere dato dalle conquiste,
suscitò l’entusiasmo delle rudi tribù locali.
Costruì nel paese un senato di 300 membri, controllato dagli emigrati romani congiuntamente con alcuni tra i migliori
leader ispanici, e si circondò di una fedelissima guardia del corpo di celtiberi che lo veneravano. Aprì anche scuole per i
bambini delle famiglie più abbienti, per educarli con una formazione latina. Molti rifugiati e disertori romani, che
disapprovavano il regime di Silla, si unirono a Sertorio e ai suoi volontari ispanici. Inoltre si unì alle sue forze anche
l’ambizioso e opportunista Marco Perperna Vento, un luogotenente mariano.
Si decise di usare la mano pesante e dopo aver spedito contro Sertorio vari generali che vennero sbaragliati, si affidò il
compito di riportare l’ordine in Hispania citerior e nella Lusitania (odierno Portogallo), a Quinto Cecilio Metello Pio,
uno dei più valenti generali romani dell’epoca.
Sertorio per sei anni tenne in scacco le truppe di Metello Pio e di Pompeo Magno, all’epoca generale in ascesa,
che varcate le Alpi e sceso arrogantemente in Hispania citeriore, venne sconfitto a più riprese dal ribelle.
La tattica di Sertorio era di affrontare separatamente i due generali, e cosi facendo riuscì ad averne ragione in altre
occasioni, mutuando dagli ispanici che comandava la tattica della guerriglia.
Metello e Pompeo chiesero rinforzi a Roma, non riuscendo a venire a capo della questione. Per battere il valente
generale ribelle, gli inviati di Roma non trovarono altra strada che opprimere le popolazioni autoctone, cercando di
isolare Sertorio, cosa che alla lunga riuscì facendo amareggiare il generale, il cui comando si basò sempre più su
esecuzioni e rappresaglie.
Sempre più solo e circondato solo dai sui fedelissimi, nel 72 a.C. fu assassinato in un banchetto, ad opera di Perperna
Vento, che lo tradì, dopo che Metello e Pompeo ebbero messo una taglia sulla sua testa, e messo zizzania tra i suoi.
Vento, uomo meschino e opportunista cercò di sostituirlo, ma benché potesse contare sulle stesse truppe, non disponeva
della stessa intelligenza e delle stesse qualità umane di Sertorio. Perperna venne sconfitto in battaglia da Pompeo. Venne
trovato dietro un cespuglio che si nascondeva vergognosamente, e portato al cospetto del vincitore e volendo ottenerne
la grazia, diede ulteriormente prova della sua viltà e del suo disonore, esibendo una lunga serie di documenti
compromettenti attestanti i rapporti di Sertorio con l’establishment dell’epoca a Roma. E questo lo perse:
Pompeo, non potendo tollerare che si mettessero in pericolo gli interessi di eminenti senatori, lo fece trucidare.
Definito dalla storiografia postuma “uomo di grandissimo ma pernicioso valore”, Sertorio fu veramente uno
dei grandi condottieri della storia di Roma, che solo la carriera da generale fuorilegge condannò all’oblio della
storia ufficiale. Valoroso, intelligente, coerente, fiero e straordinario come comandante, fa impallidire i condottieri suoi
contemporanei, che dovettero i loro successi spesso più all’opportunismo che all’abilità.
Nella sua figura si incarnano, in un Roma ormai in decadenza (morale, ma non economico-militare), i valori fondanti della
Roma delle origini, quelli per cui Catilina qualche anno dopo sacrificherà la sua vita sul campo di Pistoia. La storiografia
successiva, fedele ai vincitori e alla “nomenclatura” del tempo, lo definì come un uomo assetato di potere,
un bandito e un cospiratore, nonché un traditore.
Ma questa è proprio l’accusa più ingenerosa che gli si può muovere. Perché Quinto Sertorio fu un uomo
d’onore e un uomo fedele. Fedele a sé stesso, al suo giuramento di servire una res pubblica di cui non
riconosceva più i tratti, e che non voleva lasciare i mano ad una cricca di arrivisti. Fedele, sempre e comunque, anche
quando non ne aveva la convenienza a quello in cui credeva. Un uomo vero, insomma. Un uomo che alla sudditanza
morale dell’epoca disse, semplicemente, no.
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