rassegna stampa - Fidas Basilicata

RASSEGNA STAMPA
Sommario:
23 ottobre 2014
Rassegna Associativa
Rassegna Sangue e Emoderivati
2
Rassegna Medico-scientifica, politica sanitaria e terzo settore
6
Prime Pagine
10
Rassegna sangue e emoderivati
CORRIERE.IT
La rara malattia del sangue che prende di mira giovani donne
Si chiama porpora trombotica trombocitopenica: un premio alla ricercatrice Flora Peyvandi che a Milano la studia e la cura
di Adriana Bazzi
È un fulmine a ciel sereno: colpisce soprattutto giovani donne che, generalmente, stanno bene. Sembra un’influenza, ma può degenerare fino al coma e portare alla morte nel 90 per cento dei casi, se
non viene riconosciuta e trattata. Stiamo parlando della porpora trombotica trombocitopenica, in sigla
Ptt, una malattia rara del sangue, legata alla mancanza di un enzima chiamato metalloproteasi.
Riduzione di piastrine Questa carenza, dovuta al fatto che l’organismo produce anticorpi contro
l’enzima, porta alla formazione di trombi nei piccoli vasi sanguigni di tutto l’organismo (ecco perché
si chiama trombotica), con i danni che ne derivano, soprattutto per il sistema nervoso centrale, comporta una riduzione delle piastrine dovuta al loro consumo (ecco perché si chiama trombocitopenica:
le piastrine servono per la coagulazione del sangue) e una grave anemia. E nel 30 per cento dei casi si
ripresenta.
Il Premio Grande Ippocrate A Milano c’è un centro che dal 1999 cura e studia questa malattia rara
del sangue: è il Centro Bianchi Bonomi dell’Università e a capo del gruppo di medici e ricercatori c’è
la dottoressa Flora Peyvandi. Iraniana d’origine, italiana di adozione, ma con molte esperienze di lavoro in altri Paesi, soprattutto in Gran Bretagna, ha appena ricevuto il Premio Grande Ippocrate promosso da Unamsi (Unione nazionale medico-scientifica di informazione) e Novartis. Il premio, giunto alla sua sesta edizione, vuole essere un riconoscimento per quei ricercatori che non solo eccellono
nelle loro specialità, ma sono anche capaci di divulgare i risultati delle loro ricerche al grande pubblico. «Dal 2005 grazie alle collaborazioni e alla costituzione di network a livello regionale e nazionale
- dice Flora Peyvandi -, gestiamo un database che a oggi include 520 pazienti, soprattutto italiani, che
soffrono di questa rara malattia».
Farmaco orfano La terapia d’elezione è la plasmaferesi, cioè la filtrazione del sangue per la rimozione degli anticorpi anti-metalloproteasi. Che ha ridotto la mortalità al 10-20 per cento. Ma negli ultimi
tempi ha preso il via una sperimentazione clinica (lo studio si chiama “Titan”) che vuole valutare
l’effetto di un nano-anticorpo, chiamato caplacizumab: i primi risultati dimostrano che il farmaco
(definito “orfano” proprio perché studiato per una malattia rara)è in grado di aumentare il numero
delle piastrine.
Coagulazione del sangue La porpora trombotica trombocitopenica appartiene a quel 7 per cento di
malattie rare che hanno a che fare con la coagulazione del sangue (un altro esempio è l’emofilia, per
la cura della quale al Centro Bianchi Bonomi è partito nel 2010 uno studio sull’impiego della terapia
genica nella forma B, dove c’è carenza del fattore IX della coagulazione). «Una malattia viene comunemente definita rara - precisa Flora Peyvandi - quando la sua prevalenza è di un cittadino su 1.5002.000. C’è una differenza fra la definizione adottata in Europa e quella degli Stati Uniti. Nel primo
caso la malattia deve interessare 5 persone su 10mila abitanti, nel secondo meno di 200mila persone
sull’intera popolazione americana, che è di 310 milioni».
Dai 27 ai 36 milioni di individui L’Organizzazione Mondiale della Sanità considera che vi siano fra
le 6mila e le 8mila malattie rare: l’80 per cento sono su base genetica, il 75 per cento colpiscono i
bambini e il 30 per cento dei malati muoiono entro i 5 anni di vita. «Si chiamano malattie rare - commenta Flora Peyvandi -, ma nel loro insieme non lo sono affatto. Globalmente ne risultano affetti dai
27 ai 36 milioni di individui in Europa, il che rappresenta il 10 per cento della popolazione».
22 ottobre 2014 | 17:13
Rassegna medico-scientifica e
politica sanitaria
AVVENIRE.IT
Ebola, la speranza scorre nel sangue dei guariti
«Trasfusioni efficaci»: salvo il cameraman Usa
PAOLO M. ALFIERI In attesa di un vaccino che potrebbe non arrivare prima di gennaio, l’arma migliore contro ebola sembra essere il plasma del sangue dei pazienti guariti. Un’ulteriore conferma è
arrivata ieri dagli Usa, dove il cameraman americano della Nbc che si era ammalato in Liberia ha
superato con successo la malattia ed è uscito dal reparto in isolamento del Nebraska Medical Center. A- shoka Mukpo aveva ricevuto il plasma del medico missionario sopravvissuto Kent Brantly,
che aveva donato il sangue per tre contagiati: oltre a Mupko i destinatari sono stati il collega missionario Rick Sacra e una delle due infermiere di Dallas, Nina Pham.
Sacra è guarito ed è stato dimesso circa un mese fa. Speranze ci sono anche per Nina Pham. «Le
sue condizioni cliniche sono passate da discrete a buone», hanno spiegato ieri le autorità sanitarie
americane. L’Emory Hospital di Atlanta, dove è ricoverata la seconda infermiera contagiata a Dallas,
Amber Vinson, non ha invece fornito aggiornamenti sulle sue condizioni, ma la madre ha detto che è
ancora debole. La Vinson non ha potuto ricevere una trasfusione né da Brantly né dall’altra sopravvissuta americana, Nancy Writebol: i loro gruppi sanguigni erano incompatibili. Non si sa se, come
accaduto per Brantly e Writebol, per l’infermiera sia stato utilizzato il siero Z-mapp, il farmaco sperimentale che si è rivelato efficace in diversi casi. Brantly non aveva potuto donare il plasma nemmeno per il «paziente zero », Thomas Eric Duncan, morto a Dallas, sempre per incompatibilità dei
gruppi sanguigni. Certo è, invece, che lo stesso Brantly, prima di essere riportato negli Usa, aveva
ricevuto in Liberia una trasfusione da un 14enne sopravvissuto.
Anche l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) sembra convinta, in assenza di molte altre alternative, che il plasma dei sopravvissuti sia al momento una strada che vale la pena percorrere.
Anche se, ovviamente, non sempre i risultati sono garantiti. La dottoressa Marie Paule Kieny,
dell’Oms, ha spiegato che sono state attivate delle partnership in Liberia, Guinea e Sierra Leone per
riuscire «ad estrarre in sicurezza il plasma e a prepararlo in modo tale che possa essere usato per il
trattamento dei contagiati ». Non è ancora chiaro quanto siero potrà essere reso disponibile, ma, ha
aggiunto la Kieny, in Liberia si sta procedendo speditamente, approntando apposite strutture. Per
William Schaffner, direttore di medicina preventiva alla Vanderbilt University di Nashville, «c’è una
forte possibilità teorica che questo metodo abbia successo, in particolare se la trasfusione avviene
nelle prime fasi della nuova diagnosi ». Il sistema immunitario attaccato da un virus crea anticorpi
specifici che attaccano lo stesso virus: se riescono a ucciderlo ne prevengono anche il ritorno e restano nell’organismo a vita. “Importare” questi anticorpi da un sopravvissuto a un nuovo malato, il
cui organismo è indebolito dal virus, aiuta quindi il sistema immunitario del paziente a reagire. Anche l’infermiera spagnola Teresa Romero, la prima persona contagiata da ebola fuori dall’Africa e
data per guarita tre giorni fa, aveva ricevuto una trasfusione di sangue da una sopravvissuta: si tratta della religiosa Paciencia Melgar, che aveva superato la malattia contratta in un ospedale della Liberia. Ora la stessa Romero potrebbe donare il sangue per altri pazienti: «Le verrà presentata questa possibilità, ma dovrà decidere lei», hanno fatto sapere le autorità sanitarie. Finora l’epidemia ha
causato 4.555 morti su 9.216 casi in sette Paesi.
«Ho l’impressione che finché ha colpito solo l’Africa non abbiamo fatto niente e siamo intervenuti
solo quando c’è stato il rischio di una diffusione del virus in Europa», ha ammesso ieri il presidente
della prossima Commissione europea, Jean-Claude Juncker. Seppur in ritardo, qualcosa nella coscienza internazionale comincia a smuoversi.
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