RIVISTA DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA DEGLI AVVOCATI PER LA FAMIGLIA E PER I MINORI
2006/2
DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI
SOGGETTI PIÙ DEBOLI
L’AMMINISTRAZIONE
DI SOSTEGNO
RAPPORTI FAMILIARI E
RESPONSABILITÀ
CIVILE
W W W. A I A F - A V V O C AT I . I T
Anno XI - no 2, maggio-agosto 2006
Qadrimestrale; registr. Tribunale Roma n.496 del 9.10.95.
Stampa: Tip. Quatrini A. & figli snc, v. S.Lucia 43-47, 01100 Viterbo
SOMMARIO
Editoriale_
2 La crescente attenzione ai diritti degli anziani e dei soggetti più deboli
AVV. MILENA PINI
Diritti degli anziani e tutela dei soggetti più deboli_
3 I diritti degli anziani: non discriminazione e rispetto delle diversità nell'ordinamento europeo
AVV. CATERINA MIRTO
9
Bioetica e diritti degli anziani.
DOCUMENTO
DEL
COMITATO NAZIONALE
PER LA
BIOETICA
DEL
20
GENNAIO
2006
34 Legge 1 marzo 2006, n.67
Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni
L’amministrazione di sostegno_
L' amministrazione di sostegno. Questioni sostanziali e processuali nell'analisi della
giurisprudenza:
36 I. Il regime di invalidità e di pubblicità degli atti nell'amministrazione di sostegno. Il punto della
giurisprudenza a due anni dall'entrata in vigore della legge.
50 II. Norme applicabili all'amministrazione di sostegno e disciplina processuale.
PROF. AVV. GIUSEPPE CASSANO
71 Giurisprudenza civile e penale in tema di amministrazione di sostegno, interdizione e
circonvenzione di incapace
83 Documento Sullo stato dell'assistenza psichiatrica in Italia e sull'attuazione dei progetti obiettivo per
la tutela della salute mentale,
APPROVATO DALLA
COMMISSIONE IGIENE
E
SANITÀ
DEL
SENATO
NELLA SEDUTA DEL
14
FEBBRAIO
2006 (XIV LEGISLATURA)
Rapporti familiari e responsabilità civile _
87 Rapporti tra genitori e figli, illecito civile e responsabilità. La rivoluzione giurisprudenziale degli
ultimi anni alla luce del danno esistenziale
PROF. AVV. GIUSEPPE CASSANO
104 Il rilievo civilistico del danno psichico
AVV. ALESSANDRO SARTORI
ANNO XI - N° 2,
MAGGIO-AGOSTO 2006,
NUOVA SERIE QUADRIMESTRALE
Redazione
GALLERIA BUENOS AIRES 1,
20124 MILANO
TEL. E FAX 02.29535945
EMAIL: [email protected]
WEB: WWW.AIAF-AVVOCATI.IT
Direttore responsabile
MILENA PINI
Stampa
TIPOGRAFIA
QUATRINI A. & FIGLI SNC
V. S.LUCIA 43-47,
01100 VITERBO
1
EDITORIALE
C
resce l’attenzione e la sensibilità, in sede
legislativa e giudiziaria, in ambito comunitario come nazionale, verso la tutela dei diritti
dei soggetti più deboli, quali le persone incapaci,
prive di autonomia e quindi anche gli anziani.
In Italia negli ultimi cinquant’anni gli ultra-sessantacinquenni sono aumentati di circa il 150%, fino a
raggiungere nel 2003 quasi il 20% della popolazione complessiva, e tale fenomeno ha portato, come
è noto, nuove problematiche sul piano sociale, economico, assistenziale, medico, giudiziario.
I principi della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (2000), che all’art. 25, “Diritti
degli anziani”, riconosce il diritto di questi ultimi
di “condurre una vita dignitosa ed indipendente e
LA CRESCENTE
ATTENZIONE AI DIRITTI
DEGLI ANZIANI E DEI
SOGGETTI PIÙ DEBOLI
di tutela, non può essere di per sé considerato un
soggetto da differenziare e discriminare rispetto
agli altri cittadini maggiorenni. Anzi, come rileva
la Collega Caterina Mirto nel suo articolo pubblicato su questo numero della Rivista, la società
del futuro sarà una società di persone anziane,
considerato il prolungamento della vita e la
costante diminuzione della natalità.
Il recente documento “Bioetica e diritti degli
anziani” del Comitato Nazionale per la Bioetica,
che qui pubblichiamo, dà un quadro complessivo
delle diverse problematiche inerenti la terza età e
spunti di riflessione utili nello svolgimento sia
della nostra professione legale nell’ambito dei
procedimenti di nomina dell’amministratore di
sostegno e di dichiarazione di interdizione, sia
degli incarichi di amministratore di sostegno o di
tutore spesso conferitici dai giudici.
Come ben sappiamo la legge sull’amministrazione
di sostegno ha suscitato posizioni contrastanti tra
gli operatori del diritto e differenti orientamenti
giurisprudenziali in sede di applicazione, che non
sembra aver risolto neppure la recente sentenza
della Cassazione (che di fatto rimette all’esclusiva
valutazione discrezionale del giudice l’applicazione dell’ads piuttosto che dell’interdizione).
I due saggi di Giuseppe Cassano sulle questioni
sostanziali e processuali dell’amministrazione di
sostegno, qui pubblicati, consentono un
approfondito e puntuale esame degli orientamenti della giurisprudenza dal 2004 ad oggi.
* Direttore della Rivista
MILENA PINI *
2
di partecipare alla vita sociale e culturale” sono
da tempo oggetto di attenzione da parte del
nostro legislatore così come degli enti locali, che
- pur con i noti limiti dettati da problemi di ordine economico - hanno attuato negli ultimi anni
interventi legislativi e di sostegno di tipo socialeeconomico-assistenziale.
Un’espressione di questo indirizzo è la legge del
9 gennaio 2004, n. 6, che ha introdotto l’istituto
dell’”amministrazione di sostegno” e che rappresenta una forte rottura rispetto ai precedenti e
consolidati schemi culturali rigidi per ciò che
concerne la tutela dei soggetti deboli. È indubbio
che il maggior pregio di questa legge consiste
nell’aver introdotto uno strumento di sostegno e
di protezione a favore delle persone con una limitata autonomia fisica o psichica, che non necessariamente coincide con una limitata capacità di
intendere e volere.
La “vecchiaia” in quanto tale non significa malattia e comunque deficienza psichica, e sebbene
l’anziano bisognoso, malato o invalido possa
rientrare in una categoria a rischio che necessita
SITO AIAF:
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ulteriori miglioramenti ed implementazioni e
quindi ogni suggerimento o indicazione saranno
bene accolti.; il riferimento è:
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DIRITTI DEGLI ANZIANI E
TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI
A
nziano vuol dire letteralmente “nato prima”,
una etimologia della parola che non contiene in sè nulla di negativo; eppure, nel sentire comune, diventare anziano significa, il più
delle volte, andare incontro ad una fase della vita
caratterizzata dall’insorgere di eventi negativi.
Il momento in cui il processo di invecchiamento,
che comincia dalla nascita, trasforma un individuo adulto in un anziano non è stabilito soltanto
da convenzioni sociali, ma è legato sovente
all’insorgere di una malattia, alla perdita dell’autosufficienza, alla solitudine ed alla discriminazione da parte di una società ove proliferano i
processi di forte individualizzazione improntati
al culto dell’io e alla realizzazione del sè piuttosto che alla doverosità nei confronti della classe
più fragile.
Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da un crescente aumento della speranza media di vita (la
vita media ha raggiunto i 77 anni per gli uomini e
gli 83 per le donne) e tale evoluzione è sicuramente attribuibile ad una maggiore attenzione per
le leggi che tutelano gli equilibri dello ecosistema,
ad un più lungimirante sfruttamento delle risorse
offerte dal pianeta, al miglioramento delle risorse
alimentari, all’attenzione rivolta al tessuto sociale
ed ai progressi nel campo medico scientifico.
L’invecchiamento si manifesta in maniera diversa in relazione all’ambiente ove l’individuo si è
realizzato ed alle opportunità di sviluppo culturale che lo stesso negli anni ha saputo raccogliere.
All’invecchiamento non sempre quindi corrisponde la necessità di cura ed assistenza anche se
è innegabile che il declino verso l’indebolimento
fisico porta comunque verso una diversa categoria di esigenze.
Recenti indagini hanno infatti evidenziato come,
in Italia, oltre il 75% di coloro che si trovano in
un’età compresa tra i 65 e gli 80 anni dichiarano
di non sentirsi anziani, sfuggendo allo stereotipo
che la società attribuisce agli individui in questa
fascia di età1.
Ma, a fronte di tali dichiarazioni, esiste invece
una realtà alla quale non possiamo sfuggire, che
riguarda l’invecchiamento globale dell’Europa.
Se esaminiamo attentamente i risultati offerti dalle più recenti statistiche, vedremo che il futuro
dell’Europa è nelle mani di una popolazione
anziana e di conseguenza, qualsiasi forma attuale di discriminazione nei confronti dell’anziano e
del processo di invecchiamento porterà domani
ad un ingente danno di tipo economico e morale
1
Relazione al Convegno “I diritti degli anziani”, tenutosi a Palermo il 6-8
aprile 2006, organizzato dalla Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali Gioacchino Scaduto, dal Dipartimento di Diritto Privato Generale e dal Consiglio Superiore della Magistratura - Formazione decentrata
Distretto di Palermo.
per l’intero Paese2.
L’incremento della vita media determinerà la
necessità di diversa programmazione e progettazione delle risorse dell’intera Europa. L’intero
assetto politico, i servizi socio-sanitari, il mondo
culturale e ambientale dovrà tenere conto del
mutamento sociale in atto per dare “vita agli anni”
come dicono le moderne teorie sulla gerontologia.
Le statistiche ci indicano, infatti, che nei prossi-
I DIRITTI DEGLI
ANZIANI: NON
DISCRIMINAZIONE
E RISPETTO DELLE
DIVERSITÀ
NELL’ORDINAMENTO
EUROPEO
mi 25 anni le persone di età superiore ai 65 anni
costituiranno un quarto della popolazione dell’Unione Europea.
Gli anziani, già nel 2000, costituivano oltre il
15% della popolazione3 e se nell’Europa il processo di invecchiamento è stato complessivamente abbastanza stabile, secondo tabelle recentemente redatte, un dato allarmante proviene proprio dal nostro Paese ed evidenzia come nel
periodo compreso tra il 2005 ed il 2040 si avrà un
CATERINA
MIRTO*
Censis: indagine proposta in cinque regioni (Liguria, Emilia Romagna, Lazio, Basilicata, Calabria)
2
FRANK SCHIRRMACHER, Il complotto di Matusalemme - Come prepararsi a vivere in un mondo di ultrasettantenni, Ed. Mondadori
3
FRANCO PESARESI e CRISTIANO GORI: L’assistenza agli anziani non autosufficienti in Europa - “Anziani e sistemi del Welfore”, Ed. FrancoAngeli
3
DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI
aumento di oltre 200.000 anziani per ogni anno4.
Se poi tali dati si associano a quelli riguardanti la
contrazione delle nascite, risulta evidente come
l’Europa stia vivendo in questo momento un
attacco su due fronti in quanto si vive più a lungo e si mettono al mondo meno figli.
Chi diverrà anziano dopo il 2020 si troverà così
una rete familiare impoverita sia in senso verticale, a causa del sempre crescente minor numero
di figli, sia in senso orizzontale, con riferimento
a sorelle, fratelli o cugini, oppure, ancora, a causa della longevità, si stabiliranno paradossali
relazioni basate sulla crescente contemporaneità
di vita di più generazioni. Di conseguenza, le
relazioni umane subiranno e stanno già subendo
drastici cambiamenti.
Le famiglie allargate in senso verticale comprenderanno allora un numero sempre crescente di persone anziane, che avranno bisogno di ricevere
cure particolari, ma la loro richiesta sarà rivolta a
chi, a sua volta, a causa dell’età potrà non essere
più nelle migliori condizioni per prestare assistenza ad un genitore anziano e così ci troveremo di
fronte ad un unico individuo costretto ad assumere solo su di sé il carico di più generazioni.
L’aumento della incidenza della popolazione
anziana deve destare, allora, non poche preoccupazioni. L’invecchiamento della popolazione è
un fenomeno che ha assunto una portata mondiale: in nessuna altra epoca della storia si è avuto
un fenomeno di riferimento pari a quello che ci
prepariamo a vivere nei prossimi anni.
Le stime dicono che nel 2030, all’interno dell’Unione Europea, l’Italia e la Svezia diventeranno i
paesi più vecchi (con il 14,1% e 13,4% della
popolazione anziana) seguiti da Grecia, Francia,
Austria e Germania5.
Abbiamo quindi il dovere di chiederci se la
società del terzo millennio è pronta ad affrontare
i problemi della terza età, creando un supporto
normativo e socio-assistenziale in maniera organica e programmata, riconoscendo i giusti diritti
dell’anziano, e rimuovendo radicate ed ingiustificate discriminazioni o se continuerà piuttosto
ad intervenire in favore degli anziani in maniera
non sistematica ed improntata per lo più ad interventi di supporto improvvisati o di emergenza.
Cicerone, nel saggio sulla vecchiaia6 spiegando
la sua filosofia di vita sosteneva che “la vecchiaia può essere una fase felice della vita per
4
AIAF RIVISTA 2/2006
quegli uomini che hanno saputo operare con
saggezza e con giustizia”; viene esaltata, dunque,
“quella vecchiaia che si regge sulle fondamenta
della giovinezza, mentre infelice è quella vecchiaia che a sua difesa non ha che parole”.
Prendendo spunto dalla dotta riflessione, mai come
adesso abbiamo la necessità di trarne insegnamento.
Il riconoscimento dei giusti diritti e la non discriminazione nei confronti della terza età potrà trovare l’equo ristoro solo se l’uomo, oggi, riuscirà
a costruire con saggezza e giustizia la società del
domani, attraverso fatti concreti e non semplici
parole. Il cammino è impervio!
Purtroppo, ormai da anni, si assiste ad una trasformazione dei valori che ha minato la prima
cellula della nostra società costituita dalla famiglia, sostegno principale e culturale della persona
anziana. La crescente riduzione delle risorse
familiari, il calo della fecondità, l’espansione di
nuovi modelli di aggregazione personale, lo scioglimento delle coppie, il divorzio, hanno determinato il crescente venir meno del supporto
familiare e della solidarietà parentale che, soprattutto in Italia, forniva all’anziano una garanzia di
accompagnamento, nella fase fragile della vita.
La centralità della famiglia, che da sempre ha
costituito la rete all’interno della quale l’anziano
restava per anni amorevolmente imbrigliato e
protetto, ha indotto le politiche sociali italiane ed
essere meno attive e pronte di fronte alle necessità e alle domande di sostegno dei soggetti deboli, restando, di conseguenza, indietro rispetto ad
altri paesi dell’Unione Europea, in cui, non
potendo contare su radicati valori di supporto
familiare, si è sviluppato un tipo di solidarietà
diversa, che predilige lo sviluppo socio-assistenziale pubblico.
I sistemi e l’organizzazione assistenziale in favore dell’anziano presentano significative differenze nei vari paesi che compongono l’Unione
Europea, differenze legate alla consapevolezza di
dovere rendere attuali il principio di uguaglianza
e la non discriminabilità dell’individuo in funzione dell’età.
Ma, poiché i pregiudizi legati all’età non rivestono ancora per i politici un fenomeno di massa, altri
sono stati sino ad oggi i problemi da mettere sul
tappeto delle concertazioni, non essendo il problema dell’anziano un argomento di richiamo7.
Nonostante ciò, in molte parti di Europa si è fat-
CARLA FACCHINI: Invecchiamento della popolazione e trasformazione dei modelli familiari in Lombardia - Anziani e sistemi di Welfare Franco Angeli
5
FRANCO PESARESI e CRISTIANO GORI, op. cit
6
PUBLIO CORNELIO CICERONE, “De Senectute”
7
MICHELE BODMER: “Sfatare i miti sui lavoratori anziani” 8.11.05 - Redazione Emagazine - Intervista a François Hopflinger - Professore
Ordinario di Sociologia - Università di Zurigo
4
MAGGIO - AGOSTO 2006
DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI
to un buon lavoro che ha riguardato soprattutto la
promozione della non istituzionalizzazione degli
anziani, riconoscendo quale fondamentale diritto
la possibilità, anzi la doverosità, di mantenere
l’anziano all’interno di ambienti allo stesso familiari. Non dimentichiamo che tale necessità era
stata evidenziata già nel lontano 1982 allorquando l’Assemblea Mondiale sulla condizioni dell’anziano, svoltasi in quell’anno a Vienna, accogliendo la raccomandazione n. 13 del Piano di
Azione mondiale approvato (nello stesso anno)
dall’ONU, diffondeva il principio di ampliare
l’assistenza a domicilio dell’anziano, perchè
come testualmente indicato: “lo stesso possa abitare nella comunità di origine e vivere autonomamente il più possibile”.
In tale ottica i paesi scandinavi sono stati i primi
a sentire la necessità di dare risposte adeguate
alla cura degli anziani, organizzando ed integrando i servizi sociali e sanitari in maniera tale da
rispondere unitariamente ai bisogni della terza
età e studiando soluzioni volte a migliorare la
qualità di vita dell’anziano. Dette soluzioni hanno peraltro, nel corso degli anni, portato anche ad
una riduzione della spesa sanitaria.
In mancanza del supporto familiare e dei valori
della doverosità assistenziale, in Olanda e Danimarca si è dato spazio ai c.d. “volontari” che, a
fronte dell’assistenza riservata agli anziani, ricevono pagamenti sotto forma di rimborsi. In Norvegia e Finlandia è privilegiata la figura della
famiglia affidataria che, per la cura prestata ad un
anziano, riceve una specifica indennità.
Negli anni novanta l’Olanda ha indirizzato gli
studi di domotica verso la possibilità di consentire all’individuo anziano di mantenere la propria
dimensione abitativa anche in presenza di una
progressiva perdita di autosufficienza.
Ciò ha comportato un impegno nel realizzare
ambienti residenziali ed urbani adatti agli anziani attraverso la costruzione o l’adattamento di
abitazioni secondo criteri che dovevano tener
conto del sistema dei servizi di supporto. In tal
modo l’anziano, che col passare degli anni perde
la sua autonomia, vede l’ambiente che lo circonda adattarsi man mano alle proprie crescenti esigenze, senza per questo dovere abbandonare i
luoghi familiari ed evocativi del proprio passato.
Gli stati di ispirazione bismarkiana dopo avere
constatato che i tradizionali sistemi di assistenza
sociale non riuscivano più a garantire un adeguato supporto all’individuo anziano non autosufficiente, hanno invece fatto ricorso al mercato assicurativo, studiando forme di particolare copertura garantita a partire da una determinata soglia di
bisogno.
Influenzata dai paesi scandinavi, colpita da una
gravissima contrazione delle nascite, che crea
sempre più lo sfaldamento delle rete familiare di
assistenza, la Germania ha, negli ultimi anni,
investito anche sul mercato edilizio per garantire
agli anziani di potere condurre una vita autosufficiente evitando l’istituzionalizzazione; “abitare
assistito” è il nome del progetto tedesco che fornisce un appartamento senza barriere architettoniche, servizi domiciliari ed aiuto nei lavori di
casa.
Seppur con passo più lento anche la Francia, il
Regno Unito, il Belgio e l’Austria vanno verso la
creazione di strutture alternative alla istituzionalizzazione, mentre i paesi del sud Europa, tra cui
l’Italia, stentano ancora ad affrontare il problema
in maniera soddisfacente.
Un primo intervento a livello nazionale è stato
inserito nella legge finanziaria 11.03.88 n.67 prevedendo la realizzazione di 140.000 posti in
strutture residenziali per anziani che non possono essere assistiti a domicilio. Le normative successive sono state tutte rivolte alle Regioni ed
agli Enti Locali indirizzando le stesse a programmare in maniera organica ed omogenea una rete
di risorse di ampliamento della cura dell’anziano
tra domiciliarità e residenzialità.
Nel primo quinquennio degli anni novanta sono
stati programmati, in maniera decentrata, gli
interventi per gli anziani ultrasessantacinquenni,
e con il coordinamento degli interventi assistenziali e sanitari si è creata la rete delle ADI (Assistenza domiciliare integrata) e delle RSA (Residenze sanitarie assistenziali).
Sulla spinta delle innovazioni introdotte, il Ministero della Sanità, sempre negli anni novanta, ha
elaborato una serie di progetti obiettivi con l’indicazione di linee guida da seguire.
È rimasto, purtroppo, nelle stanze del Ministero
il POA (Progetto obiettivo anziani) elaborato nel
1999 che proponeva per la tutela dell’anziano
nove principi fondamentali:
1) La partecipazione degli anziani alla vita sociale.
2) L’equità di accesso ai servizi
3) L’appropriatezza e flessibilità della rete dei
servizi sociosanitari.
4) La promozione di stili di vita positivi.
5) La prevenzione delle principali patologie.
6) Il sostegno per convivere attivamente con la
cronicità.
7) La promozione dell’integrazione tra servizi
sanitari e sociali.
8) La promozione della ricerca sull’invecchiamento e sulle malattie croniche invalidanti
9) La formazione mirata alla multidisciplinarietà,
alla qualità delle prestazioni e alla umanizzazione dei servizi.
La fine del millennio ha visto poi l’inserimento
5
DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI
di interventi a favore degli anziani nella redazione dei piani sanitari nazionali e fra tutti vale la
pena ricordare il Piano Nazionale degli interventi e Servizi Sociali 2001/2003 dove si torna ancora alla responsabilizzazione e valorizzazione ella
famiglia quale principale ambito di sviluppo e di
cura della persona anziana, scegliendo di conseguenza la strada del supporto finanziario ai
nuclei familiari di sostegno.
In questa ottica si è mossa la Regione Sicilia
emanando la Legge n.10 del 21.07.03 che all’art.
10 ha introdotto il buono socio-sanitario per la
assistenza e la cura dei soggetti con più di 69
anni e non autosufficienti o per persone con disabilità grave8.
Il diritto a restare nel proprio ambiente non è di
certo l’unica battaglia che un anziano deve
affrontare in un momento della vita in cui spesso,
uscito dallo scenario lavorativo, si sente improvvisamente debole, vulnerabile e costretto a far
fronte all’evidente discriminazione sociale nei
confronti dell’invecchiamento e della vecchiaia.
Se nel campo della medicina e della ricerca le
problematiche relative alla terza età sono state
studiate con una particolare attenzione, altrettanto non possiamo affermare per quel che riguarda
le risposte fornite a questo tema dalle istituzioni
politiche. Dalla breve disamina degli interventi
istituzionali risulta evidente il ritardo con cui il
nostro paese affronta il problema e per mascherare le gravi responsabilità istituzionali in ordine
alla tutela dei diritti degli anziani, ormai da alcuni anni, veniamo mediaticamente bombardati da
una rappresentazione dell’anziano autosufficien-
AIAF RIVISTA 2/2006
te, iperattivo, appagato da una vita lavorativa
soddisfacente e pronto, quindi, a godere degli
anni della pensione dividendosi tra viaggi, tennis, golf e giovani donne ammaliate dal fascino
del danaroso uomo maturo.
Questa è finzione!
Se esiste certamente una fascia di individui che
per cultura, estrazione sociale ed opportunità economiche possono permettersi di vivere ogni
momento della loro vita senza sentire nocumento
dall’evoluzione dell’età anagrafica,, se è vero che
tanti uomini e donne di una certa età sono sani e
ipersportivi, questo non ci permette di dimenticare che, la maggior parte degli anziani, conduce
una vita grigia e sedentaria a causa di malattie,
acciacchi, precarietà economica e che essi vivono
scontrandosi, giornalmente, con i pregiudizi che
la società continua a riservare loro.
La Costituzione Italiana9, l’articolo 13 del trattato di Amsterdam10, la Carta dei Diritti fondamentali approvata a Nizza11, hanno indicato la strada
per la non discriminazione, ma il nostro Paese è
ancora molto lontano da una seria politica che
attui detto principio. La discriminazione può
manifestarsi in vari modi e tutti siamo ormai consapevoli che esiste una forma di discriminazione
indiretta che si realizza quando spesso la neutralità di regole e leggi vigenti favorisce di fatto forme di esclusione.
Nel mondo lavorativo, ad esempio, il problema
della disoccupazione è ritenuto un problema dei
giovani12; l’uomo anziano non è favorito nella
ricerca di un lavoro e non gli viene facilmente
riconosciuta una ulteriore opportunità di guada-
8
ASSESSORATO REGIONE SICILIA DELLA FAMIGLIA, POLITICHE SOCIALI E DELLE AUTONOMIE SOCIALI: “Si tratta di uno dei provvedimenti più importanti e innovativi della legge sulla Famiglia - dice l’Assessore Stancanelli - perchè consente alle famiglie di prendersi cura dei loro parenti
che necessitano di assistenza, senza dover ricorrere al ricovero ospedaliero. Questo, innanzitutto, renderà più umana e calorosa l’assistenza agli anziani non autosufficienti o con grave disabilità, ma consente, anche, di alleggerire la spesa per le cure sanitarie. È una iniziativa frutto della sinergia tra i due Assessorati regionali titolari degli interventi sanitari e sociali, cioè l’Assessorato della Sanità e quello della Famiglia, che avrà la titolarità degli interventi, d’intesa con i funzionari della Presidenza”.
9
ART. 3 COST. “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua,
di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e
l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”
10 TRATTATO DI AMSTERDAM FIRMATO IL 2.10.97 - ART. 13 “....il Consiglio,....., può prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”
11 Nel corso della CONFERENZA INTERGOVERNATIVA TENUTASI A NIZZA NEL DICEMBRE 2000, gli Stati membri hanno deciso di aggiungere un secondo paragrafo all’art. 13 del trattato CE. A partire dall’entrata in vigore del trattato il Consiglio potrà adottare, a norma della procedura di
cui all’art. 251 del Trattato CE, misure di incoraggiamento per sostenere le azioni intraprese dagli Stati membri al fine di combattere ogni
forma di discriminazione
12 Se il lavoratore rimasto disoccupato è anziano, ovvero ha compiuto i 52 anni, non è lecito farlo precipitare nella spirale del precariato
cronico proponendogli rapporti di lavoro a tempo determinato. Ed è dunque illecita, alla luce del diritto comunitario (e più in particolare della direttiva 2000/78/Cee del Consiglio relativa alla creazione di un quadro generale in favore dell’uguaglianza di trattamento in
materia di impiego e di lavoro) una norma interna che consenta, liberamente e senza restrizioni, di imporre tali tipi di condizioni ai lavoratori; una previsione di tale genere, infatti, deve essere interpretata come una discriminazione fondata in ragione dell’età e il giudice
nazionale - ove chiamato a pronunciarsi. deve assicurare il rispetto del principio di non discriminazione disapplicando ogni contraria
disposizione. Ciò non toglie che possano esservi deroghe possibili, ma queste, correlate alle politiche interne relative all’impiego e al
mercato del lavoro, devono utilizzare strumenti appropriati e necessari, condizioni che devono essere concretamente dimostrabili. Corte giustizia CR, 22 novembre 2005, n. 144
6
MAGGIO - AGOSTO 2006
DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI
gno venendo in tal modo compromessa la possibilità di indipendenza e ponendo spesso l’anziano in una condizione di sudditanza economica.
Il sistema di servizi burocratici è oggi rivolto a
persone giovani, abili ed abituate all’utilizzo dei
sistemi informatici. Nessun riguardo viene riservato all’anziano che, pertanto, rimane spesso
imbrigliato nella rete dei servizi pubblici, dilatandone i tempi di utilizzo ed ottenendo risultati,
spesso, non consoni alle richieste inoltrate; si
pensi ad esempio ai tempi delle liste di attesa per
l’erogazione di un servizio sanitario o al riconoscimento di una pensione di invalidità o di un
assegno di accompagnamento. Che vale, ad
esempio, l’istituzione da parte della Regione
Sicilia del buono socio-sanitario se lo stesso non
viene erogato e rimane nelle casse regionali?
Il sistema dei trasporti non tiene in sufficiente
considerazione le persone anziane, i mezzi non
sono idonei, le tariffe risultano elevate e le informazioni sono per lo più inaccessibili.
La società, poi, non riesce a creare una sufficiente rete di protezione dell’anziano che, pertanto,
rimane spesso vittima di truffe, raggiri, abusi e
maltrattamenti.13
Un importante evento normativo, per la tutela dell’anziano, è stato certamente determinato dalla
emanazione della legge 9.1.04 n. 614 che ha introdotto nel libro I del codice civile la figura dell’amministratore di sostegno rileggendo, in tal modo,
gli istituti della interdizione e della inabilitazione.
La legge non ha come unici destinatari gli anziani da tutelare, essa rientra nel più ampio concetto di tutela dei soggetti deboli, ai quali deve essere assicurata una adeguata protezione senza
dovere necessariamente ricorrere alla negativa
figura dell’interdizione scolasticamente ricordata
come l’azzeramento delle capacità volitive di un
individuo.
Eppure, questa società, che non riesce a riservare, se non sporadicamente, uguaglianza di cure ai
suoi componenti, che spinge verso l’eterna giovinezza e verso la esaltazione di valori effimeri,
continua pur sempre a ritenere gli anziani custodi di uno straordinario patrimonio di cultura, di
esperienza e valori, un prezioso ed insostituibile
punto di riferimento e segno di continuità per
l’intera collettività.
A secoli di distanza sembra rinnovarsi davanti ai
nostri occhi l’antico dualismo tra Atene e Sparta.
La civiltà estetizzante di Atene ritiene inaccettabile il fenomeno della decadenza fisica e tende a
cancellare la vecchiaia dalla memoria collettiva,
con l’emarginazione dell’anziano e l’esaltazione
della giovinezza. Per Sparta invece il vecchio
sopravvissuto a molte battaglie merita onori,
riconoscimenti ed incarichi pubblici per potere
tramandare alla collettività virtù e saggezza.
Alla fine nell’era moderna la battaglia è vinta
soltanto dall’anziano attivo, un anziano ancora
accudente e non inabile, un punto di riferimento
per i figli non perchè dispensatore di virtù e saggezza, ma perchè talvolta unico sostegno economico nei confronti di chi non è riuscito a crearsi
una propria indipendenza o ha cercato ausilio
perchè in fuga da realtà familiari fallimentari.
Un anziano che deve essere pronto a supportare
il figlio talvolta sostituendosi nella cura e nell’accudimento dei nipoti.
Al dovere di cura materiale imposta agli ascendenti dal nostro ordinamento non è coinciso il
riconoscimento del diritto di tutela del rapporto
tra nonni e nipoti.
Per anni la giurisprudenza di merito ha cercato di
valorizzare la figura dell’anziano nell’importante
ruolo di nonno, sottolineando la valenza positiva
che tale figura può ricoprire per un armonico sviluppo di un minore.
Si doveva arrivare alla legge 54/06 per l’ingresso
seppur indiretto, nel nostro ordinamento dell’ampliamento delle relazioni affettive nell’ambito
parentale.
Ancora una volta però non abbiamo avuto il riconoscimento di un diritto dell’anziano, abbiamo
semmai avuto la massima affermazione dell’interesse del minore al quale viene garantita la tutela
dei rapporti parentali psicologicamente e pedagogicamente ritenuti indispensabili per la serena crescita e per la salvaguardia dei rapporti affettivi.
Ancora una volta, anche il Legislatore attinge,
13 Il metano ti dà una mano (e con l’altra ti sfila il portafoglio). L’emergenza energetica continua e sta rendendosi complice di una delle
truffe più diffuse in questo periodo. Anziani soli vengono depredati da falsi incaricati dell’azienda municipale, penetrati nelle abitazioni con la scusa di controllare l’impianto domestico.
Ti ripuliscono la giacca (e già che ci sono, anche il portafoglio).
Generalmente operano donne con bambini e bande di ragazzini. Scelgono la vittima, la urtano macchiandola di caffé o di gelato e
cominciano a darsi da fare per ripulirla. Se mettono le mani sul vestito il portafogli prende il volo.
Falsi d’occasione.
Persone dall’aspetto rassicurante fingono di dover prendere un aereo al volo e siccome non hanno abbastanza contanti, offrono, in
cambio di una somma, un orologio o un gioiello. Di solito operano in due: uno che vende e un compare che finge di voler soffiare l’affare alla vittima potenziale.
14 LEGGE 9.1.04 N. 6 - Introduzione nel libro primo titolo XII, del Codice Civile del Capo I, relativo all’istituzione dell’amministrazione
di sostegno e modifica degli artt. 388, 414, 417, 418, 424, 426, 427 e 429 c.c. in materia di interdizioni e di inabilitazione, nonché
relative norme di attuazione, di coordinamento e finali (G.U. n. 14 del 19.01.04)
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DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI
con intenti propagandistici, di sicuro effetto
mediatico, alla fonte costituita dall’anziano, fornendogli in cambio solo la parvenza di protagonismo, lasciandolo, in realtà, nell’eterna attesa
del riconoscimento di un diritto e della effettiva
definizione del valore rappresentato.
La novella 54/06 che, nel modificare ed innovare l’art. 155 del Codice Civile, ha introdotto nello scenario patologico della crisi familiare, la
regola della esaltazione del principio di garanzia
della biogenitorialità, ha sfruttato la “pietas” del
nonno, cercando di riequilibrare una rete di legami familiari alla deriva.
Nel momento della maggiore manifestazione del
conflitto coniugale che ha già prodotto una frattura
nella coppia, il legislatore introduce, infatti, una
regola di condivisione dell’affido della prole minore riservando agli ascendenti ed ai parenti di ciascun ramo genitoriale un ruolo di coprotagonisti.
Volendo costruire uno scenario concreto in che
modo potrà tradursi il coprotagonismo dell’anziano nella gestione di una rete familiare in crisi?
Temiamo che, ancora una volta, ciò pubblicizzi
solo un bel principio astratto che, invece, nasconde la mera richiesta di supporto materiale rivolto
all’anziano, il quale si vedrà così costretto a
dimenticarsi di sé e delle sue esigenze per rincorrere la vita dei propri figli, nel prioritario desiderio di salvaguardare il rapporto affettivo nei confronti della sua discendenza.
Ancora una volta quindi disuguaglianza e discriminazione rischiano di far da compagni alla vita
dell’anziano, anche quando sembrava essergli
stata promessa e garantita la possibilità di rendersi strumento di stabilità e continuità di quei
legami che egli stesso ha, pazientemente, costruito nel corso della sua esistenza.
Si impone, allora, la ricerca di sane prospettive e
la risposta a questa esigenza non potremo certo
sperare di trovarla nell’ennesima “pillola magica”,
appositamente “confezionata” per il pubblico
anziano da questo o quello istituto farmaceutico o
nella manovra socio-economica di cui si renda
promotore l’uno o l’altro schieramento politico, in
eterna contesa con la propria opposizione.
Inutile tentare di sfuggire l’unica possibilità di
riuscita, la più difficile.
In questa società malata, preoccupata prioritariamente di affastellare, a ritmi frenetici,
quanti più stimoli possibili, senza badare al
rispetto delle unicità di ogni anziano anche nel
ruolo di nonno ed alla esaltazione delle originali caratteristiche dell’individuo, dandogli
così la possibilità di cercare, trovare ed essere
pago del proprio posto tra gli altri simili, ciascuno è chiamato all’impegno nella ricostruzione e salvaguardia dei valori familiari, nella
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AIAF RIVISTA 2/2006
protezione e cura degli affetti, nella riscoperta
di ciò che non è destinato a consumarsi in fretta per far spasmodicamente posto a ciò che è
nuovo, ma molto raramente migliore, alla
pazienza ed alla tenacia nel mantenere i piedi
saldi su di un faticoso ma sano cammino personale che rispetti l’altro nella sua unicità e
garantisca, così alla vita associata la possibilità del suo perpetuarsi.
La sfida è ambiziosa.....Al lavoro!
* avvocato in Palermo
MAGGIO - AGOSTO 2006
DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI
PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI
COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA
BIOETICA E DIRITTI DEGLI ANZIANI
20 gennaio 2006
INDICE
INTRODUZIONE
PREMESSA
- la questione demografica
- il profilo epidemiologico
- l’anziano “autosufficiente”
- l’anziano “non autosufficiente”
- il volontariato e il “prendersi cura” dell’anziano
- la riabilitazione
PARTE PRIMA: BIOETICA E SENESCENZA
1. La vecchiaia tra riflessione filosofica e indagine bioetica
1.1. La congiura del silenzio
1.2. La crisi di identificazione ed il perseguimento dei significati
2. Dalla CURA all’AVER CURA al SELF CARE
2.1. Il bilancio di competenze dell’anziano
2.1.1. Centri per la salute dell’anziano
2.1.2. Le diverse fasi del bilancio di competenze
3. Anzianità: comunicazione intergenerazionale e aspetti culturali, valoriali e spirituali
3.1. La comunicazione intergenerazionale
3.2. Spiritualità e religiosità nella senescenza
3.2.1. L’universo valoriale nella vita della persona anziana
PARTE SECONDA: L’ANZIANO NON AUTOSUFFICIENTE E L’ETICA DELLA CURA
4. L’invecchiamento
5. L’anziano autosufficiente e privo di gravi patologie
6. L’anziano fragile
6.1. Operatori, servizi, persone: risorsa per l’anziano
7. L’anziano emarginato
8. L’anziano maltrattato
9. L’anziano dal punto di vista giuridico
CONCLUSIONI
APPENDICI
Carta dei diritti dell’anziano
Linee guida per il comportamento delle nuove figure domestico-assistenziali (“badanti”)
INTRODUZIONE
DI FRANCESCO D’AGOSTINO
Per quel che concerne l’intendimento della vecchiaia, tra noi e coloro che sono appartenuti alle generazioni antecedenti alla
nostra, c’è una sorta di abisso ermeneutico, che ci è molto difficile poter colmare. Infatti non è più possibile, oggi, considerare
la condizione anziana facendo coincidere -secondo un paradigma classico, fortemente consolidato e peraltro in gran parte ancora ampiamente condiviso- la prospettiva ontologica con la prospettiva biologica: non è più possibile, in altre parole, definire cosa
sia la vecchiaia analizzandola riduzionisticamente, a partire ad es. dalla perdita della capacità riproduttiva o dal “rallentarsi” dell’attività intellettuale o dal deficit, anzi dal costante e irreversibile degrado, di qualunque altra specifica funzione fisico-biologica. È ormai acquisizione consolidata che “la vecchiaia è espressione di una biologia in un ambiente”, secondo la felice espres-
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sione di Andreoli e che l’ambiente è nozione meta-biologica, nella quale interagiscono dinamiche psicologiche, politiche, sociali, storico-culturali.
Ci è stato spiegato dalla demografia come la modernità abbia profondamente modificato la struttura della popolazione nelle
società avanzate, destrutturando la caratteristica forma piramidale che ha caratterizzato per millenni il rapporto tra le generazioni ed abbia di conseguenza cambiato radicalmente la nostra percezione della fisicità della condizione anziana. È cambiata con
tale rapidità da non consentire al linguaggio di aggiornarsi: come acutamente osservò Norberto Bobbio “nulla prova la novità del
fenomeno meglio che il constatare la mancanza di una parola per designarlo: anche nei documenti ufficiali agli agés seguono i
tres agés”, agli young old, la nuova categoria demografica circoscritta tra i sessantacinque e i settantacinque anni, seguono gli
oldest old, che superano i settantacinque anni. Gli studi che si sono moltiplicati negli ultimi decenni -oltre che più in generale
l’esperienza diffusa di cui siamo tutti testimoni- ci hanno convinto dell’infondatezza del paradigma che vedeva l’anziano come
un individuo in preda a un progressivo ed inesorabile sfacelo psico-fisico che annientava la sua vita individuale e la sua funzione sociale. In altre parole è divenuto assolutamente obsoleto il motto di Terenzio: “Senectus ipsa morbus”. “Invecchiare - ha scritto John Eccles - è un concetto relativo. La c.d. senescenza è un processo dovuto al rallentamento o alla diminuzione delle possibilità intellettuali, causato da ridotte capacità di apprendimento, memorizzazione e creatività. Ma proprio perché è definita in
questo modo, non esiste un’età tipica del suo apparire”
Sono crollati di conseguenza o sono comunque destinati a rimodellarsi stereotipi radicatissimi nella coscienza collettiva. È crollato lo stereotipo della specifica ammirazione che meriterebbe la saggezza senile, che la qualificherebbe precipuamente per l’attività politica e che, sempre stereotipatamente, in ogni generazione si lamenta che sia andata perduta. Perde di senso, a seguito
dell’impressionante innalzamento dell’indice della vita media, l’invidia per l’evento, un tempo rarissimo, della longevità. Perde
di asprezza e acquista nuovi connotati di bonomia la tradizionale irritazione attivata dalla vecchiaia dispotica, pretenziosa, arrogante e imbelle, destinata ad essere beffata e punita e che tanto materiale, dall’antichità fino all’Ottocento avanzato, ha sempre
fornito a poeti, commediografi e a librettisti d’opera; ma perde simmetricamente di forza il senso di tenerezza attivato da una vecchiaia mite e tornata ad essere pressoché infantile, di cui sono testimonianza favole e miti (Filemone e Bauci). Ma crolla anche
lo stereotipo della atrocità della vecchiaia, la vecchiaia paragonabile a un decayed house, ad una casa in rovina, ritenuta così
detestabile, da far apparire auspicabile la morte precoce (si ricordi il detto classico Muor giovane colui che agli dèi è caro, un
tema che troviamo ancora nel giovane Leopardi, che spera di non dover mai varcare la detestata soglia della vecchiezza); perdono incisività e si involgariscono nell’immaginario collettivo le fantastiche illusioni di poter trovare una via per conquistare una
eterna giovinezza, illusioni che vengono più prosaicamente ma anche con ben maggiore concretezza sostituite dal legittimo desiderio di garantirsi una terza età sana, efficiente, socialmente garantita, sessualmente attiva.
La vecchiaia appare oggi insomma alla stregua di una età della vita caratterizzata sì (peraltro come ogni altra età della vita) da
particolari fragilità -e proprio per questo meritevole di doverose e specifiche attenzioni igieniche, biomediche e sociali-, ma non
certo come una età in cui debba di necessità, in virtù di una imperscrutabile volontà della natura, affievolirsi il diritto alla salute, come diritto umano fondamentale non solo alla terapia, ma in senso più lato alla cura.
La riflessione bioetica possiede sotto questo profilo spazi di operatività, soprattutto sociale, davvero sconfinati. Essa deve denunciare tutte le forme di violenza, in gran parte subdole e indirette, cui vengono sottoposti gli anziani. Deve denunciare come un
vero e proprio mito quello della ineluttabilità e della progressività del loro declino psico-fisico; e lo deve denunciare come un
mito pernicioso, perché è esso stesso in gran parte la ragione della situazione di disagio -sociale, politico, psicologico- in cui nella modernità vengono spesso a trovarsi gli anziani, vittime di dinamiche di emarginazione intollerabili sotto tutti i profili.
Ove la bioetica uscisse vittoriosa da questa battaglia (ma in realtà non è questa una battaglia che si possa vincere una volta per tutte, perché è destinata a riaccendersi ad ogni generazione), non per questo potrebbe ritenere esauriti i propri compiti. Le resterebbe comunque da combattere una battaglia ulteriore, infinitamente più complessa: quella che ha per oggetto non la biologia, ma
l’ontologia della condizione anziana in quanto tale. Infatti, per quanto si possano doverosamente ed efficacemente rivendicare i
diritti dei soggetti anziani e per quanto la medicina possa efficacemente operare per dare all’esercizio concreto di questi diritti un
solido supporto biologico, resta per la condizione anziana il problema di fronteggiare l’ostacolo più grande, quel duro dato, come
ha scritto Romano Guardini, della “segreta ostilità che la vita in crescita oppone alla vita declinante”; le resta da fronteggiare quel
diffuso sentimento di disprezzo nei suoi confronti, che si ha raramente il coraggio di considerare fino in fondo e che trova la sua
ultima radice nella innaturalità che in qualche modo possiede per l’uomo il diventare vecchio e la cui evidenza, stampata nei volti senili, suscita, in chi ancora vecchio non è, un turbamento profondo, che viene in genere rimosso e occultato, ma che più spesso ancora suscita sentimenti di aggressività. Se il compito di promuovere la difesa della vita anziana nelle sue dimensioni materiali richiede un’alleanza tra bioetica, medicina e politica sociale, quello di prendere sul serio la difficilissima dialettica che contrappone la vecchiaia alle precedenti età della vita è un compito che con ogni probabilità spetta esclusivamente alla bioetica, come
etica della vita. E non possiamo dire che la bioetica sia, generalmente parlando, bene attrezzata per adempierlo.
Partendo da questa consapevolezza, il Comitato Nazionale per la Bioetica nella riunione plenaria del 19 settembre 2002 decise
di attivare un gruppo di lavoro, dedicandolo alla Bioetica e diritti degli anziani. Il carattere interdisciplinare della ricerca e della
riflessione in materia indusse a nominare ben tre diversi coordinatori del gruppo, nelle persone di Adriano Bompiani, Luisella Battaglia e Annalisa Silvestro. Del gruppo entrarono subito a far parte numerosi colleghi, tra i quali Paola Binetti, Isabella Coghi,
Carlo Flamigni, Romano Forleo, Laura Palazzani, Elio Sgreccia, Giancarlo Umani Ronchi. La prima stesura del testo venne
costruita in numerose e vivaci riunioni di gruppo; esauriti i lavori preliminari, la bozza del documento fu portata infine all’attenzione del Comitato riunito in seduta plenaria il 28 gennaio 2005 e in questa occasione si decise di affidare alle cure della prof.ssa
Cinzia Caporale una ulteriore revisione del testo, perché meglio venissero strutturate e coordinate le sue diverse parti. Il testo che
ora viene dato alle stampe è stato infine definitivamente approvato nella seduta del 20 gennaio 2006: offrendolo al proprio pubblico il CNB è consapevole dei limiti della sua riflessione, ma nello stesso tempo giustamente orgoglioso di aver con tanto impegno portato definitivamente una tematica così delicata e così essenziale all’attenzione della bioetica italiana.
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DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI
PREMESSA
Il Comitato Nazionale per la Bioetica propone all’attenzione dell’opinione pubblica alcune riflessioni riguardanti la condizione
dell’anziano nell’attuale congiuntura sociale, invitando i cittadini a considerare con maggiore disponibilità la dignità e i diritti che
spettano alle persone che attraversano questa particolare fase della vita umana.
Il Comitato desidera anzitutto sottolineare che una bioetica con gli anziani è ormai assolutamente opportuna, in quanto suscettibile di coinvolgere diversi soggetti (individui, famiglie, istituzioni, associazioni del volontariato, etc.) e capace di favorire una
riflessione ad ampio raggio su una questione sociale urgente che va affrontata secondo diverse prospettive: medico-sanitaria, psico-sociale, etico-normativa e in definitiva antropologica, sia sul versante delle persone interessate che sul versante pubblico.
La trattazione di questi aspetti ha raggiunto - sia in sede nazionale che internazionale - una dimensione assai vasta per numerosità di contributi, molti dei quali di elevata qualità. Il CNB, pur tenendo conto delle principali linee di pensiero emerse al riguardo, non ha tuttavia inteso tentarne una sintesi, né condurre un’analisi circostanziata della letteratura disponibile. E nemmeno il
CNB ha voluto soffermarsi sulle questioni economiche che in molti casi gravano sulla persona che si inoltra nell’età che segue la
cessazione dal lavoro, o sulle questioni strettamente politico-amministrative (pur riconoscendone la notevolissima rilevanza nella vita del soggetto), né dibattere la “classificazione” dell’anzianità rispetto ai limiti temporali e alle denominazioni che sono state proposte dalla demografia per le diverse classi (ad es.: anziano, vecchio, longevo, vegliardo, etc.).
Ricomprendendo nel concetto di anzianità quel continuum di problemi che interviene dopo la cessazione del lavoro professionale e comunque convenzionalmente fissato a partire dai 65 anni, con il presente Documento il CNB vuole ribadire con argomentazioni bioetiche la doverosità di alcuni comportamenti che - adottati universalmente - potrebbero contribuire a rafforzare il
concetto di dignità dell’anziano e favorire il rispetto dei diritti che a lui spettano.
LA QUESTIONE DEMOGRAFICA
Esiste una consapevolezza diffusa dell’importanza che riveste il fenomeno del progressivo aumento della vita media per un equilibrato assetto sociale. Un fenomeno che si è accentuato nella seconda metà del XX secolo in particolare in tutti i Paesi a elevato tenore di vita e sufficiente alfabetizzazione e organizzazione sanitaria, e a cui peraltro gran parte delle trattazioni si riferisce
come a un elemento di “pericolo” per i fondamenti stessi del sistema di protezione sociale.
Meno diffusa, almeno in alcuni Paesi, sembra invece essere la consapevolezza che l’invecchiamento della popolazione - inteso
come indice globale dell’equilibrio ai fini sociali delle varie classi d’età - è influenzato non solamente dallo spostamento verso
età sempre più avanzate della mortalità, ma anche dalla diminuzione degli indici di fertilità. Come noto, invecchiamento della
popolazione e diminuzione dell’indice di fertilità rappresentano un fenomeno che decorre “a forbice” in molti Paesi europei, ma
che è particolarmente accentuato in Italia dove si svolge con notevole rapidità.
Senza entrare in questa sede in una discussione sulle modalità con le quali il fenomeno possa essere affrontato, il CNB non può
esimersi dal suggerire che i fenomeni demografici vengano portati in forma idonea all’attenzione dell’opinione pubblica. Questo
approccio, comunque sempre rispettoso delle scelte che ciascun interessato vorrà assumersi nel momento della procreazione, non
deve intendersi come mera espressione di un’etica utilitaristica promossa dal potere pubblico per il riequilibrio del sistema previdenziale, ma dovrebbe assumere il significato della “solidarietà fra le generazioni”, che il CNB considera come un principio
etico essenziale nell’argomento in esame.
In sintesi, in Italia negli ultimi cinquant’anni gli ultra-sessantacinquenni sono aumentati di circa il 150%, fino a raggiungere nel
2003 quasi il 20% della popolazione complessiva. La crescita è diffusa ovunque nel nostro Paese, anche se non mancano differenze territoriali consistenti: alla Liguria spetta il primato del maggior numero di anziani (ben il 24,4% della popolazione); seguono l’Umbria con il 22% e l’Emilia Romagna con il 21,9%. La percentuale più bassa è in Campania dove è pari al 14,2%.
Le femmine anche nel nostro paese sono quantitativamente più dei maschi (in Italia si contano 93,8 uomini ogni 100 donne).
Questa differenza di genere, che si è ulteriormente consolidata nell’ultimo decennio per le fasce di età oltre i 75 anni, è dovuta
al progressivo invecchiamento della popolazione e alla maggiore speranza di vita delle donne. Infatti, sebbene nascano più
maschi che femmine, la più elevata mortalità che colpisce gli uomini fin dalle età più giovani comporta che nel totale della popolazione le donne siano più numerose. Il vantaggio del sesso femminile in termine di anni vissuti è probabilmente legato anche
alla ridotta esposizione ai rischi del lavoro e alle profonde differenze degli stili di vita: l’abuso di alcol è ancora prevalentemente maschile, mentre per il consumo di tabacco le donne più giovani stanno aumentando in modo più che proporzionale.
Le predette variazioni demografiche hanno trasformano profondamente la famiglia che oggi è spesso multigenerazionale e tende
ad ‘allungarsi’ per la sensibile riduzione di fratelli, sorelle e cugini. I componenti raramente rimangono uniti nella casa d’origine
dove vive, sempre più di frequente, una persona sola, in genere una donna anziana data la maggiore longevità femminile. Le famiglie ‘unipersonali’, non in coabitazione con altri, sono quasi una su quattro e in notevole aumento rispetto al decennio scorso.
Proprio in virtù del suo primato di longevità, che si accompagna purtroppo a un aumento dell’indice di dipendenza strutturale,
l’Italia potrebbe rappresentare un vero e proprio “laboratorio” per gli altri Paesi attraverso la proposizione e la sperimentazione
di programmi e interventi diretti alla valorizzazione sociale dell’anziano autosufficiente, ma anche alla prevenzione e all’assistenza dei bisogni dell’anziano non autosufficiente.
IL PROFILO EPIDEMIOLOGICO
Contemporaneamente all’invecchiamento della popolazione si sta assistendo a radicali cambiamenti epidemiologici, che interessano in primo luogo la medicina e - più da vicino - l’assistenza sanitaria e la differente allocazione delle risorse finanziarie.
Questi cambiamenti epidemiologici possono così riassumersi.
Il continuo spostamento in avanti della mortalità coincide con la progressiva prevalenza delle malattie cronico-degenerative (patologie cardio-vascolari, tumori, diabete, osteoporosi, demenze) rispetto alle malattie infettive che viceversa dominavano fino alla
prima metà del XX secolo.
La prevalenza delle patologie cronico-degenerative si accompagna a due altri aspetti tipici dell’invecchiamento della popolazione: l’aumento età-correlato della comorbilità o polipatologia, e della disabilità, misurata come attività comuni del vivere quoti-
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DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI
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diano - e cioè l’essere autonomi nel controllo degli sfinteri, nel lavarsi, nel vestirsi, nello spostarsi all’interno della casa, nell’alimentarsi e nell’avere cura della propria persona.
L’aumento età -correlato della comorbilità e della disabilità - non è però tale da portare a uno stato di salute scadente tutte le persone molto anziane: anche tra gli ultra-ottantenni, vi è sempre una percentuale di soggetti - dal 5% a oltre il 20% - che è priva
di malattie importanti ed è perfettamente autonoma.
Nell’ottica medica, la vecchiaia viene interpretata come quel periodo della vita in cui più alta è la probabilità di dover ricorrere
a terapie e a trattamenti medici.
Questa probabilità è certamente minima nell’età che fa seguito - normalmente - all’inizio del pensionamento (nei paesi OCDE,
circa 65 anni), mentre si fa in generale sempre più rilevante con il trascorrere della vita (dal concetto di anziano a quello di vecchio, etc.)
Secondo le conclusioni più importanti da trarre dai dati demografico-epidemiologici sin qui raccolti, il CNB ritiene di poter condividere questi principi:
Una prevenzione efficace è ancora “possibile” anche nelle persone molto anziane, purché siano opportunamente seguite da equipe geriatriche esperte.
- La combinazione di comorbilità e disabilità esprime il concetto di “fragilità” della vecchiaia, e richiede l’intervento di operatori di diversa professionalità e con formazione specifica.
- L’anziano fragile e disabile necessita di un sistema integrato di servizi in grado di assicuragli un’assistenza continuativa.
Mentre questi principi si applicano all’etica dei diritti della singola persona anziana, parallelamente l’evoluzione demografica
descritta ha investito l’ottica dell’etica pubblica, per la quale la vecchiaia viene esaminata nella prospettiva delle teorie normative della giustizia e, più precisamente, dell’equità nella distribuzione soprattutto delle risorse medico-sanitarie disponibili in un
dato contesto sociale, nel quale il constatato rapido incremento della popolazione anziana e il corrispondente aumento della spesa sanitaria impongono di stabilire criteri per allocare in modo equo risorse scarse. In tal modo si è avviato un dibattito sui caratteri essenziali di un sistema sanitario da considerarsi “giusto”, giudizio questo che viene fornito non senza contrasti in rapporto
alle principali tradizioni etico-politiche (personalismo, utilitarismo, liberalismo, contrattualismo, comunitarismo etc.) che si
riscontrano nella società.
L’ANZIANO “AUTOSUFFICIENTE”
Prima di esaminare più direttamente le questioni bioetiche poste dalla fragilità e dalla dipendenza, il CNB ha ritenuto opportuno
soffermarsi a considerare anche alcuni aspetti della “fisiologia” dell’invecchiamento, inteso sotto l’aspetto non tanto delle modificazioni corporee, quanto dell’ “esperienza dell’anzianità” che gran parte delle persone compiono.
Questo processo di “coscentizzazione” del proprio esistere come anziano e del possibile divenire come vecchio è ineludibile per
chi avanza negli anni, presentandosi sia nelle condizioni di “autosufficienza” che di “dipendenza”. Esso è però influenzato da
questi stati, è diversamente avvertito soggettivamente, ed è comunque correlato a una molteplicità di fattori, in parte “innati” e
in parte “ambientali”.
Già da molto tempo si è cercato di delineare la costellazione dell’invecchiamento “fisiologico”, offrendone un giudizio antropologico valido per le condizioni di autosufficienza. Tuttavia, dalla letteratura appare evidente che non può offrirsi al riguardo un
giudizio uniforme.
Il CNB riconosce che nel contesto antropologico che può definirsi ottimistico prorompe con tutta la sua millenaria forza, espressa nelle diverse culture, l’immagine della vecchiaia come portatrice di saggezza. Una concezione che è fondamento della gerontocrazia di molte società che si sono sviluppate nel corso dei secoli. Questo ruolo, certamente oggi molto attenuato nelle civiltà
tecnologiche occidentali, non è però del tutto soppresso. Anzi, molti sostengono che il compito sapienziale dell’anziano è ancora più urgente in una società in cui lo sviluppo tecnologico rischia di compromettere i valori umani.
D’altro canto, nella propensione diffusa verso il giudizio pessimistico dell’invecchiamento si insiste nel sottolineare che la senescenza rende più vicina la percezione della morte, limita il dispiegamento di potenzialità corporee e psichiche nonché l’armonico
rapportarsi con l’ambiente, esalta la fragilità e le debolezze della propria salute le quali, pur non potendosi ancora definire malattie, sono fonte di ostacoli al migliore esercizio delle funzioni vitali. Il giudizio pessimistico vede nella vecchiaia una condizione
socialmente sgradevole, in quanto connessa al ruolo di “malato” che molto spesso la società attribuisce all’anziano, ed è comunque fonte di “discriminazione” rispetto all’esercizio di capacità decisionali che l’anziano potrebbe ancora svolgere nella società.
Il CNB ritiene ciascuno degli angoli visuali “autentico” in rapporto al contesto nel quale ogni osservatore ha fatto la sua esperienza. Angoli visuali che impongono di fare opportune distinzioni nel formulare giudizi in rapporto alla fascia d’età considerata, allo stato di salute e soprattutto alle caratteristiche del tipo di vita che viene condotta. Tuttavia è certo che la vita biologica e
la vita psichica si svolgono in rapporti stretti ed essenziali con l’ambiente e che la privazione di stimoli ambientali (visivi, uditivi, motori etc.) riduce gli adattamenti cerebrali a qualsiasi età la si consideri (come può essere documentato anche elettroencefalograficamente).
Da queste considerazioni deriva l’indicazione - che anche il CNB condivide - secondo la quale nell’età anziana occorre mantenere un “lavoro” capace di stimolare l’interesse e la sensorialità, svolgere esercizi fisici che consolidino gli schemi corporei psico-motori, e sviluppare un rapporto con l’ambiente che appaia al soggetto interessato “gratificante” (ciò corrisponde al cosiddetto “invecchiamento attivo”).
Occorre anche reagire alla progressiva perdita di “autostima” che generalmente insorge con la perdita del ruolo lavorativo o del
ruolo familiare primario con il subentrare delle difficoltà economiche, e che porta l’anziano all’isolamento volontario e alla passività. La letteratura convalida il fatto che l’anziano solo, privo di stimoli familiari o ricoverato è maggiormente soggetto a tale
involuzione. Per far fronte a questo fenomeno sarebbe proficuo favorire lo sviluppo di interessi e occupazioni parallele al lavoro
al fine di ampliare gli orizzonti culturali e di socializzazione dell’anziano.
Gli studi di sociologia religiosa - infine - confermano nella popolazione anziana attuale la frequente presenza di una spiritualità
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DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI
aperta alla fede religiosa. Questo fattore è capace di infondere speranza e ottimismo creativo nella persona anziana. Spesso stimola alla solidarietà dell’anziano verso l’anziano e contribuisce al fattore di coesione all’interno della famiglia e della comunità.
Nel rispetto della coscienza di ogni soggetto e del diritto di libertà religiosa, laddove questa esigenza è sentita, essa va accolta e
favorita essendo la religiosità, insieme alla spiritualità, una dimensione essenziale dell’animo umano.
L’ANZIANO NON AUTOSUFFICIENTE
Il CNB ha considerato, con particolare attenzione, la situazione “morale” della persona anziana non autosufficiente, definita
anche “dipendente”.
Tale è lo stato nel quale si trovano le persone che - per ragioni legate alla mancanza o alla perdita di autonomia fisica, psichica
o intellettuale -, hanno bisogno di un’assistenza e/o di aiuti importanti allo scopo di compiere atti correnti della vita. Oggi si
aggiunge, per l’anziano, la seguente espressione a completamento della definizione: “nelle persone anziane, la dipendenza può
egualmente essere causata o aggravata dall’assenza di un’integrazione sociale, di relazioni di solidarietà e di risorse economiche
sufficienti”.
I PROBLEMI BIOETICI CHE NASCONO IN QUESTO CONTESTO SONO MOLTEPLICI E ALCUNI SONO DI NOTEVOLE INTERESSE:
a) La dipendenza e la misura della qualità di vita
Il problema ha due versanti: soggettivo e oggettivo. Ambedue pongono questioni di definizione e di misurazione. La qualità di
vita potrebbe essere definita “la soddisfazione che la vita procura, il benessere soggettivo, fisico, la capacità di adattamento alle
situazioni concrete” (valutazione soggettiva). Il criterio oggettivo, invece, consiste nella misura secondo varie scale di indici che
esplorano la dimensione assoluta o relativa della soddisfazione della persona, interrogata nel senso di paragonare la sua situazione di fatto rispetto alla situazione ideale riguardo ad ambiti diversi. Ci si può chiedere se talune di queste indagini, compiute
talora senza molto riguardo per la dignità dell’anziano e per il rispetto a lui dovuto, corrispondano ai criteri bioetici che regolano la ricerca sull’uomo. Complessa è la stessa definizione di qualità di vita in presenza di demenze, laddove manchi - nelle indagini - l’efficacia del consenso della persona. I criteri assistenziali che prevalgono nella trattatistica - e che come indicazione di
massima sono oggi ampiamente accolti - sembrano essere quelli di aggiungere qualità agli anni residui piuttosto che aggiungere
anni a una vita di ridotta qualità.
b) I principi bioetici che debbono applicarsi anche alla condizione di “dipendenza” dell’anziano sono:
- rispetto dell’autonomia morale dell’anziano;
- integrità della persona, con atteggiamenti di “beneficità” e rigetto di ogni espressione di “maleficienza”.
Da questi due principi, derivano anzitutto le applicazioni enunciate dall’art.11, 15 e 23 della Carta sociale Europea del Consiglio d’Europa (edizione 2000) per le persone dipendenti, e cioè: diritto alla protezione della salute; diritto degli handicappati - e
molti anziani non autosufficienti lo sono - a godere dell’autonomia residua, di un’adeguata integrazione sociale e della partecipazione alla vita comunitaria; diritto degli anziani a una protezione sociale.
c) Strategie dell’assistenza
Questi diritti evocano cinque principi validi per impostare la strategia dell’assistenza:
- Occorre rispettare (nella misura del possibile) le preferenze delle persone dipendenti al fine di incoraggiare il loro senso di
autonomia e benessere.
- I servizi di sostegno debbono essere pluridisciplinari e si dovrebbero prediligere soluzioni che prevedano l’assistenza domiciliare.
- L’offerta dei servizi da fornire deve essere graduata sui bisogni reali della singola persona3.
- Occorre assicurare l’equità di accesso ai servizi che debbono essere ripartiti sul territorio in modo proporzionale alla densità
della popolazione e resi facilmente fruibili.
d) Il rispetto dell’integrità dell’anziano e la non maleficienza
Il CNB si è soffermato a considerare anche le questioni bioetiche che ineriscono al rispetto dell’integrità corporea e morale dell’anziano, focalizzando la propria attenzione su maltrattamento, abuso e abbandono, sino alla vera e propria violenza. A tal
riguardo, occorre sottolineare come la maleficienza verso l’anziano possa corrispondere alla contenzione, intesa come limitazione meccanica o farmacologica delle possibilità di movimento autonomo di un individuo. Tale contenzione è assolutamente
riprovevole allorché venga applicata senza un più che giustificato motivo e soltanto ai fini della tutela dell’incolumità della persona. Identico giudizio negativo vale per un ingiustificato isolamento.
Va peraltro evidenziata la mutata coscienza pubblica, anche nel nostro Paese, verso il problema storicamente e gravemente emergente della tutela dei soggetti più deboli - fra cui ovviamente gli anziani, in specie quelli affetti da patologie -, mutamento che ha
portato a una rilettura degli art. 2 e 3 del dettato costituzionale, precisando il senso di alcuni valori fondamentali (dignità, uguaglianza, libertà, integrità fisica, psichica, relazionale e spirituale). Un rinnovato rispetto per la persona umana, per la sua autonomia e le sue legittime aspettative che ha ricevuto una forte spinta anche dai documenti in ambito internazionale e comunitario. Si
può menzionare la Convenzione dell’Aja del 13 gennaio 2000, che raccomanda la tutela dei soggetti deboli ed indica fra gli strumenti da adottare la possibilità da parte del soggetto interessato di conferire un mandato ad agire, dato sia attraverso apposito contratto sia mediante atto unilaterale, per l’ipotesi futura ed eventuale di sopravvenienza di uno stato di incapacità o di limitata capacità. Ancora, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (2000), che all’art. 25, “Diritti degli anziani”, riconosce il diritto di questi ultimi di “condurre una vita dignitosa ed indipendente e di partecipare alla vita sociale e culturale”
Espressioni queste ultime che sono state punto di riferimento primario per il nostro legislatore nel determinarsi ad emanare la legge del 9 gennaio 2004, n. 6, che ha dato vita all’istituto dell’”amministrazione di sostegno” e che rappresenta una forte rottura
rispetto ai precedenti e consolidati schemi culturali rigidi e vetusti per ciò che concerne la tutela di soggetti fragili. Trattasi, difatti, di una normativa che intende “sostenere” tutti coloro che si trovino nell’impossibilità, anche transitoria, di provvedere ai propri interessi ed esprime il principio per cui il “sostegno” alla cura della persona e agli interessi di essa non si limita alla sfera economico-patrimoniale, ma tiene conto dei bisogni e delle aspirazioni dell’uomo, ricomprendendo ogni attività significativa della
vita civile. Un istituto che ha consentito, in casi come quelli della progressiva demenza senile, di relegare a soluzioni giuridiche
residuali l’interdizione e l’inabilitazione che, recepite dal sentire comune come “morte civile”, si presentano come vicende
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“escludenti” dal contesto sociale, ben lontane dal poter sostenere e promuovere l’individuo.
IL VOLONTARIATO E IL “PRENDERSI CURA” DELL’ANZIANO
Il CNB sottolinea l’importanza dello svilupparsi di una rete di associazioni di volontariato e/o di cooperative senza scopo di lucro
che manifestano l’attenzione della società verso il problema dell’assistenza agli anziani sia autosufficienti ma soli o privi di sostegno familiare, sia non autosufficienti. Ovviamente, occorre ribadire che tali iniziative non debbono e non possono sostituire i
doveri delle istituzioni pubbliche, ma semmai debbono integrarne l’azione. Espressione di un settore “amichevole” della società
è anche quel volontariato che si prende cura dell’anziano con la semplice gestione della “presenza” e della “compagnia”, allorché l’anziano stesso è confinato (soprattutto per l’età, o per malattie croniche a lento decorso) nel proprio domicilio. Il volontario offre empatia, ad esempio con la lettura, con la conversazione, con la sostituzione per qualche ora del familiare altrove necessariamente occupato, con il disbrigo delle piccole incombenze casalinghe. Appare evidente il “significato morale” positivo per
chi riceve, ma anche per chi offre, questa condivisione di esperienze.
LA RIABILITAZIONE
La riabilitazione va intesa non solamente come un insieme di tecniche e di metodologie, ma anche come una filosofia di interventi tesa a restituire alla persona il suo stato funzionale e ambientale precedente, o, in alternativa, a mantenere o massimizzare
le sue funzioni rimanenti. Pertanto, elevati sono i contenuti etici della stessa: si tratta di una filosofia di intervento che è antagonista alla disabilità e alla sua passiva accettazione. Una tensione morale dovrà sostenere il soggetto da riabilitare e il personale,
per superare barriere fisiche e psicologiche, per compensare quel margine di disabilità e handicap che rimane insuperabile, per
sviluppare nuove potenzialità della personalità integrale.
Possiamo ancora ricordare che in tema di provvedimenti riguardo l’affido dei figli minori nel momento di crisi del nucleo familiare è stato recentemente previsto dal legislatore il diritto del minore di “conservare rapporti significativi” con gli ascendenti. Una
innovazione normativa anticipata dalla giurisprudenza che, gia da tempo, ha riconosciuto e regolamentato la facoltà di incontro
e frequentazione con i nonni, ritenendo oggetto di tutela i vincoli che affondano le loro radici nella tradizione familiare, di cui i
componenti più anziani rappresentano un punto di riferimento fondamentale per un corretto sviluppo psico-fisico dei minori
(Cass. n. 9606/1998; n. 1115/1981).
PARTE PRIMA. BIOETICA E SENESCENZA
1. LA VECCHIAIA TRA RIFLESSIONE FILOSOFICA E INDAGINE BIOETICA
Nel dibattito bioetico contemporaneo, il tema dell’invecchiamento viene prevalentemente considerato secondo due ottiche: un’ottica medica (la vecchiaia viene interpretata come quel periodo della vita in cui più alta è la probabilità di dover ricorrere a terapie e
a trattamenti medici) e un’ottica di etica pubblica (la vecchiaia viene esaminata nella prospettiva delle teorie normative della giustizia e, più precisamente, dell’equità nella distribuzione delle risorse medico-sanitarie disponibili in un dato contesto sociale).
Le due ottiche, per quanto importanti e dense di problematiche, paiono tuttavia di portata limitata in quanto offrono una comprensione parziale - se non riduttiva - dell’esperienza dell’invecchiamento. Oltre, infatti, a trascurare gli aspetti psicologici e
socio-culturali relativi al significato dell’età anziana nella civiltà contemporanea e la questione delle relazioni - soprattutto comunicative - tra le generazioni, in un contesto familiare e sociale profondamente mutato, non affrontano adeguatamente il problema cruciale del senso dell’invecchiamento nella vita individuale come nell’esistenza collettiva.
L’invecchiamento oggi costituisce un fenomeno che ha caratteristiche peculiari almeno sotto tre profili:
a. la dimensione quantitativa (si parla di una struttura della popolazione che, in prospettiva, potrebbe addirittura essere dominata da anziani);
b. il prolungamento della vita e il parallelo aumento della non autonomia (o non autosufficienza), generatrici di situazioni di
dipendenza che richiedono interventi di assistenza sanitaria crescenti;
c. il diverso modo di organizzare e di vivere il tempo rispetto al lavoro, alla formazione della famiglia, nonché un nuovo sistema di diritti e di doveri che influenzano notevolmente il cambiamento culturale.
Si tratta, pertanto, di un fenomeno strutturale che corrisponde a un travaglio che questa forma di civiltà industriale sta attraversando,
e che segna un cambiamento sociale di grande portata, relativo al nostro stesso modello di sviluppo e alle regole della convivenza.
Purtroppo l’invecchiamento è oggi tutt’altro che attivo, come potrebbe (e dovrebbe) essere: l’emarginazione, l’esclusione, l’isolamento ma anche le truffe, le aggressioni, gli abusi rischiano di farne un’età a grave rischio. La cultura dei nostri giorni non offre
una buona immagine della vecchiaia: semmai suggerisce l’idea di poter rimanere giovani per sempre. Anche i messaggi che ci
vengono trasmessi da alcuni ambienti della ricerca scientifica tendono a convincerci che l’invecchiamento si può contrastare,
facendoci sperare che esso non esista o che riguardi solo gli altri, quelli che noi vediamo come vecchi. Di qui la necessità di una
riflessione che, oltre a mostrare che la vecchiaia coinvolge tutti noi direttamente, ci inviti a scoprirne i contenuti, a conoscerne
i modi - sia per capire la vecchiaia degli altri che per accettare la nostra.
1.1 LA CONGIURA DEL SILENZIO
Riconoscere il processo dell’invecchiamento, nella sua realtà autentica, intenderlo nelle sue caratteristiche e nel suo divenire è
la condizione perché ci appartenga fino in fondo. Viceversa, nella società moderna la vecchiaia tende a trasformarsi in una sorta di tabù, in un argomento proibito, come se essa non esistesse. Ma contro il male incurabile dell’invecchiare non valgono né
gli esorcismi della ragione analitica, né i processi di rimozione collettiva.
La categoria dell’alterità potrebbe essere adottata per caratterizzare la condizione dell’anziano così come viene percepito - e spesso trattato - dalla società. Gli adulti, cioè, tendono a vedere nell’anziano non un proprio simile ma un ‘altro’. Un ‘altro’ la cui
immagine può essere sublimata o degradata ma che è in ogni caso al di fuori dell’umano.
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La situazione del vecchio si presenta in questa singolare prospettiva: pur essendo come ogni individuo una libertà autonoma, si
scopre e si sceglie in una società in cui gli viene imposta la parte dell’altro. Il dramma della persona anziana consiste nel conflitto tra la rivendicazione fondamentale di ogni soggetto che si pone sempre come essenziale e le esigenze di una situazione che
fa di lui un inessenziale. Data questa condizione, in che modo potrà rivendicare la sua piena umanità e ottenere quel minimo
che si ritiene necessario per condurre una vita degna di questo nome?
A parere della de Beauvoir, spingiamo talmente in là questo ostracismo da arrivare addirittura a rivolgerlo contro noi stessi, rifiutando di riconoscerci nel vecchio che noi stessi saremo.
‘Di tutte le realtà, la vecchiaia è forse quella di cui conserviamo più a lungo nella vita una nozione puramente astratta’ ha giustamente notato Proust. Tutti gli uomini sono mortali, questo lo ammettono. Ma che molti divengano dei vecchi, quasi nessuno
pensa in anticipo a questa metamorfosi.
(Simone de Beauvoir, La Vieillesse)
Ma come avviene la scoperta della vecchiaia? Secondo Goethe “l’età si impadronisce di noi di sorpresa”. Ciascuno è per se stesso l’unico soggetto e spesso ci stupiamo quando la sorte comune diviene la nostra dinanzi a malattie, disgrazie, lutti. La vecchiaia
è un destino e quando si impadronisce della nostra vita ci lascia stupefatti: che il passare del tempo universale abbia portato a
una metamorfosi personale è qualcosa che ci sconcerta. Ma la vecchiaia è particolarmente difficile da assumere poiché l’abbiamo sempre considerata come una specie estranea: sarei dunque diventato un altro mentre rimango sempre me stesso?
In effetti, consideriamo con maggiore lucidità la morte rispetto alla vecchiaia. La morte rientra, infatti, nelle nostre possibilità
immediate, ci minaccia a qualunque età, ci capita di sfiorarla, spesso ne abbiamo paura, mentre non è che si diventi vecchi in
un istante. Giovani o nella piena maturità, non pensiamo di essere già abitati dalla nostra futura vecchiaia, la quale è separata
da noi da un tempo così lungo da confondersi ai nostri occhi con l’eternità: un lontano avvenire che ci sembra irreale. A vent’anni, a quarant’anni, pensarsi vecchio equivale a pensarsi un altro e v’è un che di spaventoso in ogni metamorfosi.
Ma la vecchiaia si distingue, altresì, dalla malattia con cui spesso si confonde (senectus ipsa morbus): questa infatti ci avverte della sua presenza e l’organismo si difende contro di essa. La malattia inoltre esiste con più evidenza per il soggetto che la subisce
che non per coloro che lo circondano e che spesso ne misconoscono l’importanza.
La vecchiaia, invece, appare agli altri più chiaramente che non al soggetto stesso: è un nuovo stato di equilibrio biologico e, se
l’adattamento si opera senza scosse, l’individuo invecchiando non se ne accorge. Gli artifici, le abitudini permettono di attenuare per molto tempo le deficienze psicomotorie; indisposizioni dovute alla senescenza possono venire appena percepite e passate sotto silenzio: bisogna avere già coscienza della propria età per decifrarle nel proprio corpo. Molti vogliono a ogni costo credersi giovani, preferendo ritenersi in cattiva salute piuttosto che anziani. Altri trovano comodo definirsi vecchi magari prematuramente, vedendo nella vecchiaia una sorta di alibi; altri ancora, senza accettare con piacere la vecchiaia, la preferiscono tuttavia a malattie che li spaventano e che li costringerebbero a prendere delle contromisure.
Come avviene, dunque, la scoperta e l’assunzione della vecchiaia? La rivelazione dell’altro che è in noi, della nostra nuova immagine, ci viene in realtà dall’esterno, da coloro che ci guardano.
1.2. LA CRISI DI IDENTIFICAZIONE E IL PERSEGUIMENTO DI SIGNIFICATI
Nella vecchiaia si produce una vera e propria crisi di identificazione: è in gioco la nostra stessa immagine. Noi cerchiamo di rappresentarci chi siamo attraverso la visione che gli altri hanno di noi. Vi sono periodi in cui essa basta a rassicurarci della nostra
identità - è il caso dei bambini che si sentono amati e che sono soddisfatti di quel riflesso di loro stessi che scoprono attraverso
le parole e i comportamenti dei loro congiunti e a cui si conformano, assumendolo come proprio. Alle soglie dell’adolescenza
l’immagine si frantuma e un ondeggiamento analogo si produce anche alle soglie della vecchiaia. In entrambi i casi, si parla di
una crisi di identificazione pur se esistono grandi differenze: l’adolescente si rende conto di attraversare un periodo di transizione, il suo corpo si trasforma e ciò lo imbarazza; l’individuo anziano si sente vecchio attraverso gli altri, senza aver provato serie
mutazioni: interiormente non aderisce all’etichetta che gli viene appiccicata addosso, e finisce per non sapere più chi è.
In questa nuova condizione, volenti o nolenti si finisce per arrendersi al punto di vista altrui, ma questa resa non è mai semplice.
V’è infatti una discrepanza tra la situazione che io vivo e di cui ho esperienza interiore e la forma obiettiva che essa assume per
gli altri ma che a me sfugge. Nella nostra società, la persona anziana è designata come tale dal costume, dal comportamento
altrui, dal vocabolario stesso: essa deve assumere
questa realtà. Vi è un’infinità di modi per farlo ma
nessuno mi permetterà di coincidere con la realtà
che assumo io stesso.
Affinché la vecchiaia non diventi una comica parodia della nostra esistenza precedente, non v’è che
una soluzione e cioè continuare a perseguire dei
fini che diano un senso alla nostra vita: la dedizione ad altre persone, a una collettività, a una qualche causa, al lavoro sociale o politico, intellettuale
o creativo.
Contrariamente a quel che talora consigliano i
moralisti - che predicano la serena accettazione dei
mali che la scienza e la tecnica non sarebbero in
grado di eliminare - occorrerebbe conservare fino
alla tarda età delle passioni abbastanza forti da farci evitare il ripiegamento su noi stessi. La vita, infatti, conserva un valore finché si dà valore a quella
degli altri, attraverso l’amore, l’amicizia, l’indignazione, la compassione. Rimangono allora delle
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ragioni per agire e per parlare. La condizione senile sembra suggerire una riconsiderazione dei rapporti tra gli uomini. Se la cultura non fosse un sapere inerte, acquisito una volta e poi dimenticato, se fosse viva, ogni individuo avrebbe sul suo ambiente una
presa capace di realizzarsi e di rinnovarsi nel corso degli anni e sarebbe un cittadino attivo e utile a qualunque età. Se l’individuo non fosse atomizzato fin dall’infanzia, chiuso e isolato in mezzo ad altri atomi, se partecipasse a una vita collettiva, altrettanto quotidiana ed essenziale quanto la propria, non conoscerebbe l’esilio della vecchiaia.
E come dovrebbe essere una società perché un uomo possa rimanere tale anche da anziano? La risposta è semplice: bisognerebbe
che egli fosse sempre stato trattato come uomo. È dinanzi alla vecchiaia, infatti, che la società si smaschera: il modo in cui tratta
i suoi membri inattivi descrive molto di se stessa e di quanta enfasi riponga sulla mera dimensione produttiva degli individui.
D’altra parte anche l’anziano può diventare complice di una cultura oppressiva del dover essere che autoritariamente gli viene assegnato. In cambio della protezione che essa gli offre, può compiacersi nella parte di altro e barattare la libertà, l’autenticità in cambio di una tutela, peraltro più apparente che reale. Sappiamo, infatti, che ogni individuo, oltre all’esigenza di affermarsi come soggetto - che è un’esigenza etica - porta in sé la tentazione di fuggire la propria libertà, di trasformarsi in cosa. È un cammino nefasto ma è anche un cammino agevole: si evita, infatti, in tal modo, l’angoscia e la tensione di un’esistenza autenticamente vissuta.
Non è, infatti, solo la società ma è il nostro stesso io a definire il vecchio come altro. Mentre nel primo caso il processo di decostruzione dell’alterità riguarda il sociale (le immagini, i miti, gli stereotipi che circondano la vecchiaia), nel secondo è coinvolto
il nostro stesso inconscio e tale processo appare, pertanto, più complesso giacché il tabù riguarda noi stessi. D’altra parte, si può
notare una connivenza tra i miti giovanilistici della società e il nostro stesso inconscio.
Davanti all’immagine del nostro avvenire che i vecchi ci propongono noi restiamo increduli, una voce dentro di noi ci mormora assurdamente che questo a noi non succederà, che non saremo più noi quando questo succederà. La vecchiaia è qualcosa che
riguarda solo gli altri.
È così che si può comprendere come la società riesca a impedirci di riconoscerci negli anziani. Per vedere nei vecchi non degli
altri ma dei nostri simili, per non essere più indifferenti al destino di chi sentiamo lontano, estraneo, separato ma ci è invece vicino, familiare, prossimo è necessaria quella che si potrebbe definire una identificazione prospettica, il riconoscimento, cioè, della nostra identità in anticipo sui tempi della nostra vita.
L’invecchiamento individuale è una parte dell’avventura umana che solleva le questioni fondamentali dell’esistenza: confrontata
alla sua finitezza, la persona anziana reinterpreta la sua presenza al mondo. In questa storia non è isolata ma resta strettamente
solidale rispetto al gruppo culturale, sociale e familiare al quale è collegata. Ogni società, infatti, attribuisce, implicitamente o
esplicitamente, un ruolo ai suoi anziani e organizza delle risposte ai bisogni dei più deboli, in particolare dei ‘grandi vecchi’ non
autosufficienti.
Anche alla luce di questi rilievi ci si può stupire dello scarso interesse riservato ai problemi degli anziani nei dibattiti etici, i quali non ignorano certo i dati relativi ai cosiddetti ‘soggetti deboli’; tuttavia gli aspetti legati alla vecchiaia (isolamento sociofamiliare, scarsità di risorse finanziarie, dipendenza) sono di rado oggetto di una riflessione approfondita. La vecchiaia resta ancora
argomento marginale nella disamina della nostra società occidentale nonostante che i progressi medici collochino in un contesto
nuovo il vissuto dell’invecchiamento e l’approccio alla morte.
In Occidente le categorie egemoni, quelle della funzionalità e dell’utilità, fanno invecchiare davvero male. Non s’invecchia, infatti, solo per degenerazione biologica ma, come si è visto, anche e soprattutto per ragioni culturali e precisamente per l’idea che
la nostra cultura si è fatta della vecchiaia. D’altra parte, la discussione sul senso dell’invecchiamento non può essere puramente
teorica. Ciascuno è confrontato alla realtà di un avvenire possibile, per se stesso, per i suoi parenti e amici: gli interrogativi da
porsi presuppongono un approfondimento personale in relazione al tema dell’alterità. Si tratta, a un tempo, di riconoscere l’altro
come se stesso e di rispettare, al di là di ciò che esprime, il segreto della sua irriducibile intimità. In situazioni di dipendenza,
tutti gli attori (e sono molti, dai figli alle loro famiglie fino alle istituzioni e ai responsabili politici) sono rinviati alle loro concezioni della persona e del rispetto della sua dignità. Ciascuno si trova così chiamato a giustificare le interpretazioni delle nozioni
di solidarietà, di progresso, l’idea stessa che si fa del suo potere sulla vita.
2. DALLA CURA ALL’AVER CURA, AL SELF CARE
Se è indubbiamente vero che il tema dell’invecchiamento è strettamente intrecciato ad altre questioni bioetiche di grande rilevanza (la fine della vita, il diritto alla salute, l’accanimento terapeutico etc.), esso esige tuttavia di essere esaminato in se stesso
come fenomeno che presenta una specificità e dei caratteri che devono essere enucleati attraverso un’analisi filosofica rigorosa.
In particolare, la questione del valore dell’età avanzata non può essere esaminata assumendo come modello di riferimento unicamente il paradigma della salute. La quale, anche intesa come pienezza del vigore psico-fisico, non sembra un metro adeguato per ricercare un possibile senso della condizione anziana e, in generale, delle varie fasi della vita. Ciò vale proprio per l’età
anziana, ove si consideri la ingravescente frequenza, con il passare degli anni, di condizioni intermedie fra piena salute e conclamata malattia, che non tolgono valore alla dignità dell’anziano.
Se si dovesse paragonare la vecchiaia alla malattia, si dovrebbe forse scegliere una condizione di ‘normalità’ nella vita dell’uomo quale parametro unico per definire la salute. Ciò non può avvenire perché ogni età dell’uomo ha la propria ‘normalità’: esistono, in altri termini, tante normalità in rapporto alle diverse età (infanzia, adolescenza, maturità etc.). In tal senso, la vecchiaia
non è una ‘perdita di normalità’ ma è di per sé stessa una condizione normale, connotata in modo specifico a tutti i livelli - fisico, psicologico, sociale.
E tuttavia troppo spesso, secondo una prospettiva leggibile nei modelli culturali occidentali, la malattia stessa può essere usata
come strumento per mascherare la vecchiaia: siccome la malattia può essere curata è legittimo sperare di guarire; se questo poi
non avviene, la colpa risale all’incapacità della scienza medica, mai alla vecchiaia. È una specie di mascheramento che evita di
riconoscere la vecchiaia in piena coerenza, però, col paradigma scientifico in base al quale, prima o poi, alla malattia si troverà
rimedio. Può allora succedere che si rinunci a prendersi cura dell’invecchiamento, nella sua globalità e nelle sue dimensioni, per
rincorrere ipotetiche guarigioni, con la conseguenza, talora, che la scelta del programma di cura perda il riferimento alla qualità
della vita degli anziani.
Come ha scritto Daniel Callahan, uno degli studiosi di bioetica maggiormente impegnati su questo fronte, “La ricerca del senso
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e la ricerca della salute non camminano mano nella mano”. La tentazione della medicina contemporanea di far valere il proprio
metro di giudizio in termini di salute per determinare il valore globale della vita delle persone non tiene conto della complessità
di tale valore che appare - nei suoi tratti essenziali - piuttosto legato al tempo e alle relazioni che intercorrono tra il passato, il
presente e il futuro.
È da attribuire al progresso tecnico-scientifico il miglioramento delle condizioni di vita (maggiore disponibilità di risorse, migliore alimentazione e cura della persona, igiene della casa più sicura) e quindi delle condizioni igienico-sanitarie della vita collettiva (scomparsa delle grandi epidemie, maggiore tutela dell’ambiente etc.). Da un lato, i risultati della ricerca scientifica e tecnologica, specie in campo medico e biologico, consentono di aggredire in modo sempre più efficace molte malattie con interventi e cure un tempo inimmaginabili, dall’altro, le modifiche nel campo dell’organizzazione del lavoro e dell’economia (derivanti dalle applicazioni della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnologico) permettono la riduzione della fatica e la contrazione del tempo del lavoro.
Ci si interroga, alla luce di tali problematiche (aumento della durata media della vita, corrispondente crescita dei bisogni medici, correlativo aumento della spesa sanitaria) sulla prassi medica e sui suoi scopi, nel quadro di una vera e propria sfida all’autocomprensione della medicina. Uno dei problemi centrali è come riformulare il rapporto di quest’ultima con la salute e con la
malattia. Secondo Callahan, occorre attribuire maggiore importanza al raggiungimento di una buona qualità della vita anziché
alla lotta senza quartiere alla malattia, rimettendo in questione taluni atteggiamenti tradizionali nei confronti della morte e della
vita (quelli, ad esempio, per cui la medicina si oppone alla morte difendendo strenuamente la vita).
In tal modo, viene propugnato un cambiamento nel nostro sistema sanitario, orientato verso la cura (cure) anziché l’aver cura
(care) - una sorta di rivoluzione nel nostro modo di pensare e nelle nostre abitudini. Invece di un sistema diretto a estendere la
durata della vita, dovremmo elaborare una filosofia della medicina e un tipo di assistenza sanitaria capaci di individuare un
migliore equilibrio tra la medicina curativa e aggressiva (tecnologica) e quella più paziente del prendersi cura.
Per quanto riguarda specificamente gli anziani, tale filosofia dovrebbe riconoscere che essi hanno bisogno di interventi tesi non a prolungare a ogni costo la vita, ma a evitare la morte prematura e a garantire loro una esistenza qualitativamente buona entro i limiti detti.
Nella visione dell’invecchiamento come ‘gara contro la morte’ v’è il tentativo di occultamento della morte, in cui si vede, comunque, il segno di una sconfitta. Per questo si predispongono luoghi appositi per accogliere i morenti, ritirandoli tempestivamente dalla comunità dei vivi, oppure si relegano nelle corsie di un ospedale o nei cronicari. È qui che l’invecchiamento interroga la cultura,
l’etica, l’organizzazione sociale, la politica: la risposta non va cercata all’interno di un dibattito sull’eutanasia ma entro il sistema dei
diritti della persona, nel quadro di una bioetica del caring, che si faccia carico della difesa dei diritti dei soggetti più deboli.
Oggi abbiamo una medicina riluttante ad accettare il nostro comune destino, che è la vecchiaia, il declino, la morte. In tal senso, il movimento anti-invecchiamento e la medicina altamente tecnologizzata sono alleati in quanto ciascuno conferma i pregiudizi dell’altro: l’uno nel minimizzare le caratteristiche generali della vecchiaia, l’altro nel tendere a rattoppare singoli corpi
deteriorati dalla loro mortalità. Non c’è limite, rileva al riguardo Callahan, alla possibilità di spendere denaro per combattere l’inevitabile declino biologico e l’inevitabile morte che sono inerenti alla vecchiaia.
Callahan fa rilevare che è proprio la predisposizione che abbiamo verso la medicina tecnologica a richiedere l’investimento di
quote sproporzionate delle risorse sanitarie.
Al contrario, una filosofia della medicina orientata al paradigma bioetico del prendersi cura e incentrata sulla difesa della qualità
della vita può situare meglio l’individualità della persona entro un contesto di maggiore interdipendenza sociale e di prudente
accettazione della mortalità. La priorità di una simile medicina sarà quella non di dilatare indefinitamente la vita ma di utilizzare le nostre risorse per far sì che la vecchiaia sia un tempo di compimento e di arricchimento, ponendo al primo posto l’assistenza infermieristica, la fornitura di ampi servizi sociali al fine di aiutare gli anziani malati cronici e i loro familiari.
È forse superfluo sottolineare che si sta proponendo non di eliminare la medicina curativa tecnologica ma solo di ridimensionarla, di renderla nel futuro meno centrale, evidenziando nuove priorità.
Le persone, si è detto, hanno il diritto di ‘invecchiare vivendo’, godendo, cioè, di una qualità di vita che corrisponda al più alto
livello di benessere possibile. Ma occorre, al riguardo, segnalare l’assenza di una riflessione adeguata intorno al tema dei parametri minimi di qualità della vita da tutelare nel vecchio, a vantaggio, ancora una volta, della ricerca scientifica, della sperimentazione clinica e, talora, dell’accanimento terapeutico. Questa stessa predisposizione verso la medicina curativa rischia di
privare di significato la vecchiaia.
2.1. IL BILANCIO DI COMPETENZE NELL’ANZIANO
L’anzianità è caratterizzata da un lato da una maggiore incidenza di malattie, di inabilità, di disfunzioni, ma d’altra parte si vanno anche evidenziando risorse intellettuali ed emotive impreviste, che le conferiscono nuovi contorni e nuove prospettive. La
mancanza di univocità sul concetto di invecchiamento rende difficile raccogliere dati certi sul problema, anche se tutti sono d’accordo sul fatto che non si possa farlo coincidere con un criterio meramente cronologico.
Il livello di dipendenza sociale dell’anziano sta attualmente diventando il parametro di riferimento per prevedere e calcolare il
tipo di risorse di cui avrà bisogno in un tempo dato, in modo da predisporre con le modalità opportune le risorse necessarie. L’anzianità non si identifica tanto con l’età, ma con il livello di autonomia sociale, che misura contestualmente in che modo il soggetto è in grado di prendersi cura di sé e possibilmente di chi gli sta accanto - spesso si tratta di coppie di anziani -, in che modo
è in grado di affrontare e risolvere i propri problemi, attingendo alle risorse comunemente disponibili nel sistema socio-sanitario,
e in terzo luogo quale sia la consistenza della rete sociale in cui è inserito: numero di legami attivi, efficienza dei medesimi e
loro reciprocità. Già da alcuni anni a livello socio-sanitario si tende a considerare l’anziano in una prospettiva di self care, che
passa attraverso un progetto di formazione permanente, per cui il soggetto re-impara a gestire le proprie risorse tenendo conto,
più che degli inevitabili limiti, delle risorse disponibili a livello personale e a livello di rete sociale.
Se si fa più esplicito il riferimento alla autonomia sociale e alla capacità di fronteggiare l’esperienza della quotidianità, il processo
di invecchiamento corre meno il rischio di essere medicalizzato e identificato con il profilo del disagio psico-fisico, anche se
ovviamente questi dati hanno il loro peso nel modulare l’immagine che l’anziano ha di sé stesso, la sua sicurezza personale e la
percezione della rete sociale. Se si accetta che la vecchiaia possa esprimersi soprattutto attraverso il consumo di risorse sanitarie
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in un determinato tempo, la fonte principali di dati potrà venire dal mondo sanitario e dirci, sia pure in modo approssimato, perché non codificato con criteri condivisi, quale sia il bisogno di salute espresso attraverso ricoveri, day hospital, ambulatori e diagnostica strumentale. Sono dati necessari ma insufficienti a descrivere i nuovi confini della vecchiaia, non sempre adeguati ad
attivare un’efficace azione di prevenzione, né a garantire una migliore qualità di vita e a contenere i costi emergenti.
È stato detto autorevolmente che il livello di civiltà di una società si commisura al grado di attenzione e di tutela nei confronti
dei soggetti fragili di una comunità. Dato, però, che l’universo anzianità sembra sempre più configurarsi come una galassia policroma al punto da potersi riferire senza alcun dubbio ad anzianità al plurale, va senz’altro superato lo stereotipo dell’anziano
“solo” come problema per orientarsi sempre più alla persona anziana come “risorsa”, qualunque sia il suo stato psico-fisico. Ciò,
allora ribalta la prospettiva sociale nei confronti dell’anziano anche sotto il profilo religioso-spirituale e valoriale.
Si può dunque parlare di una società che cresce in maturità civile non solo quando tutela e protegge, quanto quando promuove
la persona e ne libera le risorse, in qualsiasi epoca della sua vita. Operativamente questo passa attraverso la necessaria messa a
punto di servizi, organizzazioni civiche, strutture abitative “adeguate” all’uomo nella sua totalità.
Per la persona anziana, allora, la soluzione non consiste tanto e solo nell’incremento dei servizi socio-sanitari, bensì nella promozione di quella che è stata definita anzianità attiva e creativa (Active Aging). L’anzianità è un’età che - se “educata” - può essere ancora attiva e creativa secondo le capacità di ciascuno in ogni singola fase della vita.
Di più, una società altamente civilizzata è quella che mette in atto strategie pedagogiche per prepararsi alla condizione anziana
(la c.d. geragogia). Quel che si vuole affermare, invece, è che la persona umana, con i suoi diritti e doveri, è titolare di una
dignità e di una ricchezza che devono essere promosse in ogni fase della propria esistenza. L’anziano va dunque considerato sempre soggetto di partecipazione alla costruzione della società, secondo le possibilità di ciascuno. In tal senso, allora una società
matura è chiamata a non tralasciare i soggetti quando raggiungono l’anzianità bensì a promuoverne le risorse di cultura, di trasmissione di valori e di vissuti, di abilità e capacità attuali individuali, di spiritualità e religiosità: in tal senso può intendersi compiutamente il concetto di Active Aging.
2.1.1. CENTRI PER LA SALUTE DELL’ANZIANO
La creazione di Centri di salute per l’anziano ha permesso di integrare meglio gli interventi di tipo riabilitativo-assistenziale, unificandoli in un unico contesto in cui siano più facilmente accessibili per l’anziano e per i suoi familiari, e ha consentito di sperimentare alcune azioni positive di potenziamento della sua salute, attraverso una serie di interventi di tipo socio-psico-pedagogico, che partono per ogni anziano dal bilancio delle sue competenze. Il bilancio ha l’obiettivo di permettere a una persona di
conoscere meglio le sue competenze, facendo il punto su di loro in funzione di un nuovo progetto personale o professionale,
mettendo in evidenza i mezzi e le fasi necessarie per realizzarlo. Le caratteristiche principali del bilancio provengono da una sintesi di procedure conosciute che associano un’analisi psicologica delle competenze a una dimensione di pedagogia attiva. I mezzi più importanti per realizzare un bilancio di questo tipo sono un ascolto empatico personalizzato e un’osservazione attenta,
distribuita lungo un arco di tempo sufficientemente lungo, per verificare le modalità concrete di affrontare situazioni diverse tra
di loro e gestirle. Si tratta di un percorso che include aspetti teorici, metodologici e operativi da attraversare insieme all’anziano.
La qualità di vita da lui percepita è legata alla consapevolezza della sua storia, in cui le circostanze cambiano, e cambia anche
il modo in cui può rispondere alle nuove sollecitazioni, senza che qualcuno gli si sostituisca nelle decisioni da prendere, nel ritmo da dare agli eventi, nella caratterizzazione delle soluzioni a cui va gradatamente approdando. I problemi della persona anziana, come quelli di chiunque, in qualsiasi arco di età si trovi, vanno affrontati con un approccio integrato, per garantire il necessario livello di qualità socio-assistenziale. Non si può ridurre la percezione che una persona ha di sé stessa alla percezione della sua malattia, o del suo stato di indigenza, dimenticando l’esperienza culturale e professionale di cui per vari decenni è stato
portatore. In molti documenti dell’OMS si fa rilevare spesso come l’obiettivo fondamentale sia quello di far coincidere l’aspettativa di vita totale con l’aspettativa di vita attiva: aggiungere vita agli anni è più importante che aggiungere anni alla vita.
Attualmente nelle strutture più avanzate dedicate agli anziani viene effettuata una valutazione multi-dimensionale delle loro
necessità assistenziali, utilizzando una gamma di test che esplorano le problematiche funzionali e ambientali non comprese nel
normale esame obiettivo. Si tratta di un approccio più completo, ma pur sempre focalizzato sui bisogni di assistenza. Modificare l’approccio all’anziano de-medicalizzandolo e implementando invece l’attenzione alle sue capacità e alle energie effettivamente disponibili, richiede un progetto che prevede:
- una diversa base antropologica per la definizione della vecchiaia,
- una nuova competenza psico-pedagogica per identificare le risorse attive su cui intervenire,
- una rete socio-sanitaria adeguatamente motivata e competente.
Per affrontare questa nuova sfida che, se può comportare anche una riduzione dei costi a carico del Servizio sanitario nazionale, va comunque assunta prevalentemente in funzione del miglioramento della qualità di vita dell’anziano, è stata formulata l’ipotesi che il monitoraggio della sua salute non possa essere fatto solo con il tradizionale approccio clinico. Ci saranno sempre
casi in cui il livello di disabilità richieda un intervento continuativo sul piano della riabilitazione fisica, come conseguenza di
patologie cardio-vascolari, neurologiche o post-traumatiche. Ma anche allora il miglior recupero si ottiene integrando il piano psico-motorio (mai esclusivamente) motorio, con quello orientato a un progetto personalizzato di potenziamento delle learning abilities, dopo aver effettuato un vero e proprio bilancio di competenze. Le figure professionali coinvolte in questo processo sono
molto variegate e comprendono il geriatra, il fisiatra, ma anche l’infermiere, il fisioterapista, il logopedista, lo psicologo, l’educatore, etc. Con il contributo di tutti si crea un port-folio, che è qualcosa di più di una semplice cartella clinica, in cui sono raccolti in modo ordinato, ma spesso frammentato, i dati clinici che riguardano l’anziano: è la descrizione propositiva del bilancio
delle sue competenze attive.
Definire cosa sia il bilancio di competenze non è però cosa facile. Il bilancio di competenze deve permettere all’anziano di passare in rassegna tutte le sue attività professionali per fare il punto sulle sue esperienze personali e professionali: reperire e valutare le sue acquisizioni legate al lavoro, alla formazione e alla vita sociale; identificare meglio i suoi saperi, le sue competenze
e le sue attitudini; scoprire le sue potenzialità inesplorate; raccogliere e strutturare gli elementi che gli consentono di elaborare
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un progetto personale e professionale, gestire al meglio le sue risorse personali; organizzare le sue priorità personali e familiari,
utilizzare al meglio le sue risorse nella negoziazione delle sue esigenze con interlocutori esterni. Il bilancio di competenze si colloca nella linea di frontiera tra una dimensione retrospettiva: le grandi tappe della propria attività professionale e socio-familiare,
per reperire le competenze acquisite, i centri di interesse e le motivazioni in una dimensione prospettica, che gli consenta di formulare realisticamente nuove scelte, prendendo le decisioni adeguate.
Nel bilancio di competenze il momento diagnostico-valutativo si orienta in senso formativo, perché esprime apertura a una nuova tappa della vita, con caratteristiche in parte uguali e in parte diverse da quelle precedenti, ma comunque si tratta pur sempre
alla propria vita. Il bilancio di competenze mentre restituisce all’anziano la consapevolezza delle sue capacità, gli ricorda l’urgenza di doverle adattare alle nuove situazioni e probabilmente anche la necessità di acquisirne di nuove. In altri termini guarda alla vecchiaia in termini di una nuova tappa formativa, con un suo peculiare approccio psico-pedagogico, che va oltre i confini della medicalizzazione (pur spesso necessaria).
Lo slogan, che caratterizza questo approccio prospettico, è ricordare che si deve imparare a invecchiare per realizzare cose interessanti e forse ancora mai fatte o fatte finora in modo diverso. La direttiva tecnico-metodologica di riferimento prende le distanze quindi da una concezione strettamente diagnostica e si converte in una nuova opportunità formativa, che coinvolge il soggetto in modo attivo. Diventa così possibile pensare a una rivalutazione dell’inserimento sociale dell’anziano sia rispetto alla famiglia che a una più vasta rete sociale.
Gli obiettivi basilari di una attività di bilancio di competenze sono quindi:
- fornire supporto alla ricostruzione critica del passato professionale, per evidenziare abilità e competenze spendibili all’interno di altri contesti;
- facilitare l’identificazione dei valori, delle preferenze, degli interessi e delle motivazioni del soggetto;
- aiutarlo a elaborare un progetto personale e sociale, eventualmente anche con risvolti professionali, per negoziare le possibilità di espressione e di realizzazione del soggetto stesso.
Il bilancio rappresenta per ogni anziano l’occasione per verificare la sua capacità di convertire il bagaglio di esperienze e competenze accumulato in precedenza nella nuova situazione, apportando i dovuti fattori di adattamento e quindi ne potenzia la
capacità di convertire a proprio favore le situazioni di cambiamento.
2.1.2. LE DIVERSE FASI DEL BILANCIO DI COMPETENZE
L’intervento sul Bilancio di competenze è strutturalmente un intervento di equipe, in cui accanto al ruolo di uno psicologo, che
può fare da trainer per potenziare nel soggetto la percezione della propria auto-efficacia, si avvale del contributo di nuove figure
di Educatori. Costoro debbono essere capaci di elaborare con gli anziani stessi un progetto-sviluppo mirato al potenziamento delle loro capacità, che vanno dalla garanzia dei livelli minimi di autonomia a più elevati profili di impegno. L’obiettivo è quello di
giungere a un progetto che riduca il gap tra piano delle aspirazioni e timore della propria incapacità a farvi fronte, per individuare un percorso che consenta di mettere a fuoco realisticamente le strategie necessarie per realizzare ciò di cui ha bisogno. L’educatore in questa fase utilizza sia tecniche di insegnamento-addestramento, che strategie di counseling, per generare una auto-percezione in prospettiva positiva. I termini capacità, attitudine, qualifica e competenza non sono sinonimi, anche se sono parzialmente inclusi gli uni nell’altro. Abitualmente una persona competente sa far fronte a situazioni complesse e sa risolvere i suoi problemi utilizzando in modo flessibile il suo know-how. Richiede una certa dose di creatività per saper trasferire il proprio bagaglio
di capacità in situazioni non sempre prevedibili a priori, anche in difetto delle abituali risorse utilizzate in situazioni simili. Gli
studi sulle learning abilities nell’anziano mostrano proprio in questi due aspetti le maggiori criticità: il trasferimento delle abilità
possedute in ambiti leggermente differenti da quelli che definiscono i contorni della sua quotidianità e l’applicazione a contesti
noti di abilità consolidate, ma ridotte. Sono sempre in gioco le relazioni dell’anziano con se stesso e con il suo contesto: sociofamiliare, tecnico-organizzativo, etc. Insegnare e imparare nuovamente a gestire se stesso e le circostanze è l’obiettivo di questo
nuovo approccio. Si tratta di un bilancio dinamico orientato in senso positivo, che contempla anche la possibilità di insegnare
all’anziano come servirsi di nuove strategie tecniche e comportamentali, superando i livelli di ansia connessi al cambiamento.
La formazione degli operatori in questo campo non è facile né scontata. Non si tratta di osservare o di valutare asetticamente, ma
di porsi accanto al soggetto per accompagnarlo nello sforzo di oggettivare quali sono le cose che vorrebbe fare e non riesce a
fare, suggerendo discretamente percorsi alternativi, senza sostituirsi. È importante stimolare l’anziano a esercitare una forte autoattenzione per cogliere i giusti nessi associativi tra competenze percepite e compiti da svolgere. Più che di un expertise si tratta
di un aiuto strutturante, fortemente interattivo che si avvale di una pedagogia dell’appropriazione. Ciò che è decisivo è interpretare l’anzianità non tanto in termini di perdita di capacità quanto di formazione permanente, con categorie proprie, sia sul piano delle metodologie che della valutazione.
L’emergenza anziani rappresenta ancora una novità per il nostro contesto socio-sanitario e non è facile ribaltare l’approccio medicalizzato, finora pressoché unico, in favore di un approccio psico-educativo, in cui al centro dell’attenzione non c’è il deficit di
competenze, che rende l’anziano in modo più o meno esplicito dipendente, ma il suo potenziale di self-care. L’intervento dell’operatore in questa logica deve assumere un orientamento diverso, fondato sul riconoscimento del portato esperienziale dell’anziano, che diventa fonte privilegiata della comune riflessione. Il colloquio non rappresenta l’angolo dello sfogo e qualche volta della ricerca di consolazione, ma il momento del ricordo attivo delle esperienze positive fatte. L’approccio retrospettivo a cui
occorre attenersi punta a identificare episodi della vita del soggetto, in cui si è assunto responsabilità a cui è stato capace di fare
fronte. Sono le strategie poste in primo piano per essere rielaborate e applicate al presente. Non sono tanto i fatti in sé stessi che
interessano, ma la percezione dei fatti, secondo una tecnica che integra il piano soggettivo con quello oggettivo e consente di
esplorare in modo più approfondito la relazione dell’anziano con sé stesso, o come si è detto acutamente con il fantasma di sé
stesso. Attraverso la sua memoria il soggetto rivela all’educatore uno spazio molto interessante in cui affiora la possibilità di mettere in risalto le competenze a suo tempo posseduto, per interpretarle e restituirle al soggetto, come momento rassicurante di
quanto è in grado di fare ancora oggi.
Ripensare l’anzianità in termini di formazione permanente richiede anche l’individuazione di strumenti con cui tener conto del
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suo processo di adattamento alle nuove sollecitazioni che maturano sia dalle mutate circostante esteriori che dalle diverse risorse psico-fisiche disponibili.
La storia di questo segmento formativo dell’anziano, l’ultimo della sua vita, rappresenta anche la spirale di un circuito educativo
che si è iniziato molti anni prima, e che ha trovato la sua efficacia proprio quando ha cominciato a mettere in relazione obiettivi, intesi come bisogni specifici, con contenuti adeguati e metodologie didattiche appropriate, per concludersi con una valutazione coerente con i bisogni inizialmente evidenziati e con i risultati raggiunti. Anche l’anziano ha diritto a imparare a essere
anziano e questo diritto comporta l’obbligo che qualcuno si disponga a insegnarglielo, senza necessariamente vedere i suoi limiti come malattia.
L’acquisizione di nuove competenze, con la relativa consapevolezza, migliora l’immagine di se stesso e rafforza l’autostima e la sicurezza. Diventa così più facile conservare un locus of control interno, sentendosi padrone della propria vita è più facile superare i limiti angusti di una visione stereotipata della vecchiaia, che si centra sulla diagnosi dei limiti e sollecita solo interventi di tipo medicalizzato.
Diventare consapevoli di sé e della propria immagine nell’interfaccia con l’ambiente esterno può presentare delle difficoltà a qualsiasi età ed è importante che avvenga nel contesto di una relazione empatica, capace di garantire accoglienza e supporto alla
gestione degli incidenti critici, in cui la percezione di sé si carica di negatività. Il concetto di assistenza acquisisce in questa chiave una valenza particolare e tocca gli aspetti più intimi della propria vita emotiva, della solitudine, dell’abbandono, se trova nell’altro un ascolto disponibile a farsi carico dei propri problemi. Difficile dire a questo punto a chi tocchi: se al geriatra, o all’infermiere, allo psicologo o all’educatore. Tocca tutta l’equipe nella sua struttura unitaria, anche se viene delegata al soggetto più
capace di stabilire una relazione significativa con l’anziano, superando il rischio di un anonimato di gruppo, in cui chiunque va
bene, perché nessuno ha espresso un’opzione reale per il soggetto.
Ciò che è necessario sottolineare è che, nel bilancio di competenze dell’anziano, oltre agli aspetti culturali e tecnico-scientifici,
vanno esplorati quelli relazionali e valoriali. Su questi ultimi vale la pena insistere, perché rappresentano l’humus su cui l’anziano va rielaborando la propria storia personale e si appresta a giudicarla. È difficile cioè interagire positivamente con un anziano
se non se ne conosce la scala di valori di riferimento.
3. ANZIANITÀ: COMUNICAZIONE INTERGENERAZIONALE E ASPETTI CULTURALI, VALORIALI E SPIRITUALI/RELIGIOSI
3.1. LA COMUNICAZIONE INTERGENERAZIONALE
Qual è il senso dell’invecchiamento come parte del ciclo vitale e nel quadro della biografia individuale?
Uno degli ambiti che appaiono più degni di riflessione è quello della comunicazione intergenerazionale, da intendersi fondamentalmente come scambio di significati appropriati alle diverse fasi della vita e ricerca di un senso condiviso sui valori che abitano i
vari tempi dell’esistenza. Si sono più volte segnalate - a proposito dell’incapacità della civiltà contemporanea di reperire un tale
senso comunicativo dello stare al mondo, soprattutto quando le condizioni di vita non sono ottimali - le cause culturali (e cioè la
mancanza di una rete di significati condivisi circa le dimensioni fondamentali del vivere: la nascita, la generazione, la morte) e
quelle sociali (le condizioni di vita odierne sono tali da rendere sempre più difficili forme autentiche di comunicazione).
Per favorire tale processo - configurabile nei termini dell’invecchiamento creativo - potrebbe essere utile confrontarci con la nostra
percezione della vecchiaia attraverso un percorso storico e antropologico che aiuti a riscoprirne le immagini nelle diverse civiltà
ed epoche storiche, e che consenta di recuperare la trama dei significati simbolici legati alla figura degli anziani - uomini e donne. Tale percorso sembra importante per ricostituire un rapporto tra le generazioni che colleghi il mondo di ieri al mondo di oggi
e alle sue sfide.
In questo quadro appare di particolare rilievo il concetto elaborato da Erik H. Erikson di generatività - quale caratteristica dell’età
adulta. Come rileva Erikson, l’adulto che si prende cura delle generazioni successive, assume su di sé il compito generazionale
di coltivare forza in quelli che vengono dopo di lui. Tale concetto ci riconduce, tra l’altro, al rapporto cruciale dell’anziano col
tempo. Superare l’egocentrismo per aprirsi all’altro significa, infatti, uscire dal cerchio del presente e proiettarsi nel futuro, oltrepassando il puro e semplice consumo dell’esistenza per generare qualcosa di nuovo: più mature condizioni di esistenza e più
profondi legami con la vita.
Quello di Erikson è un suggestivo tentativo di dare senso all’intero ciclo della vita attraverso l’idea di percorso, un percorso aperto e mai definitivamente concluso che si snoda in diverse fasi e ruoli con forte enfasi sui valori dello scambio e della reciprocità.
Nell’età adulta, la crisi di sviluppo è contrassegnata da due forze antagonistiche: la generatività contro la stagnazione. Il conflitto conosce fasi alterne e l’equilibrio psichico del singolo è, pertanto, instabile. Si tratta, tuttavia, di un normale stadio di crescita per la qual cosa il soggetto va sollecitato a far prevalere le forze sane e a resistere agli stimoli patogeni.
Ma che cosa s’intende, propriamente, per generatività? Si può definire come la disposizione del soggetto a concepire individui,
prodotti, idee; ad arricchire la propria personalità e a farsi guida di chi cresce. È, quindi, una capacità che abbraccia un’ampia
gamma di attività, di progetti e di intenzioni, in quanto concerne non solo l’attitudine ad avere figli o a manifestare le doti possedute nei vari campi, bensì anche la tendenza a seguire l’ascesa dei giovani alla vita adulta. La generatività non discende, pertanto, automaticamente dall’esser genitori ma è un indubbio segno di una maturazione psicosessuale e psicosociale visibile negli
adulti allorché prevalgano in loro le forze costruttive della persona.
La stagnazione, in cui Erikson ravvisa il nucleo patologico della vita adulta, è, al contrario, un affievolimento delle tendenze che
rendono l’individuo un essere produttivo e creativo, una regressione a un’intimità innaturale accompagnata da un’insoddisfazione diffusa, da un autocompiacimento non di rado indotto da minorazioni psicofisiche generatrici di ansia.
Dall’antinomia tra generatività e stagnazione deriva la virtù della cura, termine che indica un tipo di impegno e di premura in
continua espansione, ove confluiscono le forze positive dell’età anteriore. Essa esprime l’istintivo impulso ad amare, ad accarezzare chiunque, in stato di abbandono, renda manifesta la sua disperazione.
Come si vede, tra le relazioni interumane assume un’importanza centrale il caring, visto come l’essenza della prima e dell’ultima fase della vita: è esso a conferire all’esistenza il profilo del ciclo, il significato del ritorno.
Erikson avverte che presenta gli stadi della vita a partire dall’ultimo, quello dell’età senile, per verificare quale senso può assumere una rassegna del completo ciclo vitale nel contesto globale del suo iter. Riafferma, altresì, la sua convinzione che, dopo
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aver portato a termine l’interconnessione tra tutti gli stadi, sia possibile partire da uno qualsiasi di essi per arrivare agli altri all’interno della mappa che ne esprime il senso e la posizione. In questo quadro si ribadisce che l’età adulta è l’anello di congiunzione tra il ciclo vitale dell’individuo e quello delle generazioni.
Un’obiettiva difficoltà propria della fase di transizione che stiamo attraversando e che va dall’élite di vecchi alla massa degli anziani, è quella del rapporto tra mutamento delle condizioni sociali e persistenza delle immagini culturali. E tuttavia le persone anziane possono e devono conservare un’importante funzione generativa: nell’età senile, infatti, a parere di Erikson, tutte le qualità del
passato si arricchiscono di nuovi valori. Assume, pertanto, grande importanza lo stadio generativo proprio dell’età adulta che precede l’età senile anche se, va ricordato, in uno schema epigenetico, il dopo significa solo la successiva versione di un livello precedente, non la sua perdita.
La generatività include in sé i caratteri della procreatività, della produttività e della creatività, la capacità, quindi, non solo di
generare nuovi individui ma anche una sorta di potere autogenerativo relativo all’ulteriore sviluppo dell’identità.
Erikson insiste sull’atteggiamento di cura che l’anziano può assumere nei confronti delle persone a lui care, atteggiamento che
può mantenere e rafforzare la sua stessa identità oltre ad aprire al rapporto con le altre generazioni. Si tratta di un aspetto assai
interessante e, in genere, scarsamente considerato nella riflessione sulla senescenza giacché, quando si parla dell’anziano, si sottolinea soprattutto la dimensione soggettiva della cura di sé, della preoccupazione per il proprio destino.
Per Erikson non ci sono dubbi: il ruolo dell’età senile dev’essere riconsiderato e rivisto alla luce del fatto che l’ultimo stadio della vita assume un enorme rilievo per il primo: nelle culture più vitali, i bambini maturano mentalmente grazie al rapporto che
vengono ad avere con le persone anziane. Si dovrà pertanto riflettere a lungo sull’importanza che avrà, e dovrà avere in futuro,
questo rapporto quando una matura età senile costituirà il bagaglio di un’esperienza suscettibile di essere appresa secondo un
‘invecchiamento creativo’. Le modificazioni indotte dal tempo - tra le quali il prolungamento della vita media - richiedono, infatti, nuove e più profonde ri-ritualizzazioni, capaci di assicurare un più significativo interscambio tra l’inizio e la fine della vita,
una più definita sintesi degli stadi.
Erikson denuncia l’attuale disorganizzazione della vita familiare come causa che contribuisce, in larga misura, alla perdita, nell’età senile, di quel minimo di coinvolgimento vitale che è necessario per sentirsi veramente vivi. La mancanza di questo coinvolgimento gli sembra il tema nostalgico nascosto nei sintomi manifesti che spingono le persone anziane a far ricorso alla psicoterapia, il motivo più frequente della loro disperazione, dovuta a un senso prolungato di stagnazione.
Non c’è niente di naturale, avverte Erikson, nella solitudine degli anziani: non è nella loro natura rinunciare all’incontro con l’altro, allo scambio. Anzi, appartenere a pieno titolo alla comunità, e con tutta la ricchezza della propria storia personale, appare
come uno dei bisogni più forti di questa stagione della vita. L’isolamento degli anziani non è, dunque, inevitabile giacché non è il
frutto di una loro inclinazione ma il portato di pregiudizi e di barriere culturali e sociali, che dobbiamo impegnarci a rimuovere.
Sta a noi tutti - quello degli anziani non è un problema solo loro - tracciare il progetto di una cultura nuova, fatta di leggi ma
anche di comportamenti, che sia capace di vedere nell’invecchiamento quel momento della vita in cui si fondono e acquistano
senso tutti i temi di quel che si è vissuto, appreso, sofferto - come in una sinfonia o in un racconto che, col suo carico enorme
di saggezza, potrebbe costituire un raccordo prezioso tra le generazioni.
3.2. SPIRITUALITÀ E RELIGIOSITÀ NELLA SENESCENZA
La condizione anziana può essere indagata tra i diversi ambiti - si pensi, ad esempio, allo stato di salute e ai servizi socio-sanitari o alle attività (lavorative e ludiche) - anche relativamente a fattori che giocano un ruolo non meno rilevante nel determinare
la concreta situazione di vita personale.
Parliamo, cioè, di elementi “immateriali” ma fortemente influenzanti la “materialità” del quotidiano, come: le relazioni interpersonali, la spiritualità (senso della vita, della morte e della trascendenza) e la religiosità con il suo portato di atteggiamenti e pratiche cultuali, la sfera valoriale personale e sociale, la formazione e la promozione della persona anche nell’età anziana, la sua
creatività (Active Aging), facendo anche cenno alla preparazione delle giovani generazioni all’anzianità (geragogia).
Indipendentemente dalla concezione filosofica generale con cui ognuno considera la vita nel suo insieme, la dimensione spirituale e religiosa rappresenta un elemento dal quale è ben difficile prescindere quando si affronta il discorso sull’uomo. E sebbene tale dimensione richiami connotazioni semantiche assai ampie e spesso eterogenee, è comunque fuor di dubbio che spiritualità e religiosità costituiscano un orizzonte privilegiato attraverso cui la persona, e la persona anziana in particolare, può meglio
penetrare una quotidianità spesso frettolosa e superficiale.
La religiosità delle persone anziane rappresenta, dunque, un campo di indagine molto interessante - ancorché meno indagato dalla letteratura specialistica di altri settori - perché apre alcuni spiragli su un mondo di natura prevalentemente esistenziale a cui si
correlano molti altri fattori (soddisfazione di vita, qualità di vita, percezione del tempo ecc.).
Inoltre, occorre considerare che la componente spirituale acquista una maggiore consapevolezza nell’anzianità che, spesso, è
l’età in cui più forte è il desiderio di ricevere rassicurazioni sulla vita futura. Dagli studi disponibili emerge chiaramente che la
religione influenza moltissimo la qualità di vita dell’anziano, sia che si trovi in condizioni di autosufficienza, sia che si trovi in
condizioni di disabilità. Ciò trova conferma in una concezione di qualità della vita di tipo personalista in base alla quale il benessere della persona deve essere valutato in maniera globale includendovi anche i bisogni e i desideri, i quali sono chiamati a
essere orientati ai valori che, soli, realizzano la plenitudine della persona.
È stato da più parti affermato che l’anzianità è l’età dei cambiamenti (a livello sociale, fisico-biologico e valoriale): tali cambiamenti possono essere traumatizzanti e destabilizzanti per l’anziano perché vengono meno quei punti di riferimento che hanno caratterizzato tutto il percorso di vita. A questo proposito le ricerche “ad hoc” lasciano trapelare che per molti la religione sia uno di quei
capisaldi che con l’età non vengono meno, anzi spesso si rafforzano o, se in gioventù poco presenti, possono assumere, nell’anzianità, un peso e uno spazio maggiori. La religiosità conferisce all’anziano stabilità e una buona dose di certezze che lo aiutano a fronteggiare i possibili disadattamenti dovuti all’età. I valori etico-religiosi veicolati in un primo momento dalla famiglia di origine e assunti, quasi automaticamente, nella giovane età, diventano nell’età senile qualcosa di integrante nel vissuto personale.
Il generale processo di secolarizzazione della società odierna ha colpito in misura minore gli anziani, sia per un fattore generazionale sia per uno esistenziale in quanto l’anzianità rappresenta un ciclo di vita “che inevitabilmente conduce a porsi degli inter-
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rogativi sul senso della vita e sul destino dell’uomo dopo la morte, ovvero a sviluppare o recuperare una sensibilità per i temi
centrali di ogni esperienza o messaggio religioso”.
L’anziano assiste infatti a una serie di cambiamenti traumatizzanti che tendono a stravolgere tutte le sue certezze facendolo sentire del tutto (o in parte) inadeguato alla nuova realtà che si va configurando. L’anziano si rende conto che tra il suo mondo e
quello delle nuove generazioni spesso non c’è continuità (in questo senso la religiosità è un esempio molto indicativo), non c’è
un effettivo trasferimento di valori.
La società odierna ha modificato la scala di valori di cui l’anziano è depositario. La dignità personale viene sostituita da criteri di
pura efficienza, funzionalità e utilità: “l’altro è apprezzato non per quello che ‘è’ ma per quello che ha, fa e rende”. Risulta evidente che nella società contemporanea è permeata da un forte empirismo pragmatico che porta l’uomo a valutare soprattutto, se
non solamente, la fattualità piuttosto che l’idealità. È l’affermazione dell’homo oeconomicus o homo technicus (dunque del “fare”)
sull’homo humanus (o dell’”essere”) che, solo, può garantire all’uomo il recupero dell’integrità perduta. Ai fini di un recupero del
senso dell’essere possono concorrere tutte le correnti di pensiero, religiose e culturali che giocano la loro partita antropologica
sul valore-persona e, tra queste, anche la visione cristiana.
La religione può rappresentare, pertanto, uno strumento valido per recuperare tutto un mondo di valori che il processo di industrializzazione e di modernizzazione ha progressivamente attenuato. È anche per questo che il tempo dell’anziano gradualmente perde i contorni del tempo reale e tangibile per assumere quelli di un tempo trascendente e spirituale, che si concretizza in
una particolare attenzione al mondo escatologico. L’anziano viene in questo modo messo nelle condizioni di poter risignificare
la propria vita così fortemente connotata di cambiamenti.
La logica che pervade la realtà contemporanea ha modificato in maniera profonda e radicale le aspettative e i significati da attribuire alla vita. In questo senso, l’obiettivo dell’anziano diventa, a livello più o meno consapevole, il recupero della parola spirituale, interiore e umana.
Il riemergere della dimensione religiosa rappresenta - in molti dei casi analizzati - un anello di congiunzione con il passato giovanile spesso connotato da un forte senso religioso. Il senso di continuità si realizza più facilmente nella dimensione spirituale
che non in quella fisico-corporea dove l’anziano sperimenta la sua fragilità e vulnerabilità, oltre che la contingenza. Attraverso il
mondo spirituale si può recuperare la “civiltà dell’essere” che si rivela “nel momento contemplativo, nella ricerca dell’al di là del
‘segno’ e si colloca dentro il ‘significato’”. Del resto, la saggezza e la maturità che caratterizzano l’età anziana, conferiscono a
questa particolare fase della vita umana un senso e un fine diversi, in quanto si dovrebbe essere orientati alla realizzazione di
una più profonda interiorità e alla ricerca di valori che trascendono la realtà materiale.
3.2.1 L’UNIVERSO VALORIALE NELLA VITA DELLA PERSONA ANZIANA
La dimensione morale - sia sul versante delle scelte di valore personali sia su questioni etiche a rilevanza maggiormente sociale
- costituisce un campo di indagine particolarmente interessante. Non solo, però, in quanto tale, bensì anche in relazione ad altri
aspetti: la formazione ricevuta in famiglia e nelle “agenzie” formative classiche: scuola, chiesa, ambiente di lavoro. Ciò assume
ulteriore rilevanza non tanto e non solo per gli anziani di oggi, ma anche per quelli di domani. Più recentemente, anche la disciplina bioetica si è occupata a fondo di questioni etiche insorgenti nell’anzianità.
In complesso, la letteratura disponibile indica alcune linee di tendenza generali. Il profilo valoriale dell’anzianità contemporanea, almeno alle latitudini occidentali europee mostrerebbe due elementi salienti:
1. una disomogeneità rispetto alla consapevolezza del rapporto antropologia/valore.;
2. riguardo alle scale valoriali, sembrerebbe di poter rilevare una diffusa omogeneità rispetto ai “modelli” etici ricevuti, con una
significativa prevalenza del lavoro su altri aspetti che potrebbero avere rilevanza etica previa.
Da quanto sopra esposto nasce però una domanda sul perché la letteratura riferisca di una certa “emarginazione” dai processi decisionali ed educativi della famiglia di appartenenza, di un sottile “silenziamento” della voce esperienziale della persona anziana.
Forse la soluzione potrebbe rintracciarsi in un recupero e nella promozione della cultura dell’essere a partire dalla focalizzazione
della persona nell’ambiente ove si snodano tutte le fasi del suo esserci nel mondo: la struttura familiare. E cultura dell’essere significa presumere che a suo fondamento si postuli la centralità di una plenaria cultura della vita che necessariamente rinvia poi - non
prima - alla sua qualità che ha senso e significato solo se rapportata alla vita: infatti “la qualità è un attributo, una disposizione che
acquisisce senso se riferita alla sostanza” e guarda prima di tutto alla plenitudine della persona, ai valori che la fondano.
Dal recupero dell’essere e dell’esserci dell’uomo in tutte le sue fasi deriva poi la focalizzazione sulla possibilità squisitamente
umana della scelta e, pertanto, sulla dimensione etica senza la quale i valori sono colti solo nella loro qualità eudaimonistica,
economica, soddisfattiva di bisogni. Occorre invece andare oltre e riconoscere nei valori infraumani spirituali, nel valore morale (e in quello religioso come ultimo passaggio atteso) gli obiettivi da raggiungere quale matura espressione di umanità, nella giovinezza come anche nell’anzianità. Dunque va ricercato un ventaglio “elevato” dei valori, secondo la precisa scala di priorità
appena detta, pena la rincorsa affannosa e mai soddisfatta alla saturazione di bisogni falsi, superflui, seguendo unicamente la filosofia dell’Avere che lo porta inevitabilmente a essere un uomo “a una dimensione”, un uomo che ha perso la parte migliore di
sé. D’altra parte, in una simile “logica” l’anziano gioca una partita persa in partenza per i caratteri propri della condizione esistenziale e biologica che egli vive. A conferma di ciò, è suggestivo che anche relativamente alla sofferenza dagli studi emerga un
monito di grande significato per tutte le età: l’essere deve poter prevalere sulla cultura del fare e del produrre per consentire all’animo umano di percorrere tutte le tappe della sua evoluzione. È solo in questa dimensione, infatti, che “l’anziano non va verso
la caligine, ma verso la pienezza dell’essere personale: la verità sta in fondo al cammino, la verità e la gioia si trovano nella pienezza realizzata”.
PARTE SECONDA. L’ANZIANO NON AUTOSUFFICIENTE E L’ETICA DELLA CURA
Il variegato e sofferto mondo degli anziani, sembra oggetto di proponimenti tanto retorici e ripetitivi quanto poveri di realizzazioni concrete.
Sono ben note le iniziative dell’ONU che negli ultimi decenni ha studiato le straordinarie dimensioni mondiali dell’invecchia22
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DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI
mento, ha elaborato “Piani di azione” e “Principi” fondati su indipendenza, partecipazione, cura, auto-realizzazione e dignità, e
nel 2002 ha convocato a Madrid l’Assemblea mondiale sull’invecchiamento. Da allora nessun programma concreto per la valorizzazione degli anziani nella vita sociale, produttiva, economica e culturale, si è realizzato (se non iniziative frammentarie e
riflessioni all’interno di altri programmi quali la lotta all’esclusione o alla discriminazione, e risoluzioni di carattere sanitario come
per l’Alzheimer).
L’auspicata “Società per tutte le età” non decolla se non nei proponimenti di una certa élite socio culturale, nonostante le sofferenze degli anziani aumentino soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, dove si combatte, dove rivoluzioni e terrorismo mietono
ogni giorno decine di vittime: le invocate dignità, partecipazione e indipendenza, a parte lodevoli considerazioni che dovrebbero tenere conto dell’evoluzione longitudinale della vita piuttosto che di situazioni trasversali standardizzate, sono ancora un’opzione a beneficio di pochi fortunati nei paesi sviluppati. Né sembra diffondersi particolarmente il valore di un’autentica solidarietà, quella che ogni uomo - indipendentemente dalla società in cui vive e dalle proprie credenze - può e deve dimostrare nei
confronti di ogni altro uomo, solidarietà della quale l’anziano rappresenta oggetto di attenzione ma anche e forse soprattutto soggetto attivo capace di offrire quanto di unico è in grado ancora di dare.
4. L’INVECCHIAMENTO
L’invecchiamento determina la perdita progressiva della capacità di adattamento dell’organismo all’ambiente per l’esaurimento
delle riserve funzionali. Al fine di comprendere i complessi meccanismi che lo determinano sono state formulate varie teorie, tra
le più accreditate quelle dei “radicali liberi e dei legami crociati”, della “alterata sintesi proteica” e dell’orologio molecolare o
“fenomeno di Hayflick”, quest’ultima più rispondente alle domande della scienza moderna.
Il processo di invecchiamento non appare come un fenomeno uniforme e omogeneo. soprattutto dal punto di vista psicologico.
Sono molteplici i fattori che lo condizionano: il patrimonio genetico, le malattie e i traumi subiti, l’educazione ricevuta, le esperienze vissute, le perdite sofferte, la semantica degli affetti, le opportunità e le difficoltà incontrate, le caratteristiche del proprio
ambiente familiare e sociale e soprattutto il desiderio di “essere e di vivere”. Esistono una vita e un invecchiamento per ogni singola persona, ogni individuo è inconsciamente responsabile del proprio percorso di crescita anche attraverso il confronto con
l’ambiente e con gli eventi che lo caratterizzano. Assumono un’importante rilievo, in questa fase della vita, l’ambiente familiare,
quello sociale e assistenziale, le componenti affettive e motivazionali. La vita vissuta e la vita che si sta vivendo possono condizionare le ulteriori capacità di crescere senza limiti fino all’ultimo istante come dimostrano la storia dell’arte, la letteratura, la
scienza, ma anche la quotidianità dell’individuo che può trovare in se stesso proprio nella parte ultima della vita la forza per “l’ultima pennellata… quella che dà più luce e dà forse il senso finale al quadro”
Se alcune determinanti biologiche non sono correggibili, altri fattori sono suscettibili di modifica, ad esempio il decadimento fisico che consegue alla inattività e che può dar luogo a quella grave compromissione funzionale che va sotto il nome di “sindrome ipocinetica” responsabile o corresponsabile di un gran numero di ricoveri di soggetti anziani in centri di riabilitazione. L’attività fisica è in grado di prolungare la Studi effettuati su colture di fibroblasti estratti dal polmone di un feto, portarono all’osservazione di una rapida moltiplicazione iniziale di queste cellule, seguita da un rallentamento della loro crescita (fase senescente),
fino a giungere al termine delle divisioni cellulari. Hayflick ne dedusse che, non potendo i fibroblasti moltiplicarsi oltre un numero programmato, doveva esistere un “orologio molecolare” in grado di regolarne la riproduzione. Le uniche cellule in grado di
superare tale limite di moltiplicazione previsto, sono quelle neoplastiche.
Le più importanti scoperte neuro-scientifiche negli ultimi anni hanno contribuito a superare l’antico preconcetto che interpretava
il cervello come organo destinato esclusivamente all’involuzione e alla perdita delle sue cellule. Se è vero che invecchiando si
determina una riduzione dei neuroni, è altrettanto vero che le cellule nervose sono in grado di ricostruire e compensare le parti
mancanti e riattivare le stazioni neuronali silenti. Assumono grande rilievo in tal senso una stimolazione ambientale appropriata
per il recupero di competenze psichiche, relazioni e sociali.
Quanto alle diverse funzioni talora è possibile rilevare un rallentamento psico-motorio in rapporto soprattutto al tempo necessario a organizzare i processi decisionali. La coscienza non presenta in condizioni normali particolari involuzioni, possono tuttavia insorgere, più frequentemente che in età giovanile, episodi di confusione mentale non necessariamente attribuibili a stati patologici. La autocoscienza, vale a dire la coscienza dell’Io che si interseca e concorre con i cosiddetti “sentimenti dell’Io”, è influenzata di solito da gravi sofferenze psichiche. Nell’anziano può essere collegata con turbative della memoria, in particolare della
memoria iconica (sensoriale o di brevissima durata) e di quella a breve termine che sono meno attive con riduzione della capacità di ricordare i fatti più recenti, mentre la capacità di ricordare eventi del passato rimane particolarmente vivace. In condizioni di benessere psico-fisico l’anziano è in grado di apprendere e conoscere allo stesso modo del giovane e dell’adulto, pur se può
avere bisogno di tempi più lunghi per l’assimilazione. Le motivazioni sono comunque essenziali, come - all’inverso - la scarsa
partecipazione attiva riduce non poco la memoria e accentua le difficoltà di apprendimento. Si può osservare inoltre un certo
decremento della funzione attentiva. La riduzione delle funzioni visive e uditive può attenuare le capacità percettive. L’isolamento
culturale, il basso livello economico e sociale accentuano il declino psichico. Al contrario l’integrazione sociale e la maggiore
cultura creano premesse per una vecchiaia e longevità migliori. Tanto più che l’anziano è spesso in grado di vicariare qualche
défaillances con altre doti quali la continuità, la prudenza, l’esperienza, la motivazione, la capacità di controllo emotivo, di riflessione e sintesi, la maggiore precisione oltre alla sostanziale conservazione di importanti funzioni come il linguaggio, il pensiero,
la percezione, l’attenzione e il riconoscimento.
Nonostante un generale e progressivo declino dell’attività sessuale correlato all’età, il sesso e la sessualità rappresentano per gli
anziani parte integrante della esperienza esistenziale, che non si identifica solamente con il rapporto fisico, ma si associa sotto il
profilo psicologico ed emozionale con la creazione di una profonda intimità tra i partner. La riduzione della potenza aumenta in
modo lieve nel corso del settimo decennio e diviene più marcata nell’ottavo e può assumere una certa consistenza solamente
dopo i 75 anni. La riduzione è condizionata non solo da fattori fisiopatologici e socio-ambientali, ma anche dall’emergenza o
dall’aggravarsi di patologie capaci di interferire con l’attività sessuale che può venir meno per cause differenti nei due sessi. Nelle donne sono generalmente legate alla presenza e alla capacità del coniuge, mentre per gli uomini sono quasi sempre rappresentate dalla propria incapacità.
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È comunque importante sfatare i pregiudizi che configurano la vita sessuale dell’anziano come qualcosa di inesistente, di sconveniente, di inopportuno e pericoloso per la salute e la sua cessazione come evento ineluttabilmente legato al trascorrere degli
anni. In Italia aumentano e nascono con maggior frequenza relazioni fra anziani quando professione, figli e vite familiari fanno
parte del passato. Secondo i sociologi tra breve non saranno più una rarità né una novità le coppie attempate che si amano e che
decidono di iniziare l’ultimo cammino insieme (che nel loro entusiasmo non è mai l’ultimo). Tuttavia, gli stereotipi culturali fanno sì che questi legami vengano spesso occultati, derisi, o avversati. Gli psicologi invece sollecitano gli anziani a rifarsi una vita,
soprattutto se vedovi e soli.
In sintesi, in età senile, soprattutto in ambito psicologico, nulla deve essere considerato con approssimazione e relegato nei luoghi comuni del risaputo, della diagnosi e del sintomo. Seguire l’indirizzo del cosiddetto ageismo, vale a dire lo stereotipo per cui
il raggiungimento di una determinata età anagrafica equivale a essere anziani, con tutto il carico di patologie che possono creare dipendenza funzionale, è certamente fuori luogo dato che la terza età si presenta eterogenea quanto ad autosufficienza, salute fisica e mentale, qualità di vita: l’età in senso anagrafico non può rappresentare un criterio per individuare la scelta assistenziale e/o terapeutica e per escludere chicchessia da terapie finalizzate alla guarigione o al prolungamento della vita. Il periodo di
anzianità attiva, che precede di molto quella involutiva, richiede un approccio orientato all’active-ageing, ossia a un invecchiamento creativo in buona salute.
Per il cosiddetto invecchiamento sociale, non esistono regole fisse definite dalla legge, contrariamente al minore (che è tale dalla nascita al compimento del diciottesimo anno). La normativa pensionistica riguarda i soggetti di età avanzata, ma neppure in
questo caso vengono fornite indicazioni precise che definiscano l’anziano se non attraverso mere pratiche contributive talora non
univoche, funzione delle categorie professionali di appartenenza e molto spesso di situazioni particolari: basti pensare alle baby
pensioni, ai prepensionamenti forzosi o patteggiati con le aziende, alle condizioni dei magistrati e dei docenti universitari. Se il
pensionamento può determinare una precoce e significativa perdita di valore della persona attraverso la “svalutazione della funzione dell’esperienza”, negli ultimi venti anni i modelli tradizionali hanno perso progressivamente significato in quanto proprio
il sapere e l’esperienza vengono meno con l’invecchiamento in rapporto al modificarsi dei costumi e al progresso tumultuoso della tecnologia che la persona anziana spesso non è in grado di seguire.
In linea di massima, all’invecchiamento della popolazione si accompagna un certo deterioramento della professionalità tanto che
le aziende considerano spesso i lavoratori anziani un peso perché privi del necessario aggiornamento professionale e tendono per
questo ad allontanarli dal lavoro o a isolarli dalle decisioni e dai processi aziendali attraverso un progressivo demansionamento
che può degenerare nel fenomeno del “mobbing”. Al riguardo, sembra necessario - come suggerito dai rapporti dell’OCSE fin
dagli anni Novanta - investire maggiormente in formazione professionale permanente che mantenga l’anziano al passo con l’innovazione e prevedere un pensionamento flessibile, anche nella prospettiva delle politiche più recenti che tendono a favorire il
recupero lavorativo dell’anziano tanto più che anche nella terza età vale l’affermazione secondo la quale “ Il lavoro non è soltanto una necessità per guadagnare, ma una condizione per vivere”.
A queste condizioni gli anziani, pur con i loro limiti, dovranno costituire, secondo l’orientamento odierno, sempre più una risorsa umana, professionale e culturale e proprio per questo la “soglia dell’anzianità sociale”, rappresenterà sempre più un valore
proprio di ogni singolo individuo, da considerare in modo realistico in base al desiderio e alla capacità di fare, mentre l’età anagrafica negli anni a venire sarà un indicatore sempre meno significativo delle effettive condizioni e delle reali necessità dell’individuo. Molto più realisticamente - anche sotto questo aspetto - saranno la assenza di patologie, l’autosufficienza, la capacità di
essere e non più l’anagrafe, a fare la differenza.
5. L’ANZIANO AUTOSUFFICIENTE E PRIVO DI GRAVI PATOLOGIE
L’anziano autosufficiente e privo di gravi patologie non offre particolari problemi. La sua condizione di benessere dipende soprattutto dalla possibilità di conservare interessi lavorativi e non, di mantenere contatti con i più giovani, di dialogare con loro con
la mente rivolta al futuro della famiglia e della società, al di fuori dei consueti modelli negativi della vecchiaia, senza necessariamente suscitare quel “rispetto” che potrebbe rappresentare l’anticamera dell’imbarazzo e della sopportazione, ma neppure
offrire il destro ad atteggiamenti di mera tolleranza o compassionevoli.
La donna anziana vive di solito in famiglia con i nipoti che crescono, non di rado rappresenta la guida anche economica della
casa. Con il marito progressivamente autoinsufficiente, è spesso in grado di assumere le funzioni di caregiver. Gli elementi che
possono segnare la vita della donna sono la solitudine che segue alla vedovanza, le più scarse risorse economiche, un più lungo periodo di disabilità in rapporto alla maggiore sopravvivenza, il basso livello di istruzione che ancora si percepisce nelle fasce
di età più elevate ma che sta progressivamente migliorando e cambierà ancora nei prossimi decenni, la depressione. Le statistiche dimostrano che le donne presentano in genere una situazione più sfavorevole, soprattutto dai settanta anni in poi in rapporto all’aggravamento delle patologie croniche ad alta invalidità e lunga durata. Le donne subiscono una minore “selezione” durante la vita rispetto agli uomini (che soffrono più frequentemente di malattie a più alta letalità e minore durata come i tumori, gli
accidenti cerebro e cardiovascolari) e questo fenomeno spiegherebbe il maggior stato di sofferenza in vecchiaia.
Ciò anche se non mancano, e anzi sono sempre più frequenti, i modelli di donna medio-anziana diversi da quello tradizionale
per i quali la donna inizia una terza vita modificando radicalmente i propri interessi, è in grado di affrontare situazioni nuove con
iniziative originali e costruttive soprattutto nel volontariato socio-culturale, e vive in parallelo - e non sempre in dimensioni ridotte - l’esistenza delle donne più giovani, libere da qualsiasi tipo di soggezione.
La sensazione di distacco dal proprio corpo nel quale la donna, ma anche l’uomo, non si riconoscono e che sentono come estraneo, può non avere nulla a che fare con la nostalgia della bellezza e della gioventù e spesso non sono le piccole patologie a limitarne la libertà! Molto più spesso si tratta - come già accennato nella “Prima parte” del presente Documento di una vera e propria crisi di identificazione che mette in gioco la nostra stessa immagine. Quando l’illusione di un’eterna giovinezza è dissipata,
interviene un trauma narcisistico che genera una psicosi depressiva. Donne e uomini, nel tentativo illusorio di recuperare se stessi, di ricomporre corpo e psiche, o quanto meno di approdare verso nuovi equilibri, per alleviare il rimpianto e la depressione,
ma anche per far fronte alle esigenze della vita sociale e di lavoro non di rado percorrono le soluzioni offerte dalla chirurgia estetica. Il dato statistico è sempre più significativo per gli interventi chirurgici e i trattamenti estetici, anche se trova un più elevato
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riscontro nella fasce di età inferiori ai 65 anni. La conseguenza è il fatto che esiste ormai una terza età, un’età ufficiosa ignorata
dalla gerontologia, quella dei “senza tempo”, di coloro che si affidano alla chirurgia per cancellare i segni degli anni, e che ottengono volti inespressivi che non rappresentano il vissuto della persona, in una sorta di omologazione estetica. Il suggerimento di
Ugo Ojetti, “saper invecchiare significa saper trovare un accordo decente tra il tuo volto di vecchio e il tuo cuore e cervello di
giovane”, è tuttora valido e può rappresentare la chiave di volta in grado di dare alla donna una nuova bellezza “non ritoccata”
e realmente vissuta per gli anni che verranno. Mentre l’immagine della donna anziana preda del decadimento fisico e di gravi
problemi intellettivi frutto di una letteratura oggi anacronistica o di studi incentrati su persone ricoverate in ospedali o in ospizi,
deve considerarsi in gran parte superato almeno nelle fasce di età inferiori agli ottanta anni.
Talora l’anziano in buona salute vive presso istituti pubblici o privati. Il problema psicologico-sociale dell’anziano istituzionalizzato è visto spesso, e a torto, come una contrapposizione tra famiglia e istituto, per cui l’istituto rappresenterebbe una soluzione
di ripiego imposta dalle circostanze o da una famiglia che, per interessi anche legittimi, non può far fronte ai bisogni dell’anziano. Ma non va trascurato il fatto che oggi (e non solo da oggi) la Casa di Riposo può rappresentare la scelta cosciente di non
pochi anziani autosufficienti anche economicamente, vedovi e non, che vogliono garantirsi una vita autonoma anche sotto il profilo sociale e affettivo. Ove, al contrario, vi fosse costretto, l’anziano potrebbe trovarsi ad affrontare situazioni di profondo disagio in rapporto anche alla voglia di vivere, alla formazione socio-culturale, etc. L’impatto può essere penoso per una serie di problemi: la convivenza con persone estranee in relazione alle capacità di socializzazione, il rischio di chiudersi sempre più in se
stesso e di presentare vere e proprie crisi di aggressività verso altri ospiti, le carenze affettive, l’obbligo di sottostare a regole e a
volte a ordini, possono indurre nell’anziano un senso di impotenza e di “oggettualità”; la dipendenza psico-fisica può portarlo ad
abbandonarsi passivamente alle cure per soggezione, per bisogno di affetto o di compagnia. Ovviamente un tale sfortunato impatto può innescare un processo involutivo attraverso un circolo vizioso che accentua il senso di disistima verso se stesso e la dipendenza dagli altri.
Per l’anziano autosufficiente un problema emergente è infine rappresentato dal fatto che i nonni sono spesso penalizzati dalla
separazione o dal divorzio dei figli riguardo a un’eventuale forzosa interruzione del rapporto con i nipoti. A loro volta i bambini possono subire un ulteriore trauma per la perdita dei nonni quale memoria storica ed emotiva che consentiva loro di percepire il senso delle proprie radici e della continuità della vita. La Giurisprudenza ha più volte confermato il “diritto di visita dei nonni” e ribadito l’importanza di un’adeguata tutela del vincolo esistente tra nonni e nipoti che affonda nella tradizione familiare
riconosciuta dall’art. 29 della Costituzione.
6. L’ANZIANO FRAGILE
I maggiori problemi, anche di interesse bioetico, riguardano gli anziani ai limiti della autosufficienza o non autosufficienti, i cosiddetti anziani fragili, soprattutto ove manchino il supporto della famiglia e sussistano condizioni economiche precarie. Nel nostro
Paese l’equazione secondo la quale l’anziano è di per se stesso assimilabile al malato o all’invalido secondo il classico aforisma
“senectus ipsa morbus”, nei fatti non sembra pienamente superata, quanto meno sotto il profilo strettamente psicologico. È infatti
ancora dominante l’atteggiamento di chi ritiene le malattie del vecchio conseguenza dell’invecchiamento e spesso destinate a evolvere fatalmente. La trascuratezza e l’ignoranza portano a confondere l’incedere della vecchiaia con patologie ancora trattabili che,
se non diagnosticate e curate, possono essere responsabili della perdita dell’autosufficienza e di costi sociali e umani elevatissimi.
Evitare questa drammatica evoluzione è compito precipuo della geriatria, cosa che la distingue dalle altre specialità mediche.
Va inoltre considerato che la sperimentazione geriatrica riguarda essenzialmente le patologie cognitive prevalenti nella terza età,
per le quali l’impegno è massimo e i risultati promettenti, mentre viene trascurato lo studio specifico sugli effetti dei farmaci per le
patologie comuni al di là di quanto noto dalla medicina interna dove però i soggetti della sperimentazione raramente superano i
cinquant’anni. Le persone anziane vengono cioè private dei risultati di studi adeguati su farmaci e interventi e spesso trattate in
base a protocolli terapeutici e assistenziali inadeguati e per di più con ricadute economiche considerevoli e non giustificate.
Eppure l’anziano è un paziente particolare, diverso dall’adulto, un malato spesso affetto da polipatologie la cui evoluzione può
portare alla disabilità. La somministrazione dei farmaci dovrebbe pertanto essere effettuata con accortezza ed essere legata alla specificità del soggetto e del particolare quadro morboso, con grande attenzione agli effetti collaterali, e non dovrebbe semplicemente seguire raccomandazioni e cautele generiche. La limitata sperimentazione farmacologica nell’anziano dovrebbe essere considerata una discriminazione, come se la cura in età avanzata non fosse meritevole di investimenti specifici, piuttosto che essere ritenuta la conseguenza di un atteggiamento prudenziale in rapporto all’età dei soggetti sui quali si sperimenta. L’esperienza dimostra
invece che in tarda età è ancora possibile intervenire e curare con successo anche chirurgicamente alcune patologie (come quelle
cardiache), con il risultato di offrire al paziente anziano ulteriori anni di vita in buone condizioni di salute. Tra gli esempi che ricorrono nella pratica, si segnala la carenza di interventi geriatrici o psicogeriatrici di supporto nel trattamento chirurgico di gravi patologie degenerative o traumatiche dell’anca. In questi casi, anche se la protesizzazione è perfettamente riuscita, è possibile che si
sviluppi una psicopatologia latente che potrebbe essere evitata con un adeguato e preventivo intervento di sostegno.
Le incongruenze economiche emergono anche dal numero dei ricoveri degli anziani non in linea con i parametri LEA (“Livelli
Essenziali di Assistenza”): secondo l’OTE (Osservatorio della terza età) gli anziani ‘parcheggiati’ in ospedale, la mancanza di prestazioni sul territorio, la percezione di poter essere curati solo se ricoverati, ‘costano’ all’Italia, ogni anno, 18 milioni di giornate di degenze improprie che potrebbero esseri evitate con un risparmio di 5,7 miliardi di euro, proprio quelli che, secondo l’organo di vigilanza sul bilancio statale, sarebbero necessari per riequilibrare il deficit del settore. Ad esempio: il trattamento domiciliare degli ultra-ottantenni colpiti da ictus si è dimostrato tanto efficace quanto quello ospedaliero, con la differenza essenziale
di garantire una migliore qualità della vita e un numero certamente inferiore di reazioni depressive o evoluzioni negative di psicopatologie latenti.
Di notevole interesse bioetico, oltre che economico, il fatto che ì pazienti anziani sono responsabili di oltre la metà della spesa
farmaceutica a carico del SSN (51,9%) e delle prescrizioni dei medici di base (53,2%), anche se rappresentano solo il 21,5% degli
assistiti. Questi dati potrebbero essere meno preoccupanti se la “Relazione sullo stato sanitario del Paese 2001-2002” non evidenziasse che le cure sono “inappropriate nel 25% dei casi e causano sprechi di 8 miliardi di euro all’anno”. La Società Italiana di
Geriatria e Gerontologia ha segnalato150.000 ricoveri all’anno per gli effetti secondari da farmaci, associazioni erronee o inop-
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portune, assunzione di farmaci sbagliati. È un segno allarmante della situazione di fragilità e di assistenza insufficiente in cui vivono gran parte degli anziani. Spesso sono rischi legati all’impossibilità di muoversi da casa per recarsi dal medico o alla necessità
di provvedere da soli in qualche modo. A questo dato, si deve aggiungere quello degli errori nelle prescrizioni ospedaliere, quasi
tutti evitabili: sono ben 15 ogni 100 ricette (comunicazione preliminare dalla SIFO, in assenza di statistiche nazionali ufficiali).
L’assistenza domiciliare integrata (ADI) potrebbe garantire anche in Italia, come avviene in altri Paesi, un più corretto supporto
socio-assistenziale-sanitario, anche se non è agevole disporre di dati affidabili per un confronto a livello europeo in quanto il
generico termine di “assistenza a domicilio” comprende un’ampia e diversificata gamma di servizi, spesso con obiettivi e modalità diverse, erogati da più soggetti, pubblici e/o privati, all’interno di ogni singolo Paese. Le punte massime di questo genere di
assistenza si registrano in Danimarca (24,6%), la media nei Paesi del Nord Europa è comunque superiore al 10%, ed è molto
inferiore nel Sud (sono interessati solo il 3% degli anziani). Secondo il rapporto Censis 2004, meno di un terzo della popolazione italiana ultra-sessantacinquenne è a conoscenza dell’esistenza del servizio di “assistenza domiciliare integrata” (ADI). A complicare il quadro vi è il fatto che buona parte dell’Italia meridionale (circa un quarto) ne è sprovvisto. Inoltre, se il servizio può
essere attivato celermente nel Nord Est (entro 48 ore, o al più tardi entro una settimana) a seguito della richiesta alla Asl competente e previo accertamento da parte della Unità di Valutazione Geriatrica integrata dalle consulenze specialistiche, nel Sud i tempi sono decisamente più lunghi (anche oltre un mese).
Eppure la ADI è privilegiata da tutti i governi europei per contrastare il rischio di istituzionalizzazione, per garantire agli anziani
una migliore qualità della vita e permettere ancora, ove possibile, un certo inserimento sociale. L’assistenza è migliore sotto il
profilo dei servizi e dei costi e risulta largamente preferita dai pazienti che possono rimanere nel proprio ambiente, circondati
dalle persone e dalle cose care, con il ricordo dei momenti felici, essendo il ricorso in Ospedale, anche solo diurno, riservato
alle riacutizzazioni della patologia o alla necessità di accertamenti. È evidente che l’assistenza domiciliare non può essere imposta ai pazienti e alle loro famiglie. La generosità e l’affetto dei familiari - pur essenziali per ricondurre a una dimensione umana
la condizione di emarginazione che spesso il malato e l’anziano devono sopportare - non sempre sono sufficienti a far fronte a
problemi complessi che, anche al di fuori delle emergenze, possono richiedere prestazioni di particolare impegno. Ad esempio,
l’influenza delle barriere architettoniche può essere di grave ostacolo alle necessità degli anziani disabili e all’efficacia del trattamento riabilitativo svolto in regime di ADI. Il centro motore e decisionale, naturale anello di congiunzione tra struttura sanitaria
e assistiti, è rappresentato dal medico di medicina generale che propone e coadiuva gli interventi specialistici, d’accordo con il
paziente finché egli in grado di comprendere e di esprimere un consenso valido. È evidente che la medicina di base talora non
è in grado di affrontare i problemi degli anziani, mancano infatti nelle nostre università insegnamenti idonei alla valutazione delle capacità psicofisiche e sociali nella terza età, all’approccio multidisciplinare nello studio del paziente anziano, all’utilizzazione di mezzi diagnostici poco complessi in ambulatorio o presso il domicilio del paziente, alla comunicazione con il paziente
anziano che presenta delle sue proprie peculiarità, all’individuazione di alterazioni comportamentali e alla possibilità di un tempestivo e appropriato trattamento. Il geriatra dovrebbe poi rappresentare la principale figura di riferimento nel trattamento del
paziente anziano ma spesso non lo è essendo la geriatria assimilata a qualsiasi altra branca medica. Né può la medicina interna
vicariale questo ruolo essendo essa diretta essenzialmente allo studio di patologie acute, priva di riferimenti specifici alla polipatologia dell’anziano, alla riabilitazione geriatrica, alla peculiarità della nutrizione del vecchio, etc.
Quanto alle strutture residenziali (Residenze Assistenziali [RA], e Residenze Sanitarie Assistenziali [RSA], secondo la terminologia italiana) il confronto con gli altri Paesi è complesso per la disomogeneità di un insieme di caratteristiche organizzative ed economiche, e per le funzioni che debbono assolvere. Un buon esempio è tuttavia rappresentato dalla Danimarca che - come altri
paesi del Nord Europa - ha sperimentato iniziative interessanti: dal 1988, dopo un’esperienza ventennale, è prevalsa la scelta
politica di non costruire più RSA e case protette e di riconvertire quelle esistenti in abitazioni per gli anziani con servizi flessibili conformi alle loro esigenze. L’esperienza in questi Paesi è tale che gli standard strutturali relativi al comfort erano più avanzati di quelli italiani già dal 1967. È più che evidente che la distanza va colmata al più presto per migliorare la disponibilità, l’accessibilità, l’organizzazione, la vivibilità, la qualità dell’assistenza di quel fondamentale presidio rappresentato dalle RA e RSA,
tenendo presente che i Paesi del Nord negli ultimi dieci anni stanno sempre più concentrando la loro attenzione sul miglioramento della qualità dell’ambiente e delle prestazioni, eliminando ove possibile gli aspetti più spiacevoli della vita collettiva e
favorendo gli spazi di intimità, le cure personalizzate, il rispetto dei ritmi normali della vita quotidiana, fino a superare il concetto di struttura residenziale con l’offerta di “alloggi protetti”. Questi ultimi derivano spesso dalla trasformazione delle tradizionali residenze collettive adattate alle esigenze di chi perda autonomia e possa seguitare a vivere autonomamente con l’aiuto dell’assistenza domiciliare e la garanzia di una maggiore sicurezza anche per la diffusione delle tecnologie informatiche o telematiche applicate agli alloggi e di strumenti automatizzati di ausilio allo svolgimento delle attività quotidiane. La flessibilità e la personalizzazione dei servizi per quanto concerne le prestazioni integrate sociali e sanitarie è garantita dalla fornitura di pacchetti
studiati su misura per i singoli utenti, secondo le politiche di mantenimento dell’anziano al proprio domicilio.
Nei Paesi del Sud Europa continua invece a crescere l’interesse per le strutture residenziali tradizionali, peraltro con grande lentezza almeno in Italia, in ritardo nelle strategie di assistenza all’anziano e non ancora in grado di perseguire concretamente scelte di significativo interesse bioetico con il duplice fine di ridurre i costi dell’assistenza e garantire una migliore qualità della vita
presso il domicilio dell’anziano. Il servizio sanitario nazionale comunque, pur con le difficoltà quotidiane ben note, resta tra i
pochi al mondo in grado di garantire gratuitamente ai cittadini l’assistenza integrativa socio sanitaria.
Un aspetto ulteriore da tenere presente è il fatto che il personale infermieristico, e soprattutto quello socio assistenziale, è spesso purtroppo numericamente carente. Il problema riguarda tutti i Paesi europei dove nell’ultimo decennio il numero dei dipendenti dei servizi residenziali e domiciliari senza qualifica è aumentato di sei volte. I problemi legati al personale possono essere
molteplici, frequente in particolare il cosiddetto burn out che può sfociare in gravi crisi depressive soprattutto a contatto con
pazienti terminali affetti da neoplasie e da demenza, e che rappresenta la maggiore causa di defezioni. Le caratteristiche del malato psichiatrico (aggressività e comportamenti violenti) possono comportare notevole stress per il personale, che può sfociare in un
clima di violenza reciproca.
Il volontariato è d’obbligo, anche per supplire alle carenze, e, con un incremento del 120% circa negli ultimi anni, rappresenta
una risorsa determinante e addirittura insostituibile per la tutela della salute, tanto da prestare assistenza a ben otto milioni di
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anziani e malati, spesso al di là del puro “atto sanitario”. Per ulteriori sviluppi della assistenza non rimane che attendere provvedimenti concreti del Parlamento Europeo in riferimento alle proposte presentate e alle più recenti delibere.
Di particolare rilievo sono le patologie psichiatriche che colpiscono l’anziano. Secondo l’OMS la depressione rappresenta la principale causa di invalidità (12 % dei casi), in parte funzione anche del modesto grado di cultura, della precaria situazione economica e delle patologie che affliggono l’anziano. La demenza interessa poco meno di un milione di italiani, ma il numero è
destinato a raddoppiare entro il 2050 per l’effetto combinato della maggiore aspettativa di vita e del miglioramento dello stato di
salute della popolazione generale. Il 60-70% dei casi di grave deterioramento cognitivo che si osservano nell’invecchiamento
sono rappresentati dalla demenza di tipo Alzheimer (AD), la cui incidenza aumenta in maniera esponenziale con l’età. I costi
diretti e indiretti ammontano a 35-50 mila euro all’anno per paziente. I disturbi sono spesso improntati a tematiche persecutorie
o di gelosia che possono condurre a un gesto drammatico vissuto come ineludibile. Le alterazioni che coinvolgono la personalità fisica e soprattutto psichica dell’anziano possono scatenare manifestazioni antisociali soprattutto se al disadattamento si
aggiungono circostanze ambientali sfavorevoli e l’abuso di alcolici. Le attività criminose del vecchio riguardano in genere lesioni personali volontarie o colpose contro il coniuge e i familiari fino all’uxoricidio, comportamenti pedofili e delitti sessuali. In
alcuni casi espressione di problemi caratteriali, depressione o deliri di tipo paranoide.
Talora lo stesso pensionamento - in soggetti predisposti - può dar luogo a reazioni depressive importanti per la sensazione di
appartenere ormai alla fascia di marginalità sociale che spesso significa perdita affettiva ed economica soprattutto quando coincide con modificazioni strutturali della famiglia (figli grandi e indipendenti che non guardano più al padre come a un punto di
riferimento). Il grave senso di malessere che talora colpisce l’anziano può essere favorito e aggravato da una serie di altri fenomeni quali il progresso tecnologico, il mutare dei modelli culturali, la crisi delle istituzioni, la progressiva perdita di ideali certi
e condivisi in grado di alterare la realtà intellettuale dell’anziano e determinarne l’ulteriore distacco. Questa complessa situazione può creare e sostenere un preoccupante stato di tensione con perdita di finalità e fiducia, paura, sconforto, inefficienza, stati
d’ansia e forme depressive anche di notevole rilievo che possono rappresentare l’anticamera - in soggetti predisposti - di comportamenti anche violenti che l’anziano può mettere in opera soprattutto contro se stesso. Di solito è colpito l’uomo, ma anche
la donna ove gli interessi familiari non rimangano vivi e prevalenti, in quanto il lavoro rappresenta sempre più di frequente oltre
che un mezzo di sostegno della economia familiare, una necessità interiore, un bisogno di confrontarsi e di dimostrare le proprie
qualità anche al di fuori della famiglia.
I problemi che impediscono alle fasce più deboli il pieno accesso ai servizi sono rappresentati dalla difficoltà o dalla mancata
integrazione dell’assistenza primaria fornita dai medici di famiglia con gli altri servizi territoriali per l’assistenza psichiatrica,
soprattutto nelle regioni meridionali, dove preoccupanti risultano le conseguenze della carente collaborazione (in oltre la metà
dei casi) tra medici di famiglia e Servizio di Igiene mentale. Conseguenza gravissima è la sottrazione a queste persone particolarmente fragili della indispensabile continuità terapeutica.
Di fronte alle insufficienze dell’assistenza pubblica le famiglie si rivolgono al mercato internazionale del lavoro che fornisce
opportunità a prezzi contenuti. L’iniziativa privata si sostituisce al pubblico attraverso le cosiddette badanti, al cui istinto affidiamo il bene prezioso rappresentato dai nostri cari. Queste convivenze nascono per necessità, talvolta forzano il volere dell’anziano ma spesso approdano a equilibri accettabili, creando legami di affetto e solidarietà.
Non si possono trascurare, anche sotto il profilo bioetico, i problemi degli anziani in carcere anche se possono sembrare secondari in considerazione della percentuale modesta degli ultra-sessantacinquenni detenuti, mentre la legge garantisce una qualità e
una continuità di cure equivalenti a quelle offerte al resto della popolazione. La loro condizione può imporre iniziative urgenti ove
venga richiesto il riconoscimento dell’incompatibilità con il regime carcerario a causa di gravi patologie in atto. La burocrazie è
però lenta e le procedure farraginose: spesso la cartella clinica non è redatta a dovere nei penitenziari più grandi anche per la mancata continuità assistenziale da parte dei medici e degli specialisti; il ritardo nell’esecuzione di accertamenti può essere notevole
soprattutto se richiede il trasferimento del detenuto in un ospedale pubblico che avviene con non poche difficoltà e a volte a fatale distanza di tempo dalla richiesta. Sono decisive la consulenza del medico legale e degli altri specialisti nominati dall’Autorità
giudiziaria, ma anche in questo caso le indagini possono essere lunghe per la necessità di accertamenti strumentali che, spesso,
anche se semplici, richiedono attese esagerate, spiegabili solo con una burocrazia inefficiente. Talora possono avvicendarsi più
consulenze, comprese quelle richieste nell’interesse del detenuto, mentre trascorrono tanti più mesi quanto più grave è il reato e
rigido il regime di detenzione. La malattia può aggravarsi, il ricovero in un centro attrezzato adeguato alla patologia sofferta può
essere tardivo e la morte può paradossalmente ‘eliminare’ ogni problema circa la concessione delle cure. Il sovraffollamento, la
promiscuità, le malattie infettive, la violenza tra carcerati, la mancata tutela della privacy nelle celle collettive, il sovraccarico di
lavoro per il personale dei penitenziari rendono penose e umilianti le condizioni di vita dei detenuti soprattutto anziani e incidono decisamente in senso negativo sulla possibilità di un effettivo recupero sociale per cui la permanenza in carcere diventa sempre più spesso un percorso verso l’emarginazione. Anche se non disponiamo di statistiche specifiche per la terza età, l’incidenza
di disturbi psichici quali la depressione e l’aumento dei decessi in seguito ad atto suicida sono relativamente frequenti.
Un accenno infine sul problema delle truffe che negli ultimi anni affliggono sempre più gli anziani (l’aumento è del 471% tra il
2001 e il 2003). Il danno morale e psichico è elevatissimo, sia per la depressione reattiva alla sensazione di incapacità, sia per
la perdita di oggetti di grande significato affettivo anche se talora di modesto valore. L’entità del fenomeno è tale da richiedere
interventi specifici, ma la scarsa propensione a denunciare i raggiri aggrava considerevolmente il rischio di incappare in persone
senza scrupoli.
6.1. OPERATORI, SERVIZI, PERSONE: RISORSA PER L’ANZIANO
A seguito delle considerazioni avanzate sulla particolarità dell’età anziana, è importante considerare chi sono oggi gli operatori
che si prendono cura dell’anziano. Conoscere meglio le peculiarità di queste figure può permettere una valutazione delle risorse
professionali oggi a disposizione per l’anziano, oltre naturalmente a quelle del medico di base o curante e del geriatra.
L’infermiere responsabile dell’assistenza generale infermieristica, precedentemente denominato “infermiere professionale”, è il
professionista responsabile dell’assistenza, sia questa infermieristica che di base. Per realizzare ciò si avvale di progetti assistenziali per la singola persona o il gruppo o la comunità, centrati su diagnosi infermieristiche. In questi progetti si parte dall’indivi27
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duazione dei bisogni della persona, per valutare il suo bisogno di assistenza o meno; successivamente, a seguito dei questo accertamento, l’infermiere potrà individuare gli specifici problemi per i quali la persona necessità di assistenza infermieristica e/o di
assistenza di base, pianificando la risoluzione di questi mediante opportuni interventi. In questa pianificazioni saranno previsti
quindi gli interventi che dovranno essere svolti direttamente dall’infermiere e quelli che saranno affidati all’Oss: questi ultimi
varieranno a seconda del contesto, delle condizioni della persona assistita, della presenza o meno di persone risorsa.
Accanto all’infermiere distrettuale si stanno sviluppando in molte realtà italiane esperienze pilota suggerite dalla Federazione
nazionale dei Collegi Ipasvi stessa, che mirano ad attualizzare la presa in carico del soggetto anziano. Orientati a esperienze europee già consolidate, nell’assistenza infermieristica si propone oggi l’infermiere di famiglia, ovvero un professionista che assieme
al medico di base prenda in carico e segua nel tempo l’evoluzione dello stato di salute della persona, offrendo continuità di cure
e anche personalizzazione delle stesse, per superare l’offerta di servizi standardizzati, quindi in un qualche modo rigidi e centrati sulle prestazioni da erogare anziché sulla persona da assistere. L’infermiere di famiglia segue un certo numero di soggetti,
verificando nel tempo l’evoluzione della sua situazione, attivando e/o segnalando al curante la necessità di risorse umane (professionisti e operatori ad hoc) e materiali (es. assistenza integrativa) per il singolo caso.
L’operatore socio-sanitario (Oss) è una figura di supporto all’assistenza, che agisce in collaborazione con l’infermiere e l’assistente
sociale, occupandosi direttamente dell’assistenza di base, ovvero di quell’accudimento un tempo fornito dalla famiglia patriarcale, ma oggi scomparso per l’evoluzione verso famiglie mononucleari. Sicuramente la comparsa sulla scena socio-sanitaria di personale di supporto all’assistenza ha segnato un passo avanti nella presa in carico e gestione dei bisogni della popolazione anziana, troppo spesso afflitta da patologie cronico-degenerative che si sommano agli effetti dell’anzianità. Succede così che la persona viva condizioni di mortificazione e riduzione della propria dignità di persona: per esempio per l’impossibilità di lavarsi regolarmente a causa della riduzione della forza e competenza funzionale, oppure alimentarsi regolarmente per la non autosufficienza nel disbrigo della spesa e nell’approntamento dei pasti.
L’assistente sociale è il professionista che opera nella prevenzione, nel sostegno e nel recupero di persone, famiglie, gruppi o
comunità che si trovino in situazioni di bisogno o di disagio sociale. Attraverso progetti mirati e un’azione di rete, si occupa di
creare opportunità di recupero per soggetti svantaggiati, anche in relazione ai problemi della comunità specifica cui è assegnato:
agisce infatti su base territoriale o all’interno di strutture di cui è referente. All’interno delle Residenze Sanitarie Assistenziali l’assistente sociale è spesso presente come Responsabile, curando la quotidianità e le scelte più generali di persone a volte sole e/o
lontane dai propri cari loro malgrado.
Relativamente ai servizi per l’anziano, distinguiamo:
a) Il distretto socio-sanitario, nel suo significato più proprio di insieme di popolazione, area geografica e rete di servizi, è il luogo dove si tende a mantenere il benessere dei cittadini attraverso la possibilità di informazioni, orientamenti, prestazioni per
gli abitanti. Non si tratta quindi di un edificio che contiene operatori e servizi, offerti a richiesta del singolo interessato, ma
dell’insieme di case, scuole, fabbriche, uffici dove le persone trascorrono la loro vita abituale, usufruendo dell’apporto di operatori (medici curanti, infermieri, assistente sociale, Oss, psicologo ecc.). Le attività per la prevenzione, la cura e la riabilitazione vengono così portate direttamente al domicilio del soggetto (assistenza domiciliare sanitaria e sociale), oppure negli
ambienti di studio e lavoro (interventi educativi nella scuola, controlli, igiene e sicurezza nelle sedi lavorative,etc.) o infine
centralizzati in strutture predisposte, ovvero il centro socio-sanitario. Le prestazioni erogabili a domicilio comprendono, in
integrazione appunto, assistenza medica, medico specialistica, infermieristica, riabilitativa e/o di recupero funzionale, nonché quelle di natura sociale. Alcune regioni contemplano come servizi complementari quelli riferiti a pasti, lavanderia, stireria, organizzati a livello di distretto. L’accesso al servizio può essere richiesto dagli interessati stessi, dal medico curante, dall’ospedale in cui il soggetto si trova ricoverato, indirizzando a seconda dei casi l’assistito verso un rientro a domicilio, il day
hospital o la Residenza Sanitaria Assistita. Le visite si articolano nell’arco dell’intera settimana, con frequenze variabili a
seconda dei casi, includendovi anche i turni festivi.
b) La Residenza Sanitaria Assistita (Rsa) è un presidio che offre assistenza infermieristica e di base, oltre a riabilitazione e assistenza tutelare e alberghiera, a soggetti con esiti di patologie non curabili a domicilio. All’interno della Rsa gli ospiti devono
poter ritrovare un contesto il più possibile simile a quello domestico; spazi comuni interni ed esterni, ma anche ambiti più
appropriati per consentire una minima privacy sono requisiti essenziali di tali strutture. Esse sono inserite nella rete dei servizi territoriali che fanno capo alle attività socio sanitarie del distretto; la loro direzione organizzativa e alberghiera è affidata a
un responsabile con profilo professionale non
medico. Per quanto riguarda gli standard di personale sono previsti infermieri, personale di supporto
all’assistenza, terapisti, educatori. Il personale per
attività specialistiche non è invece inserito a tempo
pieno.
c)
La Residenza per Anziani (Ra) è invece genericamente adibita all’ospitalità di persone in età
avanzata, ma ancora autosufficienti; in questi casi è
soprattutto la problematica sociale alla base della
necessità di accesso. Di conseguenza, l’organizzazione interna prevedrà un comfort alberghiero e
attività ricreative genericamente intese. Un particolare esperienza in proposito è quella del Centro
sociale o Centro Residenziale per Anziani, che ha
avuto realizzazioni (e a volte denominazioni) diverse a seconda delle varie regioni.
d)
In sostituzione delle totalizzanti Case di riposo, tipiche di alcuni anni fa, in alcune realtà si sono
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sviluppati Centri per Anziani, che uniscono la funzione di casa albergo e centro diurno. In questo modo sono assolte più
necessità senza tuttavia arrivare alla struttura per non autosufficienti: vi trovano alloggio anziani totalmente o parzialmente
autosufficienti che presentano soprattutto problemi di alloggio (per es. per sfratto, barriere architettoniche, mancanza di ascensore, coabitazioni forzate), o di solitudine, o di sicurezza psicologica. Ai residenti, che vivono in moduli abitativi di piccole
dimensioni, vengono offerti servizi essenziali come mensa, bar, pulizie ambientali. Tutte le volte che è possibile l’anziano
rimane il padrone di casa, occupandosi in prima persona delle sue necessità quotidiane. In un clima di questo tipo, inoltre,
la cooperazione tra anziani è facilitata, e questo incide positivamente sul mantenimento dei livelli di autonomia anche per
soggetti molto avanti con l’età. L’assistenza è presente, ma certamente non assume ritmi e modalità assistenzialistiche tipiche
di altre strutture, così da non opprimere la libertà individuale. Questo tipo di struttura si ispira a modelli anglosassoni e scandinavi, con collocazioni dei Centri per Anziani in plessi urbani, così da inserire soggetti altrimenti marginalizzati in tessuti
sociali ancora vivaci, evitando lo sradicamento dell’anziano dal suo precedente contesto abitativo.
e) I Centri diurni accolgono l’utenza che necessita di forme di accudimento, assistenza, integrazione (anziani, disabili, tossicodipendenti, pazienti psichiatrici) per un arco di tempo limitato nella giornata. Il loro scopo è quello di favorire la socializzazione e il recupero con semplici attività artigianali e manuali (ceramica, disegno su stoffa, lavori in legno, altro) usufruendo
anche del supporto di operatori specifici (animatori, educatori, terapisti occupazionali) Il Centro deve essere dotato di spazi
per attività ricreative e per la mensa. La permanenza nel Centro per alcune ore della giornata allevia e supporta, nel contempo, anche la famiglia dell’utente; chi si fa carico di questi soggetti è sottoposto a uno stress non indifferente, pertanto deve
essere garantita anche una tutela, per quanto possibile, della qualità di vita di questi, oltre che dell’assistito.
f) Le Case Famiglia sono strutture di limitate dimensioni, destinate ad accogliere persone di varia fascia di età, così da ricostituire un clima di coabitazione tipico del nucleo familiare. L’organizzazione degli spazi interni e della vita che vi si svolge è
molto simile al contesto domestico.
g) Il Day Hospital è la struttura che accoglie utenti che necessitano di trattamenti terapeutici o diagnostici complessi, per un arco
di tempo limitato. Di norma è annesso al presidio ospedaliero, dei cui servizi generali si avvale. Il suo orario di apertura al
pubblico si protrae tra le sette e dodici ore. Il personale che vi opera (medici, infermieri, altre figure professionali a seconda
dell’indirizzo di intervento: terapisti della riabilitazione, podologi, dietisti) è assegnato stabilmente a tale servizio e comunque all’UO ospedaliera di riferimento. Il day hospital nasce per risponde alle necessità di trattamento per il quale è richiesta
sì una permanenza prolungata nella struttura, ma non una degenza a tempo pieno; l’utente può così avere soddisfatte le proprie esigenze senza per questo sottoporsi a un ricovero protratto. Ne sono esempi la day surgery, che oggi sta sempre più
sostituendo le degenze di Chirurgia generale degli ospedali: si tratta di unità dedicate a interventi di entità limitata, che possono essere assolti in giornata e quindi evitare al cliente di dover restare in degenza. Ne deriva che l’organizzazione di tale
struttura deve potersi avvalere dei servizi generali del presidio ospedaliero (lavanderia, cucina, altro), ma per concludere
comunque l’attività nell’arco diurno. Ciò comporta risparmi in ordine a risorse, personale, sedi, oltre ai vantaggi facilmente
desumibili per l’utenza (permanenza nel proprio domicilio, minor disagio per i familiari, risposte in tempi reali alle esigenze
di cura)
h) Il Presidio ospedaliero è oggi destinato a rivedere il proprio target classico, per indirizzarsi particolarmente a soggetti acuti e
postacuti, con risorse umane professionali e dotazioni strumentali di livello avanzato. Si tratta di ospedali di medie dimensioni, comprendente in genere i settori di base di Medicina e Chirurgia, oltre ad altre unità operative di dimensioni e quantità variabili. Rispetto alla centralità di cui ha sempre goduto nel nostro Ssn, oggi la sua posizione è in netto ridimensionamento. Lo stato di salute odierno della popolazione, lo sviluppo di servizi alternativi per la riduzione dei quadri acuti che la
medicina ha permesso, ne fanno ai nostri giorni una struttura riservata a pochi casi limitati, che però necessitano di risorse e
modalità di cura avanzate. Ecco quindi che gli ospedali si stanno preparando a essere sempre meno luoghi di cura abituali,
per divenire servizi destinati a esigenze di trattamento ad alta intensività. Dal punto di vista strutturale l’edificio ospedaliero
sta pian piano evolvendo verso moduli più flessibili, con diversi livelli di cure: uno intensivo, o high care, e uno di convalescenza o stabilizzazione vigilata, o low care. Le strutture accreditate operano in stretta sinergia con quelle pubbliche, parimenti chiamate a rispondere agli stessi standard previsti per i presidi pubblici.
7. L’ANZIANO EMARGINATO
La solitudine può nascere dalla vedovanza, dalla perdita dei figli e della famiglia, dalla povertà; sono soprattutto le complesse
eterogenee dinamiche delle grandi città metropolitane a favorire fenomeni di emarginazione o di autoemarginazione soprattutto
nelle persone anziane che possono vivere vegetando, ammalarsi, suicidarsi, morire per strada o in condizioni di degrado materiale e morale. Non di rado l’anziano viene dimenticato in istituti o in comunità, in fantomatici ospizi, addirittura nella propria
abitazione e in famiglia viene privato degli affetti, a volte costretto a rilasciare procure o donazioni, o ricattato per ottenere un
tetto, talora vittima della nevrosi dei familiari, incolpato per la sua incapacità e le sue necessità, maltrattato, vilipeso, malnutrito, beffeggiato e addirittura spinto al suicidio. La morte in solitudine è frequente soprattutto nel periodo estivo e la salma può
essere ritrovata dai familiari dopo molti giorni, al ritorno delle vacanze o dai vigili del fuoco chiamati da un vicino. Ma non ci
risulta che casi di morte, anche se favoriti dall’abbandono dei parenti, siano stati oggetto di denuncia.
Da non dimenticare, nel problema più generale dello stato di abbandono e di emarginazione, gli eventi accidentali in casa. Meno
numerosi dei suicidi, costituiscono spesso il sintomo dello stato di bisogno e di vulnerabilità che si esprime drammaticamente
con un incidente, per lo più evitabile e contenibile nella sua gravità, qualora l’anziano fosse soccorso sollecitamente. Spesso l’abbandono continua negli obitori, come è avvenuto in Francia nell’agosto del 2003 e tristemente mostrato dai telegiornali. Il fatto
che i familiari dimentichino i genitori o i nonni negando loro anche il funerale e non solo per ragioni economiche, è purtroppo
esperienza frequente anche nel nostro Paese, tanto che la forzata tumulazione avviene spesso senza l’intervento dei parenti, a
spese del Comune e con un’ordinanza della magistratura, a volte dopo mesi o anni, per la necessità di liberare le celle.
E se la società è indifferente di fronte all’anziano socialmente inutile, i governi, il parlamento, le regioni varano spesso piani in
gran in parte non applicati o non applicabili pur rappresentando l’anziano emarginato - distante dalla cultura, dalla produttività
e sempre più dal contesto sociale -, una realtà comunque numericamente importante.
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8. L’ANZIANO MALTRATTATO
I maltrattamenti agli anziani rientrano in fattispecie previste dai codici, come i delitti di violenza privata (art. 610 c.p.) e di lesione personale (artt. 582 e 583 c.p.). Molti eventi drammatici rimangono “sepolti” nell’ambito della famiglia o degli istituti, specialmente se il reato è opera di familiari e manchi la denuncia delle vittime affette da problemi cognitivi o timorose di ulteriori
violenze. Giuridicamente rilevante l’abbandono di persona incapace (art.591), eventualità che può riguardare anche il vecchio.
In quanto delitto perseguibile d’ufficio in questi casi il referto è obbligatorio.
La mancata denuncia del fenomeno del maltrattamento degli anziani è dovuta, a volte, al comprensibile riserbo della vittima, alla
speranza di un diverso atteggiamento dell’aggressore, alla vergogna, alla non infrequente complicità di terze persone nell’ambito della famiglia.
Il medico legale che operi nell’ambito della struttura pubblica potrebbe essere molto utile ai colleghi e in particolare al medico di
base per la diagnosi e la valutazione dei casi di violenza di difficile interpretazione anche al fine della decisione di inviare il referto
alla autorità giudiziaria. Ma tale possibilità non viene presa in considerazione dalle ASL, nonostante sia stata più volte auspicata.
Rilevante è il maltrattamento negli Istituti a cui si deve aggiungere la noncuranza e la superficialità dei medici, la leggerezza degli
educatori, e talora l’impreparazione delle forze dell’ordine. Il fenomeno, pur essendo ampiamente conosciuto, è stato finora sottovalutato sia dal punto di vista quantitativo che della gravità. Negli USA, secondo il National Elder Abuse Incidence Study, almeno un milione e mezzo di anziani subirebbe ogni anno abusi anche se, verosimilmente, il fenomeno assume proporzioni ben più
elevate. La violenza psichica sfugge a qualsiasi controllo, tanto più che in non pochi casi si consuma nell’ambito della famiglia
o nell’isolato rapporto di soggezione vittima-aggressore. La trascuratezza è una forma frequentissima di maltrattamento che riguarda i bisogni personali, il vestire, l’alimentazione, l’incuria, la mancanza di pulizia, gli avvelenamenti da farmaci o gli iperdosaggi per distrazione, l’inadeguata assistenza sanitaria. Frequentissimo l’uso di mezzi di contenzione, l’abuso verbale ed emozionale, il turpiloquio, il furto di beni personali, il ricatto, la circonvenzione etc. Significativa anche l’incidenza delle cause “istituzionali” indirettamente responsabili del disagio degli ospiti anziani, legate alla scarsità di fondi destinati all’assistenza, agli ambienti fatiscenti, alla carente formazione dei membri dello staff assistenziale.
Spesso - come già detto - possono essere responsabili gli operatori addetti all’assistenza e gli inservienti, in genere mal pagati, in
numero insufficiente rispetto all’organico, spesso soggetti a fenomeni di burn out, con progressivo disinteresse per il lavoro, vittime di una condizione di logorio psichico (e spesso anche fisico), della progressiva perdita delle spinte ideali, da una sensazione di impotenza e fallimento per l’incolmabile squilibrio tra bisogni e risorse, tra ideale e realtà, tra ciò che gli assistiti chiedono
e le possibilità di rispondere a necessità anche elementari.
Basta consultare i media per avere un’idea delle condizioni dell’anziano in alcune istituzioni pubbliche e private convenzionate
o meno con il Servizio Sanitario Nazionale, e dei gravi danni fisici per gli ospiti che giungono fino alla morte. Ripetute ispezioni dei NAS negli ultimi anni hanno evidenziato drammatiche inadempienze. Secondo fonti ufficiali del Ministero della Salute nell’estate 2003 su 685 istituti sottoposti a ispezione, ben 281 risultavano fuori norma.
Le condizioni di maltrattamento sono evidentemente diverse, peculiari e più gravi nei Paesi in via di sviluppo, in particolare in
quelli africani dove le persone anziane (soprattutto le donne) sono spesso costrette a subire violenze psichiche in quanto accusate di portare sfortuna alla comunità e di essere causa di inondazioni, siccità, malattie e morte. Per queste ragioni possono subire l’ostracismo, torture e mutilazioni, e talora vengono uccise se rifiutano di abbandonare il villaggio.
Le persone anziane possono inoltre essere interessate direttamente dalle conseguenze di guerre, rivoluzioni e intolleranze ideologiche ove penosamente costrette a fuggire; ma ne possono soffrire anche indirettamente ove non vengano specificamente considerate e siano trascurate dai piani di assistenza umanitaria. Nei campi profughi gli anziani hanno spesso la peggio e subiscono
discriminazioni quando costretti a competere nella distribuzione degli alimenti e per l’assistenza sanitaria. La violenza collegata
all’HIV/AIDS è frequente in quei Paesi che ne sono stati più duramente colpiti: sono le donne anziane a portare il maggior peso
dell’assistenza ai parenti che stanno morendo e ai bambini rimasti orfani e possono essere obbligate all’isolamento in quanto componenti della famiglia del malato dal quale non di rado subiscono il contagio per aver prestato assistenza.
Il suicidio è un fenomeno di portata non trascurabile e, senza alcun dubbio, collegato a situazioni di disagio personale ma anche
a un’obiettiva condizione di disadattamento e di marginalità sociale e familiare nella quale possono versare i soggetti anziani. Se
il suicidio di un giovane desta grande emozione, l’anziano o il vecchio che si toglie la vita viene spesso trascurato non solo dalla opinione pubblica, ma addirittura dalle Istituzioni. Il suicidio viene talora compreso come scelta razionale che implica una sorta di bilancio della propria esistenza, della sofferenze per malattie croniche invalidanti, anche psichiatriche, rimanendo comunque insufficiente l’impegno preventivo. Il tasso di suicidio aumenta vertiginosamente con l’età, come dimostrano le statistiche delle diverse scuole medico legali del nostro Paese. La vecchiaia, la solitudine, i problemi affettivi, le patologie croniche, rappresentano i fattori suicidogeni di maggiore rilievo che vengono moltiplicati dal maltrattamento e dall’emarginazione. Tenuto conto
dei rilievi popolazionistici, la percentuale dei suicidi dei non occupati è impressionante rispetto a quella di chi ancora lavora.
9. L’ANZIANO DAL PUNTO DI VISTA GIURIDICO
Se la legge definisce il minore, opportunamente non si interessa dell’anziano il cui stato può essere delineato dalla medicina, dalla psicologia, dalla sociologia, ma certamente non dai codici che prevedono norme generiche riferibili anche alla incapacità dell’anziano, ma non specificamente a esso (come l’interdizione, l’inabilitazione, la capacità a testare, la incapacità naturale). La
Cassazione ha precisato che la “vecchiaia” in quanto tale non significa malattia e comunque deficienza psichica. In effetti identificare l’anziano e differenziarlo dagli altri cittadini maggiorenni avrebbe potuto rappresentare una forma di discriminazione: l’anziano capace e attivo è dunque, e giustamente, un soggetto come qualsiasi altro dal punto di vista giuridico, conservando il pieno godimento dei suoi diritti di cittadino. Anche se, non di rado, nella quotidianità, emerge sotto il profilo psicologico una sottile linea di emarginazione. Solo l’anziano bisognoso, malato e invalido viene preso in considerazione dalla legge, ma soltanto
perché entra a far parte di determinate categorie a rischio (quella dei poveri, dei malati cronici, dei non autosufficienti, degli incapaci, ecc.), ferme restando alcune misure di tutela “anche al fine di prevenire e di rimuovere le condizioni che possono concorre alla loro emarginazione”.
La legge n. 6 del 2004 che ha un significato etico e pratico di grande rilievo, ha istituito la figura dell’amministratore di sostegno
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che si propone di sostenere e limitare la capacità di agire di chi si trovi “nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi” come gli anziani, i malati terminali, i ciechi, gli alcolisti, i tossicodipendenti, i carcerati, senza fare
ricorso alla interdizione o alla inabilitazione.
Tra le problematiche giuridiche che possono presentarsi nella età avanzata a causa di condizioni patologiche comuni, di particolare rilievo è l’eventuale incapacità a manifestare un consenso valido all’atto medico-chirurgico, anche considerato che moglie
e figli non hanno alcun titolo in proposito. Come per qualsiasi soggetto maggiorenne non interdetto, solo al medico spetta la valutazione se nella fattispecie il paziente si trovi in una condizione di “incapacità naturale” ed eventualmente richiedere l’intervento del giudice tutelare. Fermo restando che nei casi urgenti il medico è comunque tenuto a intervenire nei limiti dei trattamenti
non procrastinabili e indispensabili per superare l’emergenza.
Un altro aspetto che merita di essere preso in considerazione sotto il profilo bioetico è quello del risarcimento del danno in
responsabilità civile che, nel caso dell’anziano, può presentare prospettive fortemente penalizzanti. Come ben noto, il danno biologico rappresenta la lesione del diritto alla salute costituzionalmente garantito quale diritto umano inviolabile (art. 2), specificamente tutelato (art. 32) in senso dinamico e funzionale (art.3). Il medico legale, oltre a indicare i giorni di malattia e la percentuale di invalidità in riferimento al cosiddetto danno biologico “statico” che verrà liquidato secondo tabelle previste dalla legge
(57/2001, 273/2002) che fissano un importo crescente in rapporto alla percentuale di invalidità e decrescente in rapporto all’età,
deve descrivere tutte le conseguenze negative del “modo di essere” del danneggiato quali le limitazioni delle possibilità dinamico relazionali, le rinunce, le turbative della qualità della vita, le prospettive di sopravvivenza, etc. Tali pregiudizi che potevano
essere risarciti dal giudice senza limitazioni (legge 57/2001), sono stati fortemente svalutati dalla 273/2002 nel senso che la somma da liquidare non può essere superiore di un quinto rispetto a quella attribuita al danno biologico statico. Ciò premesso, i problemi significativi nel risarcimento del danno all’anziano sono duplici: 1. la progressiva riduzione della liquidazione del “danno
biologico statico” al crescere dell’età in base alla presunzione del minore numero di anni da vivere (ma la legge non tiene conto dei meccanismi di adattamento e di compenso che nel giovane possono ridurre notevolmente il pregiudizio effettivo, mentre
la entità del danno tende ad aggravarsi nel vecchio); 2. il fatto che nell’anziano i postumi di una lesione minimale per un giovane (ad esempio la frattura di un metatarso) possono alterare in modo rilevante la qualità della vita dell’anziano rendendogli impossibile il piacere di una breve passeggiata e arrecando comunque problemi esistenziali che potranno essere liquidati dal giudice
solo in misura irrisoria. Per non parlare della ingiusta svalutazione del danno estetico dell’anziano (talora responsabile di un vissuto psichico rilevante) che, alla pari di tutti, ha diritto alla tutela del proprio aspetto. Anche un eventuale danno alla capacità
sessuale rischia di essere sostanzialmente annullato, soprattutto nella donna, pur se sesso e sessualità rappresentano anche per
gli anziani parte integrante dell’esperienza esistenziale.
CONCLUSIONI
1. Il CNB ha ritenuto opportuno portare ancora una volta l’attenzione - nei limiti del proprio mandato - sulla condizione “morale” dell’anziano, la consapevolezza piena della quale è premessa a un’attenzione fattiva di amicizia e di sostegno alle persone che sempre più numerose vivono l’età avanzata.
Non si può ragionare, infatti, in termini meramente demografici e economici sull’invecchiamento della popolazione e relative conseguenze per i bilanci pubblici e privati, senza considerare - altresì - la condizione di “pari dignità” dei cittadini, indipendentemente dall’età, dalle condizioni di salute in cui essi versano e dall’apporto che essi sono capaci di dare con la loro
“presenza” al benessere globale della società.
Questa pari dignità sostiene anche una serie di “diritti”, che debbono essere intesi come requisiti del sostegno che la comunità - in base al “patto sociale di cittadinanza” - è giusto che assicuri con la maggiore ampiezza redistributiva possibile anche
a chi ha contribuito al benessere collettivo nel passato e continua, in qualche misura, a fornire nel presente. Comunità che
ha tra l’altro tra i suoi precisi doveri anche quello di guardare all’anziano con la mente sgombra da falsi quanto pericolosi
luoghi comuni e stereotipi.
Come nel passato si è individuato il “diritto dei diritti” del minore, è bene parlare oggi di “diritto dei diritti “ dell’anziano, interpretando le intenzioni dell’art. 25 della Carta Europea dei Diritti dell’uomo in cui “l’Unione riconosce e rispetta il diritto degli
anziani di condurre una vita dignitosa e indipendente” in cui per la prima volta si riconosce il diritto dell’anziano come soggetto, come individuo investito di una legittimazione propria. Questo diritto deriva dal fatto di essere anziano perché si reputa che
la persona si trovi in una fase della sua vita biologica nella quale può versare in condizioni di minore capacità di autotutela essendo esposta a maggior rischi. Per questa ragione i suoi diritti devono essere protetti, riconosciuti e soddisfatti.
In questo quadro il CNB ritiene auspicabile la costituzione di un OSSERVATORIO SULLA CONDIZIONE DEGLI ANZIANI che
provveda alla verifica di attuazione delle norme sia nazionali che internazionali che li riguardano.
Si può riassumere il contesto di questi diritti nelle seguenti proposizioni:
- l’anziano è persona e come tale va rispettato;
- l’anziano ha diritto e dovere di promuovere le proprie risorse umane e in particolare spirituali;
- la società ha il dovere etico di facilitare la promozione della dignità di vita della persona anziana;
- l’anziano ha diritto di essere trattato secondo i principi di equità e giustizia, indipendentemente dal suo grado di autonomia
e di salute.
2. Sul piano dell’assistenza sanitaria e della formazione del medico va detto che non sempre i corsi di laurea sono all’altezza
dell’insegnamento della geriatria. Spesso sono invece carenti nell’approccio multidisciplinare necessario alla gestione del
paziente anziano, inadeguati nella pratica utilizzazione di mezzi diagnostici semplici, insufficienti nella cultura e nell’etica
della comunicazione con il paziente che spesso viene trascurato limitandosi il medico a contatti in ambulatorio con i familiari. È necessario riqualificare l’insegnamento della geriatria e delle scienze geriatriche anche ai fini della riabilitazione dell’anziano, della prevenzione di psicopatologie latenti, e della disabilità. È fondamentale sviluppare e ampliare le scuole di
specializzazione considerato il fatto che i geriatri dovrebbero rappresentare il punto di riferimento della assistenza domicilia-
31
DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI
AIAF RIVISTA 2/2006
re integrata. È opportuno inoltre potenziare la sperimentazione, anche al di fuori dei farmaci antidemenza, per non privare le
persone anziane dei risultati di studi appropriati piuttosto che affidarsi a protocolli terapeutici e assistenziali generici, inadeguati e costosi. Quanto al ruolo del medico nel tragico problema dei maltrattamenti, il CNB auspica che il medico legale,
inserito nell’assistenza sanitaria pubblica, porti la sua esperienza nello studio del fenomeno nelle istituzioni e in ambito familiare, non solo come esperto eventualmente designato dall’autorità giudiziaria, ma soprattutto come specialista che, nel pieno rispetto della privacy, è a disposizione dei medici della struttura e del medico di base per la valutazione dei casi di difficile interpretazione. Il medico legale è in grado di consigliare il medico di medicina generale tenuto conto che i maltrattamenti sono spesso subdoli e in genere sottaciuti dal paziente che teme problemi peggiori e, nonostante tutto, l’allontanamento
dalla famiglia.
3. Appare evidente dall’esperienza acquisita almeno nel nostro Paese che il benessere dell’anziano (psicologico, sociale, economico) è fortemente correlato al contesto familiare nel quale egli generalmente vive, ove le relazioni intra-familiari possono
assumere per l’anziano una rilevanza particolare dopo il ritiro dall’attività lavorativa. Appare sempre più evidente che le “crisi” della relazione intrafamiliare hanno evidente effetto sulla “fragilità” della condizione anziana. Crescente appare la percentuale degli anziani che vive in modo solitario.
La recente istituzione della figura dell’”amministratore di sostegno” è certamente una prova che la società è sensibile anche
a esigenze che - soprattutto per gli anziani soli, privi dell’ambiente familiare - si pongono nella vita quotidiana allorché sia
stata perduta almeno in parte la autosufficienza.
Si vuole inoltre riaffermare che l’affetto e la cura dei familiari, in primo luogo, sono ancora oggi gli elementi “naturali” che
rassicurano e sostengono l’anziano. Ma sempre di più, appare evidente che anche la sensibilità, l’altruismo, l’entusiasmo degli
operatori che i servizi pubblici e privati sanitari e sociali pongono in campo, potranno aiutare la persona anziana a combattere l’isolamento, la demoralizzazione per la perdita dell’autonomia e a rinforzare in essa la convinzione di essere un valore
e di conservare ancora un “valore” per gli altri.
4. Ai fini operativi, la distinzione fra anziano autosufficiente e anziano non autosufficiente (dipendente) ha una valida giustificazione, sebbene fra questi due stati estremi esistano forme di passaggio.
Per l’anziano autosufficiente, desideroso di mantenersi attivo e di continuare a produrre reddito per la propria famiglia, si
dovrebbero favorire possibilità di impegno lavorativo, proporzionate alle capacità e alle risorse fisiche e mentali disponibili.
Il CNB è consapevole delle difficoltà inerenti alla realizzazione pratica di questo obiettivo, che tuttavia ritiene debba essere
sostenuto (anche in ragione del positivo risultato offerto ad esempio da gruppi di volontariato attivo e cooperative sociali formate da anziani, impegnate a pieno titolo in attività produttive, ecc..) anche per il messaggio di “solidarietà intergenerazionale” che può veicolare.
5. Il CNB è pienamente consapevole della particolare delicatezza che - sotto l’aspetto bioetico oltre che organizzativo e politico - presenta la condizione dell’anziano non autosufficiente. Il CNB chiude questa riflessione fermandosi alle soglie della
malattia terminale, delle cure palliative, dell’avvicinarsi della morte, perché questi argomenti costituiscono - se mai - oggetto di altre e più specifiche riflessioni (su alcune delle quali, peraltro, ha già prodotto precedenti documenti: v. ad es Definizione e accertamento della morte nell’uomo (15 febbraio 1991;) Parere sulla proposta di risoluzione sull’assistenza ai pazienti terminali (6 settembre 1991); Questioni bioetiche relative alla fine della vita umana (14 luglio 1995); La terapia del dolore:
orientamenti bioetici (30 marzo 2001); Parere del CNB su Dichiarazioni anticipate di trattamento (18 dicembre 2003); L’alimentazione e l’idratazione dei pazienti in stato vegetativo persistente” (30 settembre 2005)).
Il CNB sottolinea comunque la condizione di fragilità dell’anziano, che si aggrava - nella dimensione naturale della vita - scivolando nel corso del tempo quasi immancabilmente nella dipendenza, fenomeno di interesse bioetico personale e sociale
tanto più rilevante quanto più si allunga la vita media.
Il CNB sottolinea, tuttavia che in ogni età e in ogni circostanza, l’anziano non autosufficiente conserva le sue caratteristiche
insopprimibili di persona umana e di cittadino, un doppio “valore” che ne tutela la dignità, i diritti e gli interessi.
6. Il CNB rileva che l’evoluzione del dibattito internazionale sui “diritti dell’anziano” ha prodotto documenti di notevole interesse, ma la cui applicazione resta sempre riservata ai singoli Paesi, nella misura consentita dai loro ordinamenti e dai loro
bilanci. Per il nostro Paese, quanto è stato elaborato e stabilito nel “Progetto obiettivo anziani” rimane un punto di riferimento
non eludibile.
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MAGGIO - AGOSTO 2006
DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI
APPENDICE
CARTA DEI DIRITTI DELL’ANZIANO (EISS, 1995)
Art. 1 Diritto degli anziani ad accedere alla “qualità totale” del vivere umano in cui consiste la sostanza del bene comune
Art. 2 Diritto al mantenimento delle condizioni personali dell’anziano al più alto grado possibile di autosufficienza sul piano mentale, psichico e fisico
Art. 3 Diritto alle cure preventive e riabilitative di primo, secondo e terzo grado
Art. 4 Diritto a ottenere gratuitamente le cure e gli strumenti necessari a restare in comunicazione con l’ambiente sociale e a evitare il degrado fisico e psichico: protesi acustiche e dentarie, occhiali e altri sussidi atti a conservare la funzionalità e il decoro della propria persona
Art. 5 Diritto a vivere in un ambiente familiare e accogliente
Art. 6 Diritto a essere accolti nei luoghi di ricovero alloggiativi od ospedalieri da tutto il personale, compresi i quadri dirigenti,
con atteggiamenti cortesi, premurosi, umanamente rispettosi della dignità della persona umana
Art. 7 Diritto degli anziani a essere rispettati ovunque nella loro identità personale e a non essere offesi nel loro senso di pudicizia, salvaguardando la loro intimità personale
Art. 8 Diritto ad avere garantito un reddito che consenta non solo la mera sopravvivenza, ma la prosecuzione di una vita sociale normale, integrata nel proprio contesto e in esso il diritto all’autodeterminazione e all’autopromozione
Art. 9 Diritto a che le potenzialità, le risorse e le esperienze personali degli anziani vengano valorizzate e impiegate a vantaggio
del bene comune
Art. 10 Diritto a che lo Stato - con il generoso apporto del volontariato e la paritaria collaborazione del settore non-profit - predisponga nuovi servizi informativo-culturali e strutture atte a favorire l’apprendimento di nuove acquisizioni mirate a mantenere gli anziani attivi e protagonisti della loro vita, nonché partecipi dello sviluppo civile della comunità
LINEE GUIDA PER IL COMPORTAMENTO DELLE NUOVE FIGURE DOMESTICO-ASSISTENZIALI (“BADANTI”)
1. Rispettare l’anziano come persona, valorizzandone la dignità, ascoltandolo con attenzione, senza mai banalizzare i suoi problemi e le sue richieste.
2. Favorire il mantenimento dell’autonomia nell’anziano, aiutandolo a scoprire nuove strategie per conservare la sua autosufficienza sul piano fisico e mentale, per quanto possibile.
3. Prestare particolare attenzione alla sicurezza dell’anziano, anche nel contesto familiare, per prevenire ed evitare, per quanto
possibile, tutte le situazioni di rischio
4. Aiutare l’anziano a mantenere il più attiva possibile la rete di contatti con il suo ambiente familiare e sociale, favorendo tutte le iniziative che lo aiutino a sentirsi in famiglia, stimolando nei figli e nei nipoti ogni possibile forma di relazione di cura.
5. Favorire il rispetto e la cura della sua persona fisica, intervenendo solo se necessario, e rispettando per quanto possibile, il
senso dell’intimità personale. Stimolare il mantenimento di quella eleganza naturale che ha caratterizzato il suo stile di vita
6. Curare l’ambiente della casa come memoria attiva dell’anziano, mantenendo, per esempio, la cura dello spazio e delle cose,
per conservare il suo orientamento negli ambienti domestici, anche in rapporto alla valenza affettiva degli oggetti, a cui va
garantita.
7. Definire con chiarezza i termini contrattuali e accettare solo il compenso pattuito, evitando forme di retribuzione o di compensazione indiretta e rispettando i criteri di corretta amministrazione familiare (giustificativi di spesa) (cfr.art. 9 Codice deontologico internazionale delle infermiere - Consiglio Internazionale delle Infermiere, San Paolo del Brasile, 10 luglio 1953)
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DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI
AIAF RIVISTA 2/2006
LEGGE 1 MARZO 2006, N.67
MISURE PER LA TUTELA GIUDIZIARIA DELLE PERSONE
CON DISABILITÀ, VITTIME DI DISCRIMINAZIONI
PUBBLICATA NELLA
GAZZETTA UFFICIALE N. 54 DEL 6 MARZO 2006
Art. 1. (Finalità e ambito di applicazione)
1. La presente legge, ai sensi dell’articolo 3 della Costituzione, promuove la piena attuazione del principio di parità di trattamento e delle pari opportunità nei confronti delle persone con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992,
n. 104, al fine di garantire alle stesse il pieno godimento dei loro diritti civili, politici, economici e sociali.
2. Restano salve, nei casi di discriminazioni in pregiudizio delle persone con disabilità relative all’accesso al lavoro e sul
lavoro, le disposizioni del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, recante attuazione della direttiva 2000/78/CE per la
parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
Art. 2. (Nozione di discriminazione)
1. Il principio di parità di trattamento comporta che non può essere praticata alcuna discriminazione in pregiudizio delle
persone con disabilità.
2. Si ha discriminazione diretta quando, per motivi connessi alla disabilità, una persona è trattata meno favorevolmente di
quanto sia, sia stata o sarebbe trattata una persona non disabile in situazione analoga.
3. Si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento
apparentemente neutri mettono una persona con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone.
4. Sono, altresì, considerati come discriminazioni le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per
motivi connessi alla disabilità, che violano la dignità e la libertà di una persona con disabilità, ovvero creano un clima di
intimidazione, di umiliazione e di ostilità nei suoi confronti.
Art. 3. (Tutela giurisdizionale)
1. La tutela giurisdizionale avverso gli atti ed i comportamenti di cui all’articolo 2 della presente legge è attuata nelle forme previste dall’articolo 44, commi da 1 a 6 e 8, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.
2. Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno, può dedurre in
giudizio elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti, che il giudice valuta nei limiti di cui all’articolo 2729, primo comma, del codice civile.
3. Con il provvedimento che accoglie il ricorso il giudice, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno, anche
non patrimoniale, ordina la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio, ove ancora sussistente, e adotta ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione, compresa
l’adozione, entro il termine fissato nel provvedimento stesso, di un piano di rimozione delle discriminazioni accertate.
4. Il giudice può ordinare la pubblicazione del provvedimento di cui al comma 3, a spese del convenuto, per una sola volta, su un quotidiano a tiratura nazionale, ovvero su uno dei quotidiani a maggiore diffusione nel territorio interessato.
Art. 4. (Legittimazione ad agire)
1. Sono altresì legittimati ad agire ai sensi dell’articolo 3 in forza di delega rilasciata per atto pubblico o per scrittura privata autenticata a pena di nullità, in nome e per conto del soggetto passivo della discriminazione, le associazioni e gli enti
individuati con decreto del Ministro per le pari opportunità, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali,
sulla base della finalità statutaria e della stabilità dell’organizzazione.
2. Le associazioni e gli enti di cui al comma 1 possono intervenire nei giudizi per danno subito dalle persone con disabilità
e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti lesivi degli interessi delle persone stesse.
3. Le associazioni e gli enti di cui al comma 1 sono altresì legittimati ad agire, in relazione ai comportamenti discrimina34
MAGGIO - AGOSTO 2006
DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI
tori di cui ai commi 2 e 3 dell’articolo 2, quando questi assumano carattere collettivo.
La presente legge, munita del sigillo dello Stato, sarà inserita nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.
Data a Roma, addì 1° marzo 2006
Note all’art. 1:
-
Il testo dell’art. 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Leggequadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 17 febbraio 1992, n. 39, S.O., è il seguente:
«Art. 3 (Soggetti aventi diritto). - 1. È persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale,
stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione.
2. La persona handicappata ha diritto alle prestazioni stabilite in suo favore in relazione alla natura e alla consistenza della
minorazione, alla capacità complessiva individuale residua e alla efficacia delle terapie riabilitative.
3. Qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere
necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, la
situazione assume connotazione di gravità.
Le situazioni riconosciute di gravità determinano priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici.
4. La presente legge si applica anche agli stranieri e agli apolidi, residenti, domiciliati o aventi stabile dimora nel territorio
nazionale. Le relative prestazioni sono corrisposte nei limiti ed alle condizioni previste dalla vigente legislazione o da accordi internazionali.».
-
Il decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, reca:
«Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro», pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 13 agosto 2003, n. 187.
Note all’art. 3:
-
Il testo dell’art. 44, commi da 1 a 6 e 8, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale
18 agosto 1998, n. 191, S.O., è il seguente:
«Art. 44 (Azione civile contro la discriminazione). (Legge 6 marzo 1988, n. 40, art. 42). - 1. Quando il comportamento di un
privato o della pubblica amministrazione produce una discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, il giudice però, su istanza di parte, ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione.
2. La domanda si propone con ricorso depositato, anche personalmente dalla parte, nella cancelleria del pretore del luogo di
domicilio
dell’istante.
3. Il pretore, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto.
4. Il pretore provvede con ordinanza all’accoglimento o al rigetto della domanda. Se accoglie la domanda emette i provvedimenti richiesti che sono immediatamente esecutivi.
5. Nei casi di urgenza il pretore provvede con decreto motivato, assunte, ove occorre, sommarie informazioni. In tal caso fissa, con lo stesso decreto, l’udienza di comparizione delle parti davanti a sé entro un termine non superiore a quindici giorni,
assegnando all’istante un termine non superiore a otto giorni per la notificazione del ricorso e del decreto. A tale udienza, il
pretore, con ordinanza, conferma, modifica o revoca i provvedimenti emanati nel decreto.
6. Contro i provvedimenti del pretore e' ammesso reclamo al tribunale nei termini di cui all'art. 739, secondo comma, del
codice di procedura civile. Si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737, 738 e 739 del codice di procedura civile.
7. (Omissis).
8. Chiunque elude l'esecuzione di provvedimenti del pretore di cui ai commi 4 e 5 e dei provvedimenti del tribunale di cui
al comma 6 e' punito ai sensi dell'art. 388, primo comma, del codice penale.»
-
Il testo dell'art. 2729, primo comma, del codice civile, e' il seguente:
“Art. 2729 (Presunzioni semplici). - Le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice il quale
non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti.”
35
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
L’ AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO.
QUESTIONI SOSTANZIALI E PROCESSUALI
NELL’ANALISI DELLA GIURISPRUDENZA.1
SOMMARIO
I. IL REGIME DI INVALIDITÀ E DI
PUBBLICITÀ DEGLI ATTI
NELL’AMMINISTRAZIONE
DI SOSTEGNO.
IL PUNTO DELLA
GIURISPRUDENZA
A DUE ANNI DALL’ENTRATA IN
VIGORE DELLA LEGGE.
GIUSEPPE
CASSANO*
1. LA CAPACITÀ DEL BENEFICIARIO
a legge n. 6/04 ha come fine quello di tutelare con la minore limitazione possibile
della capacità di agire, le persone prive in
tutto o in parte di autonomia nell’espletamento
delle funzioni della vita quotidiana, attraverso
interventi di sostegno temporaneo e permanente (art. 1).
Nel perseguire tal obiettivo essa ha introdotto
uno strumento flessibile idoneo a far fronte alle
diverse situazioni di disagio del soggetto debole.
L
1. I 2 saggi che seguono costituiscono la trascrizione di parte dell’intervento
del Prof. Avv. Giuseppe Cassano al Master di Diritto di Famiglia, tenutosi a
Roma nell’anno accademico 2005/2006, e sono parte della dispensa ad uso
dei corsisti.
Per più compiute argomentazioni si rimanda a
GIUSEPPE CASSANO, L’amministrazione di sostegno. Questioni sostanziali e
processuali nell’analisi della giurisprudenza, Halley, 2006.
36
1. La capacità del beneficiario.
2. Gli atti di diritto di famiglia.
3. Le invalidità nell’amministrazione di sostegno.
4. Violazione di disposizioni del giudice.
5. Violazione di disposizioni di legge.
6. Accettazione di eredità e alienazione di beni
ereditari.
7. Azione di annullamento.
8. Le norme in materia di pubblicità degli atti relativi all’amministrazione di sostegno.
Come si è già accennato nelle pagine della Rivista DirittoeGiustizia on line del 23.12.2005,
www.dirittoegiustizia.it, il nuovo istituto dell’amministrazione di sostegno si differenzia notevolmente dai tradizionali istituti a protezione del
disabili, là dove questi ultimi attribuivano al soggetto una qualità giuridica (status), privando il
soggetto totalmente o parzialmente della capacità
di agire. Conseguenza del riconoscimento dell’assoluta o parziale incapacità della persona era
la nomina del tutore o del curatore.
Diversamente, la nomina dell’amministratore di
sostegno non ha come presupposto la privazione
del soggetto della capacità di agire, il quale conserva la propria capacità per gli atti che non
richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno
(art. 409 c.c.).
A fronte di una generale capacità del beneficiario
sarà il provvedimento di nomina ad individuare
l’oggetto e l’incarico e gli atti che l’amministratore
di sostegno ha il potere di compiere (ex art. 405).
Il beneficiario non sarà legittimato a compiere
esclusivamente gli atti con riferimento ai quali il
decreto di nomina abbia attribuito all’amministratore un potere di rappresentanza esclusiva
(ex art. 409).
MAGGIO - AGOSTO 2006
L’amministratore di sostegno, in un amplissimo
ambito di compiti di protezione, che, come si è
accennato, spaziano dalla rappresentanza sino
all’assistenza nel compimento di atti giuridici,
all’amministrazione del patrimonio, alla cura
della persona, si vedrà conferiti quegli specifici
poteri-doveri strettamente necessari al soddisfacimento delle concrete esigenze del beneficiario. Normalmente l’amministratore non assume
le funzioni del procuratore o del mandatario,
posto che la sua rappresentanza si esercita di
regola in via esclusiva e non in via concorrente
rispetto alle facoltà dell’amministrato (salvo per
quanto si dirà a proposito degli atti della vita
quotidiana): in linea di principio, la persona
beneficiaria dell’amministrazione vedrà limitata
la propria capacità legale di agire soltanto in
relazione gli atti per il compimento dei quali è
previsto l’intervento dell’amministratore di
sostegno. In altri termini, ai poteri dell’amministratore fanno da contrappunto, in linea di principio, le limitazioni alla capacità dell’amministrato, il quale (art. 409) conserva la capacità di
agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria
dell’amministratore di sostegno.
Con l’amministrazione di sostegno non è quindi
configurabile alcuna limitazione della capacità
della persona debole senza il corrispondente
conferimento di poteri all’amministratore (salvo
quanto si dirà oltre sull’art. 411 comma 4) né è
configurabile alcuna penalizzazione dei diritti e
delle facoltà del soggetto che non risponda ad
un’effettiva finalità di protezione.
Per quanto sopra illustrato può quindi affermarsi che l’amministrazione di sostegno è una forma di tutela ampia (non meramente patrimoniale ma comprendente anche la cura della persona), propositiva e non interdittiva, espansiva e
non inibitoria, personalizzata, modulabile e
non standardizzata, frutto di una concezione
dei diritti delle fasce deboli della popolazione
veramente conforme ai fini costituzionali di promozione del pieno sviluppo della persona umana (art. 3, comma 2, Cost.).
L’amministrazione di sostegno può determinare
un’incapacità del soggetto totale (atti per i quali occorre la rappresentanza esclusiva dell’amministratore) o parziale (atti per i quali occorre
l’assistenza dell’amministratore), ma pur sempre
settoriale, relativa.
Beneficiari dell’amministrazione di sostegno
sono innanzitutto i soggetti deboli che, prima
dell’entrata in vigore della Legge 9 gennaio
2004, n. 6, non godevano di alcuna forma di
protezione preventiva (una forma di protezione
“successiva” all’atto dannoso era - ed è - quella,
molto limitata, dell’art. 428 c.c. che prevede, a
certe condizioni - gravità del pregiudizio, prova
della malafede dell’altro contraente - l’annullabilità degli atti compiuti dall’incapace naturale).
Possono così fruire del nuovo istituto le persone
che sono pacificamente escluse dall’ambito di
applicazione dell’interdizione e dell’inabilitazione e quindi i soggetti affetti da patologie mentali transitorie o cicliche, quelli in condizioni di
mera debolezza psichica anche se non affetti da
patologie mentali, i soggetti depressi, gli alcoli-
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
sti, i tossicodipendenti, i lungodegenti, i portatori di handicap fisici, i disadattati sociali, gli
anziani in situazione di disagio anche soltanto
fisico ecc... Il comune denominatore per l’applicabilità della nuova disciplina è che il soggetto
sia privo, in tutto o in parte, di autonomia (rubrica del titolo XII), cioè (art. 404) si trovi nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di
provvedere ai propri interessi: il beneficiario,
pertanto, pur essendo soggetto debole, potrebbe
conservare la naturale capacità di agire, intesa
come capacità di intendere e di volere: in tal
caso, la limitazione della legale capacità di agire è un sacrificio imposto dalla necessità di soddisfare le esigenze di vita del beneficiario
mediante il conferimento ad un diverso soggetto
poteri sostitutivi (cura, rappresentanza) o confermativi (assistenza) o di amministrazione, da
esercitarsi sotto il controllo (successivo, ma
anche preventivo, sotto forma di autorizzazione)
dell’Autorità giudiziaria
(Trib. Pinerolo 4.11.04, in Nuova giur. civ.
comm., 2005, 3)
Vedremo come, qualora egli compia un atto per il
quale è stato attribuito all’amministratore il potere di
rappresentanza esclusiva, tale atto sia impugnabile.
Notevole rilievo riveste in materia la previsione
di cui all’art. 409, co. 2, c.c., ai sensi del quale il
beneficiario può in ogni caso compiere gli atti
necessari a soddisfare le esigenze della vita quotidiana. La previsione suscita particolare interesse, poiché sembrerebbe escludere che l’interessato possa essere privato della capacità di agire in
relazione a determinati atti (in questo senso DELLE MONACHE ); il punto, tuttavia, è controverso,
poiché vi è chi ha sostenuto che, qualora ne ricorrano le condizioni, possa essere sancita l’incapacità del dell’interessato anche con riguardo a tali
atti, paventando il rischio che un’opposta soluzione, implicherebbe la necessità di ricorrere
all’interdizione, nell’ipotesi in cui il soggetto
risulti inidoneo a realizzare alcuni di tali atti
necessari a soddisfare le esigenze della vita quotidiana (LISELLA).
Sicuramente deve essere ammessa la possibilità
di conferire il potere di rappresentanza all’amministratore di sostegno anche con riguardo agli atti
diretti a soddisfare esigenze della vita quotidiana
- eventualmente concorrente con quella del beneficiario -, il ché si rivelerebbe utile nelle ipotesi
in cui il beneficiario non sia in grado di provvedere da solo al relativo compimento per le più
variegate ragioni.
La legge prevede, tuttavia, che il giudice tutelare
possa disporre che determinati effetti, limitazioni
o decadenze, previsti da disposizioni di legge per
l’interdetto e per l’inabilitato, si estendano al
beneficiario dell’amministrazione di sostegno,
ma esclusivamente avuto riguardo all’interesse
del medesimo ed a quello tutelato dalle disposi37
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
zioni di cui si estende l’applicazione.
In dottrina a tal proposito si è rilevato come “il
rapporto tra capacità ed incapacità, stabilito nel
codice nei termini di un’alternativa netta e senza
scampo, diviene ora mobile e fluido. L’incapacitazione del disabile che nello schema tradizionale, costituiva il momento pregiudiziale rispetto
ad una astratta protezione dello stesso, diventa
ora una conseguenza eventuale e residuale per
alcune categorie di atti per i quali si prospetta
come necessario ai fini della sua protezione”
(FERRANDO).
Particolare rilievo assumono, nell’ambito delle
modifiche apportate dalla legge n. 6/04 al sistema
degli strumenti di tutela dei soggetti deboli, le
risposte offerte dalla stessa ai problemi posti dal
rapporto fra impossibilità di provvedere ai propri
interessi ed esercizio dei diritti fondamentali
della personalità.
In particolare, spetterà al giudice stabilire quali
siano i poteri dell’amministratore di sostegno
anche con riguardo alla cura personae - e, dunque, in merito a decisioni concernenti la salute, il
diritto alla riservatezza, nell’eventualità che si
renda necessaria una manifestazione del consenso relativa ai trattamenti medici o al trattamento
dei dati personali. -, e come debbano essere preservate le attitudini di autodeterminazione e di
discernimento del disabile (FERRANDO).
In dottrina si ipotizza che un tale discorso possa
estendersi anche ad altri diritti della personalità
(FERRANDO).
Dubbia è l’ammissibilità di un’amministrazione
di sostegno non incapacitante: alcuni autori ritengono, infatti, che si possa istituire l’amministrazione di sostegno anche allorquando non ricorrano i presupposti per la determinazione dell’incapacità di agire del beneficiario (LISELLA). Si tratta delle ipotesi in cui il soggetto conserva una
lucidità mentale sufficiente, ma incontra difficoltà nella cura dei propri interessi.
Argomenti a favore di tale tesi sono: l’art. 412
che rende annullabili gli atti compiuti dal beneficiario esclusivamente se compiuti in violazione
di legge o di disposizioni del giudice; l’art. 409,
ai sensi del quale il soggetto conserva la capacità
di agire per tutti gli atti che non richiedono la
rappresentanza elusiva o l’assistenza dell’ amministratore di sostegno; l’art. 1 che inserisce fra le
finalità della legge la protezione dei soggetti privi di autonomia con la minore limitazione possibile della capacità di agire; e l’art. 405 che riconosce un’ampia discrezionalità al giudice tutelare, consentendogli di adottare, anche d’ufficio, i
provvedimenti urgenti per la cura della persona
interessata e per la conservazione e l’amministrazione del suo patrimonio (LISELLA).
38
AIAF RIVISTA 2/2006
Anche la giurisprudenza sembra aderire alla tesi
di cui sopra. Il giudice tutelare del Tribunale di
Pinerolo ha, infatti, nominato un amministratore
di sostegno a favore di un beneficiario, conferendogli poteri di rappresentanza concorrenti con
quelli del beneficiario stesso.
Si è detto che la normale struttura dell’amministrazione di sostegno prevede l’attribuzione di
poteri all’amministratore e la corrispondente
perdita di capacità del beneficiario, che comunque conserva sempre la piena capacità, concorrente con quella dell’amministratore, per gli atti
quotidiani della vita (c.d. “atti minimi”). Rispetto a questo schema, la sopra richiamata previsione dell’art. 411, comma 4, c.c. delinea un
percorso atipico dell’amministrazione di sostegno in senso restrittivo (perdita di capacità del
Beneficiario senza attribuzione di poteri corrispondenti all’amministratore). È, però, ipotizzabile anche un percorso atipico di segno opposto: si potrebbe, cioè, strutturare, in concreto,
l’amministrazione di sostegno come una procura controllata, con attribuzione di poteri all’amministratore senza perdita di capacità del Beneficiario (così come avviene sempre, ex lege, per
gli atti “minimi”). Qualora, infatti, la persona
Beneficiaria non presenti deficit psichici o intellettivi, ma sia impossibilitata a perseguire i propri interessi di natura personale o patrimoniale
per effetto di una menomazione esclusivamente
fisica, senza ripercussioni nell’ambito cognitivo
e volitivo, non vi è ragione per comprimere la
sfera della sua capacità legale di agire. In simili
condizioni, si impone una lettura più articolata
dell’art. 409 c.c., secondo il quale - come si è
già ricordato - il beneficiario conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono
la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno. La norma,
letta a contrario, lascia aperti spazi applicativi
per una rappresentanza non esclusiva del beneficiario da parte dell’amministratore: una rappresentanza, quindi, con effetti analoghi a quella negoziale, con la peculiarità costituita dal
controllo dell’organo pubblico - il Giudice Tutelare - sull’attività svolta dall’amministratore.
L’amministrazione di sostegno si connota, in
questa ipotesi, come strumento espansivo delle
facoltà del soggetto debole, realizzandosi la
protezione essenzialmente nel controllo pubblico dell’attività svolta dall’amministratore: controllo soltanto ex post se nel decreto l’unico
onere per l’amministratore è quello di rendere il
conto; controllo anche ex ante se il Giudice
Tutelare, applicando, con il meccanismo dell’art. 411, comma 4, c.c., gli effetti e le limitazioni di cui agli artt. 374 e 375 c.c., richieda
per la validità degli atti dell’amministratore o
dello stesso beneficiario l’autorizzazione preventiva al loro compimento
(Trib. Pinerolo 4.11.04, in Nuova giur. civ.
comm., 2005, 6)
Inoltre, il giudice ha precisato che la capacità di
agire del beneficiario rimaneva “piena”.
Premesso che la sig.ra S mantiene la piena
MAGGIO - AGOSTO 2006
capacità di agire per gli atti che non richiedono
la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno e cioè il
cui compimento in via autonoma non è espressamente escluso dal giudice tutelare ai sensi
degli artt. 404 e ss. c.c.
NOMINA Amministratore di sostegno della
sig.ra S Maddalena, con le funzioni e i poteri
qui di seguito specificati, il di lei nipote, signor
Pierfranco T., nato a Pinerolo il 27-1-1956, res.
Pinerolo, via Penarol de Montevideo 8.
DISPONE
che la durata dell’Amministrazione sia a tempo
indeterminato
DISPONE - che l’amministratore di Sostegno
possa compiere autonomamente, senza necessità di previe specifiche autorizzazioni del Giudice Tutelare e salvo obbligo di rendiconto
annuale, i seguenti atti, salva altresì la PIENA
capacità della signora S anche in ordine a tali
atti:
1) prelievo di somme dai conti della Beneficiaria entro l’importo massimo mensile di euro
=1.500,00=; 2) riscossione della somma di euro
=4.140,00= per pagare il funerale della sorella
della Beneficiaria; 3) riscossione della somma di
euro =1.178,00= anticipata dal signor T per la
retta di ottobre della Casa dell’Anziano;
4) prelievo del denaro dai conti della Beneficiaria necessario al pagamento delle utenze e degli
oneri fiscali dell’abitazione e degli altri immobili della medesima e al pagamento dell’IRPEF ed
effettivo pagamento dei relativi importi;
5) riscossione degli affitti dei terreni e versamento su conto della Beneficiaria;
6) compimento degli atti di ordinaria amministrazione e manutenzione degli immobili di proprietà della signora S.
(Trib. Pinerolo 4.11.04, in Nuova giur. civ.
comm., 2005, 10)
Si noti, infine, che la l. n. 6/04 ha modificato la
disciplina dell’invalidità per incapacità con
riguardo agli interdetti ed agli inabilitati, prevedendo all’art. 9, che ha modificato l’art. 417 c.c.,
che l’autorità giudiziaria possa stabilire nella
pronuncia di interdizione e dell’inabilitazione, o
in successivi provvedimenti, che taluni atti di
ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall’interdetto senza l’intervento del tutore
e che taluni atti eccedenti l’ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall’inabilitato
senza l’assistenza del curatore.
Tali atti saranno pienamente validi, e non saranno suscettibili di annullamento ai sensi dei co. 2
e 3 dell’art. 427 c.c.
Si tratta, tuttavia, dei soli atti patrimoniali e non
di quelli personali.
2. GLI ATTI DI DIRITTO DI FAMIGLIA
li atti di diritto di famiglia, come il matrimonio e il riconoscimento di figlio naturale,
sono stati tradizionalmente preclusi all’interdetto; né potevano essere compiuti dal tutore.
G
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
Qualora siano compiuti sono annullabili.
Anche l’intervento dell’amministratore di sostegno è del tutto escluso con riguardo a tali atti, in
quanto essi non ammettono alcuna forma di sostituzione nella realizzazione, e sono, perciò reputati personalissimi.
Come si è detto in precedenza, uno dei principi che regolano l’amministrazione di sostegno è
quello per cui alla limitazione della capacità del
Beneficiario corrisponde il conferimento di
poteri all’Amministratore. In base a tale principio, l’impossibilità giuridica per l’Amministratore di compiere gli atti riservati, per la loro stessa natura, alla sola persona del Beneficiario
(c.d. atti personalissimi: testamento, donazione,
riconoscimento di figlio naturale, matrimonio
ecc...) comporterebbe l’impossibilità di impedire al Beneficiario il compimento di tali atti. A
questo proposito deve però considerarsi il
disposto dell’art. 411, comma 4, secondo il
quale “il Giudice Tutelare, nel provvedimento
con il quale nomina l’Amministratore di sostegno, o successivamente, può disporre che determinati effetti, limitazioni o decadenze, previsti
da disposizioni di legge per l’interdetto o l’inabilitato, si estendano al Beneficiario dell’amministrazione di sostegno, avuto riguardo all’interesse del medesimo e a quello tutelato dalle predette disposizioni”. L’art. 591 c.c. prevede che
siano incapaci di testare le persone interdette
per infermità di mente; l’art. 85 c.c. dispone
che non possano contrarre matrimonio gli interdetti per infermità di mente; l’art. 774 c.c. prevede che non possano donare coloro che non
hanno la piena capacità di disporre dei propri
beni; l’art. 266 c.c. prevede che il riconoscimento di figlio naturale effettuato dall’interdetto
possa essere, per ciò stesso, impugnato: tutte
queste norme possono essere richiamate nel
provvedimento di nomina dell’amministratore
di sostegno: sicché, in via eccezionale, le limitazioni alla capacità legale di agire dell’amministrato possono non corrispondere all’attribuzione all’amministratore dei correlativi poteridoveri
(Trib. Pinerolo 4.11.04, in Nuova giur. civ.
comm., 2005, 10).
L’art. 119 c.c. dispone che il matrimonio di chi è
stato interdetto per infermità di mente possa essere impugnato dal tutore, dal pubblico ministero e
da tutti coloro che abbiano un interesse legittimo
se, al tempo del matrimonio, vi era già sentenza
di interdizione passata in giudicato, ovvero se la
interdizione è stata pronunziata posteriormente
ma l’infermità esisteva al tempo del matrimonio.
Può essere impugnato, dopo revocata l’interdizione, anche dalla persona che era interdetta.
L’azione non può essere proposta se, dopo revocata
l’interdizione, vi è stata coabitazione per un anno.
Mentre l’art. 266 c.c. dispone che il riconoscimento può essere impugnato per l’incapacità che
deriva da interdizione giudiziale dal rappresen39
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
tante dell’interdetto e, dopo la revoca dell’interdizione, dall’autore del riconoscimento, entro un
anno dalla data della revoca.
L’inabilitato può dare il proprio personale consenso senza l’assistenza del curatore.
Dubbio è se il beneficiario possa dare il proprio
consenso al matrimonio, in assenza di previsioni
legislative sul punto.
Tuttavia, dalla previsione di cui all’art. 411 c.c.,
che attribuisce al giudice il potere di disporre che
determinati effetti, limitazioni o decadenze - previsti da disposizioni di legge per l’interdetto o
l’inabilitato - si estendano al beneficiario dell’amministrazione di sostegno, deve argomentarsi che il legislatore non ha limitato la capacità di
agire del beneficiario con riguardo a tali atti una
volta per tutte, ma ha demandato al giudice il
potere di estendere al beneficiario le limitazioni
in ordine alla capacità matrimoniale, o a quella di
procedere al riconoscimento di figlio naturale.
I giudici tutelari, nel predisporre i primi decreti
di nomina di amministratori di sostegno, hanno
espressamente stabilito che il beneficiario potesse compiere da solo gli atti personalissimi, oltre a
quelli relativi alle esigenze di vita quotidiana.
Visto gli artt. gli art. 405 e 407 c.c.
Nomina
la signora P. Crocifissa, nata a Riesi (CL) l’, residente in Genova, amministratore di sostegno, a
tempo indeterminato, di Z. Crocifissa, nata a
Butera (CL) il, residente in Genova;
determina come segue l’oggetto dell’incarico:
1) assistenza personale per quanto di necessità
della beneficiaria (anche per il tramite di terze
persone) al fine di consentirle, per quanto possibile, il rientro presso la sua attuale abitazione;
2)stipula e cura dell’esecuzione del contratto
di lavoro con una o più badanti (o con un’eventuale Cooperativa di servizi), assumendosi
tutti i relativi incombenti (ivi compresa la posizione INPS);
3)riscossione, accredito e gestione (per quanto
riguarda l’ordinaria amministrazione) della pensione, dell’eventuale indennità di accompagnamento di spettanza della beneficiaria, con
facoltà di compiere in nome e per conto della
predetta tutte le pratiche, amministrative e non,
volte a migliorare la situazione previdenziale e
dunque patrimoniale della stessa (ivi compresa
la domanda per il conseguimento dell’indennità
di accompagnamento ove non ancora proposta);
4) apertura se necessario o opportuno di un
conto corrente intestato alla sola beneficiaria
(ove non già esistente), con potere di firma in
capo all’amministratore di sostegno che potrà
liberamente movimentare il suddetto conto;
5)gestione e amministrazione ordinaria del bene
immobile di proprietà della beneficiaria, con
facoltà di partecipare - anche a mezzo delega
intestata a persona di sua fiducia - alle assemblee condominiali;
6)conservazione e gestione di eventuali risparmi
40
AIAF RIVISTA 2/2006
di pertinenza del beneficiario;
7) gestione ed eventuale definizione dei rapporti di debito esistenti con l’Istituto V., già Istituto
P., nel caso di trasferimento dell’amministrata
presso la propria abitazione;
8) facoltà di richiedere agli altri congiunti le somme di denaro costituenti la quota parte su di essi
gravante a titolo di mantenimento della madre
(sia con riguardo alla retta dell’Istituto, ove essi
già non vi abbiano provveduto, sia con riguardo
alle spese relative all’assistenza domiciliare,
comprensiva delle spese ordinarie e/o straordinarie riguardanti la salute della congiunta, e a quelle connesse alla gestione della casa, ove non siano sufficienti le risorse dell’amministrata);
9) presentazione annuale della dichiarazione
dei redditi, ove richiesta ai sensi di legge, e
pagamento delle tasse e delle utenze a carico
della beneficiaria;
atti che l’amministratore può compiere in nome
e per conto della beneficiaria: tutti quelli necessari per far fronte all’oggetto dell’incarico come
sopra precisato, con la precisazione che per gli
atti di straordinaria amministrazione l’amministratore di sostegno dovrà essere autorizzato dal
giudice tutelare;
limiti delle spese sostenibili con le risorse della
beneficiaria: importo della pensione e dell’eventuale indennità di accompagnamento, nonché eventuali ulteriori risparmi;
atti che la beneficiaria può compiere da sola:
tutti quelli attinenti alla vita quotidiana, nonché
quelli inerenti ai diritti c.d. personalissimi;
(Trib. Genova 1.3.05, in Altalex 23.4.05)
La legge non prevede, invece, forme di assistenza o di controllo giudiziale che garantiscano al
disabile l’esercizio di tali diritti fondamentali e la
possibilità di sperimentare tali esperienze di vita,
ma è rimesso al giudice il compito di trovare
soluzioni a tale problemi, nel definire i compiti
dell’amministratore ex art. 405 c.c. o nell’esercizio del potere di cui all’art. 44 disp. att. c.c. di
dare in ogni momento istruzioni sulla cura degli
interessi personali del disabile (FERRANDO).
Vi sono degli atti che, pur non essendo di natura
patrimoniale, possono essere valutati sotto il profilo della convenienza in relazione agli interessi
del beneficiario, come le domande di divorzio o
di separazione personale dei coniugi, per i quali
non si può escludere l’ammissibilità dell’intervento dell’amministratore di sostegno.
La giurisprudenza di merito si è espressa in passato sul punto con riguardo alla legittimazione
del tutore ad agire in giudizio per la domanda di
divorzio, escludendola in ragione della natura
personalissima dell’azione.
Il tutore dell’interdetto giudiziale non è legittimato ad agire in giudizio per la domanda di
divorzio, attesa la natura “personalissima” di
tale azione
(Trib. Padova 9.2.94, in Foro pad., 1995, I,
106).
MAGGIO - AGOSTO 2006
Più recentemente la Cassazione ha avuto modo di
precisare che tale legittimazione, con riguardo
all’interdetto infermo di mente, spetta ad un curatore speciale, la cui nomina può essere richiesta
dal tutore.
In mancanza di una specifica disposizione normativa che preveda il relativo potere, il tutore
dell’interdetto per infermità di mente non può
proporre domanda di divorzio per lo stesso; in
applicazione analogica dell’art. 4 comma 5 l. n.
898 del 1970 - che regola l’ipotesi in cui l’interdetto infermo di mente sia convenuto in un
giudizio di divorzio - in relazione agli art. 78 e
79 c.p.c., legittimato a proporre la domanda di
divorzio per l’interdetto è un curatore speciale,
la cui nomina può essere richiesta dal tutore
(Cass. 21.7.00, n. 9582, in Giust. civ., 2000, I,
3145).
Con particolare riferimento all’esercizio della
potestà parentale, si ritiene che la nomina dell’amministratore di sostegno senza determinazione dell’incapacità legale non abbia alcuna ripercussione su tale esercizio (LISELLA).
Diversamente, qualora il decreto di nomina dell’amministratore di sostegno determini un’attenuazione della capacità legale del beneficiario,
deve ritenersi spettante al giudice tutelare il potere di stabilire, nel decreto di nomina, se sospendere o meno l’esercizio della potestà parentale: in
particolare, il giudice disporrà se ex art. 411 c.c.
si estendano al beneficiario gli effetti dell’interdizione o dell’inabilitazione.
Ai nostri fini suscita particolare interesse la
disciplina dell’inabilitazione relativa al problema
in oggetto.
La sentenza di inabilitazione non implica la
sospensione della potestà del genitore, ma questi
continua ad esercitarla negli aspetti di natura personale e con riguardo ai profili patrimoniali,
limitatamente all’ordinaria amministrazione.
Se l’inabilitato esercita la potestà congiuntamente all’altro genitore, potrà compiere da solo gli
atti di ordinaria amministrazione, esclusi i contratti con cui si concedono o si acquistano diritti
personali di godimento (ex art. 320, co. 1, c.c.).
Per gli atti di straordinaria amministrazione, se la
potestà è esercitata in via esclusiva dall’inabilitato,
è dubbio se tali atti possano essere compiuti dall’inabilitato con l’assistenza del suo curatore e con le
altre formalità integrative, oppure se al minore
debba essere nominato un curatore speciale.
3. LE INVALIDITÀ NELL’AMMINISTRAZIONE
DI SOSTEGNO
art. 412 prevede l’annullabilità quale sanzione di carattere generale in materia di
amministrazione di sostegno, con riguardo a
L’
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
tutti gli atti compiuti in violazione del modello
previsto dalla legge.
L’annullabilità rappresenta la sanzione tipicamente prevista per i negozi compiuti dai soggetti
legalmente incapaci, poiché l’ordinamento presume che essi non siano in grado di valutare la convenienza dell’atto da stipulare.
Come è noto, il negozio annullabile produce
effetti fino all’annullamento dello stesso, ed è
rimesso all’iniziativa del soggetto cui l’ordinamento conferisce tale potere.
La pronuncia con la quale è annullato il negozio
ha efficacia retroattiva, e l’annullamento può
essere domandato dal momento della conclusione
del contratto.
I vizi che determinano l’annullabilità attengono
al processo formativo della volontà di uno dei
soggetti del negozio.
Si ritiene che per l’annullabilità degli atti compiuti in violazione della l. n. 6/04 e delle disposizioni del provvedimento di nomina dell’amministratore valgano le regole generali relative all’azione di annullamento: così, non si dubita che
trovino applicazione in materia di amministrazione di sostegno la convalida del negozio ex art.
1444 e l’annullabilità del contratto plurilaterale
(ROMOLI).
Si nutrono dubbi invece in merito all’applicabilità dell’art. 1443 c.c. secondo cui il contraente
incapace non è tenuto a restituire all’altro la prestazione ricevuta se non nei limiti in cui è stata
rivolta a suo vantaggio.
Analoghe perplessità sono espresse con riguardo
alla previsioni di cui all’art. 1445 c.c., ai sensi
del quale l’annullamento dipendente da incapacità legale ha effetto retroattivo anche nei confronti dei terzi; e con riguardo all’art. 2652, n. 6
c.c., in forza del quale si devono trascrivere, qualora si riferiscano ai diritti menzionati nell’articolo 2643, le domande dirette a far dichiarare la
nullità, o a far pronunziare l’annullamento di atti
soggetti a trascrizione, e le domande dirette a
impugnare la validità della trascrizione.
Convincenti ci sembrano le argomentazioni di chi
sottolinea come detti articoli si riferiscano genericamente all’incapacità e l’incapacità legale,
delineando delle categorie tendenzialmente aperte in cui possono ricomprendersi anche le nuove
figure di soggetti cd. “deboli” come il beneficiario dell’amministrazione di sostegno (ROMOLI).
Ovviamente, poiché il beneficiario dell’amministrazione di sostegno è un soggetto generalmente
e tendenzialmente capace, le norme di cui sopra
troveranno applicazione con riferimento a tale
soggetto limitatamente al compimento di quegli
atti che tale soggetto non può compiere ai sensi
del decreto di nomina dell’amministratore di
41
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
sostegno.
L’art. 412 disciplina unitariamente l’invalidità e
gli atti compiuti dall’amministratore di sostegno
e dal beneficiario, stabilendone l’annullabilità.
Sono annullabili sia gli atti compiuti dall’amministratore di sostegno rappresentante, sia quelli
compiuti dall’amministratore di sostegno assistente; saranno invece nulli gli atti compiuti dall’amministratore di sostegno assistente qualora
sia assente la manifestazione di consenso del
beneficiario, poiché in questa ipotesi verrebbe a
mancare uno degli elementi essenziali del negozio (RUSCELLO).
Infine sarà nullo il negozio concluso in violazione di norme imperative (art. 1418 c.c.).
La legge sull’amministrazione di sostegno, come
è noto, non disciplina l’ipotesi del conflitto d’interessi fra amministratore e beneficiario, né prevede una figura generale di sostituto dell’amministratore di sostegno, o rinvia all’art. 360 c.c.,
disposizione che prevede la rappresentanza da
parte del protutore, nell’ipotesi di conflitto d’interessi tra tutore e pupillo, e la nomina di un
curatore speciale, nel caso in cui il conflitto d’interessi coinvolga anche il protutore.
In dottrina si ritiene che il problema sia risolvibile in base al rilievo che il divieto per il legale rappresentante e per il curatore di un incapace legale di concludere atti in conflitto di interessi con
quest’ultimo costituisca un principio generale del
nostro ordinamento, per cui deve ritenersi applicabile all’amministrazione di sostegno, anche in
assenza di un espresso richiamo (ROMOLI).
In base a tali argomenti deve ritenersi sicuramente annullabile l’atto compiuto dall’amministratore in conflitto d’interessi con il beneficiario, indipendentemente dalla riconoscibilità del conflitto
di interessi da parte del terzo, non trovando applicazione l’art. 1394 c.c. con riguardo alla rappresentanza degli incapaci (BONILINI).. In via preventiva, è dubbio, nel caso l’amministratore di
sostegno si trovi in conflitto d’interessi con il
beneficiario relativamente ad un atto da realizzare, se il giudice possa procedere alla nomina di
un curatore speciale, la dove il compimento dell’atto sia indispensabile; o, qualora si aderisca
alla tesi in base alla quale sarebbe inammissibile
la nomina di un curatore speciale, se si debba
procedere semplicemente alla sostituzione dell’amministratore con un altro soggetto (ROMOLI).
4. VIOLAZIONE DI DISPOSIZIONI DEL
GIUDICE
na prima categoria generale di invalidità
nella disciplina dell’amministrazione di
sostegno è costituita dalla violazione delle
disposizioni del giudice.
U
42
AIAF RIVISTA 2/2006
Come abbiamo accennato, infatti, il giudice tutelare nomina l’amministratore di sostegno e specifica gli atti che il beneficiario deve compiere con
l’assistenza dell’amministratore di sostegno, e
quelli che l’amministratore di sostegno deve
compiere in nome e per conto del beneficiario;
mentre ex art. 409 c.c. il beneficiario conserva la
capacità di agire per tutti gli atti con riguardo ai
quali il decreto non preveda restrizioni della
capacità di agire dello stesso.
L’annullabilità per violazione di disposizioni del
giudice può essere determinata:
a) dal compimento dell’atto da parte dell’amministratore di sostegno in eccesso rispetto
all’oggetto dell’incarico o ai poteri conferitigli
dal giudice;
b) dal compimento di un atto da parte del beneficiario in violazione delle disposizione contenute nel decreto istitutivo dell’amministrazione di sostegno.
La legge, nel prevedere l’ipotesi di annullabilità
degli atti per eccesso di poteri, si riferisce quegli
atti compiuti dall’amministratore di sostegno che
risultino esorbitanti rispetto all’oggetto dell’incarico affidatogli, ma che rientrano nel novero di
quelli in ordine ai quali il beneficiario sia stato
privato della capacità di agire.
Si ritiene, infatti, che siano totalmente privi di
efficacia gli atti dell’amministratore di sostegno
che non abbiano attinenza con l’oggetto dell’incarico (DELLE MONACHE; BONILINI).
L’ipotesi di cui sub a) dovrebbe essere integrata
anche allorché l’amministratore compia un atto
autorizzato dal giudice tutelare, ma eccedente
l’ambito delle facoltà accordate all’amministratore stesso dal decreto di nomina.
In concreto, infatti, può accadere che vi sia
discordanza tra autorizzazione del giudice e
decreto di nomina, qualora il giudice tutelare
autorizzi un atto non autorizzabile ai sensi del
primo provvedimento, il quale può avere un contenuto programmatico e determinare astrattamente quali atti l’amministratore è autorizzato a compiere, delimitando la funzione di quest’ultimo.
Conseguentemente, sarà poi necessario un apposito provvedimento del giudice tutelare, allorché
l’amministratore debba procedere al compimento
di un atto che necessiti di autorizzazione.
L’atto posto in essere in violazione dell’originario provvedimento del giudice è annullabile ai
sensi dell’art. 412 c.c., ai sensi del quale “gli atti
compiuti dall’amministratore di sostegno in violazione di disposizioni di legge, od in eccesso
rispetto all’oggetto dell’incarico o ai poteri conferitigli dal giudice, possono essere annullati su
istanza dell’amministratore di sostegno, del pubblico ministero, del beneficiario o dei suoi eredi
MAGGIO - AGOSTO 2006
ed aventi causa”.
In dottrina si ritiene che il notaio incaricato della
stipula di un atto cui partecipi l’amministratore di
sostegno debba verificare che questi sia autorizzato al compimento dell’atto e che l’atto stesso
rientri nell’ambito della tipologia di quegli atti
con riferimento ai quali è avvenuta la nomina, in
quanto l’art. 54 del regolamento notarile
(10.9.14, n. 1326) impone l’accertamento che le
persone intervenute alla stipula siano assistite o
autorizzate nel modo espressamente stabilito dalla legge (ROMOLI).
5. VIOLAZIONE DI DISPOSIZIONI DI LEGGE
art. 412 sancisce l’annullabilità degli atti
compiuti dall’amministratore di sostegno o
dal beneficiario in violazione di legge. Con
riguardo agli atti compiuti dall’amministratore di
sostegno, devono ritenersi annullabili quelli vietati al tutore dalle norme che l’art. 411 richiama
riguardo all’amministrazione di sostegno; gli atti
compiuti dall’amministratore in mancanza delle
autorizzazioni richieste dagli artt. 374 e 375 c.c.
per il compimento degli atti indicati in queste
norme; e gli atti compiuti in difformità rispetto
all’autorizzazione ottenuta.
Nella prima categoria di atti vietati all’amministratore di sostegno rientrano gli atti vietati al
tutore e al protutore ex art. 378 c.c., e la violazione del divieto di stipulare convenzioni con
l’incapace prima dell’approvazione del conto ai
sensi dell’art. 388 c.c..
La mancanza di autorizzazioni richiesta dagli
art. 374 e 375 c.c. comporta sempre l’annullabilità degli atti compiuti dall’amministratore di
sostegno rappresentante; mentre è dubbia nel
caso l’atto sia compiuto dall’amministratore di
sostegno assistente, in quanto la l. n. 6/04 non
richiama l’art. 394 c.c., norma che stabilisce quali autorizzazioni siano richieste per il compimento di alcuni atti da parte del minore emancipato
(e, quindi, dell’inabilitato) assistito dal curatore.
Secondo alcuni autori il mancato richiamo è spiegabile in base al rilievo che anche gli atti, per i
quali il decreto di nomina prevede che il beneficiario debba essere assistito dall’amministratore,
sono assoggettati alle regole di cui agli art. 374 e
375 c.c. (ROMOLI).
Per altri autori tale soluzione sarebbe ingenerosa,
e l’assenza del richiamo all’art. 394 c.c. potrebbe, invece, portare a concludere che, per gli atti
da compiersi con l’assistenza dell’amministratore di sostegno, non sia richiesta l’autorizzazione
del giudice tutelare (ROPPO - DELLACASA).
In applicazione dell’art. 374, n. 5 sarà nullo il
giudizio promosso dall’amministratore di sostegno senza la prescritta autorizzazione.
L’
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
Nell’ipotesi in cui il tutore abbia promosso un
giudizio nell’interesse dell’incapace senza l’autorizzazione prescritta dall’art. 374, n. 5, c.c.,
si determina un vizio di legittimazione processuale che determina la radicale nullità dell’intero giudizio, e non attenendo a materia disponibile, deve essere rilevato, anche d’ufficio, dal
giudice. L’autorizzazione, infatti, è un presupposto necessario per la regolare costituzione del
rapporto processuale, e pertanto colui che ha
promosso il giudizio qualificandosi rappresentante legale dell’incapace ha l’onere della prova
dell’autorizzazione, quale presupposto della
propria legittimazione all’esercizio delle facoltà
processuali.
(Cass. 21.7.03, n. 11344, in Mass. Giust. civ.,
2003, f. 7-8)
L’art. 411 c.c. richiama altresì l’art. 376 c.c., che
prevede che il Tribunale possa fissare particolari
modalità per la vendita dei beni; e l’art. 378
che contempla a carico dell’amministratore di
sostegno il divieto di compiere una serie di atti in
relazione ai quali appare particolarmente elevato
il rischio di un conflitto di interessi.
L’autorizzazione deve necessariamente precedere
il negozio che l’amministratore di sostegno dovrà
compiere, e non sarà ammessa un autorizzazione
tardiva, né una successiva approvazione od omologazione del negozio ad opera del giudice tutelare, tuttavia, non sarà rilevante la minima divergenza tra il provvedimento e l’atto autorizzatorio,
ma esclusivamente una difformità nei caratteri
essenziali del negozio (CALICE).
Ex art. 411 c.c. la competenza a rilasciare l’autorizzazione al compimento di tutti gli atti spetta al
giudice tutelare.
La giurisprudenza della Cassazione ha precisato
che i decreti di autorizzazione non acquistano
efficacia di giudicato, ma si presentano come
provvedimenti amministrativi.
I decreti di autorizzazione emessi dal giudice
tutelare ai sensi degli art. 374 c.c. e 737 c.p.c.
non hanno le connotazioni formali e sostanziali delle decisioni giurisdizionali, ma si presentano come provvedimenti amministrativi. Essi,
pertanto, se pure divengono efficaci con il
decorso del termine per il reclamo ex art. 741
c.p.c., non hanno, tuttavia, attitudine ad acquistare efficacia di giudicato, né esplicito, in ordine alla decisione positiva o negativa sull’autorizzazione riportata nel dispositivo, né implicito, in ordine alle questioni valutate e decise
quali presupposti logici necessari di quella.
(Cass. 6.8.01, n. 10822, in Mass. Giust. civ.,
2001, 1551).
Dubbio è se siano annullabili gli atti compiuti
dall’amministratore in violazione dell’obbligo di
tenere conto delle aspirazioni e dei bisogni del
43
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
beneficiario, ai sensi dell’art. 410, co. 1, c.c., e di
fornirgli la tempestiva informazione (ex art. 410,
co. 2, c.c.): secondo alcuni autori tale conclusione non sarebbe ammissibile, in quanto “devastante per la certezza dei traffici” (ROMOLI).
Si ritiene infatti che la certezza dei traffici esiga
che al momento del compimento dell’atto sia
possibile accertare la sussistenza dei presupposti
per il suo valido compimento, e che, in tale
momento, non si possa imporre al notaio l’obbligo di accertare se effettivamente vi siano unità di
vedute e scambio di informazioni fra amministratore di sostegno e beneficiario.
Si argomenta, inoltre, che i doveri posti a carico
dell’amministratore dall’410 c.c. abbiano la
valenza di individuare in astratto la corretta
modalità di svolgimento dell’ufficio, ragion per
cui la loro violazione non avrebbe ripercussioni
sul compimento dei singoli atti, e rileverebbe
esclusivamente ai fini della responsabilità nei
confronti del beneficiario per il danno cagionato
in violazione dei doveri, ed a quelli della rimozione e della sospensione dell’amministratore di
sostegno dal suo ufficio (ROMOLI; BONILINI).
Secondo altri autori, invece, sarà annullabile
anche l’atto che l’amministratore compia omettendo di perseguire le esigenze di cui e portatore
il beneficiario, e quello che l’amministratore
compia omettendo di informare preventivamente
il beneficiario (ROPPO - DELLACASA; CAMPESE).
Il testo normativo - ad avviso di tali autori - non
lascerebbe spazio a dubbi, poiché il legislatore
avrebbe imposto all’amministratore gli obblighi
di informazione e di tener conto delle esigenze
del beneficiario a garanzia della posizione di
quest’ultimo.
Sono da ritenersi nulle le obbligazioni che, eventualmente, l’amministratore rappresentante abbia
assunto verso terzi, in virtù delle quali quest’ultimo si sia impegnato a proporre al giudice l’istanza relativa al compimento di atti negoziali in
nome e per conto del beneficiario.
È affetto da nullità radicale l’obbligazione convenzionale, assunta verso terzi dal rappresentante dell’incapace, alla proposizione della
necessaria istanza al giudice (competente per la
relativa autorizzazione) in relazione ad atti
negoziali da compiere in nome e per conto del
minore, tanto prima quanto dopo che l’atto stesso sia compiuto, contrastando siffatto obbligo
con l’esigenza, di ordine pubblico, che l’amministrazione vincolata di un patrimonio sia sorretta dall’interesse del titolare nel momento in
cui si propone l’istanza (e non in un momento
diverso), senza l’interferenza derivante da impegni illegittimamente assunti verso terzi dal rappresentante legale dell’incapace
(Cass. 10.2.98, n. 1345, in Mass. Giust. civ.,
44
AIAF RIVISTA 2/2006
1998, 290).
La legge stabilisce che sono annullabili anche gli
atti compiuti dal beneficiario in violazione di legge (art. 412) Tuttavia, tale previsione non ha un
vasto ambito di applicazione, poiché, come si è in
più occasioni rilevato, le limitazioni della capacità di agire del beneficiario non sono astrattamente stabilite dalla legge, ma trovano la loro
fonte nel provvedimento del giudice, tale essendo
una delle più importanti caratteristiche innovative della disciplina dell’amministrazione di sostegno nel quadro degli strumenti di protezione dei
soggetti non in grado di provvedere ai propri
interessi.
La dottrina più attenta ha individuato una sola
limitazione della capacità di agire del beneficiario riconducibile alla legge, in assenza di previsioni normative sul punto: quella concernente la
capacità di donare (ROPPO - DELLACASA).. Non vi
è alcun richiamo nella l. n. 6/04 alle norme che
prevedono limitazioni alla capacità di donare da
parte degli incapaci legali, tuttavia il giudice
tutelare può estendere al beneficiario dell’amministrazione di sostegno le limitazioni o decadenze previsti per l’interdetto o l’inabilitato: in tale
caso il l’annullabilità dell’atto sarà riconducibile
alla violazione di disposizioni del giudice.
Ad analoghe conclusioni si deve pervenire allorché il decreto istitutivo preveda la nomina dell’amministratore di sostegno con riferimento a
tutti gli atti di alienazione da parte del beneficiario, poiché il soggetto si troverà privo della piena
capacità di disporre dei propri beni, e, dunque,
deve considerarsi privo della capacità di donare
ex art. 774 c.c.
Diversamente, qualora la nomina dell’amministratore di sostegno avvenga con riferimento a
determinati atti, il beneficiario non potrà essere
ritenuto incapace di agire con riguardo ad atti
diversi, e, dunque, in tali ipotesi l’incapacità di
donare andrà ricondotta alla legge, ed in particolare all’art. 774 c.c.
In particolare, si deve argomentare dalla lettera di
tale articolo - il quale prevede che per donare
occorre la piena capacità di disporre dei propri
beni - che non possa donare colui il quale sia stato privato della capacità di agire anche con
riguardo ad atti diversi dalla donazione. In dottrina si ritiene costituisca argomento a sostegno di
una tale ricostruzione il fatto che l’art. 774 stabilisca che anche il minore emancipato è incapace
di donare, sebbene autorizzato all’esercizio di
un’impresa commerciale, ed al fatto che l’art.
776 c.c. sancisca l’annullabilità della donazione
fatta dall’inabilitato a partire dai sei mesi anteriori all’inizio del giudizio d’inabilitazione
MAGGIO - AGOSTO 2006
(ROMOLI).
La piena capacità di donare è necessaria anche
per le donazioni remuneratorie e modali.
Rientrano fra i contratti a titolo gratuito, e non fra
quelli commutativi, sia le donazioni remuneratorie, fatte per riconoscenza o in considerazione
dei meriti del donatario, sia quelle modali, in cui
il “modus”, che è limitazione del beneficio
mediante un’obbligazione accessoria posta a
carico del donatario, non può equipararsi alla
controprestazione propria dei contratti a titolo
oneroso, e non è perciò idoneo a mutare la causa del contratto, che resta a titolo gratuito. Di
conseguenza, per l’annullamento delle donazioni remuneratorie e modali, come di ogni altra
donazione fatta da persona incapace di intendere e di volere, non sono richiesti, à sensi dello
specifico disposto dell’art. 775 c.c. né il pregiudizio del donante, né la malafede del donatario
trovando riferimento tali condizioni, previste
dagli art. 428 e 1425 c.c., in rapporti di corrispettività e di equivalenza tra le prestazioni che
sono pertinenti ai soli contratti a titolo oneroso
(Cass. 6.12.84, n. 6414, in Mass. Giust. civ.,
1984, fasc. 12).
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
impeditiva della decadenza dal beneficio prevista dall’art. 489 c.c., ma la logica impone di dare
una risposta positiva al quesito.
Nell’ipotesi in cui il giudice estenda al beneficiario le norme sull’accettazione con beneficio d’inventario di cui agli artt. 471, 472 e 489 c.c., il
beneficiario è soggetto alle regole che disciplinano il compimento di atti di alienazione di beni
ereditari da parte dell’incapace sottoposto a tutela, e la competenza a concedere l’autorizzazione
in relazione a tali atti spetterà al giudice delle
successioni ex art. 747 c.p.c..
In mancanza di autorizzazione del giudice delle
successioni l’atto di alienazione di beni ereditati
sarà invalido, e di conseguenza annullabile.
L’eredità devoluta ai minori può essere accettata solo con beneficio di inventario, mentre ogni
altra forma di accettazione, espressa o tacita, è
nulla ed improduttiva di effetti, non conferendo
al minore la qualità di erede. Conseguentemente gli atti di conservazione del patrimonio eredi-
6. ACCETTAZIONE DI EREDITÀ E
ALIENAZIONE DI BENI EREDITARI
a legge non stabilisce se l’eredità devoluta al
beneficiario dell’amministrazione di sostegno debba essere accettata col beneficio d’inventario, così come dispongono gli artt. 471 e
472 c.c. con riguardo ai minori, agli interdetti,
ai minori emancipati e agli inabilitati.
Ragion per cui è dubbio se debba ritenersi che
anche al beneficiario dell’amministrazione di
sostegno sia preclusa l’accettazione pura e semplice di un’eredità.
Contro un’estensione di tale preclusione si pongono l’assenza del richiamo agli artt. 471 e 472
c.c.; il carattere eccezionale di queste due norme,
indirizzate a categorie di soggetti legalmente
incapaci; ed il fatto che il beneficiario non possa
essere considerato incapace di agire con riguardo
agli atti in relazione ai quali il decreto non preveda la rappresentanza esclusiva o l’assistenza
dell’amministratore (in tal senso cfr. ROMOLI)..
L’accettazione con beneficio d’inventario può
essere imposta a carico del beneficiario da parte
del giudice tutelare nel provvedimento di nomina
dell’amministratore di sostegno, in virtù della
facoltà - conferitagli dall’art. 411, ult. co., c.c. di estendere al beneficiario determinati effetti,
limitazioni o decadenze previsti per l’interdetto o
per l’inabilitato: in particolare, il giudice dovrebbe estendere il divieto di un’accettazione diversa
da quella con il beneficio d’inventario, ai sensi
degli artt. 471 e 472 c.c... È dubbio se il giudice
possa estendere al beneficiario anche la causa
L
45
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
tario posti in essere dal rappresentante legale
del minore chiamato all’eredità non possono
dare luogo ad alcuna accettazione implicita dell’eredità medesima.
(Cass. 13.7.99, n. 7417, in Mass. Giust. civ.,
1999, 1630)
Qualora, invece, il giudice tutelare, nel decreto di
nomina, non estenda al beneficiario dell’amministrazione di sostegno la causa impeditiva della
decadenza dal beneficio prevista dall’art. 489
c.c., e l’atto di alienazione di beni ereditari sia
semplicemente autorizzato dal giudice tutelare ex
art 375 c.c. e non dal giudice delle successioni,
l’atto di alienazione sarà valido, ma il beneficiario perderà la limitazione di responsabilità caratteristica del beneficio d’inventario ex art. 493.
L’atto sarà annullabile ai sensi dell’art. 412 c.c.,
qualora manchi l’autorizzazione del giudice tutelare richiesta dall’art. 375 c.c., in quanto compiuto in violazione di legge, qualora il decreto di
nomina limiti la capacità di agire del beneficiario
con riguardo agli atti di disposizione. Concretamente, nelle prime pronunzie in materia di amministrazione di sostegno, i giudici hanno previsto
che l’amministratore di sostegno potesse accettare eredità esclusivamente con beneficio d’inventario, ma non hanno fatto riferimento all’applicabilità della causa impeditiva della decadenza di
cui all’art. 489 c.c.
Letto il ricorso depositato in data 16 febbraio
2005 da xxxxx Rosella, nata a Roma il 10
novembre 1965 ed ivi residente, in via L. xxxxx
14, con il quale la medesima ha chiesto la
nomina di un Amministratore di sostegno a norma dell’articolo 405 c.c. - come modificato dalla legge 9 gennaio 2004 n. 6 - in favore di xxxx
Mauro, nato a Milano il 17 febbraio 1968 e residente in Roma, piazza G. xxxx 5; ritenuto che
da certificazione medica in atti il xxxxx risulta
affetto da “insufficienza mentale grave” e “schizofrenia”;
sentiti personalmente la ricorrente, che ha confermato la sua disponibilità ad assumere l’incarico di Amministratore di sostegno del fratello,
nonché la madre del xxxxx e suoi parenti ed
affini, i quali nulla hanno obiettato in ordine al
ricorso ed alla nomina della ricorrente quale
Amministratore di sostegno del fratello;
sentito il xxxxx, il quale ha dato segni evidenti
della patologia da cui è affetto; considerato che
la patologia di cui sopra comporta l’impossibilità del xxxx di provvedere autonomamente ai
suoi interessi, impossibilità che consente di
applicare nella fattispecie l’amministrazione di
sostegno, quale misura sufficiente a soddisfare
le esigenze di tutela del predetto;
rilevato che è opportuno, nel caso di specie,
nominare, quale Amministratore di sostegno del
xxxxx, la sorella ricorrente, la quale si è sempre
occupata del fratello;
46
AIAF RIVISTA 2/2006
NOMINA xxxxx Rosella, sopra generalizzata,
Amministratore di sostegno di xxxx Mauro,
sopra generalizzato, e la autorizza a:
1. operare sul conto di cui al n. 1), prelevando
l’importo necessario alla vita del beneficiario,
che si quantifica, allo stato, nell’importo della
pensione d’invalidità e dell’indennità di accompagnamento, mettendolo a disposizione del
beneficiario o di sua madre con lui convivente;
2. accettare, per conto ed in nome di xxxxx
Mauro, l’eredità del padre xxxxx Pasquale, con
beneficio d’inventario;
3. curare l’amministrazione ordinaria del patrimonio immobiliare del beneficiario, e sottoporre all’autorizzazione di questo Giudice qualsiasi atto eccedente l’ordinaria amministrazione;
4. rappresentare il beneficiario, agendo in nome
e per conto del medesimo, nel predisporre e
sottoscrivere eventuali atti e/o istanze alla pubblica amministrazione o a soggetti privati diretti
al conseguimento di sussidi o equipollenti, di
documenti d’identità, di prestazioni di natura
assistenziale a favore del beneficiario, ed alla
presentazione della denuncia dei redditi dello
stesso;
5. occuparsi delle questioni che riguardano la
vita personale del beneficiario, curando che il
medesimo sia adeguatamente curato ed assistito.
(Trib. Roma 22.04.05, in Altalex, 13.5.05).
Si noti che le autorizzazioni vengono concesse
dal giudice in relazione all’accettazione di un’eredità specifica.
visto l’art. 405 c.c.,
1. nomina in favore di XXXXX ASSUNTA, nata
a xxxxx il 15 agosto 1920, l’Amministratore di
Sostegno nella persona del coniuge XXXXX
GIOVANNI, nato a xxxxxxx il 16 febbraio 1921,
con le funzioni ed i poteri qui di seguito specificati;
2. dispone che la durata dell’incarico sia a tempo indeterminato ed abbia ad oggetto la rappresentanza della Beneficiaria nonché l’amministrazione del patrimonio della medesima;
3. autorizza l’Amministratore di sostegno a
compiere in nome e per conto di Xxxxx Assunta, senza necessità di ulteriore autorizzazione
del Giudice Tutelare, con poteri di rappresentanza esclusiva e salvo obbligo di rendiconto
annuale, tutti gli atti civili di ordinaria amministrazione;
4. autorizza l’Amministratore di sostegno a
riscuotere nell’interesse della Beneficiaria gli
emolumenti a lei dovuti a titolo pensionistico ed
a curare tutte le pratiche a tal fine necessarie,
previa apertura di un conto ovvero di un libretto, postale o bancario, intestato a Xxxxx Assunta con annotazione del nome dell’Amministratore quale legittimato ad operare, facendo in
modo che su detto conto vengano ad essere
accreditate tutte le entrate dell’amministrazione
(pensioni, indennità, ecc.) e la somma di Euro
10.000,00 attualmente depositata su c/c bancario BNL cointestato a Xxxxx Giovanni e Xxxxx
Assunta;
5. autorizza l’Amministratore di sostegno ad
MAGGIO - AGOSTO 2006
impiegare la somma mensile di Euro 740,00,00
per il mantenimento della Beneficiaria;
6. autorizza l’Amministratore di sostegno ad
accettare, in nome e per conto di Xxxxx Assunta, con beneficio d’inventario, l’eredità pervenutale da xxxx Linda, deceduta in xxxxx il xxxx
ed a sottoscrivere in nome e per conto della
Beneficiaria gli atti finalizzati alla riscossione di
crediti sorti in seguito al decesso di xxxxx Linda; 7. dispone che ogni atto di straordinaria
amministrazione debba essere previamente
autorizzato dal giudice tutelare;
8. dispone che l’Amministratore di sostegno tenga conto dei bisogni e delle aspirazioni della
Beneficiaria ed informi la Beneficiaria degli atti
da compiere, ove ciò sia possibile;
9. dispone che l’Amministratore di sostegno
informi periodicamente il Giudice Tutelare circa
le condizioni di vita personali e sociali della
Beneficiaria, della consistenza patrimoniale e
reddituale della medesima, rendendo il conto
dell’attività svolta mediante deposito in Cancelleria di una relazione-rendiconto entro il 31
dicembre di ogni anno, corredata dalla documentazione comprovante le principali voci di
reddito e di spesa afferenti il periodo considerato. Nella relazione (o in qualsiasi momento
mediante deposito in Cancelleria di un ricorso
scritto o verbalmente al Giudice Tutelare previo
appuntamento) l’Amministratore di sostegno
potrà indicare eventuali diverse ed ulteriori esigenze da gestire nell’interesse della Beneficiaria;
10. fissa per il giuramento dell’Amministratore
di sostegno l’udienza del xxxxxxxxx;
11. dispone l’efficacia immediata del presente
decreto ai sensi dell’art.741 c.p.c.
(Trib. Roma 10.2.05)
7. AZIONE DI ANNULLAMENTO
art. 412 prevede che siano legittimati a proporre la domanda di annullamento degli atti
compiuti dall’amministratore di sostegno i
seguenti soggetti:
a) l’amministratore di sostegno;
b) il pubblico ministero;
c) il beneficiario o i suoi eredi o aventi causa.
Diversamente, per gli atti compiuti personalmente dal beneficiario, la legittimazione spetta
all’amministratore di sostegno, al beneficiario, o
ai suoi eredi aventi causa. Si tratta di legittimazione concorrente, salvo per gli aventi causa per
i quali la legittimazione e successiva.
In dottrina si è rilevato come, il fatto che la legge
stabilisca la legittimazione del pubblico ministero
esclusivamente con riguardo agli atti compiuti dall’amministratore di sostegno, implichi che l’intervento del pubblico ministero è diretto al controllo
dell’operato dell’amministratore (ROMOLI); tuttavia vi è chi sostiene che la mancanza del pubblico
ministero tra i soggetti legittimati a chiedere l’annullamento degli atti compiuti direttamente dal
beneficiario sia dovuta a una semplice dimenticanza del legislatore (VOCATURO).
L’
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
Con riguardo alla legittimazione dell’amministratore di sostegno ad impugnare gli atti compiuti dall’amministratore stesso, la previsione
acquista un senso se si consideri l’ipotesi in cui a
proporre l’azione sia l’amministratore nominato
successivamente a quello che ha compiuto l’atto
invalido.
Si ritiene, inoltre, suscettibile di applicazione
all’amministratore di sostegno la norma di cui
all’art. 378 c.c., là dove esclude la legittimazione
del tutore o del protutore ad impugnare l’atto con
cui questi si sia reso acquirente o locatario di
beni del tutelato, o cessionario di crediti nei suoi
confronti (BONILINI).
Il beneficiario sarà legittimato a proporre l’azione di annullamento solo allorché conservi la
capacità di agire con riguardo agli atti da impugnare, in caso contrario deve ritenersi che la promozione di tale azione debba essere autorizzata
ex art. 374, n. 5, c.c. CALICE).
Le categorie di soggetti legittimati indicate dell’art. 412 c.c. devono considerarsi tassative. Tali
soggetti conservano la legittimazione ad impugnare gli atti compiuti durante l’amministrazione
di sostegno anche qualora cessi tale istituto e
subentrino l’interdizione o l’inabilitazione. Nell’ipotesi in cui all’amministrazione di sostegno
subentri l’interdizione, sarà altresì legittimato il
tutore, poiché allo stesso compete il potere generale di compiere tutti gli atti che rientrano nell’interesse dell’incapace, tra cui l’impugnazione
di atti annullabili.
Nell’ipotesi in cui all’amministrazione di sostegno subentri l’inabilitazione, la legittimazione
spetterà all’inabilitato, ed il curatore dovrà prestare il consenso all’iniziativa del primo. L’art.
412 c.c. prevede che le azioni relative agli atti
compiuti dall’amministratore di sostegno e dal
beneficiario si prescrivano in cinque anni, e che
tale termine decorra dalla cessazione dell’amministratore di sostegno.
Tale norma richiama l’art. 1442 c.c., ai sensi del
quale se l’annullabilità decorre dal giorno in cui
è cessato lo stato di interdizione o di inabilitazione, ovvero il minore ha raggiunto la maggiore
età, mentre negli altri casi il termine decorre dal
giorno della conclusione del contratto. La previsione di cui all’art. 412 conferma l’interpretazione dell’art. 1442 c.c. fornita dalla Corte di Cassazione, secondo la quale, sia l’atto compiuto direttamente dall’incapace legale, sia quello compiuto
dal suo legale rappresentante senza la necessaria
autorizzazione, sono soggetti al termine di prescrizione quinquennale decorrente dalla cessazione della causa di incapacità legale (Cass. 6.3.93,
n. 2725, in Arch. civ., 1993, 792 ss), interpretazione quest’ultima che assicura ampia protezione
47
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
agli incapaci legali.
La norma di cui all’art. 1442 comma 2 c.c.,
secondo la quale, qualora l’annullabilità di un
contratto dipende da incapacità legale di uno
dei contraenti, l’azione di annullamento si prescrive nel termine di cinque anni decorrente al
giorno in cui è cessato lo stato d’interdizione (o
d’inabilitazione) riguarda non soltanto il caso in
cui il contratto sia stato stipulato direttamente
dall’incapace, ma anche quello in cui il contratto sia stato concluso dal rappresentante legale senza le autorizzazioni degli organi tutelari
prescritte dalla legge per il compimento, in
nome del minore, di alcune categorie di atti giuridici, ricorrendo anche in questo caso, caratterizzato, come il primo, da un vizio dell’atto
determinato dalla sua stipulazione senza le
garanzie previste alla legge nell’interesse dell’incapace, l’esigenza di tutela di questo soggetto agli effetti negativi dell’inerzia del tutore
(Cass. 6.3.93, n. 2725, in Vita not., 1993,
1394)
In dottrina si è rilevato come l’ultimo comma
dell’art. 412 costituisca una sorta d’interpretazione autentica dell’art. 1442 c.c.
L’amministrazione di sostegno costituisce, dunque, causa di sospensione del decorso del termine di prescrizione per la proposizione dell’azione
di annullamento.
Dubbio è se il termine di prescrizione decorra
dalla cessazione dell’amministrazione di sostegno, qualora essa cessi per il sopravvenire dell’interdizione o dell’inabilitazione ex art. 413 c.c.
Si ritiene che, in tali ipotesi, l’esigenza di tutelare
gli interessi dei soggetti deboli imponga di interpretare la norma di cui all’art. 412 c.c. nel senso
che il decorso della prescrizione rimane sospeso
fino alla revoca dell’interdizione e dell’inabilitazione, momento in cui il soggetto riacquista la
piena capacità di agire (BONILINI; CAMPESE).
Ai sensi dell’art. 1442 c.c. l’eccezione di annullabilità è imprescrittibile.
In assenza di previsioni normative con riguardo
al giudizio per l’annullamento, deve ritenersi che
debba essere instaurato un procedimento di natura contenziosa avanti al giudice competente per
territorio e valore secondo i criteri ordinari
(BONILINI), e che il giudizio si concluda con una
sentenza suscettibile di passare in cosa giudicata
(CAMPESE).
Per quanto riguarda gli effetti dell’annullamento
degli atti che il beneficiario non è legittimato a
compiere autonomamente, troverà applicazione
l’art 1445 c.c., ai sensi del quale l’annullamento
per incapacità legale di un contraente produce i
suoi effetti anche in pregiudizio dei terzi acquistati dai terzi, ancorché a titolo oneroso e in buona fede.
A tutela dell’affidamento dei terzi l’art. 47 disp.
48
AIAF RIVISTA 2/2006
att. e disp. trans. c.c. istituisce il registro delle
amministrazioni di sostegno, e l’art. 405 c.c. prevede la pubblicizzazione del decreto d’apertura e
di chiusura dell’amministrazione di sostegno,
mediante comunicazione all’ufficiale dello stato
civile per le annotazioni in margine all’atto di
nascita del beneficiario.
8. LE NORME IN MATERIA DI PUBBLICITÀ
DEGLI ATTI RELATIVI ALL’AMMINISTRAZIONE
DI SOSTEGNO
a legge istitutiva dell’amministrazione di
sostegno ha predisposto un apparato pubblicitario finalizzato a consentire ai terzi una adeguata conoscenza delle limitazioni della capacità di agire del beneficiario, imponendo che
tutte le vicende che attengono all’amministrazione di sostegno siano pubblicizzate.
In particolare, debbono essere pubblicizzati il provvedimento iniziale di apertura, i provvedimenti
modificativi, il provvedimento di revoca, e la nomina di un amministratore di sostegno provvisorio.
L’art. 405 c.c. prevede che il decreto ci apertura
dell’amministrazione di sostegno, il decreto di
chiusura ed ogni altro provvedimento assunto dal
giudice tutelare nel corso dell’amministrazione
di sostegno siano annotati a cura del cancelliere
nell’apposito registro.
Si tratta del registro istituito dall’art. 14 della
legge n. 6/04 che ha modificato l’art. 44 disp. att.
c.c., il quale attualmente prevede che presso l’ufficio del giudice tutelare siano tenuti un registro
delle tutele dei minori e degli interdetti, un registro delle curatele dei minori emancipati e degli
inabilitati ed un registro delle amministrazioni di
sostegno.
L’annotazione deve avvenire immediatamente,
come per l’interdizione e per l’inabilitazione. Nel
registro di cancelleria saranno annotate tutte le
vicende processuali dell’amministrazione di
sostegno, ad esclusione delle attività endoprocedimentali che non si traducano in un provvedimento.
L’art. 15 della l. n.6/04 ha previsto un nuovo art.
49-bis disp. att. c.c., in cui si dispone che nel
registro delle amministrazioni di sostegno, in un
capitolo speciale per ciascuna di esse, si devono
annotare a cura del cancelliere:
a) la data e gli estremi essenziali del provvedimento che dispone l’amministrazione di sostegno, e di ogni altro provvedimento assunto dal
giudice nel corso della stessa, compresi quelli
emanati in via d’urgenza ai sensi dell’articolo
405 del codice;
b) le complete generalità della persona beneficiaria;
c) le complete generalità dell’amministratore di
L
MAGGIO - AGOSTO 2006
sostegno o del legale rappresentante del soggetto che svolge la relativa funzione, quando
non si tratta di persona fisica;
d) la data e gli estremi essenziali del provvedimento che dispone la revoca o la chiusura dell’amministrazione di sostegno.. Nei registri
dello stato civile saranno pubblicizzate solo le
informazioni essenziali relative all’amministrazione di sostegno. Si tratta di una forma di
pubblicità di natura dichiarativa, poiché gli
effetti del provvedimento si producono dal
momento della pronuncia.
L’art. 405 c.c. prevede che il decreto di apertura
dell’amministrazione di sostegno e il decreto di
chiusura debbano essere comunicati, entro dieci
giorni, all’ufficiale dello stato civile per le annotazioni in margine all’atto di nascita del beneficiario. Essa non stabilisce entro quanti giorni
l’annotazione debba essere eseguita.
L’annotazione deve essere cancellata con la cessazione dell’amministrazione: in particolare la legge
prevede che, se la durata dell’incarico è a tempo
determinato, le annotazioni devono essere cancellate alla scadenza del termine indicato nel decreto
di apertura o in quello eventuale di proroga.
Gli atti relativi all’amministrazione di sostegno
sono soggetti ad un’ulteriore accessoria forma di
pubblicità: l’art. 18 della l. n. 6/04 incide sul
regime del casellario giudiziario e modifica l’art.
3, co. 1, lett. p), del d.p.r. 14.11.02, n. 313, norma che individua le tipologie di provvedimenti
che debbono essere iscritti per estratto nel casellario, e che, attualmente, prevede che siano iscritti anche i decreti che istituiscono, modificano, o
revocano l’amministrazione di sostegno.
Saranno iscritti esclusivamente i provvedimenti
definitivi relativi all’amministrazione di sostegno
e non quelli provvisori e interinali.
Con riguardo alle iscrizioni successive, l’art. 24
del citato d.p.r. n. 31.3.02 dispone che tutte le
iscrizioni esistenti nel casellario giudiziale siano
riportate nel certificato generale, ad eccezione di
quelle escluse specificatamente. Tra queste ultime vi sono i provvedimenti di interdizione, di
inabilitazione e relativi all’amministrazione di
sostegno, quando esse sono state revocate.
L’art. 25 stabilisce che nel certificato penale siano riportate tutte le iscrizioni contenute nel casellario giudiziale ad esclusione di alcune, fra le
quali figurano i decreti che istituiscono, modificano o revocano l’amministrazione di sostegno.
Infine, l’art. 26 regola il contenuto del certificato
civile e prevede che in esso siano riportate una
serie di iscrizioni contenute nel casellario giudiziale: fra queste figurano attualmente i decreti
che istituiscono o modificano l’amministrazione
di sostegno, salvo che siano stati revocati.
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
Si noti, infine, che la disciplina delle iscrizioni
nel casellario giudiziale esclude che siano prese
iscrizioni relative a persone che abbiano superato
gli ottanta anni di vita: per tali soggetti vengono,
infatti, eliminate, le schede eventualmente preesistenti. Tale limitazione precluderà la forma di
pubblicità in oggetto con riguardo a numerosi
soggetti che necessiteranno dell’amministrazione
di sostegno.
* già Docente di Istituzioni di Diritto Privato nell’Università LUISS di Roma;
titolare delle cattedre di Diritto Civile e Diritto dell’Internet nell’European School of Economics
49
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
1. AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO E
NORME IN MATERIA DI INTERDIZIONE E DI
INABILITAZIONE
i sensi dell’art. 411, co. 1 c.c. si applicano all’amministrazione di sostegno, in
quanto compatibili, le disposizioni di cui
agli artt. da 349 a 353 e da 374 a 388 c.c.
Non sono stati richiamati gli artt. 362 ss. c.c.,
concernenti l’inventario, e gli artt. 371 e 372 c.c.
concernenti i provvedimenti circa l’educazione e
l’amministrazione del patrimonio del minore, e le
prescrizioni relative all’investimento dei capitali
del minore.
Il rinvio di cui all’art. 411 non distingue fra
amministrazione sostitutiva e amministrazione di
A
II. NORME APPLICABICABILI
ALL’AMMINISTRAZIONE DI
SOSTEGNO E DISCIPLINA
PROCESSUALE
GIUSEPPE
CASSANO
50
mera assistenza, né sussiste nella disciplina in
esame alcun rinvio alle norme che disciplinano la
curatela.
Le norme sulla tutela sono dichiarate applicabili,
in quanto compatibili: occorrerà, dunque, verificare volta par volta se la ratio di ogni singola
norma presente in tali articoli, sia compatibile
con analoghi interessi perseguiti dalla disciplina
dell’amministrazione di sostegno (BONILINI).
In primo luogo vengono in rilievo gli artt. 374 e
375 c.c. concernenti le autorizzazioni che il tutore deve chiedere al Tribunale per il compimento
di specifici atti.
Non sembrano sussistere dubbi sul fatto che l’amministratore debba chiedere l’autorizzazione al
giudice tutelare per quegli atti elencati negli artt.
374 e 375 c.c., previsti nel decreto istitutivo dell’amministrazione di sostegno, o successivamente,
quali atti che devono essere compiuti dall’amministratore di sostegno o con la sua assistenza.
Ai sensi dell’art. 411 c.c. co. 1, i provvedimenti
autorizzatori di cui agli artt. 375 e 376 c.c. devono essere emessi dal giudice tutelare e non dal
tribunale.
Gli atti previsti dall’art. 374 c.c. sono:
- l’acquisto di beni, eccettuati i mobili necessari per l’uso del beneficiario, per l’economia
AIAF RIVISTA 2/2006
SOMMARIO
1. Amministrazione di sostegno e norme in materia di interdizione e di inabilitazione.
2. Estensione giudiziale di previsioni relative
all’interdetto e all’inabilitato.
3. Amministrazione di sostegno: profili processuali.
4. Competenza e giurisdizione.
5. La proposizione del ricorso.
6. Il problema della difesa tecnica.
7. Le fasi successive del procedimento.
8. Cessazione dell’amministrazione di sostegno,
revoca e modifica del decreto di apertura.
9. Impugnazioni
domestica e per l’amministrazione del patrimonio;
- la riscossione di capitali;
- il consenso alla cancellazione di ipoteche o
allo svincolo di pegni;
- l’assunzione di obbligazioni, salvo che queste
riguardino le spese necessarie per il mantenimento del minore e per l’ordinaria amministrazione del suo patrimonio;
- l’accettazione di eredità o la rinuncia alle stesse;
- l’accettazione di donazioni o legati soggetti a
pesi o a condizioni;
- la stipulazione di contratti di locazione d’immobili oltre il novennio;
- la promozione di giudizi, salvo che si tratti di
denunzie di nuova opera o di danno temuto, di
azioni possessorie o di sfratto, e di azioni per
riscuotere frutti o per ottenere provvedimenti
conservativi.
Ai sensi dell’art. 375 sarà necessaria l’autorizzazione del giudice tutelare:
- per l’alienazione di beni, eccettuati i frutti e i
mobili soggetti a facile deterioramento;
- per la costituzione di pegni o ipoteche;
- per procedere a divisioni o promuovere i relativi giudizi;
- per fare compromessi e transazioni o accettare
concordati.
Il giudice dovrà aver riguardo agli interessi personali e patrimoniali del beneficiario e stabilire
le modalità della vendita e le modalità di reimpiego del capitale (CALICE).
Nessun dubbio che le autorizzazione in oggetto
siano necessarie anche con riguardo all’amministrazione di assistenza.
Non saranno invece necessarie allorché il decreto
di nomina contempli nell’oggetto dell’incarico
conferito all’amministratore il compimento di
uno specifico atto, e non di una categoria di atti:
in tale caso non vi è ragione per non ritenere che
il giudice abbia autorizzato il compimento dell’atto nel decreto stesso (DELLE MONACHE).
MAGGIO - AGOSTO 2006
All’amministrazione di sostegno sono dichiarate
applicabili, in quanto compatibili, dall’art. 411,
co. 2 c.c., le disposizioni degli artt. 596, 599 e 779,
norme che stabiliscono l’incapacità del tutore o
del protutore di ricevere per testamento del tutore,
la nullità delle disposizioni testamentarie in favore di persona interposta, e la nullità della donazione disposta in favore del tutore e del protutore.
Ex art. 388 c.c., inoltre, l’amministratore di
sostegno non potrà stipulare alcuna convenzione
con il beneficiario prima che sia decorso un anno
dall’approvazione del conto.
Le eventuali disposizioni testamentarie e donazioni sono colpite da nullità, a nulla rilevando
che si tratta di atti per i quali il beneficiario non
sia stato privato della capacità di agire.
Il divieto non opera, ex art. 411, co. 3, qualora
l’amministratore di sostegno sia parente entro il
quarto grado del beneficiario, ovvero sia coniuge
o persona che sia stata chiamata alla funzione in
quanto con lui stabilmente convivente: si tratta di
una previsione meno rigida rispetto all’art. 596
c.c., che esclude l’operatività del divieto allorché
il tutore sia ascendente, discendente, fratello,
coniuge del testatore.
Si ritiene che tale previsione sancisca anche la
validità della donazione fatta a favore del parente entro il quarto grado del beneficiario, ovvero
che sia coniuge o persona che sia stata chiamata
alla funzione in quanto con lui stabilmente convivente, a differenza dell’art. 596 che non consente le donazioni a favore del tutore o del protutore, ancorché stretti congiunti dell’incapace, né
a persone interposte.
Oltre alle donazioni sono esclusi dal divieto altri
negozi che comportino un beneficio in capo
all’amministratore, ed in generale i negozi a titolo gratuito.
Si noti, infine, che si dubita circa la possibilità di
applicare i divieti in esame anche nell’ipotesi di
amministrazione di sostegno di mera assistenza
(DELLE MONACHE; BONILINI).
Analoghe perplessità si nutrono con riguardo
all’ammissibilità di un’estensione analogica di
alcune previsione in materia di interdetti e inabilitati all’amministrazione di sostegno: in particolare ha suscitato l’attenzione della dottrina la
questione se possano trovare applicazione nei
confronti del beneficiario le numerose norme che
collegano alla sopravvenuta incapacità di una
parte contrattuale lo scioglimento di rapporti
patrimoniali pendenti.
A titolo esemplificativo possiamo ricordare l’art.
1626 c.c., che stabilisce lo scioglimento dell’affitto in caso di interdizione o inabilitazione dell’affittuario; o l’art. 1722 c.c., ai sensi del quale
il mandato si estingue in caso di interdizione o
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
inabilitazione di una delle parti.
Convincenti ci appaiono le argomentazioni di chi
ritiene che la decisione di estendere le norme che
disciplinano gli effetti della sopravvenuta incapacità sui rapporti contrattuali di cui il beneficiario
sia parte spetti al giudice tutelare, il quale deciderà caso per caso (BONILINI).
Deve escludersi che siano applicabili al beneficiario le norme che si riferiscono, genericamente, agli
incapaci, poiché questi - come si è più volte ribadito - non può essere considerato soggetto incapace di agire. Tuttavia, con riguardo agli atti relativamente ai quali il beneficiario deve essere assistito o rappresentato dall’amministratore, e che
egli compia da solo, deve ritenersi applicabile
l’art. 1445, ai sensi del quale l’annullamento che
dipende da incapacità legale non fa salvi i diritti
acquistati a titolo oneroso dai terzi di buona fede,
o l’art. 1966 c.c., a norma del quale “Per transigere le parti devono avere la capacità di disporre dei
diritti che formano oggetto della lite”.
Infine, la legge nulla dispone con riguardo all’illecito civile commesso dal beneficiario: in particolare ci si chiede se l’amministratore di sostegno in tale ipotesi sia chiamato a rispondere, ex
art. 2047 c.c., in quanto tenuto alla sorveglianza.
Concordiamo con quella dottrina che ha rilevato
come la responsabilità dell’amministratore andrà
commisurata ai poteri che il giudice gli abbia
attribuito nel decreto di nomina o in quelli successivi (CALÒ).
2. ESTENSIONE GIUDIZIALE DI PREVISIONI
RELATIVE ALL’INTERDETTO E ALL’INABILITATO
l giudice tutelare potrà disporre nel decreto
con il quale nomina l’amministratore di
sostegno o in un decreto successivo che determinati “effetti, limitazioni o decadenze, previsti da disposizioni di legge per l’interdetto o
l’inabilitato, si estendano al beneficiario dell’amministrazione di sostegno (art. 411 c.c.).
Nel fare ciò, il giudice dovrà avere riguardo
all’interesse del beneficiario ed a quello tutelato
dalle disposizioni oggetto di estensione.
Il provvedimento è assunto con decreto motivato,
a seguito di ricorso che può essere presentato
anche dal beneficiario direttamente.
Legittimati a proporre il ricorso devono ritenersi
altresì i soggetti che, ex art. 406 c.c., sono legittimati a proporre il ricorso per l’apertura dell’amministrazione di sostegno.
Si esclude che il giudice possa procedere d’ufficio
all’estensione in oggetto, vista la gravità degli
effetti della stessa per il beneficiario (BONILINI).
La stessa lettera dell’art. 411 c.c. sembra confermare una tale interpretazione, là dove richiede
che il decreto possa essere emesso a seguito di
I
51
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
ricorso.
Senza dubbio l’estensione potrà riguardare atti
ancora da compiere e non potrà incidere su quelli già compiuti (CAMPESE).
Il giudice potrà espressamente richiamare le norme contenenti le limitazioni da estendere al beneficiario, o prevedere semplicemente che il beneficiario sia privato della capacità in ordine ad un
determinato atto.
Anche in tale ultimo caso troverà applicazione la
norma in materia di interdizione o di inabilitazione che preveda analoga limitazione della capacità
di agire per l’interdetto o l’inabilitato.
La dottrina è divisa sul punto se l’estensione
potrà riguardare tutte le previsioni previste dall’ordinamento giuridico riguardo all’interdetto
giudiziale e l’inabilitato: riteniamo, in ciò
confortati dalle prime pronunzie giurisprudenziali in materia di amministrazione di sostegno, che
una estensione generalizzata priverebbe di senso
la scelta del legislatore di mantenere in vigore gli
istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione.
Nel raffronto d’altro canto di tale strumento di
tutela con quella differente misura di protezione
introdotta con la citata L.6/2004, consistente
nella nomina di Amministratore di Sostegno
(pronuncia che l’innovato art.418 c.3 c.c. consentirebbe anche in assenza di istanza di parte),
ritiene il Collegio che quest’ultima possa rivelarsi insufficiente nel caso di specie. Trattandosi
invero di nomina di soggetto legittimato ad assistere o rappresentare l’incapace nei soli atti (o
tipologia di atti) che lo stesso non sia in grado
di compiere, quali necessari ed esattamente
indicati nel decreto di nomina, e derivandone
solo per tali atti, ai sensi degli artt.409 e 412
c.c., l’incapacità dello stesso di procedere in via
autonoma, con conseguente annullabilità dell’atto compiuto senza assistenza o rappresentanza dell’a.d.s., tale misura si reputa sufficiente per soggetti con specifiche incapacità (in grado di esplicitare adeguatamente valide capacità
residue) ovvero anche per soggetti del tutto privi di capacità, quando siano nell’impossibilità
materiale di relazionarsi autonomamente con
l’esterno e quindi di porre in essere comportamenti idonei a produrre effetti giuridici e negoziali, mentre può rivelarsi tutela inadeguata ove
sia necessario inibire al soggetto di esplicitare
all’esterno capacità viziate che espongano sé od
altri a possibili pregiudizi.
In altre parole si potrebbe dire che l’intervento
dell’A.d.S. sembra sufficiente per soggetti anche
del tutto incapaci, ove sia necessario attribuire
a un terzo quei soli specifici poteri, in sostituzione dell’incapace, che gli consentano di soddisfare le ricorrenti e ben individuabili esigenze
personali o patrimoniali dell’incapace stesso,
mentre sia inutile estenderne la sostituzione a
restanti atti che comunque l’incapace non potrà
mai compiere in quanto materialmente non in
grado, e cui pertanto non è necessario estende52
AIAF RIVISTA 2/2006
re l’effetto di annullabilità ove compiuti in autonomia. L’intervento dell’A.d.S. può invece presentarsi insufficiente misura di protezione per
quei soggetti la cui mantenuta capacità di relazionarsi con l’esterno, ma viziata sotto il profilo
della consapevolezza o volontà, li espone a
compiere atti in ogni direzione dai quali possano derivarne effetti giuridici dannosi, non
immediatamente annullabili ove non compresi
nell’elenco di poteri riconosciuti all’Amministratore.
Nel caso di specie Z, per quanto sopra accertato, non solo presenta capacità intellettive e volitive fortemente compromesse, che le impediscono di rapportarsi alla realtà con consapevolezza e discernimento e di assumere le più
opportune decisioni di gestione della sua persona e del suo patrimonio, ma, sempre come
effetto della patologia, si pone in atteggiamento
non collaborante, passivo od oppositivo, nei
confronti di chi le indichi vie di cura, e si relaziona all’esterno con capacità viziate che la
espongono ad atti di circonvenzione di chi ne
voglia ottenere indebiti vantaggi personali o
patrimoniali. Sintomatico è il difficile rapporto
instaurato con il compagno, nei cui confronti
non esplicita parole di affetto, descrivendone
piuttosto le richieste economiche o il comportamento assente, nervoso e violento (da cui anche
l’acuirsi delle sue crisi d’ansia), ma che non riesce ad allontanare da sé, o piuttosto non vuole,
non comprendendo o sottovalutando che lo
stesso possa mirare unicamente a vantaggi personali (del tutto verosimile è che la stessa richiesta di matrimonio, di cui da ultimo riferiscono i
genitori, sia motivata da sole aspettative di cittadinanza o di arricchimento economico, non
ravvisando i ricorrenti sincero trasporto affettivo
nel suo comportamento sempre assente, ancorché sia persona senza lavoro, e traendosene
conferma dalle stesse parole della Z quando
lamenta al CTU che la esclude dalle proprie
relazioni, è spesso nervoso o anche violento).
Figlia unica di genitori abbienti, la comprensibile preoccupazione di questi ultimi è che la
futura acquisizione di un consistente patrimonio
possa accrescere il rischio che Z, non solo non
lo sappia gestire, ma possa divenire sempre più
oggetto di indebite circonvenzioni, ancorché
mascherate da false attenzioni o interessamento
affettivo, che la stessa non sia in grado di riconoscere o arginare (Trib. Milano 21.3.05, n.
3289, in Altalex, 20.7.05).
Infine, il giudice afferma espressamente l’inutilità di aprire un’amministrazione di sostegno
allorché la stessa, al fine di tutelare il soggetto,
finisca per avere un contenuto analogo all’interdizione.
Se pertanto, al fine di garantire la più completa
protezione della persona incapace, i poteri dell’Amministratore di Sostegno devono estendersi,
sia a decisioni personali inerenti la cura del soggetto, sia a qualunque tipologia negoziale, con
il rischio di riportare un elenco incompleto di
MAGGIO - AGOSTO 2006
atti, residuandone altri non previsti che sfuggano agli effetti di annullabilità di cui agli artt. 409
e 412 c.c. (rimarrebbe sempre l’impugnabilità
ex art.428 c.c., ma subordinata alla prova di
malafede dell’altro contraente), e se ci si trova a
dover integrare detta misura richiamando, ex
art.411 c.c. e sempre a fini di tutela, disposizioni previste per l’interdetto (quali l’incapacità
di contrarre matrimonio -art.85 c.c., di testare art.591 c.c., di donare -art.774 c.c.), la sovrapposizione di contenuto dei due istituti di amministrazione di sostegno e di interdizione induce
a privilegiare quest’ultimo, che annulla ogni
possibilità di azione del soggetto a suo danno o
ne consente un immediato annullamento, riconoscendo alla persona autonomia di azione solo
per specifici atti che si palesino non nocivi. Si
osserva d’altro canto che la modifica, sia dell’art.414 c.c., nella parte in cui mantiene l’interdizione per i soggetti che si trovano in condizioni di abituale infermità di mente… quando
ciò è necessario per assicurare la loro adeguata
protezione, sia dell’art.427 c.c., ove consente
di stabilire che taluni atti di ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall’interdetto, depongono per una volontà legislativa di
riconoscere all’interdizione una valenza di protezione necessaria, non già per soggetti che siano necessariamente del tutto privi di capacità
intellettive e volitive (per i quali, come sopra
osservato, potrebbe essere sufficiente una pronuncia di nomina di A.d.S., indifferentemente
prevista dall’art.404 c.c. per chi si trovi nell’impossibilità anche parziale o temporanea -e quindi anche totale o permanente- di attendere ai
propri interessi), bensì per soggetti che, ancorché in grado di esplicitare capacità residuali,
possano ritenersi adeguatamente protetti, da
loro stessi e dagli altri, solo se li si escluda da
qualunque capacità (in ciò si concretizza l’interdizione), nel senso di impedire che si producano effetti giuridici quando si attivano con
modalità non sorrette da valide capacità intellettive e volitive in tutti gli ambiti (anche non
immediatamente prevedibili) da cui possano
derivarne pregiudizi, riconoscendo loro quei
soli ambiti di azione certamente non nocivi.
Ritornando pertanto al caso di specie, si ribadisce, per le ragioni sopra esposte, la necessità di
proteggere Z con una pronuncia d’interdizione
che, garantendole la presenza costante di un
tutore che la sostituisca in tutti gli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione, sotto il controllo dell’Autorità Giudiziaria, la tuteli nella
gestione e conservazione del suo patrimonio e
nell’assunzione di ogni decisione attinente la
cura della sua persona, ponendola ulteriormente al riparo da possibili azioni di raggiro di terzi
che mascherino dietro false attenzioni intenti di
personale profitto, e che coesista, ex art.427
c.c., con la possibilità riconosciutale di spendere in autonomia importi periodici. Tali importi,
in linea con la situazione di fatto rappresentata
al CTU dalla stessa Politi, si reputano allo stato
congrui, a fronte delle emerse disponibilità della stessa quali integrate dalla famiglia, ove
rimangano nell’ambito massimo di Euro 800,00
mensili, sino a che possa accertarsi che siano
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
destinate ad effettive esigenze di spesa della
stessa o di gestione della casa, mentre potranno
essere ulteriormente ridotti ove il Giudice Tutelare, che sovrintende alla tutela ex art.344 c.c.
e che si reputa l’autorità giudiziaria competente
per i successivi provvedimenti di cui all’art.427
c.c., dovesse verificarne uno sconsiderato utilizzo per soli acquisti pregiudizievoli all’interessata (ad esempio per procurarsi droga o alcol).
(Trib. Milano 21.3.05, n. 3289, in Altalex,
20.7.05).
L’orientamento espresso dalla pronuncia del Tribunale di Milano ci induce a concordare con quegli autori che escludono l’opportunità di estendere al beneficiario dell’amministrazione di sostegno la limitazione relativa alla capacità di contrarre matrimonio, prevista dall’art. 85 c.c. con
riguardo all’interdetto per infermità di mente
(BONILINI).
Anche un’eventuale limitazione in ordine alla
capacità di testare ex art. 591 c.c. suscita perplessità, poiché non si vede come l’atto possa danneggiare il beneficiario dell’amministrazione di
sostegno, potendo al più recare pregiudizio agli
eredi legittimi, la tutela dei cui interessi non
dovrebbe rilevare nell’ambito dell’istituto dell’amministrazione di sostegno.
Tuttavia, non possiamo escludere che i giudici
tutelari reputino opportuno applicare l’art. 591
c.c. anche al beneficiario dell’amministrazione di
sostegno, anche se non ci risultano ad oggi decreti che dispongano in tal senso.
Di difficile soluzione si presenta il problema concernente la sussistenza o meno della capacità di
donare in capo al beneficiario, poiché l’art. 779
c.c., nel richiedere la piena capacità di disporre
dei propri beni ai fini della validità di una donazione, sembrerebbe escludere il beneficiario dal
novero dei soggetti capaci di donare.
Tuttavia, secondo alcuni autori il problema della
capacità di donare del beneficiario andrebbe
risolto caso per caso (DELLE MONACHE). Spetterà
dunque al giudice estendere o meno la previsione
di cui all’art. 774 al beneficiario.
Il giudice potrà prevedere che anche determinati
effetti previsti in favore dell’interdetto o dell’inabilitato si estendano al beneficiario.
Sicuramente il giudice potrà richiamare la previsione di cui all’art. 2941, nn. 3 e 4 c.c. relativa
alla sospensione del termine prescrizionale (DELLE MONACHE ); l’art. 183 ult. cpv., c.c., ai sensi del
quale il coniuge interdetto è escluso di diritto dall’amministrazione dei beni in comunione fino a
quando permanga lo stato di interdizione (CALÒ);
l’art. 192 c.c. ai sensi del quale “la separazione
giudiziale dei beni può essere pronunziata in caso
di interdizione o di inabilitazione di uno dei
53
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
coniugi” (CALÒ).
Con riguardo al diritto successorio, il giudice
potrà estendere al beneficiario l’art. 471, ai sensi
del quale “Non si possono accettare le eredità
devolute ai minori e agli interdetti, se non col
beneficio d’inventario, osservate le disposizioni
degli articoli 321 e 374”, o l’art. 472, ai sensi del
quale “ I minori emancipati e gli inabilitati non
possono accettare le eredità, se non col beneficio
d’inventario, osservate le disposizioni dell’articolo 394”.
Il giudice potrà inoltre applicare al beneficiario
le norme concernenti la sostituzione fidecommissoria di cui agli artt. 692 ss. c.c. (BONILINI).
Infine, il decreto di apertura dell’amministrazione di sostegno o uno successivo potranno prevedere che determinate decadenze previste per l’interdetto o l’inabilitato si estendano al beneficiario dell’amministrazione di sostegno.
Ad esempio potrebbe essere estesa al beneficiario
la decadenza prevista dall’art. 2382 c.c., ai sensi
del quale “Non può essere nominato amministratore, e se nominato decade dal suo ufficio, l’interdetto, l’inabilitato, il fallito, o chi è stato condannato ad una pena che importa l’interdizione,
anche temporanea, dai pubblici uffici o l’incapacità ad esercitare uffici direttivi”.
Il giudice potrà anche prevedere l’estensione al
beneficiario delle norme che prevedono l’estinzione di rapporti contrattuali pendenti: così, con
riguardo ad un contratto di mandato, potrà trovare applicazione l’art. 1722, co. 4, c.c.
Fra le norme che sicuramente potranno trovare
applicazione anche nei confronti del beneficiario
dell’amministrazione di sostegno deve annoverarsi l’art. 425 c.c., ai sensi del quale l’inabilitato può essere ammesso a continuare l’esercizio di
un’impresa commerciale. La relativa autorizzazione sarà di competenza del giudice tutelare.
Con riguardo all’esercizio di un impresa commerciale, il giudice potrebbe anche estendere al
beneficiario le norme dettate dagli artt. 371 e 324
per l’interdetto (art. 411, ult. co, c.c.)
- il fine dell’Amministrazione di sostegno è
quello di ‘tutelare, con la minore limitazione
possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana,
mediante interventi di sostegno temporaneo o
permanente (art.1 legge 9.1.2004, n.6); - la legge istitutiva dell’amministrazione di sostegno
non disciplina espressamente i casi nei quali
l’incapacità sopravvenuta del maggiore di età
comprometta la possibilità di continuare l’esercizio di un’impresa commerciale, mentre le norme del codice civile applicabili alla società in
nome collettivo, e segnatamente l’art.2294 c.c.,
dispongono che la partecipazione dell’incapace
54
AIAF RIVISTA 2/2006
alla s.n.c. sia subordinata all’osservanza delle
disposizioni di cui agli artt.320, 371, 397, 424
e 425 c.c.;
- nell’ipotesi in cui il Giudice Tutelare verifichi,
nell’istruire il procedimento per Amministrazione di sostegno, la sopravvenuta incapacità d’intendere e di volere dell’amministratore di una
s.n.c., è tenuto a stabilire se la nomina di un
amministratore di sostegno sia idonea o meno a
regolamentare, in linea con le finalità della legge, il caso concreto;
- soccorre, da un lato, l’applicazione analogica
dell’art.2294 c.c., che prescrive l’autorizzazione del tribunale, su parere del giudice tutelare,
per la continuazione dell’esercizio di un’impresa commerciale da parte dell’interdetto (artt.371
e 424 c.c.), salva l’autorizzazione del giudice
tutelare all’esercizio provvisorio in pendenza
della deliberazione del tribunale;
- soccorre, dall’altro lato, il criterio dettato dalla nuova formulazione dell’art.414 c.c., che
delimita il confine dell’istituto dell’amministrazione di sostegno rispetto all’interdizione stabilendo che ‘il maggiore di età e il minore emancipato, i quali si trovano in condizioni di abituale infermità di mente che li rende incapaci di
provvedere ai propri interessi, sono interdetti
quando ciò è necessario per assicurare la loro
adeguata protezione’;
- non può trascurarsi, inoltre, la possibilità (riconosciuta dall’art.411, ult. co., c.c.) che il giudice tutelare, su ricorso di parte, disponga che
determinati effetti, limitazioni o decadenze previsti per l’interdetto si estendano al beneficiario
dell’amministrazione di sostegno;
- si potrebbe, in astratto, desumere che per la
continuazione dell’esercizio di un’impresa commerciale, da parte di una persona che il giudice
accerti essere incapace d’intendere e di volere,
le norme del codice civile sopra indicate suggeriscano di preferire la misura dell’interdizione a
quella dell’amministrazione di sostegno, posto
che solo nel primo caso gli atti del tutore sarebbero assoggettati al doppio vaglio dell’organo
collegiale del tribunale e del giudice tutelare:
non appare, infatti, seriamente contestabile che
dal combinato disposto degli artt. 2294, 371 e
424 c.c. sia desumibile il principio per cui il
sindacato del collegio ed il parere del giudice
tutelare rappresentino lo strumento ‘necessario
per assicurare l’adeguata protezione’ dell’incapace nella gestione dell’impresa commerciale;
- si potrebbe, però, anche ritenere che la stessa
misura dell’amministrazione di sostegno,
‘modellata’ sul caso concreto con l’estensione
al beneficiario delle norme dettate dagli artt.371
e 424 c.c. per l’interdetto (art.411, ult. co.,
c.c.) si riveli in realtà parimenti idonea ad assicurare l’adeguata protezione dell’incapace;
- vi è, d’altro canto, da valutare l’eventualità
che il socio, una volta interdetto, venga escluso
dalla società a norma dell’art.2286 c.c., applicabile alla società in nome collettivo in virtù del
disposto dell’art.2293 c.c.: tale evenienza
potrebbe far dubitare del fatto che l’interdizione
sia la misura più idonea ad assicurare adeguata
protezione degli interessi dell’incapace;
- in ogni caso, va qui evidenziato come il giu-
MAGGIO - AGOSTO 2006
dice tutelare sia stato adito per la nomina di un
amministratore di sostegno provvisorio, al fine
di consentire la continuazione dell’esercizio
dell’impresa, attualmente paralizzata dal fatto
che l’amministratrice unica della società non è
in grado di sottoscrivere alcun atto e tanto meno
di partecipare alle deliberazioni societarie;
- la lettera della Legge 9 gennaio 2004, n. 6
consente che sia nominato un amministratore di
sostegno provvisorio nelle ipotesi in cui tale
misura risulti necessaria per la conservazione e
l’amministrazione in via d’urgenza del patrimonio dell’interessato (art.405, 4° co., c.c.) e non
esclude che tale misura venga adottata anche
con riferimento a soggetti e casi in relazione ai
quali si ritengano necessari, ai sensi del citato
art.414 c.c., la pronuncia d’interdizione ovvero, ai sensi dell’art.411, ult.co., c.c., il ricorso
per l’estensione al beneficiario dell’amministrazione di sostegno di determinati effetti, limitazioni o decadenze previsti per l’interdetto;
- l’evidente urgenza di consentire la continuazione dell’attività societaria, anche nell’interesse della stessa socia Tizia, impone di accogliere
il ricorso per la nomina di un amministratore di
sostegno provvisorio allo specifico fine di sostituire alla beneficiaria altro socio nella carica di
amministratore societario, dunque al fine di sottoscrivere, in nome e per conto di Tizia, l’atto
notarile di nomina della socia yyyyy Rosalba,
indicata dalla ricorrente e dagli altri congiunti
sentiti personalmente, quale amministratrice
della Xxxxxx di Tizia & C. s.n.c., nonché di
modificazione della denominazione e ragione
sociale;
- sentiti i soggetti di cui all’art.406 c.c., è stato
indicato concordemente Xxxxxx Giorgio, figlio
dell’interessata dichiaratosi disponibile, quale
persona idonea ad assumere l’incarico di Amministratore di sostegno;
- risulta, in ogni caso, opportuno trasmettere
copia degli atti al Pubblico Ministero in sede
anche per le sue determinazioni in merito all’eventuale esercizio dell’azione d’interdizione.
(Trib. Roma 17.1.05, in Altalex 10.1.05)
Infine, il giudice tutelare potrà estendere all’amministrazione di sostegno la previsione di cui
all’art. 2048 c.c., in materia di responsabilità dell’amministratore per danni cagionati ai terzi dal
beneficiario con lui convivente.
3. AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO:
PROFILI PROCESSUALI
a disciplina processuale dell’amministrazione di sostegno è contenuta nelle disposizioni del XII titolo del Libro I del Codice Civile,
e nell’art. 720-bis c.p.c.
In particolare, gli artt. 405-413 c.c. dettano specifiche disposizioni processuali concernenti la
nomina dell’amministratore di sostegno, la modifica dei provvedimenti e la revoca.
I procedimenti di apertura e di cessazione dell’amministrazione di sostegno sono modellati su
quelli del giudizio di interdizione, poiché l’art.
L
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
720-bis c.p.c. dispone che ai procedimenti in
materia di amministrazione di sostegno si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui
agli artt. 712, 713, 716, 719 e 720 c.p.c., ma in
realtà le norme richiamate sono perlopiù incompatibili con la disciplina processuale dettata dagli
art. 405-413 c.c. (CHIZZINI).
Non sono invece richiamate le norme relative ai
procedimenti in camera di consiglio di cui agli
artt. 737 ss. c.p.c., che definiscono i caratteri formali e strutturali dei procedimenti di volontaria
giurisdizione.
Le regole procedurali relative all’amministrazione
di sostegno divergono da quelle del procedimento
di interdizione nella forma del provvedimento
conclusivo e nella disciplina dei gravami: il provvedimento conclusivo dell’interdizione è una sentenza appellabile; mentre l’amministrazione di
sostegno viene aperta con decreto reclamabile.
In entrambi i procedimenti, i provvedimenti di
secondo grado sono ricorribili per cassazione.
La ragione di una tale affinità è dovuta al fatto
che anche il provvedimento per l’apertura dell’amministrazione di sostegno presenta le caratteristiche dei processi a contenuto oggettivo, nei
quali oggetto dell’accertamento è il dovere del
giudice di pronunciare in presenza di una determinata situazione di fatto (TOMMASEO).
Vedremo in seguito quali siano i raccordi fra il
procedimento di interdizione e quello relativo
all’amministrazione di sostegno.
Con riguardo alla legittimazione al ricorso, si
rileva come l’art. 406 c.c. richiami espressamente il catalogo dei legittimati attivi a proporre la
domanda di interdizione indicati all’art. 417 c.c.
- ovvero: il pubblico ministero, il coniuge, i
parenti e gli affini entro un determinato grado, la
persona stabilmente convivente -; inoltre è legittimato lo stesso beneficiario anche se minore,
interdetto o inabilitato.
Si ritiene che il beneficiario sia titolare della
legittimatio ad processum e che non sia richiesto
l’agire dei rappresentanti legali, salvo le condizioni soggettive dell’interessato non siano tali da
non consentire una idonea gestione della vicenda
processuale, ad avviso del giudice tutelare, ipotesi in cui il giudice dovrebbe poter nominare una
amministratore provvisorio per la conduzione
della fase processuale (CHIZZINI).
Particolarmente innovativa è la previsione di cui
all’art. 406, co. 3, c.c., ai sensi del quale i sevizi
sanitari e sociali direttamente impegnati nella
cura e nell’assistenza del disabile sono tenuti a
proporre ricorso per l’apertura dell’amministrazione di sostegno.
Si ritiene che la legge abbia attribuito la legittimazione agli organi che hanno la rappresentan55
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
za esterna del servizio sociale e non ai singoli
operatori, sui quali graverebbe, invece, il dovere
di informare il pubblico ministero dei fatti che
rendono opportuna l’apertura del procedimento.
La legittimazione dei soggetti in esame si fonda
sul potere di chiedere l’attuazione del diritto
obiettivo e non sull’affermazione di far valere un
diritto soggettivo proprio o altrui.
Conseguentemente l’azione proposta da un collegittimato impedisce ad altro collegittimato di
proporre l’identica domanda, poiché si ha litispendenza; inoltre l’accoglimento della domanda
proposta da un collegittimato impedisce ad altro
soggetto dotato di pari legittimazione di riproporre la medesima azione.
La domanda si propone con ricorso al giudice
tutelare del luogo in cui il disabile ha la propria
residenza o il domicilio.
La proposizione del ricorso da un soggetto non
legittimato comporterà l’inammissibilità dello
stesso.
La legge prevede che al procedimento in esame non
si applichi la sospensione feriale dei termini (art.
92, r.d. 30.1.41, n. 12, come modificato dall’art. 19
della legge istitutiva dell’amministrazione).
Gli atti relativi all’amministrazione di sostegno
non sono soggetti all’obbligo di registrazione e
sono esenti dal pagamento del contributo unificato previsto dall’art. 9 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di
spese di giustizia di cui al d.p.r. 30.5.02, n. 115
(art. 46-bis disp. att. c.c.).
4. COMPETENZA E GIURISDIZIONE
a legge attribuisce la competenza per materia
a conoscere le domande di ammissione all’amministrazione di sostegno al giudice tutelare. Il
giudice tutelare è il giudice del tribunale al quale
sono state affidate le relative funzioni ai sensi
dell’art. 140 d.lgs. n. 51/98.
Il giudice tutelare è competente, oltre che a nominare l’amministratore di sostegno, a rimuoverlo e
sostituirlo, a convocarlo, ad impartire direttive e
ad autorizzare gli atti dell’amministratore ex artt.
375, 376 c.c.
Se il ricorso riguarda una persona interdetta o
inabilitata, la domanda deve essere presentata
congiuntamente all’istanza di revoca della sentenza di interdizione e di inabilitazione, la quale,
ovviamente, deve essere proposta davanti al giudice competente.
Il giudice tutelare non può, dunque, conoscere
l’istanza proposta nell’interesse di un interdetto
se non gli viene fornita la prova della pendenza
del giudizio di revoca dell’interdizione.
Dubbio è se la competenza del giudice tutelare
sussista quando il ricorso sia presentato nell’inte-
L
56
AIAF RIVISTA 2/2006
resse di un minore.
Per alcuni, infatti, essa spetterebbe al Tribunale
dei Minorenni, come impone l’art. 40 disp. att.
c.c. con riferimento all’art. 416 c.c. (CHIZZINI)
Il decreto di ammissione dell’interdetto all’amministrazione di sostegno acquista efficacia dal
momento della pubblicazione della sentenza di
revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione (art.
405, co.3, c.c.).
La competenza territoriale appartiene al giudice
del luogo in cui il disabile ha la propria residenza o il proprio domicilio. Se il disabile è un minore avrà domicilio nel luogo di residenza della
famiglia; se questi è un interdetto si farà riferimento al domicilio del tutore.
Trattasi di competenza per territorio inderogabile
ex art. 28 c.p.c., ai sensi del quale la competenza
per territorio non può essere derogata per accordo delle parti con riguardo alle cause riguardanti
lo stato e la capacità delle persone (CAMPESE).
Si ritiene che l’opzione per una determinata competenza alternativa vincolerà le successive evoluzioni del procedimento (CHIZZINI).
Qualora il soggetto interessato sia cittadino italiano ma non abbia la residenza o il domicilio in
Italia, la competenza dovrà spettare al giudice
tutelare del luogo di residenza o domicilio di
colui che promuove l’azione ai sensi dell’art. 18,
co. 2, c.p.c., o al capo dell’ufficio consolare di I
categoria - se il beneficiario è residente nella sua
circoscrizione ai sensi dell’art. 35 d.p.r. n.
200/1967. Tale norma recita, infatti: “Il capo dell’ufficio consolare di I categoria, anche al di fuori delle ipotesi previste dal presente decreto, può
emanare nei confronti dei cittadini residenti nella
circoscrizione, e quando particolari circostanze
ciò consiglino, i provvedimenti di volontaria giurisdizione, in materia di diritto di famiglia e di
successione, che per le leggi dello Stato sono di
competenza del giudice tutelare, del pretore e del
presidente di tribunale, ivi compreso quello per i
minorenni” (CHIZZINI).
Allorché un soggetto non sia cittadino italiano
non può ritenersi applicabile la disciplina dell’amministrazione di sostegno: infatti l’art. 43 l.
31.5.1995, n. 218 dispone che i presupposti e gli
effetti delle misure di protezione degli incapaci
maggiori di età, ed i rapporti fra l’incapace e chi
ne ha cura sono regolati dalla legge nazionale
dell’incapace.
Esclusivamente per proteggere in via provvisoria
e urgente la persona e i beni dell’incapace, il giudice potrà adottare le misure previste dalla legge
italiana.
Tuttavia, là dove la legge nazionale rinvii indietro alla legge italiana (ex art. 13 l n. 218/1995), o
allorché l’istituto straniero sia compatibile con
MAGGIO - AGOSTO 2006
l’amministrazione di sostegno, tale istituto potrà
essere applicato al disabile straniero.
L’assetto normativo descritto muterà, allorché
sarà in vigore la Convenzione de L’Aja del
13.1.00 sulla Protezione Internazionale degli
Adulti, il cui art. 5 prevede che sono competenti
a prendere provvedimenti relativi alla protezione
della persona le autorità giudiziarie e amministrative dello Stato contraente nel quale il soggetto risieda, e che, in caso di cambio di residenza
del soggetto, sono competenti le autorità dello
Stato in cui questi abbia la nuova residenza.
Ex art. 13 le Autorità applicheranno il diritto
nazionale nell’esercizio della competenza loro
attribuita dalle disposizioni del capitolo II.
5. LA PROPOSIZIONE DEL RICORSO
a fase introduttiva del procedimento inizia con
il deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale competente, adempimento che produce la
costituzione del ricorrente ed implica la pendenza del processo.
La norma di cui all’art. 407 deve essere integrata
dall’art. 125 c.p.c., norma che disciplina il contenuto del ricorso, il quale dovrà, dunque, contenere l’indicazione del giudice adito; l’indicazione
del ricorrente (nome, cognome e residenza); l’indicazione del beneficiario, specificandone anche
la dimora abituale; la prova - se necessaria - della preventiva presentazione dell’istanza di revoca
dell’interdizione o dell’inabilitazione; l’indicazione del coniuge, dei discendenti, degli ascendenti, dei fratelli e dei conviventi del beneficiario, se conosciuti dal ricorrente, e, ove conosciuto, del loro domicilio; le ragioni per cui si richiede la nomina dell’amministratore.
La legge non prevede che il ricorrente formuli le
proprie conclusioni.
Si ritiene che la previsione di cui all’art. 407
co.1, c.c. imponga al ricorrente di indicare, oltre
ai presupposti per l’apertura dell’amministrazione di sostegno, anche gli atti per i quali si chiedono gli interventi di sostegno e l’indicazione
della persona a cui affidare l’amministrazione
(TOMMASEO).
Eventuale è l’indicazione dell’amministratore da
nominarsi mediante rinvio all’atto di designazione di cui all’art. 408 c.c. Inoltre, là dove il beneficiario sia in grado di intendere e di volere, tale
indicazione può essere inserita nel ricorso stesso.
La mancanza di uno o più di tali requisiti provoca la nullità dell’atto introduttivo, qualora impedisca a quest’ultimo di raggiungere lo scopo
obiettivo a cui è preordinato. Altrimenti, eventuali vizi del ricorso relativi all’esposizione di fatti,
potranno rendere necessaria un’integrazione, su
istanza delle parti, o attraverso l’utilizzo dei
L
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
poteri inquisitori da parte del giudice.
Dubbio è se la domanda possa essere proposta
verbalmente al giudice tutelare.
Una tale possibilità è prevista, per i procedimenti di competenza del giudice tutelare, nei casi
urgenti, dall’art. 43 disp. att. c.c., ai sensi del
quale “I provvedimenti del giudice tutelare sono
emessi con decreto. Nei casi urgenti la richiesta
di un provvedimento può essere fatta al giudice
anche verbalmente”.
Tuttavia, si ritiene che tale regola possa trovare
applicazione esclusivamente con riguardo alle
domande che non esigono la difesa tecnica e
quindi nella gestione dell’amministrazione di
sostegno, ma non per la domanda di apertura dell’amministrazione di sostegno (TOMMASEO).
In generale, con riguardo all’amministrazione di
sostegno, la legge non specifica se le parti possano stare in giudizio personalmente o se sia necessario il ministero di un difensore.
Con riguardo all’interdizione, la Cassazione
ritiene pacifico che l’interdicendo possa costituirsi nel giudizio di interdizione esclusivamente
col ministero di un difensore.
La peculiarità del procedimento di interdizione
ed inabilitazione - determinate dalla natura e
non disponibilità degli interessi coinvolti, dagli
ampi poteri inquisitori del giudice e dalla stessa
revocabilità della sentenza che lo conclude non escludono il rispetto delle norme in tema di
patrocinio delle parti in giudizio e segnatamente di quella che impone il patrocinio di un procuratore legale abilitato ad esercitare presso il
tribunale adito, con conseguente nullità insanabile del ricorso sottoscritto da procuratore privo
dello “ius postulandi”, perché iscritto all’albo di
altro distretto. (Cass. 22.6.94, n. 5967, in Mass.
Giust. civ., 1994, fasc. 6).
In quest’ottica l’art. 716, c.p.c., ai sensi del quale “L’interdicendo e l’inabilitando possono stare
in giudizio e compiere da soli tutti gli atti del
procedimento, comprese le impugnazioni, anche
quando è stato nominato il tutore o il curatore
provvisorio previsto negli articoli 419 e 420
c.c.)”, deve essere interpretato nel senso che l’interdicendo e l’inabilitando mantengono piena
capacità processuale.
La “ratio” dell’art. 716 c.p.c., a norma del quale l’interdicendo non perde la capacità processuale di agire e contraddire nel giudizio di interdizione, pur dopo che gli è stato nominato un
tutore provvisorio, è di consentirgli di difendere
il diritto all’integrale conservazione della capacità di agire. Ne deriva da un lato che il predetto tutore non è parte necessaria di tale giudizio,
non configurandosi un interesse della tutela
all’esito del medesimo; dall’altro che il tutore
57
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
provvisorio non assume la veste, nel giudizio di
interdizione, di rappresentante processuale dell’interdicendo
(Cass. 16.11.00, n. 14866, in Mass. Giust. civ.,
2000, 2349)
Anche la nomina del curatore provvisorio non
priva l’inabilitando della capacità processuale
con riguardo agli atti del procedimento di inabilitazione
La nomina, ai sensi del comma 3 dell’art. 419
c.c., del curatore provvisorio all’inabilitando
anticipa cautelarmente gli effetti della pronuncia definitiva e priva, quindi, l’inabilitando della capacità di stare in giudizio senza l’assistenza del curatore, tranne che per gli atti del procedimento di inabilitazione, nel quale, in virtù
della specifica disposizione dell’art. 716 c.p.c.,
l’inabilitando può stare in giudizio e compiere
da solo tutti gli atti del procedimento anche
quando sia stato nominato il curatore provvisorio (Cass. 15.11.94, n. 9634, in Mass. Giust.
civ., 1994, fasc. 11).
In dottrina è dubbio se il procedimento di ammissione dell’amministrazione di sostegno costituisca un giudizio contenzioso che culmina con un
provvedimento dichiarativo suscettibile di acquistare l’autorità di cosa giudicata, non riconducibile ai procedimenti camerali di giurisdizione
volontaria. Secondo alcuni, infatti, il procedimento relativo all’apertura dell’amministrazione
di sostegno si concluderebbe con un provvedimento non idoneo al giudicato, e si configurerebbe come un procedimento di volontaria giurisdizione non finalizzato all’accertamento di uno status ma funzionale alla gestione degli interessi del
soggetto (CHIZZINI).
Argomento posto a sostegno di tale tesi è la previsione di cui all’art. 407 c.c., ai sensi del quale
il giudice tutelare può modificare o integrare in
ogni tempo, anche d’ufficio, le decisioni assunte
con il decreto di nomina dell’amministratore,
potere ritenuto incompatibile con il sistema del
giudicato (CHIZZINI).
In tale ultima ottica, il giudice tutelare, ove lo
ritenga necessario, nominerà per il procedimento
un amministratore di sostegno provvisorio nella
persona di un difensore tecnico, ma non è necessaria la difesa tecnica.. Tali argomentazioni ci
sembrano apprezzabili, tuttavia, vedremo come
la giurisprudenza in argomento sia divisa.. La
legge notarile attribuisce al notaio la facultas
postulandi negli affari di giurisdizione volontaria
per i quali è richiesto il suo ufficio: di conseguenza il notaio potrà assistere sicuramente il
beneficiario nei reclami contro gli atti dell’amministratore (art. 410 c.c.); nelle istanze per l’esten58
AIAF RIVISTA 2/2006
sione al beneficiario di regole dettate per l’interdetto (art. 411, co. 4, c.c.), per la sostituzione dell’amministratore inidoneo (art. 413, co. 1, c.c.).
Deve trattarsi di istanze connesse con l’esigenza
di compiere stipulazioni (ex art. 1, l. notarile). Si
noti, infine, che il procedimento per l’apertura
dell’amministrazione di sostegno può anche essere attivato se, nel corso del giudizio di interdizione o di interdizione, appaia opportuno applicare
l’amministrazione di sostegno: infatti, in tali ipotesi, il giudice, d’ufficio o ad istanza di parte,
disporrà la trasmissione del procedimento al giudice tutelare (art. 418 c.c.).
Oggetto del processo: “interdizione”. (…) Conclusioni Per l’attrice:. “Addivenire alla pronuncia della sentenza di interdizione di C.M. ai
sensi dell’art. 414 c.c. con contestuale nomina
del suo tutore;
(…) Nel corso della causa è mutato il quadro
normativo. Ai fini della decisione dovrà pertanto tenersi conto delle innovazioni apportate con
la legge 9 gennaio 2004, n. 6 recante “Introduzione nel libro primo, titolo XII, del codice civile del capo I, relativo all’istituzione dell’amministrazione di sostegno e modifica degli articoli
388, 414, 417, 418, 424, 426, 427 e 429 del
codice civile in materia di interdizione e di inabilitazione, nonché relative norme di attuazione, di coordinamento e finali”.
(…) Dopo la legge 9 gennaio 2004, n. 6 l’interdizione e l’inabilitazione si presentano quali
misure aventi carattere residuale. A tali conclusioni si giunge sulla base dell’interpretazione
letterale e sistematica del complesso di norme
oggi racchiuse sotto il titolo XII del libro primo
del codice civile (“Delle misure di protezione
delle persone prive in tutto od in parte di autonomia”). In estrema sintesi, basti qui ricordare
che: - il legislatore ha espressamente dichiarato
di voler perseguire “la finalità di tutelare, con la
minore limitazione possibile della capacità di
agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della
vita quotidiana, mediante interventi di sostegno
temporaneo o permanente” (art. 1, l. 9 gennaio
2004, n. 9);
- a tale scopo è stato introdotto il nuovo istituto
dell’amministrazione di sostegno (art. 404 c.c.:
“La persona che, per effetto di una infermità
ovvero di una menomazione fisica o psichica, si
trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può
essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare del luogo in
cui questa ha la residenza o il domicilio”) volto
a fornire una protezione commisurata alle concrete esigenze di tutela della persona (cfr. gli
artt. 405, 4° e 5° co., 407, 2° co., 408, 1o co.,
410 c.c.) senza determinare in via automatica e
generale una privazione o riduzione della capacità di agire (art. 409 c.c.: “Il beneficiario conserva la capacità di agire per tutti gli atti che
non richiedono la rappresentanza esclusiva o
l’assistenza necessaria dell’amministratore di
MAGGIO - AGOSTO 2006
sostegno. Il beneficiario dell’amministrazione di
sostegno può in ogni caso compiere gli atti
necessari a soddisfare le esigenze della propria
vita quotidiana”; v. anche l’art. 411, 4° co.,
c.c.);
- l’art. 414 c.c. è stato riformulato in termini
restrittivi, non solo perché è venuto meno (nella rubrica e nel testo) il riferimento alle persone
che “devono” essere interdette, ma soprattutto
perché non potrà pronunciarsi l’interdizione
quando ciò non sia “necessario” ad assicurare
alla persona una “adeguata protezione” e dunque quando sia possibile ricorrere ad una diversa e meno invasiva misura di tutela, da individuarsi in linea generale nell’amministrazione di
sostegno (“Persone che possono essere interdette. - Il maggiore di età e il minore emancipato,
i quali si trovano in condizioni di abituale infermità di mente che li rende incapaci di provvedere ai propri interessi, sono interdetti quando
ciò è necessario per assicurare la loro adeguata
protezione”).
Ciò premesso nel caso di specie neppure risultano sussistenti i presupposti sostanziali richiesti
dall’art. 414 c.c. (o dall’art. 415 c.c.).
(…) In realtà, alla luce della nuova disciplina
delle misure di protezione delle persone prive in
tutto o in parte di autonomia, un’adeguata tutela della signora M.C. può essere realizzata
applicando l’amministrazione di sostegno (cfr.
l’art. 418, 3° co., c.c.), tanto più che, come sottolineato dallo stesso C.T.U., una diversa collocazione ambientale (ad es. in un gruppo appartamento) è idonea a risolvere o contenere gli
stati patologici da cui la convenuta è occasionalmente affetta.
La riduzione dell’autonomia della convenuta
può essere adeguatamente fronteggiata dall’amministrazione di sostegno.
L’art. 6 della l. 9 gennaio 2004, n. 6 ha aggiunto quale ultimo comma dell’art. 418 c.c. la
seguente disposizione: “se nel corso del giudizio di interdizione o di inabilitazione appare
opportuno applicare l’amministrazione di sostegno, il giudice, d’ufficio o ad istanza di parte,
dispone la trasmissione del procedimento al giudice tutelare. In tal caso il giudice competente
per l’interdizione o per l’inabilitazione può
adottare i provvedimenti urgenti di cui al quarto comma dell’articolo 405”.
La disciplina processuale così delineata non è di
agevole interpretazione (e ha già dato origine a
differenti letture) anche sotto il profilo del coordinamento con altre previsioni (ad es. l’art. 422
c.c., non toccato dalla riforma). L’ampia formula “nel corso del giudizio di interdizione o di
inabilitazione” (ricorrente anche nel nuovo terzo
comma dell’art. 429, 3° co., c.c., ma già presente nel secondo comma dello stesso art. 418
c.c., rimasto immutato) si riferisce ad ogni
momento, cioè ogni stato o fase (trattazione,
istruzione, decisione) del procedimento in occasione del quale “il giudice” possa ravvisare i presupposti per la nomina di un amministratore di
sostegno. Il giudice di cui parla l’art. 418, 3° co.,
c.p.c. va identificato col tribunale in composizione collegiale (cfr. l’art. 429, 3° co., c.c.).
Il giudice istruttore potrà limitarsi a segnalare il
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
caso al giudice tutelare per i provvedimenti
urgenti, qualora non ritenga di rimettere la causa al collegio. L’espressione “trasmissione del
procedimento al giudice tutelare” deve intendersi come trasmissione degli atti ai fini dell’attivazione del procedimento per la nomina di
amministratore di sostegno (cfr. l’art. 429, 3°
co., c.c.).
Nell’attuale quadro normativo sono astrattamente ipotizzabili tre esiti del giudizio d’interdizione o d’inabilitazione: a) accoglimento dell’istanza (sia pure in via residuale); b) rigetto
dell’istanza puro e semplice; c) rigetto dell’istanza con trasmissione degli atti al giudice tutelare per l’applicazione dell’amministrazione di
sostegno.
Ad avviso del collegio, mentre il provvedimento di trasmissione degli atti al giudice tutelare
assume forma e contenuto di ordinanza, occorre pur sempre una sentenza che pronunci sull’istanza di interdizione. È vero che l’art. 418, 3°
co., c.c. non ne parla espressamente ma tale
soluzione, oltre che conforme alla regola secondo cui il procedimento in esame si conclude
con sentenza che accoglie o rigetta la domanda
(regolando se del caso le spese processuali), da
un lato appare simmetrica a quella disciplinata
dall’art. 429, 3° co., c.c. (“Se nel corso del giudizio per la revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione appare opportuno che, successivamente alla revoca, il soggetto sia assistito dall’amministratore di sostegno, il tribunale, d’ufficio o ad istanza di parte, dispone la trasmissione degli atti al giudice tutelare”), non essendo
dubbio che il giudizio per la revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione debba concludersi
con sentenza (artt. 430-431 c.c.); dall’altro
garantisce al soccombente, o comunque al soggetto che ne abbia interesse e sia legittimato ex
art. 718 c.p.c., la possibilità di chiedere il controllo da parte del giudice dell’impugnazione,
tanto più che il giudice tutelare al quale vengono rimessi gli atti non è vincolato nella sua decisione dall’orientamento espresso nell’ordinanza
collegiale.
In conclusione, respinta l’istanza di interdizione, va disposta la trasmissione di copia degli atti
al giudice tutelare. Non si ravvisa la necessità di
adottare provvedimenti urgenti.
Il costo della C.T.U. viene posto definitivamente a carico della ricorrente
(Trib. Bologna 18.1.05, in Altalex, 23.4.05.)
Il giudice tutelare deve provvedere alla nomina
dell’amministratore di sostegno nel termine di
sessanta giorni dalla data del deposito del ricorso
(art. 405, co. 1).
La fase introduttiva del procedimento è disciplinata dalle regole processuali concernenti i giudizi di interdizione e di inabilitazione: l’art. 720bis c.p.c., infatti, richiama, in quanto compatibili, le norme di cui all’art. 713 c.p.c., ai sensi del
quale il presidente ordina la comunicazione del
ricorso al pubblico ministero, e, quando questi
gliene fa richiesta, può con decreto rigettare
senz’altro la domanda. Altrimenti nomina il giu59
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
dice istruttore e fissa l’udienza di comparizione
davanti a lui del ricorrente, dell’interdicendo o
dell’inabilitando, e delle altre persone indicate
nel ricorso, le cui informazioni ritenga utili.. Tale
norma prevede, altresì, che il ricorso e il decreto
siano notificati a cura del ricorrente, entro il termine fissato nel decreto stesso, alle persone indicate nel comma precedente. Il decreto è comunicato, inoltre, al pubblico ministero.
Si ritiene che un’applicazione compatibile dell’art. 713 c.p.c. implichi che non si possa affidare al presidente la valutazione preventiva della
domanda di apertura dell’amministrazione di
sostegno.
Di conseguenza, i poteri che la norma attribuisce
al presidente del tribunale nel giudizio di interdizione devono essere considerati spettanti al giudice tutelare (TOMMASEO).
Seguendo una tale ricostruzione la fase introduttiva del procedimento di apertura dell’amministrazione di sostegno risulterà così strutturata: il
giudice tutelare, ricevuto il ricorso, ordinerà la
comunicazione al pubblico ministero; fisserà con
decreto in calce al ricorso l’udienza di comparizione davanti a sé, ordinerà al cancelliere di
comunicarlo al pubblico ministero; assegnerà un
termine al ricorrente affinché questi provveda a
notificare il ricorso e il decreto all’inabile e alle
persone indicate nell’atto introduttivo, le cui
informazioni ritenga utili.
I soggetti indicati nel ricorso non sono parti
necessarie del contraddittorio, ma il decreto viene notificato esclusivamente a coloro che possano fornire al giudice utili informazioni.
I legittimati al ricorso possono intervenire volontariamente nel processo ed assumere la qualità di
parte, anche qualora il giudice non abbia disposto
la notificazione nei loro confronti.
60
AIAF RIVISTA 2/2006
Inoltre, essi possono impugnare con reclamo il
decreto di apertura pronunciato dal giudice tutelare e chiederne la revoca, anche qualora non
abbiano partecipato al giudizio di apertura dell’amministrazione di sostegno.
6. IL PROBLEMA DELLA DIFESA TECNICA
bbiamo accennato nel paragrafo precedente ai
dubbi suscitati dalla nuova normativa con
riguardo alla necessità o meno della difesa tecnica, nell’ambito dei procedimenti relativi all’amministrazione di sostegno.
La questione vede divisa in primo luogo la dottrina ma anche la giurisprudenza.
In alcune pronunce si legge, infatti, che il procedimento di apertura dell’amministrazione di
sostegno ha lo scopo di consentire al giudice
tutelare di organizzare la più efficace gestione
degli interessi di un inabile, e che si tratta di un
procedimento di giurisdizione volontaria che non
incide sui diritti o status dalla parte e non esige,
pertanto, il ministero di un difensore.
Esso si distinguerebbe, pertanto, dai giudizi di
cognizione che incidano su diritti o status personali.
A
(a) L’analisi di natura e regolamento del procedimento introdotto dalla legge n. 6 del 2004
porta a ritenere la piena legittimazione ad agire
in giudizio di parte ricorrente senza il patrocinio
di un difensore tecnico; donde la piena ammissibilità del ricorso; ad avviso del giudicante il
patrocinio non sarebbe comunque necessario
ancorché il ricorrente non fosse il beneficiario e
cioè in forza delle considerazioni qui di seguito
esposte.
(b) Secondo l’orientamento, da condividere, del
giudice della legittimità, la natura del procedimento di interdizione e di inabilitazione è quella
tipica camerale; tale natura deve essere riconosciuta, a maggiore ragione, al procedimento per
l’istituzione dell’amministratore di sostegno che è
destinato, tra l’altro, a concludersi con decreto
dichiarato reclamabile dall’art. 739 c.p.c.
(c) È noto al giudicante che la specifica natura
del procedimento non rileva, peraltro, ai fini
della qualificazione contenziosa o volontaria
del giudizio così come gli è noto che costituisce
orientamento dominante quello per cui il procedimento di interdizione e inabilitazione rientra nella prima categoria; il che appare, del
resto, tecnicamente corretto per trattarsi di processo di cognizione, sia pur speciale, costitutivo di uno status della persona perchè destinato
ad incidere, ablativamente e stabilmente, sulla
sua capacità.
(d) Da queste caratteristiche del procedimento
interdittivo e inabilitativo si snoda la necessità
del patrocinio ex art. 82 c.p.c. secondo una
regola generale applicabile a tutti i giudizi che,
pur strutturati secondo il rito camerale, incidano costitutivamente, su diritti soggettivi e status
personale.
(e) Sennonché è proprio quest’ultimo aspetto
MAGGIO - AGOSTO 2006
che, a ben guardare, fa difetto nel modello
introdotto dalla legge n. 6 del 2004 con la
duplice e concatenata conseguenza della riconducibilità della fattispecie alla giurisdizione
volontaria e dell’inoperatività dell’art. 82 cit.
c.p.c. secondo una conclusione agevolmente
enucleabile dalla disciplina, sia sostanziale che
processuale, del nuovo istituto.
(f) Rovesciando completamente presupposti e
oggetto dell’interdizione e dell’inabilitazione, il
legislatore del 2004 ha varato regole che, lungi
dal tutelare patrimonio, traffici mercantili e terzi, sono rivolte alla protezione esclusiva della
persona; un rovesciamento che si è espresso, e
sono soltanto alcuni dei momenti significativi,
nel fare assurgere a regola la capacità di agire,
nel renderne possibili limitazioni caso per caso
e, preferibilmente, parziali, nell’escludere ogni
definitività alle ablazioni eventualmente e
nominativamente disposte, nel porre come suggello giurisdizionale non una sentenza ma un
decreto modificabile “in ogni tempo” (art. 407,
ult. co., c.c.), un provvedimento, dunque, che,
in quanto tale, è insuscettibile di dar corpo al
giudicato.
(g) Così stando le (nuove) cose è corretto riconoscere nell’amministrazione di sostegno uno
strumento non confezionato per (né destinato
ad) accertare uno status e, tantomeno, ad incidere costitutivamente sullo stesso ma, più propriamente, istituzionalmente rivolto a garantire
la più efficace gestione degli interessi della persona tramite l’intervento del Giudice Tutelare
con l’utilizzo di un provvedimento che va riconosciuto come classica espressione dell’esercizio della volontaria giurisdizione.
(h) Porta conforto alla conclusione la riflessione
sulle regole processuali degli “articoli 712, 713,
716, 719 e 720 “ in materia di interdizione e
inabilitazione dichiarate applicabili, dall’art.
720 bis cpc introdotto dalla legge n. 6 del 2004,
ai procedimenti di amministrazione di sostegno
“in quanto compatibili”; un conforto che si trae
dalla constatazione dello scarso significato di
un richiamo che convalida il giudizio delle radicali differenze fra le due categorie di figure e,
quindi, dell’esigenza per l’interprete di evitare
l’errore di una trasposizione acritica alla seconda dei pilastri su cui, nel corso di quasi due
secoli, venne edificata la prima; invero:
- la forma della domanda (art. 712) è specificamente regolamentata dalla legge del 2004;
- le prescrizioni rubricate “Provvedimenti del
presidente” (art. 713 c.p.c.) non danno alcun
serio apporto per la valutazione del procedimento;
- poiché il novellato art. 406 cc regolamenta la
capacità processuale del beneficiario, la specialità della norma vanifica il significato dell’art.
716 cpc;
- l’art. 719 c.p.c. appare ragionevolmente sostituito dal richiamato art. 739 c.p.c. che disciplina il reclamo dei procedimenti in camera di
consiglio;
- l’art. 720 c.p.c. si occupa, infine, della revoca dell’interdizione e dell’inabilitazione, di un
aspetto, cioè, specificamente regolamentato,
quanto all’amministratore di sostegno, dal
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
novellato art. 413 c.c.
(i) La concatenazione delle considerazioni che
precedono porta quindi ad escludere che nel
procedimento di amministrazione di sostegno si
configuri la necessità di quella difesa tecnica la
cui previsione venne del resto e non a caso
espunta in sede di lavori preparatori parlamentari quando il relatore ritirò l’emendamento
secondo cui “in ogni fase del procedimento l’interessato è assistito da un difensore”
(Trib. Modena 22.2.05, in Fam. e dir., 2005,
180-182)
Tale pronuncia è stata criticata da quella dottrina
che ha rilevato come il carattere meramente
facoltativo del ministero e dell’assistenza di un
difensore nei procedimenti camerali di giurisdizione volontaria è affermazione non scontata alla
luce della nuova disciplina del processo societario, là dove la difesa tecnica è richiesta per tutti i
procedimenti camerali di giurisdizione volontaria
bi - o plurilaterali, mentre è considerata facoltativa anche per i procedimenti unilaterali (cfr. art.
25 d.lgs. 17.1.03, n. 5) (TOMMASEO).
Si noti tuttavia che la giurisprudenza maggioritaria si esprime nel senso del carattere facoltativo
della difesa tecnica nei procedimenti di volontaria giurisdizione.
Poiché nei procedimenti di volontaria giurisdizione non è necessario il patrocinio di un procuratore legalmente esercente, prescritto dall’art. 82 c.p.c. per il caso di partecipazione al
giudizio, nella controversia per la designazione
dell’erede più idoneo a subentrare nella posizione di assegnatario di terreno di riforma fondiaria, di cui all’art. 7 della l. 29 maggio 1967
n. 379 - che è soggetta al rito camerale - la parte può proporre personalmente il reclamo avverso il provvedimento del tribunale.
(Cass. 3.7.87, n. 5814, in Mass. Giust. civ.,
1987, fasc. 7)
La Suprema Corte rileva come la regola di cui
sopra non trovi applicazione nelle ipotesi in cui il
procedimento sia previsto per la tutela di situazioni sostanziali di diritti o di status.
Qualora il procedimento camerale tipico, disciplinato dagli art. 737 ss. c.p.c., sia previsto per
la tutela di situazioni sostanziali di diritti o di
status - come avviene, ex art. 5, comma 4, legge n. 117 del 1988 per il procedimento di
ammissibilità della domanda di risarcimento dei
danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie - esso deve essere completato con le
forme adeguate all’oggetto, tra le quali rientra il
patrocinio di un procuratore legalmente esercente; con la conseguenza che il reclamo avverso provvedimento in camera di consiglio sottoscritto da procuratore esercente extra districtum
e da altro abilitato nel distretto ma indicato solo
come domiciliatario, se non è seguito dalla
61
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
costituzione in giudizio di procuratore esercente nel distretto e menzionato nella procura, è
affetto da nullità insanabile.
(Cass. 30.7.96, n. 6900, in Mass. Giust. civ.,
1996, 1083).
Abbiamo visto come il procedimento di amministrazione di sostegno non rientri in tali categorie:
esso infatti è finalizzato a proteggere e gestire gli
interessi del beneficiario e non incide costitutivamente sullo status della persona, a differenza dei
procedimenti relativi all’interdizione e all’inabilitazione, ragion per cui, a nostro avviso, non vi è
motivo per ritenere necessaria la difesa tecnica
nei procedimenti di amministrazione di sostegno.
La profonda differenza esistente fra i procedimenti in questione e quelli di interdizione e di
inabilitazione è stata, del resto, a più riprese rilevata dalla giurisprudenza di merito.
(…) va, in primo luogo, dichiarata l’ammissibilità del ricorso presentato personalmente dall’Assistente Sociale Isabella Xxxxx, sia perché si
tratta di responsabile del Servizio Sociale che ha
in cura Xxxxx Francesco, sia perché la particolare posizione di taluni soggetti legittimati a proporre ricorso (con particolare riferimento, per
l’appunto, ai responsabili dei Servizi Sociali,
art.406, 3° co.,c.c.), la natura non contenziosa
del procedimento (desumibile, tra l’altro, dall’attribuzione della competenza al giudice tutelare e dalla non idoneità al giudicato del provvedimento di nomina dell’Amministratore di
sostegno in considerazione della mutevolezza
della situazione sostanziale sulla quale viene ad
incidere, artt.407, 4° co., e 413 c.c.), la finalità
preminente del nuovo istituto di assicurare un
sistema facilmente accessibile di adeguata
gestione degli interessi del beneficiario, inducono ad escludere l’applicabilità al procedimento
in esame del principio dell’onere del patrocinio
previsto dall’art.82 c.p.c.
(Trib. Roma 19.2.05)
Si noti che quanto si è detto sopra non ha trovato
accoglimento in parte della giurisprudenza di
merito: in particolare, la Corte di appello di Milano ha accolto l’impostazione da noi criticata, ritenendo che il ricorso per l’apertura dell’amministrazione di sostegno debba essere sottoscritto, a
pena di nullità, da un difensore e ciò per il rinvio,
operato dalla legge, alla disciplina dei giudizi di
interdizione, e per l’esigenza di assicurare alle
parti la compiuta attuazione del diritto di difesa in
procedimenti che incidono sulla capacità del soggetto di operare nel mondo giuridico e quindi su
una situazione che rientra in quel ristretto nucleo
di “diritti inviolabili dell’uomo” a cui fanno riferimento gli artt. 2 Cost. e 8 Cedu: un’esigenza che
deve necessariamente essere attuata, vista la natura dei diritti coinvolti, in un giusto processo con
62
AIAF RIVISTA 2/2006
lo strumento della difesa tecnica.
(…) letto il decreto impugnato, con cui il Giudice Tutelare presso il Tribunale di Milano, sezione distaccata di Legnano, in data 1-3 giugno
2004, ha rigettato il ricorso proposto da G.C. e
M. D. diretto ad ottenere la nomina di un amministratore di sostegno ex lege n. 6/2004 nell’interesse del loro figlio A.C., nato a … il …, affetto da tetraparesi in esiti di encefalopatia perinatale con grave compromissione delle acquisizioni motorie e con conseguente totale ed assoluta invalidità;
…Omissis…
- considerato che il procedimento in esame è
stato introdotto con ricorso non sottoscritto da
un difensore tecnico, ma personalmente proposto dagli interessati e che quindi, in via preliminare, la Corte è tenuta ad esaminare d’ufficio la
questione attinente alla regolarità del rapporto
processuale, stante la nullità insanabile - e,
quindi, l’inettitudine ad instaurare un processo
valido - dell’atto introduttivo non sottoscritto dal
difensore, ove ne sia richiesto il patrocinio
(Cass. 16.3.99, n. 2316; Cass. 14.4.94, n.
3491; Cass. 30.10.84, n. 5543; Cass. 7.11.78,
n. 5077; Cass. 12.9.77, n. 3939).
- rilevato che l’art. 82 c.p.c., il quale stabilisce
il principio per cui davanti al tribunale le parti
possono stare in giudizio solo “col ministero di
un procuratore legalmente esercente”, sancisce
la regola generale dell’obbligatorietà della difesa tecnica, mentre la difesa personale delle parti è, come dispone il co. 3 dell’art. 82 c.p.c.,
eccezione limitata ai casi stabiliti dalla legge, di
cui alcuni enunciati dallo stesso codice di rito
(artt. 86, 462, 707 c.p.c.), altri previsti in leggi
speciali (es. art. 736 bis c.p.c. introdotto dall’art. 5 l. n. 154/2001; art. 35, co. 10, l. n.
833/1978; art. 22 l. n. 689/1981; art. 82, co. 6,
d.l. n. 570/1960);
(…)
- ritenuto inoltre che i continui raccordi tra gli
istituti dell’interdizione, dell’inabilitazione e
dell’amministrazione di sostegno quali sono
disciplinati dagli artt. 418, 429, e 431, co. 4,
c.c. sono stati previsti proprio per consentire
l’utilizzazione dell’una o dell’altra forma di
tutela ai fini di realizzare la migliore protezione
degli interessi dell’inabile, con ciò evidenziando non solo la necessaria omogeneità degli istituti sotto il profilo processuale, di cui sopra si è
detto, ma anche la loro omogeneità sotto molteplici profili sostanziali, peraltro sancita dall’art. 411 c.c., a norma del quale si applicano
all’amministrazione di sostegno, in quanto compatibili con le peculiarità del nuovo istituto, le
norme del codice civile che riguardano la scelta del tutore (artt. 349-353 c.c.) la gestione della tutela, la gratuità dell’ufficio, la responsabilità
del titolare dello stesso (artt.374-378) (v. in tal
senso Trib. Padova 21.5.04);
rilevato peraltro che le peculiarità del procedimento in esame, peraltro comuni a quello di
interdizione e di inabilitazione così come individuate dalla Suprema Corte proprio con riferimento a questi ultimi due procedimenti (v. Cass.
22.6.94, n. 5967), determinate dalla natura e
MAGGIO - AGOSTO 2006
dalla non disponibilità degli interessi coinvolti,
dagli ampi poteri in inquisitori del giudice, dalla posizione dei soggetti legittimati a presentare
il ricorso e ad impugnare il provvedimento, dalla sua particolare pubblicità e dalla sua stessa
revocabilità, non escludono che esso si configuri come un procedimento contenzioso speciale e resti disciplinato, con le forme del giudizio
contenzioso;
-ritenuto inoltre che non appare incompatibile
con la tesi esposta neppure la legittimazione ad
agire attribuita ai responsabili dei servizi sanitari e sociali in quanto l’indisponibilità del diritto
e la natura e rilevanza degli interessi in gioco
ben si concilia con il riconoscimento di tale
legittimazione a soggetti in via legislativa considerati portatori adeguati dell’interesse generale,
o più genericamente solidaristico, che giustifica
la compressione o ablazione richiesta, ma sempre nel rispetto della pienezza della tutela giurisdizionale del diritto status inciso;
- ritenuto d’altronde che il ricorso sempre più
frequente alle forme camerali in virtù di un’abbondante legislazione speciale, anche laddove
si verta in tema di diritti soggettivi o status, con
il precipuo scopo di assicurare speditezza al
procedimento grazie alle sue peculiarità strutturali di maggiore efficienza (…) impone comunque l’applicazione delle “forme necessarie per
costituzionalizzare la cameralizzazione della
procedura in materie in materie estranee al suo
terreno di elezione, onde conformarla all’oggetto del giudizio e renderla, quindi, compatibile
con i precetti costituzionali attraverso l’apporto
di un coerente tasso di giurisdizionalizzazione
(del modello originario) ricavabile dal sistema in
via interpretativa, se non esplicato dal legislatore” (Cass. 27.2.89, n. 1066);
rilevato che tale indirizzo è anche quello più
volte suggerito dalla Corte Costituzionale che
con le sue sentenze interpretative ha in qualche
misura attenuato il congenito deficit di garanzie
proprio del modello camerale nello sforzo di
farne un vero e proprio modello alternativo, che
viene preferito a quello ordinario di cognizione,
a seconda delle differenziate esigenze di tutela
delle situazioni sostanziali da proteggere, e che
ha, da ultimo, sottolineato, con la sentenza 2630.1.02, n. 1, come le lacune processuali devono essere colmate con i consueti strumenti interpretativi, che impongono l’applicazione dei
principi previsti per i procedimenti contenziosi
utilizzando un criterio ermeneutica che si fonda
sull’obbligo di dare alle norme interpretazioni
conformi al dettato della Costituzione, soprattutto con riferimento al rispetto del diritto del
contraddittorio, all’esercizio del diritto di difesa
nei suoi diversificati profili ed alla partecipazione diretta al procedimento di tutti gli interessati, compreso lo stesso beneficiario, nonché sull’obbligo di applicare norme contenute nelle
convenzioni internazionali, dotate di efficacia
imperativa nell’ordinamento interno.
(App. Milano 11.1.05, in Fam. e dir., 2005,
178-180).
A questo punto la Corte procede alla disamina
della natura e della funzione del procedimento
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
di amministrazione di sostegno, rilevandone l’idoneità ad incidere sulla capacità di agire della
persona in maniera analoga all’interdizione.
- ritenuto che le esposte considerazioni impongono di procedere alla disamina della natura e
della funzione del procedimento di amministrazione di sostegno che indiscutibilmente appare
volto a produrre effetti parzialmente ablativi o
comunque limitativi della capacità d’agire, e
pertanto, effetti che incidono sulla possibilità di
un soggetto di operare nel mondo giuridico e
che coinvolgono situazioni soggettive che fanno
parte di quel nucleo ristretto di “diritti inviolabili dell’uomo” cui fa riferimento l’art. 2 Cost.;
ritenuto che appare allora evidente come l’impatto dell’amministrazione di sostegno su questa essenziale dimensione della persona, anche
se può interessare solo alcuni aspetti della vita
civile nelle sue espressioni giuridicamente rilevanti, non differisce in qualità dagli effetti che
scaturiscono dall’interdizione e verosimilmente
può essere anche più incisivo di quello proprio
dell’inabilitazione, con la conseguenza che
situazioni soggettive di siffatta natura possono
essere oggetto di compressione o di parziale
ablazione solo tramite un processo che offra a
chi ne è titolare il massimo delle garanzie e
segnatamente quelle inerenti al diritto di difesa
(art. 24 Cost.), il quale include l’applicazione
dell’art. 82 c.p.c. e implica, perciò, che l’atto
introduttivo del “giudizio” cameralizzato debba
essere, irrinunciabilmente, sottoscritto dal difensore (art. 125 c.p.c.). (In tal senso v. Cass. n.
1066/89 cit.), anche se simile conclusione non
comporta di necessità che le attività processuali di mera gestione dell’amministrazione di
sostegno debbano essere ugualmente sorrette
dalla difesa tecnica; ritenuto inoltre che l’esposta lettura del dato normativo che questa Corte
è chiamata ad applicare non solo lo rende
conforme al dettato costituzionale ma consente
di evitare che lo stesso possa risolversi nella violazione dei fondamentali principi della persona,
quali sono sanciti nella Convenzione europea
dei diritti umani, firmata a Roma il 4 novembre
1950;
- rilevato infatti che, con l’entrata in vigore nel
nostro ordinamento della Convenzione europea, la funzione di garanzia che l’art. 2 Cost.
assicurava ai diritti di libertà in essa espressamente previsti è stata arricchita dalle nuove e
concrete garanzie, sia formali che sostanziali,
che la Convenzione assicura, e che tra le posizioni soggettive che godono del duplice sistema
di garanzia indubbiamente rientra il diritto al
rispetto della vita privata riconosciuto dall’art. 8
della CEDU, che tende a proteggere la dignità
dell’essere umano, sia sotto l’aspetto dell’integrità fisica che di quella morale (CE 26.3.85, X
e Y c. Paesi Bassi, Sèrie A, n. 91, par. 22), comprendendo anche “il diritto per l’individuo di
instaurare e sviluppare relazioni sociali” (CE
16.12.92, Niemietz c. Germania, Serie A, n.
251 B, par. 29) incluse quelle relative “all’ambito professionale e commerciale” (CE 7.8.96, C
c. Belgio, Serie A, n. 915, par. 25);
63
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
ritenuto peraltro che l’ingerenza nell’esercizio
dei diritti e delle libertà individuali da parte dei
pubblici poteri si uniforma al generale principio
di equilibrio fra opposti interessi, ugualmente
legittimati e degni di protezione, alla stregua del
quale va effettuata la necessaria comparazione
tra i singoli diritti individuali e tra questi e i diritti collettivi, e, per essere conforme alla CEDU,
deve rispettare certi requisiti di forma e di
sostanza e, primo fra tutti, il requisito della legalità, in forza del quale non è sufficiente che esista una base legale che autorizzi un’ingerenza
nell’esercizio di un diritto, ma occorre che la
legge assicuri una protezione sufficiente contro
possibili ingerenze illegittime da parte delle
pubbliche autorità, cioè occorre che “l’estensione e le modalità di esercizio di un simile potere
siano definite con sufficiente chiarezza, tenuto
conto dello scopo legittimo in gioco, al fine di
fornire all’individuo una protezione adeguata
contro l’arbitrio” (CE 27.3.96, Goodwin c.
Regno Unito, Serie A, n. 483, par. 31);
- rilevato, al riguardo, che secondo la costante
giurisprudenza della Corte, “anche se l’art. 8
non contiene alcuna condizione esplicita di
procedura, occorre che il processo decisionale
che comporta provvedimenti di ingerenza sia
equo e rispetti opportunamente gli interessi dell’individuo protetti dall’art. 8” (CE 25.9.96,
Buckley c. Regno Unito, Recueil 1996, IV, par.
76; CE 24.2.95, Mc Michael c. Regno Unito,
Serie A, n. 307 B, par. 87), e che ciò impone
che il provvedimento giurisdizionale volto ad
incidere sulla capacità di un soggetto di operare nel mondo giuridico e, quindi, ad influire sull’identità della persona, debba essere il risultato
di un procedimento in cui operi il principio del
contraddittorio in una struttura dialettica sia tra
le parti, sia tra le parti e il giudice, così da evitare che la decisione possa essere frutto dell’ingerenza del pubblico potere, senza assicurare al
destinatario degli effetti del provvedimento la
possibilità di esporre le proprie ragioni e di
espletare un controllo pieno sulla legalità degli
atti del procedimento medesimo attraverso l’esercizio del diritto di difesa che non può che
essere attuato, vista la natura dei diritti coinvolti, attraverso lo strumento della difesa tecnica;
consiste nel proteggere diritti non già teorici ed
illusori, ma concreti ed effettivi, realizzando,
attraverso un equo processo, l’esigenza della
parità delle armi nel senso di un giusto equilibrio
tra le parti (ricorrente, beneficiario, pubblico
ministero), dando a ciascuna di esse la possibilità ragionevole di presentare la causa, davanti
ad un giudice indipendente ed imparziale, in
condizioni che non lo pongano in una situazione di netto svantaggio rispetto alle altre (CE Raffineries grecques Stran e Stratis Andreadis c.
Grecia 9.12.94, Sèrie A, n. 301 B, par. 46)
(App. Milano 11.1.05, in Fam. e dir., 2005,
178-180).
L’orientamento espresso dalla Corte di Appello di
Milano si conforma a quanto gia affermato dal
Tribunale di Padova, il quale ha affermato chiaramente che nel procedimento di apertura dell’amministrazione di sostegno le parti debbono
64
AIAF RIVISTA 2/2006
stare in giudizio con il ministero di un difensore,
trattandosi di un giudizio che attiene allo status e
ai diritti delle persone
La legge 9.1.04, n. 6 non contiene alcuna
disposizione che escluda la necessità della difesa tecnica per il procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno; dunque a detto
procedimento, che attiene allo status delle persone, si applica la regola generale di cui al comma 3 dell’art. 82 c.p.c.
Il rilievo normativo testuale di cui sopra è di per
sé sufficiente per affermare la necessità della
difesa tecnica nel procedimento in oggetto.
(…) il procedimento per la nomina dell’amministratore di sostegno è finalizzato ad un provvedimento giurisdizionale che influisce sullo stato
e sui diritti delle persone.
(Trib. Padova 21.6.04, in Fam e dir., 2004,
607-609).
Nell’auspicare un intervento della Corte di Cassazione sul punto, ci pare, comunque, opportuno
sottolineare come il Tribunale di Parma abbia
emesso due decreti di nomina di un amministratore di sostegno, su ricorso presentato direttamente dagli interessati (Trib. Parma 2.4.04, decr.
n. 536 e decr. n. 537, in Notar., 4, 2004, 396398). In sede di commento a tali decreti si è rilevato come “ l’impostazione della legge n. 6/04 e
talune sue chiare disposizioni, sembrerebbero
tese, in modo sostanzialmente univoco, all’instaurazione di un rapporto diretto fra beneficiario
(anche in fieri) e giudice tutelare, tale da dare
ragione alle circolari varie, diffuse anche dai tribunali, secondo le quali “non è necessaria l’assistenza di un avvocato” (CALÒ).
7. LE FASI SUCCESSIVE DEL PROCEDIMENTO
a seconda fase del procedimento è quella
istruttoria.
Ex art. 407, co. 3, c.c. il giudice tutelare deve
provvedere comunque sul ricorso, non rilevando
la mancata comparizione delle parti, le quali non
possono rinunciare agli atti.
La legge non offre indicazioni generali con
riguardo all’istruzione probatoria nel procedimento di apertura dell’amministrazione di sostegno: non viene richiamato l’art. 738, co. 3, c.p.c.
in materia di procedimenti camerali, né l’art. 714
c.p.c. che disciplina l’istruzione probatoria nel
procedimento di interdizione.
La disciplina di tale fase è contenuta nell’art. 407
c.c., che prevede l’audizione dell’interessato, la
quale si svolge in un procedimento nel cui ambito il giudice deve tener conto dei bisogni e delle
richieste dell’interessato, quando ciò sia compatibile con gli interessi e le aspirazioni di questi e
con le esigenze di protezione della persona.
Qualora sia necessario, il giudice dovrà anche
L
MAGGIO - AGOSTO 2006
recarsi nel luogo dove si trova l’interessato.
Al giudice è riconosciuto un ampio margine di
discrezionalità nel condurre tale mezzo di istruzione probatoria: è escluso che si applichi il sistema per capitolazione dei fatti (CHIZZINI)
Dell’audizione deve essere redatto idoneo verbale.
L’audizione dell’inabile non è considerata
espressamente una condizione per la pronuncia
nel merito, ma l’art. 407, co. 2, c.c. stabilisce che
il giudice deve sentire personalmente la persona
cui il procedimento si riferisce. Ragion per cui
deve ritenersi che la mancata audizione, non
obiettivamente giustificata, causa la nullità del
procedimento (CAMPESE).
Il giudice può procedere all’audizione dei soggetti
cui è stato notificato il ricorso introduttivo, interrogandoli liberamente, allo scopo di acquisire ogni
informazione utile per verificare i presupposti dell’apertura dell’amministrazione e determinare il
contenuto del decreto; inoltre la legge gli attribuisce altri poteri inquisitori (art. 407, co. 3) ed in particolare quello di disporre d’ufficio di tutti i mezzi
istruttori utili ai fini della decisione, e di ordinare
accertamenti di natura medica, o di disporre una
consulenza tecnica per verificare le condizioni fisiche e psichiche del soggetto disabile.
Si ritiene che, in generale, il giudice possa fare
ricorso anche ad altri mezzi di prova previsti dal
codice di rito, come ordinare l’ispezione di persone o cose ai sensi dell’art. 118 c.p.c.; e che le parti possano richiedere una prova testimoniale, una
consulenza tecnica (artt. 61 s e 191 s c.p.c.), una
ispezione, ovvero possano produrre documenti.
I poteri inquisitori del giudice sussistono per tutta la durata dell’amministrazione di sostegno (art.
44 disp. att. c.c.).
Si noti che la legge non impone un’articolazione
in udienze del procedimento in esame, articolazione prevista, invece, per il processo di interdizione: la questione vede divisa la dottrina fra
coloro secondo i quali “mancano (…) nel procedimento in esame udienze in senso proprio, delineandosi solo l’audizione dei vari soggetti interessati e con finalità probatorie, per l’espletamento dell’eventuale contraddittorio, secondo la tipica struttura del procedimento camerale” (CHIZZINI); e coloro che sostengono che il procedimento
possa essere articolato in udienze (TOMMASEO).
La fase di decisione non è disciplinata dalla legge, e sono inapplicabili le regole di diritto processuale previste per il passaggio in decisione nei
processi contenziosi a rito ordinario.
Spetterà dunque al giudice regolare tale fase consentendo alle parti di precisare le proprie conclusioni, di illustrarle, discutendole davanti a lui o in
memorie difensive.
Ex art. 405 c.c., egli deve provvedere entro ses-
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
santa giorni dalla data di presentazione della
richiesta di nomina dell’amministratore di sostegno, con decreto motivato immediatamente esecutivo. La motivazione può essere sintetica, ma
deve essere adeguata, poiché è previsto il ricorso
per cassazione.
Il decreto deve contenere quanto prescrive l’art.
405, co. 5 c.c., e dunque: le generalità del beneficiario e dell’amministratore di sostegno, l’oggetto e la durata dell’incarico, gli atti che richiedono
la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno, la periodicità delle relazioni che questi deve presentare al
giudice tutelare sull’attività svolta e sulle condizioni del beneficiario, e l’entità delle somme - di
cui il beneficiario ha o può avere la disponibilità
- da prelevare, anche con cadenza periodica per
far fronte alle necessità dell’amministrazione.
In genere, il decreto autorizzerà l’amministratore
a compiere gli atti di ordinaria amministrazione.
visto l’art. 405 c.c.,.
1. nomina in favore di XXXXX FRANCESCO,
nato a xxxxx il 16 dicembre 1986, l’Amministratore di Sostegno nella persona dell’ AVV.
GRAZIANO XXXXX, con le funzioni ed i poteri
qui di seguito specificati;
2. dispone che la durata dell’incarico sia a tempo indeterminato ed abbia ad oggetto la rappresentanza del Beneficiario nonché l’amministrazione del patrimonio del medesimo;
3. autorizza l’Amministratore di sostegno a
compiere in nome e per conto di XXXXX FRANCESCO, senza necessità di ulteriore autorizzazione del Giudice Tutelare, con poteri di rappresentanza esclusiva e salvo obbligo di rendiconto annuale, tutti gli atti civili di ordinaria
amministrazione;
4. autorizza l’Amministratore di sostegno a
riscuotere nell’interesse del Beneficiario gli
emolumenti a lui dovuti a titolo pensionistico ed
a curare tutte le pratiche a tal fine necessarie,
previa apertura di un conto ovvero di un libretto, postale o bancario, intestato a XXXXX FRANCESCO con annotazione del nome dell’Amministratore quale legittimato ad operare, facendo
in modo che su detto conto vengano ad essere
accreditate tutte le entrate dell’amministrazione
(pensioni, indennità, ecc.);
5. autorizza l’Amministratore di sostegno a prestare il consenso agli accertamenti medici di
routine che si rendano di volta in volta necessari per la cura della salute del Beneficiario;
6. dispone che ogni atto di straordinaria amministrazione, ivi incluso il consenso ad interventi chirurgici, debba essere previamente autorizzato dal giudice tutelare;
7. dispone che l’Amministratore di sostegno tenga conto dei bisogni e delle aspirazioni del
Beneficiario ed informi il Beneficiario degli atti
da compiere, ove ciò sia possibile;
8. dispone che l’Amministratore di sostegno
informi periodicamente il Giudice Tutelare circa
le condizioni di vita personali e sociali del
65
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
Beneficiario, della consistenza patrimoniale e
reddituale del medesimo, rendendo il conto dell’attività svolta mediante deposito in Cancelleria
di una relazione-rendiconto entro i primi 90
giorni dal conferimento dell’incarico e, successivamente, entro il 31 dicembre di ogni anno,
corredata dalla documentazione comprovante
le principali voci di reddito e di spesa afferenti
il periodo considerato. Nella relazione (o in
qualsiasi momento mediante deposito in Cancelleria di un ricorso scritto o verbalmente al
Giudice Tutelare previo appuntamento) l’Amministratore di sostegno potrà indicare eventuali
diverse ed ulteriori esigenze da gestire nell’interesse del Beneficiario;
9. fissa per il giuramento dell’Amministratore di
sostegno l’udienza del xxxxx;
10. dispone l’efficacia immediata del presente
decreto ai sensi dell’art. 741 c.p.c.
(Trib. Roma 19.2.05)
mentre per quelli di straordinaria amministrazione sarà richiesta un’ulteriore autorizzazione, poiché l’art. 411 c.c. richiama gli artt. 375 e 376 c.c.
Visto gli artt. gli art. 405 e 407 c.c.
nomina la signora P. Crocifissa, nata a Riesi (CL)
l’, residente in Genova, amministratore di sostegno, a tempo indeterminato, di Z. Crocifissa,
nata a Butera (CL) il, residente in Genova;
determina come segue l’oggetto dell’incarico:
1) assistenza personale per quanto di necessità
della beneficiaria (anche per il tramite di terze
persone) al fine di consentirle, per quanto possibile, il rientro presso la sua attuale abitazione;
2) stipula e cura dell’esecuzione del contratto di
lavoro con una o più badanti (o con un’eventuale Cooperativa di servizi), assumendosi tutti i
relativi incombenti (ivi compresa la posizione
INPS); 3) riscossione, accredito e gestione (per
quanto riguarda l’ordinaria amministrazione)
della pensione, e dell’eventuale indennità di
accompagnamento di spettanza della beneficiaria, con facoltà di compiere in nome e per conto della predetta tutte le pratiche, amministrative e non, volte a migliorare la situazione previdenziale e dunque patrimoniale della stessa (ivi
compresa la domanda per il conseguimento dell’indennità di accompagnamento ove non ancora proposta);
4) apertura se necessario o opportuno di un
conto corrente intestato alla sola beneficiaria
(ove non già esistente), con potere di firma in
capo all’amministratore di sostegno che potrà
liberamente movimentare il suddetto conto;
5) gestione e amministrazione ordinaria del
bene immobile di proprietà della beneficiaria,
con facoltà di partecipare - anche a mezzo delega intestata a persona di sua fiducia - alle
assemblee condominiali;
6)conservazione e gestione di eventuali risparmi
di pertinenza del beneficiario;
7) gestione ed eventuale definizione dei rapporti di debito esistenti con l’Istituto V., già Istituto
P., nel caso di trasferimento dell’amministrata
presso la propria abitazione;
8) facoltà di richiedere agli altri congiunti le
somme di denaro costituenti la quota parte su di
66
AIAF RIVISTA 2/2006
essi gravante a titolo di mantenimento della
madre (sia con riguardo alla retta dell’Istituto,
ove essi già non vi abbiano provveduto, sia con
riguardo alle spese relative all’assistenza domiciliare, comprensiva delle spese ordinarie e/o
straordinarie riguardanti la salute della congiunta, e a quelle connesse alla gestione della casa,
ove non siano sufficienti le risorse dell’amministrata);
9) presentazione annuale della dichiarazione
dei redditi, ove richiesta ai sensi di legge, e
pagamento delle tasse e delle utenze a carico
della beneficiaria;
atti che l’amministratore può compiere in nome
e per conto della beneficiaria: tutti quelli necessari per far fronte all’oggetto dell’incarico come
sopra precisato, con la precisazione che per gli
atti di straordinaria amministrazione l’amministratore di sostegno dovrà essere autorizzato dal
giudice tutelare.
(Trib. Genova 1.3.05, in Altalex 23.4.05)
Tuttavia, nella prassi giurisprudenziale l’amministratore è stato spesso autorizzato nel decreto
stesso al compimento di singoli atti di straordinaria amministrazione.
Tanto premesso il Giudice:. nomina amministratore di sostegno di S. I. nata a Jesi il ____,
generalizzata in atti, il ricorrente B. S. nato a
____ il _____, senza limitazioni particolari,
con il limite di spesa mensile per tutti i bisogni
dell’amministrato di euro 1.300 e salvo restando le norme che assicurano il controllo da parte del GT e degli altri soggetti a ciò legittimati.
Lo autorizza a provvedere nella maniera più
consona alla situazione nell’interesse di suo zia,
con una prima relazione che farà pervenire al
GT, con deposito in cancelleria, e comunque
non oltre 40 gg. da oggi, non appena sarà in
grado di avere a disposizione i dati necessari.
Stante la precaria situazione di salute dell’amministrato, l’amministratore, d’intesa con il
medico curante, provvederà anche a predisporre la migliore sistemazione possibile compatibilmente con l’idoneità e disponibilità delle
strutture sanitarie e/o di assistenza, per sua zia
provvedendo anche agli atti che si rendano
opportuni o necessari per la migliore tutela della salute della parente (es. atti urgenti di consenso informato, ove l’amministrata non sia in
grado di provvedere da solo ovvero esclusivamente da solo, in quest’ultimo caso controfirmando), consultandosi con i familiari ricompresi nel novero dei soggetti di cui all’art. 406 c.c..
L’amministratore di sostegno non avrà limiti particolari nel predisporre atti nell’interesse dell’amministrata, nei limiti delle disponibilità
patrimoniali e reddituali dello stesso e previa
autorizzazione del GT per gli atti di straordinaria amministrazione. Gli atti di ordinaria amministrazione non necessitano di autorizzazione.
Autorizza specificamente i seguenti atti:
- Riscossione della pensione mensile di euro
412,18 salvo aggiornamenti, con rilascio di
quietanza;
- Riscossione della pensione sociale di euro
MAGGIO - AGOSTO 2006
294,93;
- Presentazione di istanze ad uffici pubblici ai
fini di assistenza, anche sanitaria, e di sussidi;
- Presentazione della dichiarazione dei redditi
ed altri obblighi formali e sostanziali di natura
fiscale;
- Gestione del conto corrente n.______ presso
la _____ di Jesi (con specifica rendicontazione
al GT)
(Trib. Ancona 17.3.05)
In diverse pronunce l’amministratore è stato
autorizzato ad accettare eredità con beneficio
d’inventario
NOMINA xxxxx Rosella, sopra generalizzata,
Amministratore di sostegno di xxxx Mauro,
sopra generalizzato, e la autorizza a:
1. rappresentare xxxxxx Mauro, agendo in
nome e per conto del medesimo, nella gestione
patrimoniale che lo riguarda, provvedendo
all’apertura di un conto corrente postale intestato unicamente al beneficiario, sottoponendolo
al vincolo del giudice tutelare, su quale dovranno essere accreditati direttamente la pensione
d’invalidità e l’indennità di accompagnamento,
nonché tutti gli altri redditi e/o emolumenti a lui
spettanti, provvedendo a chiudere altri conti
correnti bancari intestati o cointestati al beneficiario;
2. operare sul conto di cui al n. 1), prelevando
l’importo necessario alla vita del beneficiario,
che si quantifica, allo stato, nell’importo della
pensione d’invalidità e dell’indennità di accompagnamento, mettendolo a disposizione del
beneficiario o di sua madre con lui convivente;
3. accettare, per conto ed in nome di xxxxx
Mauro, l’eredità del padre xxxxx Pasquale, con
beneficio d’inventario;
4. curare l’amministrazione ordinaria del patrimonio immobiliare del beneficiario, e sottoporre all’autorizzazione di questo Giudice qualsiasi atto eccedente l’ordinaria amministrazione;
5. rappresentare il beneficiario, agendo in nome
e per conto del medesimo, nel predisporre e
sottoscrivere eventuali atti e/o istanze alla pubblica amministrazione o a soggetti privati diretti
al conseguimento di sussidi o equipollenti, di
documenti d’identità, di prestazioni di natura
assistenziale a favore del beneficiario, ed alla
presentazione della denuncia dei redditi dello
stesso;
6. occuparsi delle questioni che riguardano la
vita personale del beneficiario, curando che il
medesimo sia adeguatamente curato ed assistito.
Dispone che il presente incarico abbia durata a
tempo indeterminato e che l’Amministratore di
sostegno depositi ogni anno, entro il 31 dicembre,
una relazione sulle condizioni di vita personali e
sociali del beneficiario ed il rendiconto relativo al
patrimonio del medesimo, corredato da documentazione attestante le principali voci di reddito
e di spesa relative al periodo considerato.
(Trib. Roma 22.04.05, in Altalex 13.5.05)
Si ritiene che il giudice non possa limitarsi ad
aprire l’amministrazione di sostegno, riservando
ad ulteriori e successivi decreti l’indicazione
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
degli atti per i quali sarà necessaria l’assistenza o
la rappresentanza dell’amministratore, poiché “se
questo fosse possibile - traendo debole argomento dall’art. 15 della legge in commento che fa
oggetto della pubblicità gli estremi essenziali del
provvedimento di apertura e non anche il suo
specifico contenuto - il decreto collocherebbe il
disabile in uno stato di incapacità legale, salvo
che per gli atti necessari alle esigenze della vita
quotidiana (art. 409, co. 2)” (TOMMASEO).
Eventualmente, il giudice tutelare potrà prevedere, nel provvedimento con il quale nomina l’amministratore di sostegno, che alcuni effetti, limitazioni o decadenze, previsti da disposizioni di
legge per l’interdetto o l’inabilitato, si estendano
al beneficiario dell’amministrazione di sostegno.
Tali provvedimenti accessori potranno essere modificati indipendentemente dal contenuto principale
del decreto di apertura dell’amministrazione.
Il decreto dovrebbe disporre anche sulle spese; in
mancanza di una tale disposizione, si ritiene esse
rimangano a carico di chi le ha sostenute (CHIZZINI).
Ex art. 405, co. 1, c.c. il decreto di apertura è
immediatamente esecutivo; mentre l’efficacia
dei decreti riguardanti minori e interdetti o inabilitati decorre dal momento del raggiungimento dell’età maggiore o dalla pubblicazione della sentenza di revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione.
Qualora sia proposto reclamo avverso i provvedimenti in esame, è dubbio se l’efficacia possa
essere sospesa: in dottrina si è proposto di applicare per analogia la disciplina dell’inibitoria, in
virtù della quale il ricorrente in reclamo dovrà
ottenere dal giudice di appello la sospensione
dell’efficacia del decreto d’apertura, ove sussistano i gravi motivi per concederla di cui all’art.
283 c.p.c..
La legge disciplina anche una forma di tutela
cautelare che consente al giudice tutelare di
provvedere in caso di urgenza, pronunciando gli
opportuni provvedimenti urgenti per la cura della
persona interessata e per la conservazione del suo
patrimonio, e di nominare un amministratore di
sostegno provvisorio che compia gli atti urgenti
individuati dal giudice (art. 405, co. 4).
Si tratta di provvedimenti soggetti al potere di
revoca e modifica del giudice che li ha emessi e
ai gravami di cui all’art. 720-bis c.p.c..
Anche l’art. 411 c.c. disciplina una forma di tutela urgente allorché nel corso del giudizio di interdizione emerga l’opportunità di optare per l’amministrazione di sostegno, e il giudice dell’interdizione debba procedere a trasmettere gli atti del
procedimento al giudice tutelare: in queste ipotesi, infatti, il giudice dell’interdizione può adottare i provvedimenti urgenti di cui all’art. 405 c.c.
Dubbia è la possibilità di applicare ai provvedi67
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
menti di cui sopra gli artt. 669-bis c.p.c. ss.,
disposizioni che disciplinano i procedimenti cautelari: alcuni autori ritengono, infatti, che non si
possa parlare di provvedimenti cautelari in senso
proprio, ma di provvedimenti volontari interinali
(CHIZZINI).
8. CESSAZIONE DELL’AMMINISTRAZIONE DI
SOSTEGNO, REVOCA E MODIFICA DEL
DECRETO DI APERTURA
amministrazione di sostegno cessa, ovviamente, in caso di morte del beneficiario;
mentre nell’ipotesi di dichiarazione di morte
presunta, di scomparsa e di assenza dello stesso è dubbio se l’ufficio cessi o rimanga in stato di quiescenza.
Riteniamo che essa cessi anche allorché l’interessato venga interdetto o inabilitato.
Ex art. 413 c.c. può essere proposta istanza di
revoca dell’amministrazione di sostegno quando
si siano determinati i presupposti per la cassazione dell’amministrazione di sostegno o per la
sostituzione dell’amministratore.
Il decreto di apertura dell’amministrazione di
sostegno è suscettibile di essere revocato anche
quando la stessa si riveli idonea a realizzare gli
interessi del beneficiario.
Si ritiene che l’istanza di revoca sia inammissibile
finché sia pendente il giudizio di impugnazione o
non sia spirato il relativo termine (CAMPESE).
Legittimati ad esercitare l’azione di revoca dell’amministrazione di sostegno sono l’amministratore, il beneficiario, il pubblico ministero e
gli altri legittimati a proporre il ricorso introduttivo ex art. 406 c.c. (art. 413 c.c.).
Il procedimento ha le stesse caratteristiche di
quello di apertura, in base a quanto stabilisce
l’art. 720 c.p.c., ai sensi del quale “Per la revoca
dell’interdizione o dell’inabilitazione si osservano le norme stabilite per la pronuncia di esse”: in
particolare l’istanza dovrà avere la forma del
ricorso e dovrà contenere l’esposizione dei motivi per i quali si richiese la revoca.
La legge stabilisce, onde garantire un adeguato
contraddittorio, che l’istanza debba essere
comunicata al beneficiario e all’amministratore
di sostegno, qualora essa sia proposta da diversi
soggetti da questi ultimi. Tali soggetti sono considerati parti necessarie nel procedimento di
revoca.
Eccezionalmente, il giudice tutelare può provvedere, anche d’ufficio, alla dichiarazione di cessazione dell’amministrazione di sostegno, quando
questa si sia rivelata inidonea a realizzare la piena tutela del beneficiario, e - se ritiene che si debba promuovere giudizio di interdizione o di inabilitazione - ne informa il pubblico ministero, affin-
L’
68
AIAF RIVISTA 2/2006
ché provveda a iniziare tali giudizi (art. 413 c.c.).
In questi casi l’amministrazione di sostegno cessa
con la nomina del tutore o del curatore provvisorio, ai sensi dell’articolo 419 c.c., ovvero con la
dichiarazione di interdizione o di inabilitazione.
Si tratta di un’ulteriore ipotesi di concorso tra
l’amministrazione di sostegno ed i procedimenti
di interdizione e di inabilitazione.
Si ritiene che, in tali ipotesi, nel caso si concluda
prima il procedimento di revoca dell’amministrazione di sostegno, si avrà la pronuncia di un provvedimento la cui efficacia è condizionata sospensivamente alla pubblicazione della sentenza d’interdizione o inabilitazione o alla nomina almeno
del tutore o curatore provvisorio (CHIZZINI).
Conseguentemente, qualora venga rigettata l’azione di interdizione o di inabilitazione, non opererebbe un presupposto di efficacia per la dichiarazione di revoca, e permarrebbe l’amministrazione di sostegno.
Il provvedimento di revoca dell’amministrazione
di sostegno deve essere annotato nel registro delle amministrazioni di sostegno e nell’atto di
nascita.
Oltre ad essere revocato, il decreto di apertura
può essere modificato o integrato: il giudice tutelare può infatti, anche d’ufficio, in ogni tempo,
emettere un provvedimento modificativo o integrativo (art. 407 c.c.). Ai sensi dell’art. 408 cc.,
egli potrà esonerare e sostituire l’amministratore,
mentre, ai sensi dell’art. 405, egli potrà prorogare l’incarico a tempo determinato.
La legge non disciplina i procedimenti di gestione dell’amministrazione di sostegno, ma deve
farsi riferimento alle disposizioni comuni ai procedimenti in camera di consiglio per integrare la
disciplina processuale dell’istituto in esame.
Competente a conoscere della revoca e della
modifica del provvedimento sarà il giudice tutelare che ha emanato il provvedimento di nomina,
là dove non si siano modificati la residenza o il
domicilio; in caso di modifica della residenza o
del domicilio, invece, l’istanza dovrà essere proposta al giudice competente territorialmente ai
sensi della nuova residenza o domicilio.
La legge non si esprime con riguardo agli effetti
dei provvedimenti in esame nei confronti dei terzi, ma si ritiene che debbano essere fatti salvi i
diritti acquistati dai terzi in buona fede con convenzioni antecedenti alla revoca o modifica, ai
sensi dell’art. 742 c.p.c. (CHIZZINI).
Strumentali a tali provvedimenti sono i poteri di
controllo attribuiti al giudice tutelare: in particolare l’amministratore deve periodicamente riferire circa l’attività svolta (art. 405 c.c.); il giudice
deve essere informato di eventuali contrasti fra
amministratore e beneficiario (art. 410 c.c.), e
MAGGIO - AGOSTO 2006
può convocare l’amministratore in ogni momento
per avere informazione ed impartire istruzioni
inerenti gli interessi del minore. Infine, il giudice
si pronuncia con riguardo ai reclami contro gli
atti dell’amministratore proposti dal beneficiario
o dai soggetti legittimati all’azione di apertura ex
art. 410, co. 2, adottando i provvedimenti opportuni con decreto motivato.
9. IMPUGNAZIONI
on riguardo alla disciplina delle impugnazioni, il nuovo art. 720-bis c.p.c. stabilisce
che contro i decreti del giudice tutelare è
ammesso reclamo alla Corte d’appello a norma dell’art. 739 c.p.c., ai sensi del quale la
Corte d’appello pronuncia anch’essa in camera
di consiglio, e il reclamo deve essere proposto
nel termine perentorio di dieci giorni dalla
comunicazione del decreto, se è dato in confronto di una sola parte, o dalla notificazione,
se è dato in confronto di più parti.
La competenza a conoscere il reclamo avverso i
decreti del giudice tutelare spetta, dunque, alla
Corte di appello.
Si tratta di una impugnazione di natura sostitutiva, a critica libera.
La legittimazione ad impugnare in reclamo spetta a tutti coloro che hanno partecipato al giudizio.
Dubbio è se essa spetti a soggetti che - pur essendo legittimati a proporre il ricorso - non siano
stati parti del procedimento nella pregressa fase
di giudizio: infatti l’art. 720-bis richiama l’art.
719 c.p.c. e non l’art. 718, norma che eccezionalmente attribuisce la legittimazione ad impugnare
anche a tali soggetti. Riteniamo, tuttavia, che siano legittimati anche tali ultimi soggetti, argomentando dal richiamo agli artt. 719 e 720 c.p.c.
effettuato dall’art.720-bis c.p.c. In particolare,
l’art. 720 c.p.c. recita: “ Per la revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione si osservano le norme stabilite per la pronuncia di esse.
Coloro che avevano diritto di promuovere l’interdizione e l’inabilitazione possono intervenire nel
giudizio di revoca per opporsi alla domanda, e
possono altresì impugnare la sentenza pronunciata nel giudizio di revoca, anche se non parteciparono al giudizio”.
Ora, se la legittimazione ad impugnare la sentenza di revoca dell’amministrazione di sostegno
spetta anche a coloro che non parteciparono al
giudizio, non ci sembra logico argomentare che il
legislatore, non richiamando l’art. 718 c.p.c.,
abbia voluto escludere la legittimazione di tali
soggetti ad impugnare il decreto di apertura.
Ex art. 719 c.p.c. il termine per impugnare decorre dalla notificazione della sentenza fatta nelle
forme ordinarie a tutti coloro che parteciparono
C
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
al giudizio, ovvero il ricorrente, il pubblico ministero, il beneficiario e i soggetti legittimati al
ricorso intervenuti nel giudizio.
L’impugnazione deve essere proposta nel termine
di dieci giorni decorrenti dalla data della notificazione del decreto per coloro che hanno partecipato a giudizio. Per coloro che non hanno partecipato decorre dalla data dell’ultima notificazione.
In difetto di notificazione, il reclamo non potrà
essere proposto oltre il termine ordinario di un
anno: la giurisprudenza di legittimità, infatti,
applica tale termine anche ai decreti pronunciati
nei procedimenti camerali..
Il ... si duole anzitutto della violazione degli
artt. 323 - 325 c.p.c., assumendo che il decreto del tribunale per i minorenni ex art. 274 c.c.,
stante la sua natura decisoria, non soggiace al
termine di cui all’art. 739 c.p.c., esclusivamente proprio dei procedimenti di “volontaria giurisdizione”, e che erroneamente, quindi, la Corte
di Bari aveva dichiarato la inammissibilità dell’impugnazione; lamenta inoltre che i giudici
del merito non abbiano tenuto conto della sentenza n. 341-1990 della Corte costituzionale,
secondo cui, in caso di minore infrasedicenne,
va accertato l’interesse del medesimo alla
dichiarazione giudiziale di paternità.
La prima doglianza è infondata e il rigetto della
stessa, rendendo irretrattabile il decreto del Tribunale per i minorenni di Bari, preclude l’esame della seconda censura.
Invero questa Corte ha stabilito che i provvedimenti del tribunale sull’ammissibilità dell’azione di dichiarazione di paternità o maternità
naturali sono reclamabili, ai sensi dell’art. 739
c.p.c., entro dieci giorni dalla notificazione o,
in difetto di questa, nel termine di cui all’art.
327 c.p.c. (sentenze 16 giugno 1983 n. 4130;
26 luglio 1989 n. 3505).
A ciò non osta la natura decisoria che si voglia
attribuire ai provvedimenti stessi né la esperibilità, contro il decreto pronunciato in sede di
reclamo, del ricorso per cassazione ex art. 111,
secondo comma, Cost.: il tipo camerale del
procedimento, cui si collegano la forma del
provvedimento (decreto) e la disciplina della
sua impugnabilità (reclamo entro dieci giorni),
non è di per sé incompatibile col carattere contenzioso del giudizio e col riferirsi di questo a
diritti soggettivi o status, come è stato chiarito
anche nella giurisprudenza costituzionale (sentenze 543 e 573 del 1989).
Il peculiare rimedio di cui all’art. 739 c.p.c. e il
breve termine suo proprio non trovano applicazione unicamente quando, pur trattandosi di
procedimento camerale, il provvedimento conclusivo assume la forma della sentenza. In tale
ipotesi, riferendosi l’art. 739 c.p.c. esclusivamente ai decreti, la sentenza, se notificata, è
impugnabile nel termine di trenta giorni, ma il
procedimento di secondo grado ricade ancora
entro il modello camerale e l’impugnazione,
pertanto, deve essere proposta con ricorso da
depositarsi in cancelleria entro il predetto termi69
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
ne (v., fra altre, sentenza 8567-1991, nonché la
sentenza deliberata da questo stesso Collegio il
13 luglio 1993 sul ricorso n. 2492-91, in corso
di pubblicazione).
Nella specie, concludendosi con un decreto il
procedimento di ammissibilità di cui all’art. 274
c.c., trova applicazione l’art. 739 c.p.c. e il termine di dieci giorni dalla notificazione dallo
stesso previsto, per cui correttamente la Corte di
Bari ha dichiarato la tardività dell’impugnativa
davanti ad essa proposta.
Il ricorso va dunque rigettato con la condanna
del ricorrente alle spese.
(Cass. 28.1.94, n. 869, in Mass. Giust. civ.,
1994, 89)
La Corte di appello esercita i poteri officiosi
spettanti al giudice di primo grado: di conseguenza essa potrà disporre l’apertura dell’amministrazione di sostegno qualora oggetto dell’impugnazione sia un decreto di rigetto pronunciato
dal giudice tutelare.
Il procedimento di svolgerà con le stesse modalità che caratterizzano il procedimento di primo
grado e con l’esercizio degli stessi poteri inquisitori (TOMMASEO), dovendosi intendere il richiamo all’art. 739 c.p.c. operato dall’art. 720-bis
come assunzione di un modello di gravame e non
come recepimento delle norme di cui agli artt.
737 c.p.c. ss., che disciplinano i procedimenti
camerali
La revoca o la modifica del provvedimento emesso in sede di reclamo spetta al giudice tutelare.
Contro il decreto della Corte di appello, pronunciato in sede di reclamo, può essere proposto
ricorso per Cassazione ex art. 720-bis c.p.c.
La garanzia del ricorso per cassazione opera sicuramente nei confronti dei provvedimenti che
decidono sull’apertura o sulla revoca dell’amministrazione di sostegno.
Dubbia è l’ammissibilità del ricorso per Cassazione avverso i provvedimenti di gestione dell’amministrazione di sostegno e avverso quelli
AIAF RIVISTA 2/2006
urgenti con funzione cautelare. Per alcuni essa
deve escludersi (TOMMASEO ). Diversamente,
coloro che configurano anche i procedimenti
relativi all’apertura e la revoca dell’amministrazione di sostegno come di volontaria giurisdizione, affermano che tutti i provvedimenti relativi
all’amministrazione di sostegno siano ricorribili
per cassazione (CHIZZINI).
Il ricorso è proponibile per tutti i motivi di cui
all’art. 360 c.p.c.. Esso deve essere proposto nel
termine di sessanta giorni decorrenti dalla notifica della decisione.
Alla fase cassatoria seguirà un giudizio di rinvio
dinanzi alla Corte di Appello, procedimento che
avrà le forme del giudizio di reclamo (CHIZZINI).
Le impugnazioni non avranno efficacia sospensiva con riguardo all’esecutività del decreto.
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L’amministrazione di sostegno. Questioni sostanziali e processuali nell’analisi
della giurisprudenza
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2006
Il volume mette in luce, evidenziando le posizioni di dottrina e giurisprudenza, gli aspetti
sostanziali e processuali dell’istituto di protezione civilistica degli infermi di mente denominato “amministrazione di sostegno”. Particolare attenzione viene data agli strumenti giuridici
che - con la minore limitazione possibile della capacità di agire, delle persone prive in tutto
o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana - consentono
interventi di sostegno temporaneo o permanente.
70
MAGGIO - AGOSTO 2006
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
GIURISPRUDENZA
circa due anni prima, era stato colpito da sari ad assicurare al congiunto la prose-
PERSONE FISICHE - CAPACITÀ - neurobrucellosi con conseguente ence- cuzione domiciliare delle terapie.
LIMITAZIONI - AMMINISTRAZIONE DI falite, patologia che lo aveva costretto, 2. Il giudice tutelare, dopo aver proceduSOSTEGNO - AMBITO APPLICATIVO. dopo una lunga degenza presso il repar- to alla ricognizione personale dell’avv. F.,
CASSAZIONE, SEZ. I CIV., sentenza 12
giugno 2006, n. 13584
Pronunciandosi per la prima volta sul
tema, la Cassazione ha affermato che
l’amministrazione di sostegno, introdotta
nell’ordinamento dall’art. 3 della legge 9
gennaio 2004, n. 6, ha la finalità di offrire
a chi si trovi nella impossibilità, anche
parziale o temporanea, di provvedere ai
propri interessi uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la capacità di agire, distinguendosi, con tale specifica funzione,
dagli altri istituti a tutela degli incapaci,
quali la interdizione e la inabilitazione,
non soppressi, ma solo modificati dalla
stessa legge attraverso la novellazione
degli artt. 414 e 417 del codice civile.
Rispetto ai predetti istituti, l’ambito di
applicazione dell’amministrazione di
sostegno va individuato con riguardo
non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto
carente di autonomia, ma piuttosto alla
maggiore capacità di tale strumento di
adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ed alla
maggiore agilità della relativa procedura
applicativa. Appartiene all’ apprezzamento del giudice di merito la valutazione della conformità di tale misura alle suindicate esigenze, tenuto conto essenzialmente del tipo di attività che deve essere
compiuta per conto del beneficiario, e
considerate anche la gravità e la durata
della malattia, ovvero la natura e la durata dell’impedimento, nonché tutte le altre
circostanze caratterizzanti la fattispecie.
(Testo della sentenza)
- omissis 1. Con ricorso depositato in data in data
18 giugno 2004, C. F. e M. F., rispettivamente madre e sorella dell’avv. G. F.,
esposero al Giudice tutelare presso il Tribunale di Salerno che il loro congiunto,
to di rianimazione degli Ospedali riuniti di
Salerno, in stato di coma, al ricovero
presso diversi istituti di cura e centri di
riabilitazione. Nell’imminenza della dimissione dall’ultimo dei predetti istituti, e trovandosi il F. nella incapacità di provvedere ai propri bisogni ed interessi, le ricorrenti ritenevano la necessità di procedere
alla istituzione di una amministrazione di
sostegno in favore dello stesso, che consentisse alle ricorrenti medesime, che
continuavano a prestargli assistenza, di
provvedere a tutti i bisogni materiali e
morali che la nuova condizione avrebbe
determinato. Nel giudizio si costituì la
consorte dell’avv. F., che si oppose alla
procedura di amministrazione, rilevando
la incapacità totale del coniuge di provvedere ai propri bisogni, sicché, a suo
avviso, si sarebbe dovuto procedere alla
interdizione; ed aggiunse che comunque
non potevano assumere l’incarico le
ricorrenti, le quali si sarebbero trovate in
conflitto di interessi con il congiunto,
consistente, quanto alla madre, nel fatto
di aver proposto nei confronti della nuora un giudizio di cessazione di un comodato relativo alla casa coniugale, della
quale l’avvocato era nudo proprietario, e
la madre usufruttuaria, e, quanto alla
sorella, nell’essere la moglie del legale
che assisteva le istanti nel ricorso e rappresentava la suocera nel predetto giudizio di cessazione del comodato. Nel lasso di tempo intercorso tra il deposito del
ricorso e la fissazione da parte del Giudice tutelare della ispezione diretta del F.,
questi fu dimesso dal Centro di riabilitazione nel quale era stato da ultimo ricoverato, e le ricorrenti, a seguito del riferito rifiuto della moglie dello stesso di consentirgli il ritorno nella abitazione coniugale -motivato dalle precarie condizioni
di salute del figlio minore I., affetto da
epilessia -, reperirono in locazione, sempre secondo quanto dalle stesse riferito,
un appartamento nel quale allestirono i
presidi riabilitativi ed assistenziali neces-
ed esaminato documenti e memorie, con
decreto in data 8 novembre 2004, rigettò
il ricorso, disponendo la trasmissione
degli atti al Pm perché venisse promosso
il giudizio di interdizione nei confronti del
F., rilevando che la infermità presentata
dallo stesso comportava una incapacità
totale, di natura abituale, di provvedere ai
propri interessi, tale da non lasciare ipotizzare atti che questi potesse compiere
senza l’assistenza dell’amministratore.
3. Avverso tale decreto le istanti, con
ricorso depositato il 7 dicembre 2004,
proposero reclamo innanzi alla Corte
d’appello di Salerno, lamentando che il
giudice tutelare non aveva considerato la
portata delle innovazioni introdotte dalla
legge 6/2004, con la istituzione della
nuova figura dell’amministratore di sostegno e con le modifiche introdotte ai preesistenti istituti della interdizione e della
inabilitazione; e, per altro verso, evidenziando i progressi compiuti dall’infermo,
e depositando una perizia attestante che
il decorso della patologia lasciava presumere una lenta, ma progressiva evoluzione verso l’ulteriore miglioramento delle
funzioni cognitive, quali la memoria, la
percezione e il linguaggio.
4. La Corte d’appello, con decreto depositato l’8 marzo 2005, rigettò il reclamo e
dispose la trasmissione degli atti al p.m.
per la proposizione del procedimento di
interdizione. osservò la Corte che, alla
stregua della legge 6/2004, il destinatario
del provvedimento di amministrazione di
sostegno deve mantenere, quanto meno
in misura ridotta, una propria autonomia
e capacità, dovendo il giudice tener conto anche delle richieste formulate dal
beneficiario, e l’amministratore informare
lo stesso dei diversi atti da compiere.
Nella specie, secondo la corte di appello,
non sussisteva una residua capacità dell’avv. F. tale da consentirgli un dialogo
con il proprio amministratore e con il giudice. Dall’esame dello stesso da parte
del giudice tutelare, risultava che questi
71
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
era affetto da una grave infermità con
incidenza sulle sue facoltà mentali, almeno quelle che riguardano la manifestazione della propria volontà, come avrebbe
reso evidente il fatto che durante l’esame
egli non avesse interloquito, limitandosi
ad incomprensibili movimenti del viso.
Detta infermità persisteva da tempo senza sicure previsioni sulla sua scomparsa
o attenuazione, sicché poteva essere
definita abituale. Ed anche la citata perizia che faceva presagire un miglioramento delle funzioni cognitive sottolineava
che detto recupero era, allo stato, solo in
itinere. In definitiva, solo l’interdizione,
secondo la Corte d’appello, poteva adeguatamente tutelare il F., posto che, da
una parte, l’amministrazione di sostegno
non si estende a tutti gli atti di interesse
del beneficiario, consentendo a quest’ultimo di provvedere autonomamente ad
alcuni di essi, e che, dall’altra, il F. stesso,
sulla base delle risultanze processuali,
non era in grado di poter provvedere da
solo ad alcun atto.
5. Avverso detto decreto, ricorrono per
cassazione C.p. e M. F. sulla base di un
unico motivo, illustrato anche da successiva memoria. Resiste con controricorso G.
A., coniuge dell’avv. F., in proprio e quale
rappresentante dei figli minori I. e M..
Motivi della decisione
1. Con l’unico, articolato motivo di ricorso si lamenta violazione e falsa applicazione dell’articolo 404 Cc, nel testo introdotto dalla legge 6/2004, e delle altre
disposizioni della stessa legge. Si sottolineano la funzione del nuovo istituto dell’amministrazione di sostegno e le innovazioni apportate dalla legge 6/2004 agli
istituti codicistici in materia di incapacità
personale, rilevandosi che le nuove norme hanno posto al centro dell’attenzione
non più la sola cura del patrimonio, ma
piuttosto la persona e le sue esigenze,
apprestando uno strumento di estrema
semplicità procedurale ed elasticità di
contenuti, modellato secondo la necessità e le circostanze, e tale da non incidere radicalmente e permanentemente
sulla capacità di agire del beneficiario. In
tale ottica, il criterio da adottare al fine di
stabilire di volta in volta quale sia, in particolare tra l’amministrazione di sostegno
72
e la interdizione, la misura più idonea alla
protezione del soggetto debole non
potrebbe essere individuato con riguardo ad un elemento meramente “quantitativo”, e, cioè, tenendo conto del quantum
della incapacità dalla quale il soggetto da
proteggere è affetto, come sarebbe confermato anche dalla formulazione dell’articolo 404 Cc introdotto dalla legge
6/2004, che indica come beneficiario dell’amministrazione di sostegno chi si trovi
nella impossibilità, anche parziale e temporanea, di provvedere ai propri interessi, cosi lasciando intendere che essa
possa essere anche totale e permanente.
Il discrimen consisterebbe piuttosto nella
idoneità dell’uno o dell’altro istituto ad
assicurare la protezione più adeguata del
soggetto cui esso va applicato. L’amministrazione di sostegno sarebbe l’istituto
di elezione e di primo e pronto impiego
per l’apprestamento della tutela della
persona inferma o menomata e dei suoi
interessi, mentre solo qualora tale misura
si riveli inadeguata alla concreta situazione, potrebbe farsi luogo a quella più radicale della interdizione. Ciò posto, la
dedotta violazione di legge ad opera del
decreto impugnato consisterebbe nell’avere ritenuto la inapplicabilità, nella specie, dell’istituto dell’amministrazione di
sostegno in considerazione della incapacità totale del beneficiario a provvedere
ai propri interessi.
2. Il ricorso, che, pure, muove da una
corretta premessa in ordine alla valenza
innovatrice della legge 6/2004, e si sviluppa intorno ad una serie di lucide considerazioni, complessivamente condivisibili, con riguardo all’ambito di applicabilità dell’istituto dell’amministrazione di
sostegno, si appalesa, tuttavia, infondato, per le ragioni che saranno di seguito
esposte.
3. La soluzione della questione sottoposta all’esame della Corte richiede una
operazione di “perimetrazione” dell’istituto dell’amministrazione di sostegno, operazione non esplicitamente compiuta dal
legislatore nel testo che ha introdotto
detto istituto nell’ordinamento, la legge
6/2004: un testo germogliato da un vivace dibattito - peraltro a tutt’oggi non del
tutto sopito, per le ragioni che saranno
esaminate più avanti - che ha visto a lun-
AIAF RIVISTA 2/2006
go impegnate la dottrina, la comunità
scientifica, e, in genere, la società civile,
in ordine alla efficacia e adeguatezza
degli strumenti a tutela dei soggetti più
deboli, e destinato ad innovare profondamente la disciplina codicistica della protezione degli incapaci, anche attraverso
la modifica dei tradizionali istituti della
interdizione e della inabilitazione, in una
ottica meno custodialistica e maggiormente orientata al rispetto della dignità
umana ed alla cura complessiva della
persona e della sua personalità, e non
già del solo suo patrimonio. La finalità
della legge, enunciata nella sacrale formula dell’articolo 1 della stessa, è, infatti,
quella di «tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le
persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni
della vita quotidiana, mediante interventi
di sostegno temporaneo o permanente»:
una finalità che, lungi dall’apparire attenuata per effetto del suo mancato recepimento nel codice civile, tra le disposizioni novellate dalla stessa legge in esame con una scelta in relazione alla quale il
legislatore non è, peraltro, andato esente
da critiche in dottrina - rappresenta la
“stella polare” destinata ad orientare l’interprete nella esegesi della nuova disciplina, anche con riguardo ai rapporti tra
la figura dell’amministrazione di sostegno e le altre forme di protezione degli
incapaci, e, in particolare, a guidare il
giudice nella impegnativa attività cui la
normativa di cui si tratta, come sarà di
seguito precisato, lo chiama. Dalla esplicitazione della finalità della legge emerge, in modo incontrovertibile, una linea di
tendenza diretta alla massima salvaguardia possibile dell’autodeterminazione del
soggetto in difficoltà, attraverso il superamento concettuale del momento autoritativo, consistente nel divieto, tradizionalmente imposto a suo carico, del compimento di una serie, più o meno ampia di
attività, in correlazione al grado di incapacità, a favore di una effettiva protezione della sua persona, che si svolge prestando la massima attenzione alla sua
sfera volitiva, alle sue esigenze, in
conformità al principio costituzionale del
rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo. Di
tale linea di tendenza - emergente anche
MAGGIO - AGOSTO 2006
dall’esame dei lavori preparatori della
legge - appare permeato l’intero testo
legislativo in esame, a cominciare dal
suo articolo 2, che innova la rubrica del
titolo XII del libro primo del codice civile,
dedicato appunto agli istituti di protezione degli incapaci, sostituendo a quella
originaria «Dell’infermità di mente, dell’interdizione e dell’inabilitazione» l’altra, più
rispondente alle descritte finalità della
legge 6/2004, che recita, in perfetta sintonia con il già richiamato articolo 1, «
Delle misure di protezione delle persone
prive in tutto od in parte di autonomia».
La più significativa espressione della
descritta funzione della legge n. 6 é, poi,
costituita dal suo articolo 3, che, attraverso una serie di disposizioni, costituenti il
nuovo capo I del titolo XII del libro primo
del codice civile, intitolato «Dell’amministrazione di sostegno», e che danno nuovo contenuto agli articoli 404-413 del
testo codicistico -rimasti privi di quello
originario per effetto dell’abrogazione,
intervenuta ad opera dell’articolo 77 della legge 184/83, dell’istituto dell’affiliazione, che essi disciplinavano -, disegna la
nuova figura dell’amministrazione di
sostegno, delineandone i presupposti e
la portata, individuando i soggetti legittimati a richiederla, definendo il relativo
procedimento, i criteri di scelta dell’
amministratore e i suoi doveri, le norme
applicabili ed il regime degli atti compiuti dal beneficiario o dal 1 amministratore
in violazione di norme di legge o di
disposizioni del giudice.
4. Fondamentale rilievo acquista in particolare, in tale quadro, il nuovo articolo
404 Cc, concernente i presupposti per il
ricorso all’ amministrazione di sostegno,
a norma del quale «la persona che, per
effetto di una infermità ovvero di una
menomazione fisica o psichica, si trova
nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere al propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare del luogo in cui questa ha la
residenza o il domicilio». Formula, quella
adottata dal legislatore, che colloca in
primo piano la esigenza di fornire un aiuto a chi si trovi in difficoltà, piuttosto che
quella di individuare un organo che si
sostituisca allo stesso in tutte le scelte
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
relative agli atti in cui si estrinseca la sua
personalità. Del pari, risulta ispirata al
principio della generale capacità, con
salvezza delle limitazioni rese necessarie
dalla finalità di protezione del soggetto
affetto da limitazioni più o meno gravi
della propria autonomia, la disciplina dell’istituto, che si caratterizza per una particolare duttilità, a fronte del carattere tendenzialmente irreversibile e totalizzante
della tradizionale regolamentazione della
materia, dominata dalla opposta concezione di una generale condizione di incapacità del soggetto, riguardato essenzialmente come individuo potenzialmente portatore di pregiudizio dei propri interessi patrimoniali, e, massimamente, di
quelli della propria famiglia, e, perciò, da
assoggettare necessariamente a misure
idonee ad impedirne ogni libertà di azione, sacrificandone ogni residua estrinsecazione della personalità. Nell’amministrazione di sostegno, come risulta dall’articolo 405 Cc nella formulazione introdotta dall’articolo 3 della legge 6/2004, è
il giudice tutelare che, con il decreto di
nomina dell’amministratore, il cui incarico ha una durata generalmente, anche
se non necessariamente, determinata,
indicata nello stesso decreto (articolo
405, comma 5, n. 2, Cc), individua, in
relazione alla specificità della situazione
e delle esigenze del soggetto amministrato, gli atti che l’amministratore medesimo ha il potere di compiere in nome e
per conto di quest’ultimo il soggetto
beneficiario, come significativamente viene definito dalla legge (articolo 405, comma 5, n. 3)-, e quelli che costui può compiere solo con l’assistenza dell’amministratore (articolo 405, comma 5, n. 4). E,
dunque, al di fuori degli atti espressamente indicati nel decreto, che richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’ amministratore, il
beneficiario conserva la capacità di agire, come chiarito in modo non equivoco
dal comma i dell’articolo 409 Cc, che gli
consente “in ogni caso”, al comma 2, di
compiere gli atti necessari per il soddisfacimento delle esigenze della vita quotidiana. E, sempre nell’ottica della massima valorizzazione possibile della personalità e della volizione del soggetto
debole, l’articolo 410 Cc impone all’am-
ministratore l’obbligo di informare tempestivamente il beneficiario degli atti da
compiere e, in caso di dissenso con lo
stesso, il giudice tutelare.
5. - La richiamata finalità della legge n. 6
trova, del resto, compiuta estrinsecazione anche nelle modifiche che la stessa
introduce, con gli articoli 4-10, recanti il
nuovo testo degli articoli 414-432 Cc, alla
disciplina «della interdizione, della inabilitazione e della incapacità naturale»,
come l’articolo 4, comma 1, della legge
6/ 2004 intitola il nuovo capo Il del titolo
XII del libro primo del codice. Al riguardo,
particolare significato è da attribuire al
nuovo testo dell’articolo 414 Cc, introdotto dal comma 2 dell’articolo 4 della legge
6/2004 il quale, già nella intitolazione
(“Persone che possono essere interdette”), sottintende la eliminazione del carattere di obbligatorietà della misura della
interdizione (presente nel testo previgente dello stesso articolo), la quale si esprime nella nuova formulazione della citata
disposizione codicistica, che subordina
la interdizione del maggiore di età e del
minore emancipato che si trovino in condizioni di abituale infermità di mente che
li renda incapaci di provvedere ai propri
interessi alla condizione che tale misura
sia necessaria per assicurarne la «adeguata protezione». Né minore forza innovativa, ai fini che qui rilevano, va riconosciuta alla disposizione dell’articolo 427,
comma 1, Cc, nel testo introdotto dall’articolo 9 della legge n. 6, secondo il quale «nella sentenza che pronuncia l’interdizione o l’inabilitazione, o i successivi
provvedimenti dell’autorità giudiziaria,
può stabilirsi che taluni atti di ordinaria
amministrazione possano essere compiuti dall’interdetto senza l’intervento
ovvero con l’assistenza del tutore, o che
taluni atti eccedenti l’ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall’inabilitato senza l’assistenza del curatore». In tal modo, anche le misure della
interdizione e della inabilitazione risultano avere acquistato una maggiore flessibilità, venendo adattate alle concrete
condizioni del soggetto protetto, in funzione di un possibile recupero di ogni
residuo margine di autonomia dello stesso. La disposizione, peraltro, è speculare
a quella, riferita alla ipotesi dell’ammini73
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
strazione di sostegno, dell’articolo 411,
comma 4, Cc, nel testo introdotto dal
ricordato articolo 3 della legge n. 6, che
attribuisce al giudice tutelare la facoltà di
stabilire che determinati effetti, limitazioni
o decadenze, previsti da disposizioni di
legge per l’interdetto o l’inabilitato, si
estendano al beneficiario dell’amministrazione, avuto riguardo all’interesse del
medesimo ed a quello tutelato dalle predette disposizioni.
6. La descritta rivisitazione degli istituti di
protezione, unita alla introduzione di
quello dell’amministrazione di sostegno,
ha determinato una giustapposizione di
tale ultima figura agli altri, già noti, strumenti di tutela delle persone prive, in tutto o in parte, di autonomia, secondo un
criterio (peraltro opinabile, ed invero
oggetto di malcelate contestazioni degli
operatori e di aperte critiche da parte della dottrina già all’indomani della entrata
in vigore della legge 6/2004) che sembra
lasciare in ombra la linea di demarcazione tra le diverse figure, la quale deve,
invece, necessariamente trovare una sua
identificazione al fine di evitare la confusione tra gli ambiti di operatività dei singoli strumenti di protezione. Ché, ove si
generasse una siffatta confusione,
dovrebbe concludersi nel senso che irragionevolmente il legislatore abbia operato una duplicazione di istituti sostanzialmente coincidenti: conclusione, invece,
già esclusa dalla Corte costituzionale, la
quale, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale, tra l’al-
74
tro, degli articoli 404, 405, numeri 3 e 4, e
409 Cc nel testo introdotto dalla legge
6/2004, sollevata proprio sotto il profilo
della mancata indicazione di chiari criteri
selettivi per la distinzione dell’amministrazione di sostegno dalla interdizione e
dalla inabilitazione, ha sottolineato che la
nuova disciplina affida al giudice il compito di individuare l’istituto che garantisca
la tutela più adeguata, limitando la capacità del soggetto nella minore misura
possibile, e di ricorrere alla interdizione
solo se non ravvisi interventi di sostegno
idonei ad assicurare tale protezione (sentenza 440/05). Per ciò che concerne, in
particolare, il discrimen tra amministrazione di sostegno ed interdizione, rilevante ai fini della decisione cui è chiamata la Corte, esso è stato individuato dai
primi commentatori della legge n. 6 in un
criterio “quantitativo”, correlato, cioè, al
diverso grado di incapacità manifestato
dal soggetto di cui si tratta, ritenendosi
corrispondere ad una minore gravità della patologia invalidante la meno invasiva
misura dell’ amministrazione di sostegno, e, per converso, ad una maggiore
gravità della infermità la interdizione.
Soluzione, questa, a prima vista piana e
ragionevole, ma che, a ben vedere, finisce con il mettere in ombra la specificità
dell’istituto in esame, trascurando una
serie di elementi di interpretazione offerti
dalla lettera e dallo spirito della legge.
Anzitutto, dall’esame testuale delle già
richiamate disposizioni che rispettivamente fissano i presupposti dei due isti-
AIAF RIVISTA 2/2006
tuti emerge quello che costituisce uno
dei punti cardine della legge, e cioè la
estensione del regime di protezione degli
incapaci a soggetti che sono impossibilitati a provvedere ai propri interessi anche
per cause diverse dalla infermità di mente, quali la infermità fisica e la menomazione fisica e psichica (soggetti tra i quali possono menzionarsi, a titolo esemplificativo, i portatori di handicap), i quali
non sono in nessun caso assoggettabili
ad interdizione. ma, per effetto della definizione contenuta nell’articolo 404 Cc,
beneficiari dell’amministrazione di sostegno sono altresì i soggetti affetti da infermità psichica che li pone in una situazione di «impossibilità, anche parziale o
temporanea, di provvedere al propri interessi». ora, a prescindere dall’uso del termine «impossibilità» - che, pur diversificandosi sul piano lessicale dal concetto
di incapacità cui è fatto riferimento nella
disposizione dell’articolo 414 Cc in tema
di interdizione, non sembra costituire un
reale segnale di graduazione della disabilità -, la prevista possibilità di ricorso
all’amministrazione di sostegno anche
nei casi di infermità (o menomazione, fisica o psichica), determinante una impossibilità anche parziale o temporanea di
attendere efficacemente ai propri interessi sicuramente non ne esclude l’ammissibilità ove questa sia invece totale o permanente. in questo secondo caso, non
appare configurabile una sostanziale differenza tra i presupposti dei due strumenti di tutela sulla base della diversa
gravità della impossibilità, o incapacità,
di provvedere ai propri interessi. Del
resto, la ricordata disposizione dell’articolo 427, comma 1, Cc, con il prevedere
la possibilità di stabilire che taluni atti di
ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall’interdetto senza l’intervento, o con la semplice assistenza, del
tutore, ha ritenuto ammissibile l’adozione
di un provvedimento di interdizione in
presenza di un grado di incapacità non
assoluta. 6. E, dunque, il criterio quantitativo non sembra, di per sé solo, offrire
un utile strumento di distinzione tra i presupposti per l’amministrazione di sostegno e quelli per la interdizione. A tale
scopo, occorre piuttosto valorizzare l’inciso contenuto nell’articolo 414 Cc, che
MAGGIO - AGOSTO 2006
collega la interdizione alla necessità di
assicurare l’adeguata protezione del
soggetto maggiore di età che si trovi in
condizioni di abituale infermità di mente
che lo renda incapace di provvedere ai
propri interessi, ciò che equivale ad affermare che l’ordito normativo esclude che
si faccia luogo alla interdizione tutte le
volte in cui la protezione del soggetto
abitualmente infermo di mente, e perciò
incapace di provvedere ai propri interessi, sia garantita dallo strumento della
amministrazione di sostegno. Sicché,
parte della dottrina, muovendo dal presupposto del carattere del tutto residuale
della misura della interdizione, ormai
destinata a collocarsi quale extrema ratio
cui ricorrere in casi limite, è giunta a mettere in discussione la scelta legislativa di
mantenere comunque in vigore l’istituto
de quo, additando come esempio cui
ispirarsi la esperienza di alcuni Paesi
europei, che lo hanno definitivamente
ripudiato, siccome una sorta di “marchio”, in favore di strumenti più moderni
e rispettosi della dignità dell’individuo.
Deve, allora, concludersi che il legislatore ha inteso configurare uno strumento
elastico, modellato a misura delle esigenze del caso concreto, che si distingue dalla interdizione non sotto il profilo
quantitativo, ma sotto quello funzionale:
ciò induce a non escludere che, in linea
generale, in presenza di patologie particolarmente gravi, possa farsi ricorso sia
all’uno che all’altro strumento di tutela, e
che soltanto la specificità delle singole
fattispecie, e delle esigenze da soddisfare di volta in volta, possano determinare
la scelta tra i diversi istituti, con l’avvertenza che quello della interdizione ha
comunque carattere residuale, intendendo il legislatore riservarlo, in considerazione della gravità degli effetti che da
esso derivano, a quelle ipotesi in cui nessuna efficacia protettiva sortirebbe una
diversa misura. In via generale, può affermarsi che la scelta - che va effettuata dal
giudice sulla base dei dati a sua conoscenza, e nell’esercizio della quale questi
deve essere guidato da quella che è stata sopra (v. sub 3) individuata, alla stregua dell’articolo 1 della legge 6/2004,
come la funzione della legge, quella,
cioè, di provvedere, con interventi di
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
sostegno, e con il minor sacrificio possibile della rispettiva capacità di agire, alla
cura delle persone prive di autonomia
nell’espletamento delle funzioni della vita
quotidiana - non può non essere influenzata dal tipo di attività che deve essere
compiuta in nome del beneficiario della
protezione, Ad un’attività minima, estremamente semplice, e tale da non rischiare di pregiudicare gli interessi del soggetto - vuoi per la scarsa consistenza del
patrimonio disponibile, vuoi per la semplicità delle operazioni da svolgere (attinenti, ad esempio, alla gestione ordinaria
del reddito da pensione), e per l’attitudine del soggetto protetto a non porre in
discussione i risultati dell’attività di sostegno nei suoi confronti -, e, in definitiva,
ad una ipotesi in cui non risulti necessaria una limitazione generale della capacità del soggetto, corrisponderà l’amministrazione di sostegno, che si fa preferire non solo sul piano pratico, in considerazione dei costi meno elevati e delle
procedure più snelle, ma altresì su quello etico-sociale, per il maggior rispetto
della dignità dell’individuo che, come si è
osservato, essa sottende, in contrapposizione alle più invasive misure dell’inabilitazione e della interdizione, che attribuiscono uno statue di incapacità, concernente, nel primo caso, i soli atti di straordinaria amministrazione, ed estesa, per
l’interdizione, anche a quelli di amministrazione ordinaria. Detto status non è,
invece, riconoscibile in capo al beneficiario dell’amministrazione di sostegno, al
quale viene comunque assicurata la possibilità di compiere, ove ne sia in grado,
quelle attività nelle quali si estrinseca la
c.d. contrattualità minima, attraverso il
riconoscimento allo stesso, a norma dell’articolo 409, comma 2, della legge n. 6,
della possibilità di compiere gli atti
necessari a soddisfare le esigenze della
propria vita quotidiana. Per converso,
ove si tratti - sempre, ovviamente, che il
soggetto si trovi l’in condizioni di abituale indennità, che lo renda incapace di
provvedere ai propri interessi - di gestire
un’attività di una certa complessità, da
svolgere in una molteplicità di direzioni,
ovvero nei casi in cui appaia necessario
impedire al soggetto da tutelare di compiere atti pregiudizievoli per sé, eventual-
mente anche in considerazione della permanenza di un minimum di vita di relazione che porti detto soggetto ad avere
contatti con l’esterno, ovvero in ogni altra
ipotesi in cui il giudice di merito, con una
valutazione che compete a lui solo e che
è incensurabile in sede di legittimità, se
logicamente e congruamente motivata,
ritenga lo strumento di tutela apprestato
dalla interdizione l’unico idoneo ad assicurare quella adeguata protezione degli
interessi della persona che la legge
richiede, è quest’ultimo, e non già l’amministrazione di sostegno, l’istituto che
deve trovare applicazione. Né osta a siffatta impostazione il rilievo che l’amministrazione di sostegno postula un continuo confronto tra il beneficiario, l’amministratore e il giudice, attraverso la già
esaminata previsione, ad opera dell’articolo 410 Cc, della informazione al primo
(o al giudice in caso di dissenso)da parte del secondo degli atti da compiere,
che sembra presupporre un certo grado
di consapevolezza da parte del beneficiario. L’argomento non ha carattere
decisivo, dovendosi ritenere detta previsione riferibile alle sole ipotesi in cui un
dialogo sia concretamente possibile per
le condizioni psico-fisiche del beneficiato, e non operativa in caso contrario. Del
resto, la non imprescindibili del consenso del beneficiario risulta desumibile
anche dalla considerazione che, in caso
di dissenso con quest’ultimo, l’amministratore informa il giudice tutelare per l’adozione dei provvedimenti ritenuti necessari. L’evidenziato criterio del tipo di attività da compiersi in nome del beneficiario, quale elemento di valutazione ai fini
della scelta dello strumento meglio
rispondente alle esigenze di tutela dello
stesso, non esclude, peraltro, la necessità della considerazione, in via concorrente, di quelli concernenti la gravità e la
durata della malattia, ovvero la natura e
la durata dell’impedimento.
7. Va, conclusivamente, alla stregua delle considerazioni fin qui svolte, affermato
il seguente principio di diritto: «l’amministrazione di sostegno, introdotta nell’ordinamento dall’articolo 3 della legge
6/2004 - ha la finalità di offrire a chi si trovi nella impossibilità, anche parziale o
temporanea, di provvedere ai propri inte75
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
ressi uno strumento di assistenza che ne
sacrifichi nella minor misura possibile la
capacità di agire, distinguendosi, con
tale specifica funzione, dagli altri istituti a
tutela degli incapaci, quali la interdizione
e la inabilitazione, non soppressi, ma
solo modificati dalla stessa legge attraverso la novellazione degli articoli 414 e
417 del Cc. Rispetto ai predetti istituti,
l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno va individuato con
riguardo non già al diverso, e meno
intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del
soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore capacità di tale strumento di adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa
procedura applicativa. Appartiene all’
apprezzamento del giudice di merito la
valutazione della conformità di tale misura alle suindicate esigenze, tenuto conto
essenzialmente del tipo di attività che
deve essere compiuta per conto del
beneficiario, e considerate anche la gravità e la durata della malattia, ovvero la
natura e la durata dell’impedimento, nonché tutte le altre circostanze caratterizzanti la fattispecie».
8. Nella specie, la valutazione operata
dalla Corte d’appello di Salerno si snoda
attraverso un percorso argomentativi che
deve, ai sensi dell’articolo 384, comma 2,
Cpc, essere corretto, siccome affetto dall’errore di diritto consistente nel ritenere
che il discrimen tra il campo di applicazione della misura dell’amministrazione
di sostegno e quello della interdizione
vada ravvisato esclusivamente nella sussistenza o meno di una residua autonomia e capacità del beneficiario, tali da
consentire allo stesso di formulare richieste in ordine alle decisioni che lo riguardano ed all’amministratore di informarlo
dei diversi atti da compiere. Tuttavia, il
dispositivo del decreto impugnato risulta
conforme a diritto, avendo la Corte d’appello valorizzato, ai fini della propria decisione, non già la sola condizione fisica
del soggetto di cui si tratta - peraltro
descritta come totalmente, pur se non
reversibilmente, invalidante, e tale da
non consentirgli di provvedere autonomamente ad alcun atto della vita -, ma
76
altresì la complessità degli atti da compiere per suo conto, avuto anche riguardo alla pregressa attività professionale
svolta dall’infermo sino al momento precedente l’insorgenza della patologia dalla quale lo stesso risulta affetto: si da
indurre a ritenere che solo un provvedimento di interdizione possa, nella specie, tutelare adeguatamente gli interessi
del F..
9. Il ricorso va, pertanto, rigettato. Peraltro, in considerazione della particolarità
della fattispecie, nonché della assoluta
novità della questione di diritto che, con
il ricorso, è stata sottoposta all’esame di
questa Corte, si stima equo disporre la
compensazione delle spese del giudizio
di legittimità. PQM
La Corte rigetta il ricorso. Compensa tra
le parti le spese del giudizio di legittimità.
PERSONE FISICHE - CAPACITÀ AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO INTERDIZIONE - AMBITO APPLICATIVO.
TRIBUNALE DI MILANO - SEZIONE
NONA CIVILE - UFFICIO TUTELE, sentenza 21 febbraio - 21 marzo 2005, n.
3289
Svolgimento del processo
Con ricorso notificato il 22.1.2003, i
coniugi X e Y chiedevano a questo Tribunale pronuncia di inabilitazione nei confronti della figlia Z, nata il _____, affetta
dall’età adolescenziale da “grave disturbo borderline di personalità ed esotossicosi cronica”, patologie che ne avevano
determinato diversi ricoveri in divisioni
psichiatriche e che ne avevano comportato il riconoscimento, il 13.9.2000, di
invalidità civile totale e permanente; facevano presente che la figlia, pur conducendo una vita per certi aspetti normale,
aveva “limitata percezione delle situazioni, …frequentava persone indistintamente accettate nella sua sfera di conoscenze, …non sempre dimostrava di avere
sufficiente consapevolezza del denaro e
del suo corretto utilizzo, …situazione
aggravata dall’eccessivo ricorso ai farmaci e a bevande alcoliche”. Indicavano
nella cugina W la persona che, in qualità
di curatore, potesse assistere Z ed aiu-
AIAF RIVISTA 2/2006
tarla ad amministrare al meglio il suo
attuale e soprattutto futuro patrimonio,
quale unica figlia degli istanti.
Il Giudice Istruttore designato per il giudizio, alla presenza del Pubblico Ministero,
procedeva il 10.4.2003 ad un colloquio
con Z, e all’esito, accogliendo l’istanza
dei ricorrenti, e su parere conforme del
P.M., nominava a Z quale curatore provvisorio la cugina W, decisione su cui conveniva la stessa Z (“…in questo momento posso essere d’accordo ad avere un
curatore che mi controlli nelle spese più
importanti anche se ciò non mi piace
…sono d’accordo che possa essere
curatore mia cugina W con cui ho un
buon rapporto…”).
Sulle conclusioni precisate dalle parti il
10.6.2003, il G.I. rimetteva la causa al Tribunale in composizione collegiale per la
decisione, ma il Collegio, recependo le
conclusioni del Pubblico Ministero, che
ravvisava nell’inabilitazione una misura
insufficiente di tutela per la Z chiedeva un
approfondimento della sua condizione
psichica, con ordinanza del 6.10.2003
disponeva l’espletamento di CTU medico-psichiatrica sulla persona della convenuta, incaricandone la dott.ssa xxxxx
di Milano.
Acquisito l’elaborato peritale il 19.1.2004
e nuovamente rimessa la causa al Collegio, concludeva il P.M. il 10.5.2004 per
una pronuncia d’interdizione di Z, e il
Collegio, con ordinanza del 17.5.2004,
poneva a carico del P.M. l’onere di notifica alla convenuta della nuova domanda
posta.
Notificata a Z la domanda d’interdizione
l’11.6.2004, alla successiva udienza del
5.10.2004 il legale dei ricorrenti rappresentava l’intenzione degli stessi di rinunciare alla domanda di inabilitazione e
richiedere nomina di Amministratore di
Sostegno, alla luce della L.9.1.2004 n.6
medio tempore entrata in vigore.
Alla successiva udienza del 2.12.2004
fissata per la precisazione delle conclusioni, i ricorrenti, riferendo di ricoveri
anche recenti della figlia (“l’ultimo dal 20
al 22 ottobre 2004… il precedente era del
9 ottobre…”), producendo documentazione medica aggiornata, rappresentando “fasi alterne e imprevedibili di compenso e scompenso… utilizzo spesso
MAGGIO - AGOSTO 2006
incongruo di farmaci… non rispetto delle
indicazioni terapeutiche”, ulteriormente
preoccupati per la facile influenzabilità
della figlia, per le sue continue richieste
di denaro motivate da esigenze del compagno, e per la richiesta di matrimonio di
quest’ultimo, che temevano unicamente
interessato all’acquisto della cittadinanza
italiana e alle aspettative economiche,
formalizzavano domanda di interdizione
di Z, in ciò aderendo alla domanda del
P.M..
Sulle conclusioni precisate il 2.12.2004
come riportate in epigrafe, il G.I. rimetteva quindi la causa al Collegio per la decisione, dando termine di giorni 60 per il
deposito di memoria conclusionale e di
ulteriori giorni 20 per eventuale memoria
di replica. In data 15.2.2005 venivano
acquisite le conclusioni del Pubblico
Ministero.
Motivi della decisione
Ritiene il Collegio sia fondata, e meriti
pertanto accoglimento, la domanda d’interdizione di Z, quale da ultimo concordemente proposta dai ricorrenti e dal
Pubblico Ministero.
Grave è invero il disturbo mentale che
affligge Z e che, esordito all’età di 15 anni
con connotati di tipo depressivo, risulta
essersi progressivamente stabilizzato e
intensificato, associandosi all’uso incongruo di farmaci, alcol e sostanze cannabinoidi, venendo oggi inquadrato dalla
CTU dott.ssa xxxx in un Disturbo di Personalità Borderline, Disturbo da Uso di
Sostanze, Disturbo Depressivo Maggiore
ricorrente.
Le buone abilità cognitive, il valido giudizio di realtà, la capacità relazionale che il
CTU nella parte conclusiva riconosce alla
Z, la quale saprebbe condurre in autonomia la quotidiana gestione della sua vita,
della sua casa e del denaro che riceve
dai genitori (considerazioni che giustificherebbe ad avviso del CTU una pronuncia di sua inabilitazione), sembrano tuttavia contraddette dagli stessi rilievi del
perito quando, proprio nel menzionare la
buona capacità di giudizio (pag.12 CTU),
osserva che “tuttavia il raggiungimento di
una piena capacità di critica è talora invalidato dalla incompleta elaborazione della realtà, di modo che la Z, ad una più
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
approfondita valutazione psicopatologica, pur intensa e sintonica nello spiegare
il proprio disagio, e anche bene informata su aspetti scientifici e medici, risulta
non pienamente consapevole verso la
malattia, la necessità di cure, la propria
scarsa autonomia… banalizza la condotta di abuso, esitando a inquadrarla come
sintomo importante del disturbo e sottolineandone piuttosto il valore compensatorio … esclude che l’abuso di sostanze
possa porla in una condizione di vulnerabilità verso agiti incongrui (pag.13 CTU).
Parimenti, quanto alla capacità relazionale, si legge nella CTU (pag.12) che la
modalità relazionale appare instabile…
incline a fasi di idealizzazione e svalutazione, orientata alla dipendenza così
come pronta a distacchi bruschi e drammatici… l’unico legame affettivo importante è con i genitori, dai quali si sente
amata, supportata, accudita… da circa
un anno convive con un uomo di origine
tunisina… descrive la relazione come
preziosa ma difficile… il compagno non
lavora, economicamente è da lei dipendente… la esclude dalle proprie relazioni, è spesso nervoso o anche violento.
La stessa capacità gestionale è estremamente ridimensionata ove si consideri
(pag.13 CTU) che la Z si limita a gestire
la somma mensile di Euro 800,00 circa
che le viene data su richiesta in quote
dilazionate, mentre non si occupa del
mantenimento della casa, integralmente
delegato ai genitori, non sa quantificare
quanto sia il valore dell’appartamento, né
a quanto ammontino le spese necessarie
per la cura e per le tasse di proprietà…
dice di non essersi mai occupata della
gestione del denaro, se non per le piccole spese quotidiane, di non aver mai fatto domande ai genitori, non è mai andata in posta a pagare una bolletta, non ha
mai fatto un assegno o un bonifico bancario… lo dice con tristezza e rassegnazione, cogliendo l’inadeguatezza del
comportamento, ma anche precisando il
proprio disinteresse per le questioni economiche e più in generale il proprio desiderio di non occuparsi di qualunque
cosa richieda una pianificazione.
Il CTU infine, nel motivare come adeguata e sufficiente una pronuncia di inabilitazione, valorizza il fatto che la Z(pag.14),
pur incostante nell’accettazione delle
cure, negli ultimi giorni si è rivolta ai
medici e ha ripreso i controlli, i farmaci, la
psicoterapia (ciò nel gennaio 2004, mentre fino a dicembre 2003 diceva di aver
interrotto sia il trattamento psichiatrico
con medico del Policlinico sia la psicoterapia, di regolarsi da sé con gli psicofarmaci, di proseguire l’uso massiccio di
hashish e alcol con il fine di tranquillizzarsi -pag.10), da ultimo osservando
(pag.15) che in ogni caso la prognosi
della malattia è legata all’accettazione
delle cure, e che non può escludersi un
aggravamento del disturbo mentale, in
quanto il nucleo psicopatologico del
disturbo borderline è la significativa
instabilità psichica e l’associato abituale
uso di sostanze è ulteriore situazione
patologica in grado di ridurre l’abilità del
soggetto di autodeterminarsi.
Ecco pertanto che la più recente situazione clinica di Z, quale rappresentata
con sofferenza dai genitori all’udienza
del 2.12.2004, induce a rivedere criticamente le indicazioni conclusive del CTU,
riemergendo l’oppositività della donna
alle indicazioni terapeutiche, la persistente assunzione incongrua di farmaci e
alcol come decisione autonoma in risposta alle frequenti e intense crisi d’ansia, i
recenti ricoveri (due nello stesso mese di
ottobre) o gli interventi medici accettati
solo nella fase più acuta della sofferenza,
la contrarietà ad un ricovero prolungato,
nei termini proposti dai genitori e dalla
cugina, per attuare una disintossicazione
e avviare una terapia più stabile; tale
quadro trova conferma anche nella documentazione medica da ultimo prodotta,
Fogli di Pronto Soccorso rispettivamente
del 9.10.2004, ove si certifica “abuso di
Tavor senza sollievo per l’ansia che la
prende nei problemi di rapporto col convivente” e si menziona un precedente
ricovero in luglio in reparto psichiatrico
con interruzione della frequenza dell’ambulatorio terapeutico, e del 31.10.2004
ove si legge “abuso di alcolici in attacco
d’ansia… abuso di DBZ…”.
Quanto sopra appare in netta antitesi con
la valutazione di buone abilità cognitive o
valido giudizio di realtà espressa dal
CTU, e depone per una pronuncia che
ponga al riparo la Z dal suo stesso agire,
77
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
ovvero da quelle capacità valutative e
volitive fortemente compromesse che in
primo luogo le impediscono di comprendere la portata della malattia e le possibilità di cura, e secondariamente, ma in termini altrettanto pregiudizievoli, la espongono a situazioni relazionali di acritica
delega o dipendenza senza comprenderne, o saperne arginare, possibili intenti
altrui di indebito profitto sotto profili sia
personali sia patrimoniali.
In tale situazione si reputa che la richiesta pronuncia di interdizione di Z, escludendo sotto il profilo giuridico che la
stessa possa azionare a proprio danno,
in qualunque ambito sia personale sia
patrimoniale, una capacità legale di agire
non sorretta da valide capacità intellettive
e volitive, sia la più adeguata misura di
protezione, ove peraltro si accompagni,
nei termini consentiti dal nuovo dettato
normativo di cui all’art.427 c.1 c.c. come
integrato con L.9.1.2004 n.6, alla possibilità di compiere in autonoma taluni atti di
ordinaria amministrazione, che coincidano con quelli di fatto sino ad oggi posti in
essere (ossia l’utilizzo di quote di denaro
che le provengano periodicamente dai
genitori o dal tutore).
Nel raffronto d’altro canto di tale strumento di tutela con quella differente
misura di protezione introdotta con la
citata L.6/2004, consistente nella nomina
di Amministratore di Sostegno (pronuncia che l’innovato art.418 c.3 c.c. consentirebbe anche in assenza di istanza di
parte), ritiene il Collegio che quest’ultima
possa rivelarsi insufficiente nel caso di
specie. Trattandosi invero di nomina di
soggetto legittimato ad assistere o rappresentare l’incapace nei soli atti (o tipologia di atti) che lo stesso non sia in grado di compiere, quali necessari ed esattamente indicati nel decreto di nomina, e
derivandone solo per tali atti, ai sensi
degli artt.409 e 412 c.c., l’incapacità dello stesso di procedere in via autonoma,
con conseguente annullabilità dell’atto
compiuto senza assistenza o rappresentanza dell’a.d.s., tale misura si reputa sufficiente per soggetti con specifiche incapacità (in grado di esplicitare adeguatamente valide capacità residue) ovvero
anche per soggetti del tutto privi di capacità, quando siano nell’impossibilità
78
materiale di relazionarsi autonomamente
con l’esterno e quindi di porre in essere
comportamenti idonei a produrre effetti
giuridici e negoziali, mentre può rivelarsi
tutela inadeguata ove sia necessario inibire al soggetto di esplicitare all’esterno
capacità viziate che espongano sé od
altri a possibili pregiudizi.
In altre parole si potrebbe dire che l’intervento dell’A.d.S. sembra sufficiente per
soggetti anche del tutto incapaci, ove sia
necessario attribuire a un terzo quei soli
specifici poteri, in sostituzione dell’incapace, che gli consentano di soddisfare le
ricorrenti e ben individuabili esigenze
personali o patrimoniali dell’incapace
stesso, mentre sia inutile estenderne la
sostituzione a restanti atti che comunque
l’incapace non potrà mai compiere in
quanto materialmente non in grado, e cui
pertanto non è necessario estendere l’effetto di annullabilità ove compiuti in autonomia. L’intervento dell’A.d.S. può invece presentarsi insufficiente misura di protezione per quei soggetti la cui mantenuta capacità di relazionarsi con l’esterno,
ma viziata sotto il profilo della consapevolezza o volontà, li espone a compiere
atti in ogni direzione dai quali possano
derivarne effetti giuridici dannosi, non
immediatamente annullabili ove non
compresi nell’elenco di poteri riconosciuti all’Amministratore.
Nel caso di specie Z, per quanto sopra
accertato, non solo presenta capacità
intellettive e volitive fortemente compromesse, che le impediscono di rapportarsi alla realtà con consapevolezza e
discernimento e di assumere le più
opportune decisioni di gestione della sua
persona e del suo patrimonio, ma, sempre come effetto della patologia, si pone
in atteggiamento non collaborante, passivo od oppositivo, nei confronti di chi le
indichi vie di cura, e si relaziona all’esterno con capacità viziate che la espongono ad atti di circonvenzione di chi ne
voglia ottenere indebiti vantaggi personali o patrimoniali. Sintomatico è il difficile rapporto instaurato con il compagno,
nei cui confronti non esplicita parole di
affetto, descrivendone piuttosto le richieste economiche o il comportamento
assente, nervoso e violento (da cui
anche l’acuirsi delle sue crisi d’ansia),
AIAF RIVISTA 2/2006
ma che non riesce ad allontanare da sé,
o piuttosto non vuole, non comprendendo o sottovalutando che lo stesso possa
mirare unicamente a vantaggi personali
(del tutto verosimile è che la stessa
richiesta di matrimonio, di cui da ultimo
riferiscono i genitori, sia motivata da sole
aspettative di cittadinanza o di arricchimento econo mico, non ravvisando i
ricorrenti sincero trasporto affettivo nel
suo comportamento sempre assente,
ancorchè sia persona senza lavoro, e
traendosene conferma dalle stesse parole della Z quando lamenta al CTU che la
esclude dalle proprie relazioni, è spesso
nervoso o anche violento).
Figlia unica di genitori abbienti, la comprensibile preoccupazione di questi ultimi
è che la futura acquisizione di un consistente patrimonio possa accrescere il
rischio che Z, non solo non lo sappia
gestire, ma possa divenire sempre più
oggetto di indebite circonvenzioni, ancorchè mascherate da false attenzioni o interessamento affettivo, che la stessa non
sia in grado di riconoscere o arginare.
Se pertanto, al fine di garantire la più
completa protezione della persona incapace, i poteri dell’Amministratore di
Sostegno devono estendersi, sia a decisioni personali inerenti la cura del soggetto, sia a qualunque tipologia negoziale,
con il rischio di riportare un elenco incompleto di atti, residuandone altri non previsti che sfuggano agli effetti di annullabilità
di cui agli artt.409 e 412 c.c. (rimarrebbe
sempre l’impugnabilità ex art.428 c.c., ma
subordinata alla prova di malafede dell’altro contraente), e se ci si trova a dover
integrare detta misura richiamando, ex
art.411 c.c. e sempre a fini di tutela,
disposizioni previste per l’interdetto (quali l’incapacità di contrarre matrimonio art.85 c.c., di testare -art.591 c.c., di
donare -art.774 c.c.), la sovrapposizione
di contenuto dei due istituti di amministrazione di sostegno e di interdizione
induce a privilegiare quest’ultimo, che
annulla ogni possibilità di azione del soggetto a suo danno o ne consente un
immediato annullamento, riconoscendo
alla persona autonomia di azione solo per
specifici atti che si palesino non nocivi.
Si osserva d’altro canto che la modifica,
sia dell’art.414 c.c., nella parte in cui
MAGGIO - AGOSTO 2006
mantiene l’interdizione per i soggetti che
si trovano in condizioni di abituale infermità di mente… quando ciò è necessario
per assicurare la loro adeguata protezione, sia dell’art.427 c.c., ove consente di
stabilire che taluni atti di ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall’interdetto, depongono per una volontà
legislativa di riconoscere all’interdizione
una valenza di protezione necessaria,
non già per soggetti che siano necessariamente del tutto privi di capacità intellettive e volitive (per i quali, come sopra
osservato, potrebbe essere sufficiente
una pronuncia di nomina di A.d.S., indifferentemente prevista dall’art.404 c.c.
per chi si trovi nell’impossibilità anche
parziale o temporanea -e quindi anche
totale o permanente- di attendere ai propri interessi), bensì per soggetti che,
ancorchè in grado di esplicitare capacità
residuali, possano ritenersi adeguatamente protetti, da loro stessi e dagli altri,
solo se li si escluda da qualunque capacità (in ciò si concretizza l’interdizione),
nel senso di impedire che si producano
effetti giuridici quando si attivano con
modalità non sorrette da valide capacità
intellettive e volitive in tutti gli ambiti
(anche non immediatamente prevedibili)
da cui possano derivarne pregiudizi,
riconoscendo loro quei soli ambiti di
azione certamente non nocivi.
Ritornando pertanto al caso di specie, si
ribadisce, per le ragioni sopra esposte, la
necessità di proteggere Z con una pronuncia d’interdizione che, garantendole
la presenza costante di un tutore che la
sostituisca in tutti gli atti di ordinaria e
straordinaria amministrazione, sotto il
controllo dell’Autorità Giudiziaria, la tuteli
nella gestione e conservazione del suo
patrimonio e nell’assunzione di ogni decisione attinente la cura della sua persona,
ponendola ulteriormente al riparo da possibili azioni di raggiro di terzi che mascherino dietro false attenzioni intenti di personale profitto, e che coesista, ex art.427
c.c., con la possibilità riconosciutale di
spendere in autonomia importi periodici.
Tali importi, in linea con la situazione di
fatto rappresentata al CTU dalla stessa Z,
si reputano allo stato congrui, a fronte
delle emerse disponibilità della stessa
quali integrate dalla famiglia, ove riman-
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
gano nell’ambito massimo di Euro 800,00
mensili, sino a che possa accertarsi che
siano destinate ad effettive esigenze di
spesa della stessa o di gestione della
casa, mentre potranno essere ulteriormente ridotti ove il Giudice Tutelare, che
sovrintende alla tutela ex art.344 c.c. e
che si reputa l’autorità giudiziaria competente per i successivi provvedimenti di cui
all’art.427 c.c., dovesse verificarne uno
sconsiderato utilizzo per soli acquisti pregiudizievoli all’interessata (ad esempio
per procurarsi droga o alcol).
Si ritiene infine urgente già provvedere in
questa sede a nominare ad Z un tutore
provvisorio, in persona di quella stessa
cugina W cui era stato riconosciuto l’incarico di curatore e che sembra godere
dell’affetto e della stima di Z, pronuncia
che si reputa consentita anche al Collegio, ancorché con valenza provvisoria,
argomentandosi ai sensi degli artt.717 e
718 c.p.c..
Nessuna pronuncia viene emessa circa
le spese di lite, avendo i ricorrenti espressamente rinunciato a chiederne la rifusione a carico della parte convenuta. Le
spese di CTU, nei termini già liquidati in
corso di causa, rimangono pertanto a
carico dei ricorrenti come da provvedimento già emesso dal Giudice Istruttore
all’udienza del 19.2.2004.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando in contumacia della parte convenuta:
dichiara l’interdizione di Z, nata a Milano il ____ (atto iscritto nei Registri di
nascita di detto Comune, al n.);
nomina tutore provvisorio di Z la sig.ra W,
nata a Milano il _____, ivi residente in,
revocando la nomina della stessa quale
curatore provvisorio;
autorizza Z a spendere in autonomia
importi mensili sino ad Euro 800,00,
ripartiti in quote settimanali.
Manda il Cancelliere ad annotare la presente sentenza nei registri in corso e a
trasmetterne copia autentica all’Ufficiale
di Stato Civile del Comune di Milano, per
gli incombenti di cui al D.P.R. 3.11.2000
n.396, e al Giudice Tutelare per l’avvenuta nomina di tutore provvisorio.
Cosi deciso in Milano, in data 21.2.2005.
CIRCONVENZIONE DI INCAPACE
CASSAZIONE, SEZ. I PEN., sentenza
31marzo 2005, n. 16575
In tema di circonvenzione di persone
incapaci, ai fini della sussistenza dell’elemento dell’induzione debbono essere
presi in considerazione non solo le condotte tenute dall’imputato al momento
della commissione degli atti pregiudizievoli, ma anche tutto ciò che è accaduto
successivamente in quanto indice rivelatore di una antecedente minorata capacità psichica della persona offesa, ed
inoltre la valutazione della condotta non
deve essere limitata all’attività positiva
posta in essere dall’imputato ma deve
essere rivolta anche alla valutazione dei
risultati degli atti di disposizione patrimoniale compiuti che possono dimostrare
indizi sul perpetramento di una induzione
in termini di rafforzamento di una decisione in itinere.
CASSAZIONE, SEZ. II PEN., sentenza
18 novembre 2004, n. 44869
In tema di circonvenzione di persone
incapaci, ai fini della sussistenza dell’elemento dell’induzione, non è necessario
che la proposta al compimento dell’atto
provenga dal colpevole ma è sufficiente
che questi abbia rafforzato, profittando
delle menomate condizioni psichiche del
soggetto passivo, una decisione pregiudizievole dal medesimo già adottata
La prova dell’induzione non deve necessariamente essere desunta da episodi
specifici di suggestione e pressione
morale, ben potendo il convincimento sul
punto esser fondato su elementi indiretti
e indiziari o su prove logiche, tratta dal
complessivo contesto dei rapporti tra le
parti e dagli accadimenti più strettamente connessi al compimento dell’atto pregiudizievole.
CASSAZIONE, SEZ. II PEN., sentenza
19 novembre 1999, n. 13308
Il concetto di induzione nella ipotesi criminosa ex art. 643 c.p. costituisce un
requisito essenziale della condotta commissiva dell’agente, concretandosi in
una apprezzabile attività di pressione psicologica alla quale non può essere nem79
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
meno equiparata la mera richiesta, rivolta al soggetto passivo, di compiere l’atto
giuridico pregiudizievole. In effetti, non
appare rispondente al dato normativo la
tesi che dilata il significato dell’induzione
fino al punto da configurarne la sussistenza anche in una condotta semplicemente omissiva, cioè nel “non essersi
attivato” al fine di impedire l’atto, sia pure
a proprio vantaggio, poiché il detto elemento qualificante del comportamento
materiale dell’agente, nella sua accezione letterale e giuridica, esige pur sempre
un’attività apprezzabile di suggestione,
pressione morale e persuasione per
determinare la volontà minorata del soggetto passivo (ex plurimis, in tal senso,
cfr. Cass., sez. II, n. 183144 del 1990).
PROVVEDIMENTO
DISCIPLINARE
DEL CONSIGLIO NOTARILE DI MILANO
Con comunicazione in data 24 ottobre
2005, protocollata presso il Consiglio
Notarile al n. 2951 del 25 ottobre 2005, il
Procuratore della Repubblica presso il
Tribunale Civile di Milano, in persona del
Sostituto …, ha trasmesso al Consiglio
Notarile di Milano copia della sentenza
penale N. …/05 (N…./2005 R.G.App.) in
data 20.7-20.8.2005 della Corte d’Appello di Milano, resa nei confronti del notaio
… e di altri soggetti, fra i quali un altro
notaio.
Il Pubblico Ministero segnalava che
detta sentenza, nel confermare il proscioglimento di due notai dal reato di falso in
atto pubblico, aveva rilevato - in motivazione - evidenti violazioni ai principi del
comportamento professionale in relazione alla valutazione dello stato di
capacità di una donna molto anziana.
Più precisamente, il Pubblico Ministero
riferiva che la Corte aveva osservato che
i notai, pur essendo senza dubbio tenuti
al compimento di doverose e precise
verifiche, si erano, in realtà, assai scarsamente adoperati, avendo effettuato dette
verifiche in modo del tutto inadeguato o
con grossolana approssimazione, ai limiti della omissione.
Detti notai non apparivano alla Corte tacciabili, con appagante certezza, di dolosa volizione di falsità, ma di colpevole,
gravissima incuria, sia pur penalmente
irrilevante.
Su tali basi, il Pubblico Ministero sollecitava il Consiglio Notarile di Milano a
prendere in esame la vicenda sul piano
disciplinare…
CASSAZIONE, SEZ. II PEN., sentenza
10 giugno 1998, n. 2532
In tema di circonvenzione di persone
incapaci, la giurisprudenza di questa
Corte è costante nell’affermare che se,
da un lato, lo stato di infermità o deficienza psichica della persona non deve
necessariamente consistere in una vera
e propria malattia mentale, esso deve,
d’altro canto, pur sempre provocare una
incisiva menomazione delle facoltà di
discernimento o di determinazione volitiva, tale da rendere possibile l’intervento
suggestivo dell’agente. Deve essere
esclusa, in altre parole, la capacità del
circonvenuto di avere cura dei propri
interessi economici.
Questa condizione di incapacità del soggetto passivo costituisce un presupposto
del reato, con la conseguenza che il giudizio di colpevolezza della persona che
ne abbia abusato può fondarsi soltanto
sull’assoluta certezza della sua sussistenza (cfr. Cass. Pen. Sez. II Sent. 9661 Il Consiglio Notarile, udita la relazione
del Presidente, assume la seguente
dell’11.6-8.10.1992).
decisione.
TRIBUNALE DI MILANO, SEZ. V PEN., 1) In primo luogo appare opportuno riordinare brevemente i fatti e le conclusioni
sentenza 19 dicembre 2002, n. 11690
Non può essere desunta la piena prova raggiunte in sede penale, per poi apprezdella deficienza psichica della persona zarne la rilevanza sotto il diverso angolo
offesa dal delitto di circonvenzione di di visuale proprio del procedimento
incapace dalla “singolarità” del suo disciplinare.
carattere e dall’apparente non giustifica- Il notaio … autenticò, in data 18 febbraio
bilità, secondo le normali regole sociali, 2002, una dichiarazione sostitutiva di atto
notorio sottoscritta da tale signora FF,
dei suoi atti dispositivi.
una donna, all’epoca dei fatti, novanta80
AIAF RIVISTA 2/2006
cinquenne; la dichiarazione sostitutiva
era destinata ad essere utilizzata per il
rientro di capitali illegalmente detenuti
all’estero, fruendo della normativa detta
“Scudo fiscale”.
Quindi, in data 26 marzo 2002, riceveva
un testamento pubblico della FF, col quale era istituito erede universale un certo
signor DD, persona che da lungo tempo
si prendeva cura della persona e dell’amministrazione della testatrice, libera
di stato, senza figli e senza altri parenti
che si facessero carico di lei.
Una denuncia anonima trasmessa alla
Procura della Repubblica da una nota
associazione di volontariato, verosimilmente controinteressata alle disposizioni
testamentarie adottate dalla signora FF,
provocava un procedimento penale per
circonvenzione d’incapace a carico del
DD e un’incriminazione per falso ideologico in atto pubblico a carico del notaio
…, di altro notaio, che aveva ricevuto
qualche tempo prima due procure, nonché dei testimoni intervenuti agli atti
medesimi.
La Procura della Repubblica contestava
al notaio … (e all’altro notaio) l’accusa di
falso ideologico in atto pubblico, restando evidentemente e pacificamente escluso ogni coinvolgimento nei profili di circonvenzione.
Il procedimento, per quanto attiene il presunto circonventore e i testimoni, risulta
essere attualmente pendente in sede di
gravame: le decisioni non definitive sin
qui intercorse hanno però riconosciuto la
sussistenza sia della circonvenzione sia
della falsità degli atti.
La posizione dei notai, invece, è stata
definita con sentenza di non doversi procedere del GUP di Milano del 16 dicembre 2004; il proscioglimento, infatti, è stato confermato in termini - nonostante
l’appello del Procuratore della Repubblica e l’appello incidentale dell’altro notaio
- dalla Corte d’appello di Milano in data
20 luglio 2005, con sentenza ormai passata in giudicato.
Le decisioni sono state precedute da
un’approfondita indagine, nel corso della
quale sono state espletate varie audizioni di medici, badanti, persone in grado di
riferire circostanze utili; nel corso dell’istruttoria sono state eseguite, oltre alla
MAGGIO - AGOSTO 2006
perizia grafologica trasmessa dal P.M. a
questo Consiglio, altre due perizie di parte disposte dalla medesima Pubblica
accusa (psichiatrica e oculistica) e due
perizie psichiatriche di parte disposte dai
difensori dei notai.
Il risultato di tali indagini, effettivamente,
non può dirsi univoco nel senso della
dimostrazione della manifesta incapacità
d’intendere e volere, dato che “in ordine
alla valutazione sullo stato di capacità
della FF (nei primi mesi del 2002) si è
registrata una diversità di vedute tra i
consulenti tecnici delle parti ed anche tra
alcune dichiarazioni testimoniali e documentali di medici che hanno conosciuto
e seguito la FF nei periodi precedenti,
concomitanti e successivi agli atti per cui
si procede.” (così la sentenza del GUP
del 16 dicembre 2004).
Il medesimo GUP, infatti, non ritenendo
acquisita la prova della piena incapacità
della FF, si risolveva ad argomentare la
condanna per circonvenzione e la declaratoria di falsità degli atti su di un concetto più limitato e circoscritto di disturbo
della capacità, una sorta di “incapacità
relativa” ritenuta significativa, non in
generale, ma in rapporto ai singoli atti
che il soggetto andava a compiere.
Per quanto riguarda i notai, sempre ad
avviso del Giudice penale, tale tipo di
patologia della capacità, implicando
comprovati momenti di lucidità (che hanno potuto fare apparire la parte quale
persona lucida), ha provocato un errore
(di fatto) sulla condizione di incapacità,
rilevabile ex art. 47 CP., tale da escludere
che il comportamento posto in essere dai
notai medesimi costituisse reato, per
difetto di dolo.
2) Venendo ai profili disciplinari, occorre
affrontare una questione preliminare.
Dato che, nel confermare il proscioglimento, la sentenza d’appello qualifica
severamente le procedure seguite dal
notaio, distinguendosi sia dal primo giudice, sia - per alcuni aspetti - dallo stesso
Procuratore Generale presso la Corte,
occorre brevemente farsi carico del dubbio che tali affermazioni, contenute in un
provvedimento passato in cosa giudicata, abbiano efficacia pregiudiziale o
comunque vincolante nell’ambito del
presente procedimento.
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
Il Consiglio ritiene che la risposta debba
essere negativa.
Infatti, a parte ogni considerazione di
carattere generale sull’efficacia del giudicato penale in materia disciplinare, nel
caso di specie pare proprio trattarsi di
osservazioni non necessarie all’iter logico della motivazione; esse hanno, pertanto, il carattere di obiter dicta.
Infatti, la decisione della Corte ha statuito
sull’assenza di dolo e non sulla presenza
e gradazione di una ipotizzata situazione
di colpa, elemento estraneo alla ratio decidendi e, a ben vedere, nemmeno oggetto
di accertamento (e di contraddittorio fra le
parti) in sede di giudizio penale.
Il Consiglio, pertanto, ritiene di poter
valutare autonomamente i comportamenti tenuti dal notaio.
3) Sul piano sostanziale, non è in discussione se vi sia stata o meno una procedura di valutazione della capacità, ma se
questa sia stata così inadeguata, omissiva e grossolana, come emergerebbe
dagli apprezzamenti della Corte d’Appello, da esser meritevole di sanzione disciplinare alla luce dell’art. 147 L.N.
Tale valutazione di adeguatezza della procedura seguita e di ragionevolezza della
conclusione raggiunta dal notaio, andrà
effettuata - la precisazione è fondamentale - nel quadro delle norme e della prassi
proprie della funzione notarile.
Come è noto, il notaio è il pubblico ufficiale istituito per ricevere gli atti tra vivi e
di ultima volontà (Art. 1 L.N.) e che egli è
obbligato a prestare il suo ministero ogni
qualvolta ne è richiesto (Art. 27 L.N.).
È chiaro che il notaio è tenuto al diligente accertamento della capacità della parte, che è presupposto logico della stessa
possibilità di esercitare il dovere di indagine della volontà (art. 47 L.N.); peraltro,
non va dimenticato che tale accertamento si inserisce in una realtà operativa e in
un quadro normativo dominato dalla
doverosità della funzione.
Ciò significa che, nei casi dubbi in materia
di capacità, nessuna norma impone al
notaio (e, per la verità, nessuna norma gli
consente) di astenersi per mera prudenza.
Sarebbe illusorio e fuorviante (fatta forse
eccezione per il poco edificante profilo
della preoccupazione del notaio di
esporsi in proprio alle sofferenze di un’in-
dagine penale) invocare in questa materia un preteso “principio di precauzione”.
Infatti, alla luce dell’ordinamento notarile,
il negare indebitamente il proprio ministero può risultare illegittimo, prevaricante e socialmente dannoso tanto quanto il
prestarlo indebitamente.
Questo è un profilo tecnico-giuridico e,
per certi aspetti, umano ed etico, davvero importante, che il Consiglio ritiene di
sottolineare.
Il notaio, dunque, nei casi dubbi in materia di capacità, si trova a dover scegliere
- non di rado in situazioni delicate e dolorose - fra il prestare il proprio ufficio (col
rischio di documentare una volontà
apparente o viziata) e il ricusarlo (col
rischio di conculcare una volontà che,
pur nella malattia o nella debolezza dell’età, ancora sussiste e cerca di esprimersi).
In pratica, è fra Scilla e Cariddi. In questa
scelta, poi, egli è fondamentalmente
solo, non avendo il potere di imporre
accertamenti peritali; inoltre, non può
dilazionare più di tanto il proprio operato,
perché le esigenze pratiche dell’utenza,
le scadenze, il rischio di morte connesso
all’età avanzatissima, come nel caso di
specie, non concedono di attendere che
il notaio - ove mai ne avesse il potere effettui indagini e accertamenti particolarmente approfonditi, senta persone informate dei fatti e disponga perizie.
Il notaio è il pubblico ufficiale istituito per
ricevere gli atti: le sue scelte devono essere compiute in tempi non troppo diluiti,
dedicando all’esame personale delle parti
sedute attente, di durata congrua, ma inevitabilmente contenute entro limiti ragionevoli, nel corso delle quali eventuali
accertamenti e domande collaterali a
comprova della capacità, oltre a dover
convivere con la normale attività di consulenza giuridica e fiscale, con i formalismi
degli atti, non possono avere né il tecnicismo degli esami medico-scientifici, di cui
il notaio non dispone, né un carattere troppo diretto, invasivo o rude, dovendosi pur
sempre contenere entro limiti di garbo e
discrezione, quali si confanno al ruolo
sociale del notaio medesimo.
Nel caso di ultime volontà precedute da
captazione e circonvenzione, quale sembrerebbe essere - almeno stando alle
81
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
sentenze non definitive sin qui maturate quello in oggetto, la posizione del notaio
chiamato a ricevere il testamento del
soggetto passivo del reato si fa ancor più
difficile e vulnerabile.
Come si è detto, nell’indagare le ragioni
che inducono il testatore a disporre in un
certo modo, il notaio non dispone né di
particolari competenze medico-scientifiche, né dei particolari strumenti che invece sono a disposizione, ex post, del Giudice: consulenze tecniche, perizie mediche, testimonianze, acquisizione di cartelle cliniche o di altra documentazione
utile. In questo frangente, il notaio dispone solo della sua sensibilità e dei dati di
comune esperienza per mettersi in contatto con la dimensione culturale ed affettiva del testatore. Peraltro, il tentativo di
stabilire questo contatto sarà falsato nella misura in cui il testatore stesso abbia
assunto a base delle proprie determinazioni le false rappresentazioni dovute
all’attività di circonvenzione. Quelle false
rappresentazioni appariranno come
autentiche anche al notaio, quantunque
abbia fatto uso di tutte le sue doti umane
e di tutti gli strumenti a sua disposizione:
il delitto di circonvenzione di incapace si
è, infatti, già consumato ampiamente prima del suo intervento.
Fra l’altro, il delitto in questione, il più delle volte, si consuma ai danni di chi abbia
una limitata capacità e non di chi ne sia
privo del tutto; sicché le doti di diligenza,
accortezza e prudenza, che pur devono
connotare l’attività del notaio, ben difficilmente potranno svelare un retroscena di
illecito penale, mascherato dall’apparenza di capacità, sul quale molto spesso si
consumeranno tre gradi di giudizio per
accertare la verità.
Rimproverare, col senno di poi, al notaio
di non aver messo in campo capacità
diverse e superiori significherebbe attribuirgli compiti impossibili ovvero mortificare la sua stessa funzione, inducendolo
a rinchiudersi in un costante rifiuto di
ricevibilità tutte le volte che il testatore
appaia soffrire di una qualche limitazione
della capacità di intendere e volere. Il tutto, portato alle estreme conseguenze,
significherebbe per il notaio rifiutare “prudenzialmente” il proprio ministero tutte le
volte che si trovi di fronte ad una persona
82
anziana, il cui stato soggettivo, com’è
noto, presenta molto spesso un indebolimento del potere di critica e di quello
volitivo.
Non sembra ragionevole che l’ordinamento, dopo aver chiaramente posto
l’accento sul principio di doverosità della
funzione notarile (art. 27 L.N.), ne legittimi poi la sistematica vanificazione.
Il notaio può affidarsi solo al suo intuito e
alle regole di comune esperienza e, tutte
le volte che abbia acquisito la convinzione dell’esistenza di un accettabile livello
di capacità, deve riconoscere dignità alla
persona che ha di fronte e assicurarle il
diritto alla documentazione e conservazione della volontà.
Ad altri, in un’equilibrata distribuzione di
poteri e funzioni, spetterà l’eventuale compito di verificare, al di là della situazione
apparente, l’assenza di profili di incapacità nella formazione di quel volere.
Infatti, è inevitabile che l’accertamento
della capacità delle parti degli atti notarili, nelle sedi a ciò deputate e nei casi previsti dalla legge, possa essere ex post
sottoposto a giudizio, anche severo,
impietoso e approfondito, con gli strumenti, ben più potenti, di cui fruiscono la
magistratura e, per qualche aspetto, le
stesse parti private nell’ambito dei procedimenti giudiziari.
Ciò non significa, peraltro, che a un successivo giudizio d’incapacità della parte
debba necessariamente conseguire la
sanzionabilità del notaio.
È chiaro che il notaio deve industriarsi di
individuare i casi di incapacità e, raggiunta in coscienza la piena convinzione
di trovarsi di fronte a persona che non
comprende e non vuole, astenersi dal
prestare il proprio ufficio; le sue scelte e
determinazioni, peraltro, andranno giudicate alla stregua del contesto pratico e
normativo in cui si trova a operare, tenendo conto delle regole, dei mezzi e dei
poteri propri della sua funzione.
Al fine della sanzionabilità disciplinare
occorre dunque la prova di un quid pluris,
rispetto all’errore sulla capacità, ossia di
una colpevole incuria nell’esame della
parte o di una irragionevole disponibilità a
prestare il proprio ufficio pur in presenza
di una situazione di incapacità evidente.
Alla luce di quanto precede, le risultanze
AIAF RIVISTA 2/2006
dell’istruttoria disciplinare, sia derivanti
dalla produzione documentale, sia emerse dalla personale audizione dell’interessata, non paiono al Consiglio sufficienti
per ritenere raggiunta tale prova.
Risulta dalle dichiarazioni rese nel presente procedimento, dalle conformi risultanze dell’interrogatorio avanti il PM e, in
genere, dal complesso degli accertamenti processuali in sede penale, che il
notaio ebbe presente il problema dello
stato mentale della parte, se ne fece carico assumendo informazioni preventive,
nel corso delle quali richiese anche certificazioni mediche sulla
capacità della parte; in sede di esame
diretto, cercò di farsi un’idea propria,
interrogando la parte, accertandosi della
sua capacità di riconoscere le persone e
di comprendere il contenuto degli atti
che si andavano a porre in essere.
Infine, sul piano della ragionevolezza della decisione di ricevere gli atti, va considerato che, come si è sopra rilevato, le
risultanze del procedimento penale hanno evidenziato diversità di vedute tra i
consulenti tecnici delle parti ed anche tra
alcune dichiarazioni testimoniali documentali sulla valutazione sullo stato di
capacità della parte nei primi mesi del
2002.
Risulta, insomma, dagli esiti del procedimento penale che la FF era soggetto
capace perlomeno a sprazzi o per lucidi
intervalli e manca la prova del fatto che
essa, in occasione della sottoscrizione
della dichiarazione sostitutiva e del testamento di cui è causa, si trovasse in un
momento di evidente
incapacità.
Considerato tutto questo, il Consiglio
Notarile di Milano non ritiene sufficientemente dimostrato il ricorso dei comportamenti grossolanamente inadeguati,
omissivi o irragionevoli contestati al
notaio,
PQM
all’unanimità delibera di assolvere il
notaio … dall’incolpazione in oggetto.
(http://www.federnotizie.org/2006)
MAGGIO - AGOSTO 2006
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
SENATO DELLA REPUBBLICA - XIV LEGISLATURA
DOCUMENTO APPROVATO DALLA 12ª COMMISSIONE PERMANENTE (Igiene e sanità)
nella seduta del 14 febbraio 2006
Relatrice BOLDI
A CONCLUSIONE DELL’INDAGINE CONOSCITIVA
proposta dalla Commissione stessa nella seduta del 22 novembre 2005; svolta nelle sedute
del 14 dicembre 2005, 17 gennaio 2006, 18 gennaio 2006, 24 gennaio 2006, 31 gennaio
2006, 1º febbraio 2006, 7 febbraio 2006, 8 febbraio 2006 e conclusasi nella seduta del
14 febbraio 2006
SULLO STATO DELL’ASSISTENZA PSICHIATRICA IN ITALIA
E SULL’ATTUAZIONE DEI PROGETTI OBIETTIVO PER LA
TUTELA DELLA SALUTE MENTALE
(articolo 48, comma 6, del Regolamento)
Comunicato alla Presidenza il 9 marzo 2006
A distanza di trent’anni dall’entrata in vigore della legge 13 maggio 1978, n. 180, «Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e
obbligatori», la Commissione igiene e sanità del Senato, accogliendo le sollecitazioni provenienti dalle società scientifiche, dal
mondo dell’associazionismo e dalle famiglie di malati psichiatrici, ha deciso di svolgere un’indagine conoscitiva sull’attuazione di
tale legge, al fine di fotografare la situazione esistente, individuarne le criticità ed eventualmente proporre opportune modifiche.
1. IL LAVORO SVOLTO DALLA COMMISSIONE
L’indagine conoscitiva, deliberata all’unanimità dalla 1 2ª Commissione nella seduta n. 300 del 22 novembre 2005 ed autorizzata dal Presidente del Senato in data 28 novembre 2005, ha portato allo svolgimento di audizioni di istituzioni centrali e regionali, associazioni, società scientifiche ed esperti della materia. In particolare, sono state svolte, nell’ordine, le seguenti audizioni: Marco MARCHETTI, professore di psicopatologia forense dell’Università Tor Vergata di Roma, in rappresentanza della Società
Italiana di Criminologia; Eugenio AGUGLIA, presidente della Società Italiana di Psichiatria (SIP); Antonio PICANO, psichiatra
presso l’Ambulatorio per la depressione dell’Ospedale San Camillo di Roma, in rappresentanza dell’Associazione Italiana Psichiatri e Psicologi Cattolici (AIPPC); Stefano RAMBELLI, psicologo, presidente della Cooperativa Sadurano Salus di Castrocaro Terme; Gisella TRINCAS, presidente dell’Unione Nazionale delle Associazioni per la Salute Mentale (UNASAM); Maria Luisa ZARDINI, presidente dell’Associazione per la Riforma dell’Assistenza Psichiatrica (ARAP); Luigi DE MARCHI, membro del Comitato
scientifico dell’ARAP; Francesco STORACE Ministro della salute; Sebastiano ARDITA, direttore generale della Direzione generale dei detenuti e del trattamento, del Dipartimento Amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia; Anna Rosa
ANDRETTA, presidente dell’Associazione per la Difesa degli Ammalati Psichici Gravi (DIAPSIGRA); Paolo CANEVELLI, Magistrato
del Tribunale di sorveglianza di Roma; Luana GRILLI, vicepresidente della Cooperativa Sociale il Mandorlo di Cesena; Cosimo
LO PRESTI, presidente della Federazione Italiana Salute Mentale (FISAM); Laura BUSSETTO, membro dell’Associazione per la
Difesa degli Ammalati Psichici (DIAPSI-Piemonte); Augusto PILATO, segretario nazionale della FISAM; Liliana LORETTU, professoressa presso l’Università di Sassari, presidente della Società Italiana Psichiatria Forense; Vanni PECCHIOLI, psicologo, membro
del comitato direttivo di Psichiatria Democratica.
La Commissione si è inoltre avvalsa della documentazione sull’attuazione della normativa in materia di salute mentale inviata dalle regioni.
A causa della limitatezza del tempo a disposizione e dell’imminente scadenza della legislatura, non sono stati svolti sopralluoghi.
2. LA COMPLESSITÀ DEL PROBLEMA
La definizione di salute mentale è ancora lontana dall’essere universalmente condivisa; ciononostante, non si può negare che la
logica basagliana - per cui la malattia mentale rappresenta una condizione sociale da accettare e non una vera e propria patologia da curare - si è rivelata intrinsecamente incompleta ed è stata parzialmente superata.
La consapevolezza diffusa che il disagio mentale rappresenta una vera e propria malattia - pur nella perdurante incertezza circa
la molteplicità delle cause di natura biologica, ereditaria, sociale, familiare e a volte anche iatrogena che ne determinano la comparsa - testimonia che le attuali carenze del sistema di salute mentale derivano non da resistenze ideologiche, ma da problemi
strutturali, funzionali, finanziari, organizzativi ed informativi.
Prima di analizzare le carenze «di sistema» che ancora oggi caratterizzano la salute mentale, è opportuno soffermarsi ad esaminare la reale entità del fenomeno in esame, per comprenderne la diffusione sul territorio e le possibili dinamiche di sviluppo.
I dati statistici testimoniano infatti che i disturbi mentali, seppure diversi per qualità e durata, riguardano un adulto ogni cinque,
83
L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
AIAF RIVISTA 2/2006
coinvolgendo circa 450 milioni di persone a livello mondiale, 93 milioni in Europa e 2.200.000 persone in Italia. Circa il 50 per
cento di tali disturbi si presenta in condizioni di comorbilità e l’esito della patologia è spesso nefasto, dal momento che il numero dei suicidi è di circa 873.000 persone all’anno. Per gran parte di queste persone, un trattamento tempestivo eviterebbe il pericolo di aggravamento, di cronicizzazione o di suicidio.
A fronte della rilevante diffusione della patologia, i servizi disponibili sul territorio nazionale sono, nel complesso, inadeguati a
fornire una risposta alla domanda di assistenza proveniente dai cittadini: si stima, infatti, che i servizi psichiatrici trattino solo il
10 per cento delle persone che in un anno presentano disturbi psichiatrici in parte per carenze strutturali, in parte per il timore
di molti a dichiarare la propria malattia ed essere vittime dello stigma che colpisce, nella nostra società, chi ha problemi di salute mentale.
Tale situazione sembra peraltro destinata a peggiorare, dal momento che numerosi aspetti epidemiologici contemporanei (quali
l’aumento della popolazione anziana, l’incremento dell’immigrazione ed il conseguente aumento delle condizioni di disagio legate a sacche di povertà e disuguaglianza nell’accesso alle cure, la diffusione delle condizioni di stress legate ai frenetici ritmi di
vita e di lavoro, il maggiore disagio urbano, i crescenti problemi dell’adolescenza e della gioventù) possono contribuire a favorire un ulteriore incremento dei disturbi mentali a partire dall’immediato futuro.
Tale quadro sociale ed epidemiologico trova esplicita conferma nel Libro Verde Migliorare la salute mentale della popolazione. Verso una strategia sulla salute mentale per l’Unione europea - COM(2005) 484 definitivo -, approvato dalla Commissione europea il
14 ottobre 2005, che evidenzia come la patologia mentale comporti un disagio personale ad alta ripercussione, che tende ad incidere sul sistema familiare, sulla condizione lavorativa, sulla situazione economica, fiscale, giudiziaria e penale del malato.
Proprio la richiamata peculiare complessità della malattia mentale rende improrogabili interventi sanitari e sociali armonici e coerenti.
3. IL QUADRO NORMATIVO ED ORGANIZZATIVO ATTUALE
Nel tentativo di fornire una risposta ad alcune delle esigenze diffuse dei malati di mente e delle loro famiglie, la legge n. 180 del
1978, successivamente integrata dalla legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale (SSN), legge 23 dicembre 1978, n. 833, perseguiva tre obiettivi fondamentali: tutelare i diritti del paziente; favorirne il recupero sociale e promuovere un modello assistenziale allargato sul territorio, fondato sull’interazione interdisciplinare di più figure ed interventi professionali.
Tali obiettivi sono rimasti sostanzialmente inattuati negli anni successivi alla riforma, a causa della debole azione di indirizzo e
delle criticità riscontrate soprattutto nel settore dell’organizzazione dei servizi.
A dispetto ditali problematicità diffuse, solo negli anni Novanta - con l’elaborazione dei due progetti-obiettivo per la «Tutela della salute mentale» rispettivamente del 1994 e del 1998 - sono state assunte concrete iniziative per l’integrazione di una legge che
continuava a presentare persistenti lacune attuative.
Alla luce ditali interventi, l’assetto organizzativo attuale risulta incentrato sui 211 Dipartimenti di salute mentale, istituiti in ciascuna azienda sanitaria locale e dotati di vari servizi (a diversa intensità e tipologia di assistenza), tra i quali, in particolare, i centri di salute mentale, i servizi psichiatrici di diagnosi e cura, i day hospital, le cliniche psichiatriche universitarie e le case di cura
private. Nel complesso, i posti letto disponibili sono 9.289, ai quali si devono aggiungere i 612 centri diurni e i 17.101 posti letto delle 1.552 strutture residenziali presenti sul territorio.
Le prestazioni erogate sono sia di tipo ospedaliero che di tipo ambulatoriale; in particolare, si stima che circa 34.000 sono i ricoveri ospedalieri annuali, mentre circa 48.000 sono i ricoveri nelle strutture residenziali e semiresidenziali pubbliche e private. Un
letto ogni 10.000 abitanti presso gli ospedali generali, anche nelle rare regioni dove è raggiunto, è insufficiente. Bisognerebbe
indicare almeno 1,5 posti letto per 10.000 abitanti.
Ad integrazione ed interpretazione ditali dati statistici, è opportuno precisare che l’attuazione della legge n. 180 del 1978 e dei
progetti-obiettivo del 1994 e del 1998 è stata assolutamente disomogenea a livello interregionale, non solo perché la legge n.
180 del 1978 ha avuto diverse intensità e velocità di applicazione nelle varie aree regionali, ma soprattutto perché alcune regioni hanno privilegiato la psichiatria ospedaliera, mentre in altre il fulcro delle attività è stato costituito dai dipartimenti di salute
mentale.
Rispetto a tale assetto normativo ed organizzativo, un radicale cambiamento, almeno sotto il profilo del riparto delle competenze, è stato introdotto nel settore in esame con la riforma del Titolo V della Costituzione, che ha di fatto determinato il trasferimento in capo alle regioni della gestione dell’assistenza per la salute mentale, da esercitarsi nel rispetto delle competenze statali di indirizzo e controllo. Nel prossimo futuro, saranno quindi le regioni le principali protagoniste del nuovo percorso di riorganizzazione del sistema di assistenza psichiatrica che si renderà necessario al fine di adeguare l’offerta di prestazioni alla variegata domanda proveniente dagli utenti.
4. GLI ELEMENTI DI CRITICITÀ DEL SISTEMA ASSISTENZIALE ED I POSSIBILI INTERVENTI CORRETTIVI
Alla luce dei dati e dei rilievi emersi dalle audizioni svolte e dalla documentazione analizzata, è possibile identificare come segue
le principali criticità del sistema di assistenza psichiatrica e gli eventuali interventi correttivi ad esso relativi.
In primo luogo, l’attuale sistema di assistenza psichiatrica italiana sembra presentare numerose lacune e carenze: intorno al 90
per cento delle risorse disponibili è infatti assorbito da circa 40.000 pazienti gravi, che presentano costi assistenziali molto elevati, fino a soglie di 80.000 euro all’anno; tale dato testimonia che, finora, la psichiatria italiana si è concentrata prevalentemente
sul malato grave, lasciando scoperte aree di grande importanza, come l’ansia o la depressione, che devono essere adeguatamente
curate, per prevenire l’insorgenza di patologie più gravi, contribuendo così al miglioramento del livello di salute complessivo della popolazione. Particolare attenzione andrebbe inoltre riservata, perché sempre più frequente, alla depressione post-partum, troppo spesso sottovalutata e ai disturbi dell’alimentazione (anoressia e bulimia) che registrano un continuo aumento soprattutto negli
adolescenti.
Nel prossimo futuro, sarà conseguentemente necessario elaborare nuovi percorsi assistenziali, sia per la cura dei disagi mentali
meno gravi (che, a differenza di quanto sostenuto da alcune parti, non devono essere delegati alla medicina di base), che per la
prevenzione delle cronicità spesso associate alle patologie in esame. Nello specifico, si rende opportuno promuovere la diagnosi precoce delle patologie, l’adozione di interventi tempestivi ai primi segnali di sofferenza, l’implementazione di misure atte a
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L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
migliorare la cono scibilità e l’accessibilità dei servizi, la diffusione di campagne di sensibilizzazione ed informazione al problema e il potenziamento delle attività di intervento psichiatrico, in primo luogo diagnostico, in età infantile e sugli adolescenti. Se
si considera che circa un milione di pazienti non vengono trattati per la depressione per mancanza di diagnosi, pare chiaro che
anche l’ospedale generale deve diventare luogo strategico per intervenire su questo tipo di pazienti e deve essere dotato delle
professionalità adatte a diagnosticare queste patologie, spesso assolutamente misconosciute presso i reparti di Pronto soccorso.
Una seconda area di criticità è quella legata al carattere tendenzialmente episodico e discontinuo di programmi e trattamenti, che
riescono a coprire solo una frazione della domanda dei pazienti; l’impossibilità di garantire un’assistenza sanitaria specifica nel
medio-lungo periodo evidenzia infatti la condizione di sostanziale abbandono in cui ancora oggi sono lasciati tali pazienti, con
tutti i problemi di gestione quotidiana che risultano così riversati sulle famiglie, gravate da enormi difficoltà e responsabilità.
Per ovviare a tale situazione, è necessario intensificare e diversificare la rete assistenziale sia a livello ospedaliero, sia, soprattutto, a livello territoriale, al fine di offrire alle famiglie un reale supporto infermieristico, psichiatrico, sociale ed eventualmente
anche economico (ad esempio favorendo l’accesso di questi pazienti alle pensioni di reversibilità).
In particolare, si dovrebbe diversificare l’offerta su vari livelli assistenziali a progressiva intensità di cura, al fine di fornire risposte differenziate a seconda della tipologia e del grado di patologia del paziente, quali: l’erogazione di servizi di assistenza psichiatrica domiciliare prolungata nel medio-lungo periodo per i malati che possono essere curati in famiglia, l’attivazione estesa
di strutture residenziali protette di medie dimensioni per la lungo-degenza dei malati cronici e l’introduzione di strutture di alta
specializzazione deputate al trattamento e alla cura psichiatrica dei malati non ancora cronicizzati. Tali strutture di alta specializzazione dovrebbero essere focalizzate su specifiche problematiche di pertinenza psichiatrica, come ad esempio quelle concernenti la vittimologia. Inoltre, dovrebbe essere potenziata l’offerta di servizi e di strumenti di supporto a livello territoriale, tra
cui l’istituzione di centri di ascolto nei dipartimenti di salute mentale, la creazione di una rete di assistenza domiciliare ad hoc
in sinergia con il privato sociale e la medicina di famiglia, la realizzazione di centri crisi e centri diurni, nonché la partecipazione in un nucleo di valutazione del dipartimento di salute mentale di rappresentanti di associazioni di familiari.
Per l’implementazione di tutti questi interventi, sarà importante monitorare le iniziative deliberate dalle aziende sanitarie locali
per il reinvestimento in obiettivi di salute mentale delle risorse ricavate dalla dismissione degli ospedali psichiatrici.
Un terzo ambito di criticità è quello legato all’assenza di protocolli unitari per l’attuazione del Trattamento sanitario obbligatorio
(TSO), che conseguentemente rappresenta un vero e proprio momento di rischio, sia per il paziente (nel caso del mancato o ritardato ricovero ovvero, all’inverso, dell’abuso nel ricorso al ricovero) che per i professionisti del settore (data la possibilità di incorrere nella colpa professionale per abbandono di persona incapace ovvero, all’opposto, per sequestro di persona). La revisione
della normativa sul TSO e anche sull’Accertamento sanitario obbligatorio (ASO) - procedura nella quale si riscontrano problemi
analoghi a quelli del TSO - deve consentire ai professionisti la possibilità di effettuare nei confronti dei pazienti non collaborativi i dovuti accertamenti e trattamenti non solo nella fase acuta, ma per tutto il tempo necessario alla cura; è inoltre opportuno
un sostanziale snellimento delle procedure.
Ovviamente, il problema dei TSO e degli ASO è legato a doppio filo al tema del diritto di autodeterminazione del malato nel settore dell’assistenza psichiatrica. In tale ambito, ferma restando l’esigenza di garantire, per quanto possibile, il diritto alla libera
scelta delle cure del malato psichiatrico, si ritiene necessario evidenziare il problema della scarsa percezione del disturbo psichiatrico (il 10 per cento dei malati non sa infatti di soffrire di una patologia mentale) e quindi segnalare l’opportunità di introdurre adeguati meccanismi, anche obbligatori, di responsabilizzazione dei malati alla cura.
Connesso al problema dei TSO è anche il tema della contenzione, fisica e farmacologica, modalità attraverso la quale, in particolari situazioni, viene attuato un trattamento psichiatrico; trattandosi di una modalità di trattamento ormai in disuso, ma estremamente complessa e con rilevanti ripercussioni sul sistema di relazioni medico-paziente-familiari, è necessario promuovere
anche nel settore in esame la predisposizione di protocolli unitari e specifici, che ne regolamentino l’uso e portino alla creazione del «registro epidemiologico della contenzione».
Altrettanto urgente è, infine, l’introduzione di disposizioni comuni sul trattamento delle urgenze, tematica questa che, data la
complessità dell’argomento, necessita della definizione di linee guida comuni al fine di orientare i medici sulle modalità e sul
luogo del trattamento.
Quarta area di criticità è quella legata alla chiusura degli ospedali psichiatrici (OP) che, pur rappresentando una grande conquista della legge n. 180 del 1978, non ha contribuito a risolvere del tutto i problemi assistenziali di fondo che avevano ispirato la
riforma: parte dei pazienti dimessi dagli OP sono stati, infatti, accolti in comunità protette, che a volte rischiano di diventare dei
«mini manicomi», in cui si sono ripetuti i tradizionali schemi custodialistici e di etichettamento. Alcuni ditali pazienti, ormai
anziani e non più bisognosi di specifica assistenza psichiatrica, potrebbero trovare adeguata sistemazione nelle residenze sanitarie assistite (RSA), che sono da potenziare e che dovrebbero contemplare delle percentuali di accoglienza dedicate agli ex malati mentali, consentendo così di liberare posti nelle comunità protette a favore dei pazienti giovani che ancora oggi trovano una
grande difficoltà logistica all’inserimento. In tutte le strutture residenziali o semiresidenziali, spesso gestite dai privati accreditati,
deve comunque essere realizzata un’attenta valutazione della qualità dei servizi, al fine di evitare che tali strutture si trasformino
in semplici «parcheggi», privi di interventi assistenziali o riabilitativi mirati.
Un quinto livello di criticità si manifesta a livello della medicina psichiatrica penitenziaria, settore questo assolutamente trascurato dalla legge n. 180 del 1978. In particolare, si pone il problema della gestione della popolazione dei pazienti psichiatrici residenti negli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG), per i quali è iniziato da alcuni anni un processo di progressiva dimissione: è
evidente, infatti, che né una dimissione «forzata», né il mancato invio in OPG risolvono il problema di fondo del trattamento di
pazienti autori di reati (e spesso di reati violenti), che non sono sovrapponibili, per problematiche e percorso terapeutico, alla
restante popolazione dei pazienti psichiatrici. L’impreparazione dei dipartimenti di salute mentale a gestire tali pazienti e l’impossibilità di gestire contestualmente le due tipologie di malati nelle comunità protette rende conseguentemente auspicabile un
percorso di riflessione sulle riforme da attuare, al fine di garantire a tali pazienti - anche attraverso l’attivazione di convenzioni
con i servizi di psichiatria territoriale opportunamente riorganizzati - trattamenti mirati e affidati a personale specializzato.
Una sesta area di criticità riguarda la carenza di percorsi formativi specifici per gli operatori in ambito psichiatrico: scarseggiano,
infatti, i percorsi formativi e di aggiornamento finalizzati a garantire un’adeguata e continuativa formazione specialistica al per-
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L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
AIAF RIVISTA 2/2006
sonale addetto al trattamento di queste patologie. Conseguentemente, va garantita una maggiore integrazione della salute mentale nella didattica dell’assistenza sanitaria (inclusi i corsi ECM) e nelle strutture e va altresì prevista una riforma degli studi universitari, da anni inadeguati alle esigenze di sviluppo del settore. In ambito medico, ad esempio, il venir meno della specializzazione in criminologia e le problematiche operative che caratterizzano la specializzazione in psicopatologia forense (per la quale il Ministero della salute non ha indetto specifiche borse di studio) sono una testimonianza evidente delle difficoltà organizzative-formative che ostacolano la specializzazione nel settore. Le cliniche universitarie di psichiatria dovrebbero essere direttamente coinvolte nel SSN, ad esempio assumendo la responsabilità di almeno un modulo assistenziale, poiché non sarebbe possibile provvedere alla formazione del personale del SSN con insegnamento e tirocinio adeguati se carenti di diretta competenza.
Infine, non si possono sottovalutare anche le criticità legate alla scarsità di percorsi mirati di inserimento/reinserimento sociale e
lavorativo dei pazienti affetti da disturbi mentali. Se si considera, infatti, che il lavoro costituisce un valore fondamentale per la
riabilitazione e l’inserimento sociale, si comprende l’importanza dell’introduzione di sistemi di lavoro protetti ed adeguatamente
retribuiti per i malati psichici con prospettive d’inserimento graduale nel mondo del lavoro; altrettanto importante è la promozione di specifici momenti di formazione professionale, anche sul campo, da alternare ai momenti di lavoro vero e proprio.
5. CONCLUSIONI
Una vera riforma dell’assistenza psichiatrica deve essere mossa dall’esigenza di superare l’accezione di «psichiatria» per arrivare
ad una nuova nozione di «salute mentale», connotata sia in termini di prevenzione e diagnosi precoce che in termini di miglioramento della qualità di vita dei malati. In tale prospettiva, è necessario che l’attenzione non sia limitata alle malattie croniche o
agli episodi acuti della patologia psichiatrica, bensì estesa a tutti i disturbi mentali delle diverse fasce di popolazione a rischio
come l’infanzia e l’adolescenza, gli anziani, i tossicodipendenti e gli alcolisti.
Perché questi obiettivi siano raggiunti, la strategia di intervento deve essere focalizzata sull’integrazione in rete di tutti i servizi
che oggi operano in maniera disaggregata, nonché sulla riorganizzazione e differenziazione delle diverse forme di assistenza o
presa in carico del malato oggi disponibili anche individuando una figura di coordinatore interdipartimentale e interservizi.
Al raggiungimento ditali obiettivi deve collaborare anche l’Università, come ente formativo, in sinergia con le amministrazioni
regionali e i dipartimenti territoriali.
Tali processi di riforma dovranno essere implementati con il supporto diretto sia delle famiglie dei malati, che devono rimanere
parte integrante del «cammino terapeutico» del paziente, sia delle associazioni di familiari e volontari, che rappresentano una
risorsa fondamentale da valorizzare ulteriormente nella definizione sia teorica che operativa del progetto terapeutico. Solo attraverso lo sforzo comune di tutte le figure e le istituzioni coinvolte nel problema, sarà possibile combattere lo stigma di cui sono
fatti oggetto, ancora oggi, e indipendentemente dal tipo e dalla gravità della patologia, coloro che presentano disturbi mentali.
Sotto il profilo delle competenze normative e gestionali, infine, è importante che le regioni, in stretta collaborazione con gli enti locali e nel rispetto degli indirizzi generali nazionali, siano responsabilizzate sull’attuazione degli interventi di riorganizzazione dell’assistenza psichiatrica, proseguano e implementino i progetti obiettivo già in atto, rispondendo in prima persona dei risultati raggiunti nel perseguimento dell’obiettivo di destinazione del 5 per cento dei fondi sanitari regionali alle attività di salute mentale.
86
RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE
1. PREMESSA.
doveri genitoriali trovano la loro fonte,
oltre che a livello costituzionale, mediante
la previsione dell’art. 30 Cost, anche nell’art. 147 c.c.
L’attuale formulazione dell’art. 147 c.c. (Doveri
verso i figli) prevede il dovere dei genitori di
provvedere al mantenimento, all’istruzione e
all’educazione dei figli, anche se nati al di fuori
del matrimonio, assecondandone le inclinazioni,
le capacità e le aspirazioni.
La norma codicistica è chiaramente ispirata dal
principio sancito all’art. 2 Cost. che tutela i diritti inviolabili della persona sia come singolo che
“nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua
personalità”.
Tra esse rientra in modo preminente la famiglia legittima o meno - intesa come “formazione
sociale di cui la prole è parte avente dignità di
grado uguale a quello di ogni altro componente”
(FRACCON).
I doveri dei genitori nei riguardi dei figli, dunque, nascono per il semplice fatto della procreazione, indipendentemente dallo status filiationis,
ossia dalla circostanza se siano nati o meno in
costanza di matrimonio.
Prima di giungere alla riforma del 1975 la filiazione legittima, concepita in costanza di matrimonio, era nettamente contrapposta a quella
“illegittima”. Soltanto la prima godeva di considerazione sociale e di una integrale tutela, e la
ratio era quella di conferire dignità e rafforzare la
sola famiglia legittima, intesa quale unica entità
sociale e giuridica - vera e propria istituzione capace di assolvere ai compiti di mantenimento,
istruzione ed educazione necessari per assicurare
una ordinata vita sociale; ed altresì come struttura in grado di garantire la conservazione e la trasmissione del patrimonio (RESCIGNO).
Il modello familiare accettato e ritenuto legittimo
- in quanto conforme al diritto ed al costume - era
quello fondato sul matrimonio, che rappresentava
l’unico ambito in cui la filiazione trovava dignità
e piena protezione; il presupposto implicito del
sistema - ben avvertito nel costume sociale - era
che la filiazione per essere lecita dovesse sempre
originare da genitori uniti in matrimonio (SESTA).
Oggi la prospettiva è radicalmente cambiata: in
primis alla filiazione naturale non è più attribuita
l’espressione “illegittima”; inoltre, in seguito alla
riforma del diritto di famiglia del 1975, il legislatore ha provveduto ad una sostanziale equiparazione della filiazione naturale a quella legittima,
sia nell’ambito dei rapporti di carattere personale
- mediante la previsione dell’art. 261 c.c. (Diritti
e doveri derivanti al genitore dal riconoscimento)
- sia nell’ambito dei rapporti di tipo successorio,
I
SOMMARIO:
1. Premessa.
2. I doveri dei genitori.
3. Atti illeciti commessi dai genitori nei confronti dei figli e responsabilità
civile.
4. La responsabilità del genitore non affidatario per mancato esercizio del
diritto - dovere di visita.
5. La responsabilità del genitore affidatario che ostacola i rapporti con l’altro
genitore.
6. Responsabilità da riconoscimento non veritiero di paternità.
Il disconoscimento di paternità.
7. La responsabilità da procreazione.
RAPPORTI TRA GENITORI
E FIGLI, ILLECITO CIVILE E
RESPONSABILITÀ.
LA RIVOLUZIONE
GIURISPRUDENZIALE
DEGLI ULTIMI ANNI
ALLA LUCE DEL DANNO
ESISTENZIALE1
attraverso l’introduzione degli artt. 468, 536 e
537 c.c.
Inoltre le norme che hanno rimosso il divieto dell’accertamento nei riguardi dei figli adulterini e
quelle che hanno fissato i principi della libertà
della prova (art.269 c.c.) e dell’imprescrittibilità
dell’azione (270 c.c.) consentono al figlio natura-
GIUSEPPE
CASSANO *
1. Il presente saggio costituisce la trascrizione di parte dell’intervento al Convegno “Amore e Diritto” tenutosi a Ferrara il 19 giugno 2006. Per più compiute argomentazioni si rimanda a Giuseppe Cassano, Rapporti familiari
responsabilità civile e danno esistenziale. Il risarcimento del danno non
patrimoniale all’interno della famiglia, Cedam, 2006.
87
RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE
le di conseguire agevolmente l’accertamento del
proprio status giuridico (SESTA).
L’individuazione codicistica dei doveri “mantenere, istruire ed educare” - ripresa in maniera
puntuale - dalla formulazione dell’art. 30 Cost.,
si ritiene vada integrata con il dato normativo
contenuto nell’art. 12 della L. n. 184/1983, in cui
alla triade viene anteposta “l’assistenza morale”,
locuzione significante una relazione rispettosa
della persona del minore, ricca di interscambi di
natura affettiva e del sostegno necessario per una
crescita sana ed equilibrata (FRACCON).
Quanto alla natura giuridica dei doveri dei genitori nei riguardi dei figli, si può senz’altro affermare che essi hanno contenuto giuridico, visto
che l’ordinamento predispone strumenti specifici
- in primis l’art. 330 e 333 c.c. - per soddisfare le
esigenze filiali, violate in seguito a comportamenti inadempienti dei genitori.
Infatti, ai sensi dell’art. 330 c.c., qualora i genitori violino o trascurino i doveri inerenti alla prole o abusino dei poteri ad essi relativi, con grave
pregiudizio per i figli, il giudice (Tribunale per i
minorenni) può pronunziare la decadenza dalla
potestà genitoriale (che è venuta a sostituire la
patria potestas consistente nel potere del capofamiglia nei confronti della prole generata da lui).
Invece, nell’ipotesi in cui, ex art. 333 c.c., il
comportamento del genitore non sia tanto grave
da comportare la pronuncia della decadenza dalla
potestà genitoriale, il giudice (Tribunale per i
minorenni) potrà adottare i provvedimenti che
riterrà convenienti e disporre eventualmente
anche l’allontanamento del figlio dalla residenza
familiare.
Inoltre, sia nell’ipotesi contemplata dall’art. 330
che in quello dell’art. 333 c.c., - novità, questa,
introdotta dall’art.37 della L. n. 149/01 con lo
scopo di proteggere il minore senza comportare
un suo sradicamento dal contesto familiare - è
stata prevista anche la possibilità per il giudice di
disporre l’allontanamento dalla casa familiare
del genitore/convivente che maltratta o abusa del
minore stesso.
In passato gli istituti di cui agli artt. 330 e 333 c.c
si riteneva avessero natura sanzionatoria rispetto
alla condotta dei genitori, mentre attualmente
hanno perso tale connotazione per assumere funzione preventiva: tali misure, infatti, mirano ad
evitare il perpetuarsi di situazioni dannose e pregiudizievoli per il figlio o a prevenire probabili
lesioni successive (VILLA, BUCCIANTE).
2. I DOVERI DEI GENITORI.
doveri dei genitori nei confronti dei figli,
elencati nell’art. 30 Cost. e richiamati pedissequamente dall’art. 147 c.c. sono quelli al
I
88
AIAF RIVISTA 2/2006
mantenimento all’istruzione e all’educazione.
Essi, tuttavia, non esauriscono l’ambito dei doveri genitoriali verso la prole. Esistono, infatti, una
serie di precetti normativi destinati a soddisfare
gli interessi del nucleo familiare che si riferiscono, anche se indirettamente, pure ai figli. Inoltre,
come sopra accennato, l’art. 12 della L. n. 184/83
prevede un dovere di assistenza morale del minore che, anche se non espressamente enunciato
nell’elencazione dell’art. 147 c.c., si ritiene
applicabile non soltanto alla filiazione adottiva
ma anche nell’ambito della famiglia d’origine
(VILLA, TRABUCCHI).
In linea generale può, dunque, affermarsi che i
genitori hanno il dovere di provvedere alla cura
dei figli, facendo tutto il possibile per soddisfare
le loro esigenze e realizzare i loro interessi. Deve
tenersi conto del fatto che, nell’ambito del dovere di curare la prole, gli obblighi di mantenimento, di istruzione e di educazione costituiscono
delle manifestazioni tipiche, traducibili in specificazioni ulteriori, come il dovere di custodire il
figlio, evitando che arrechi danno a sé o a terzi,
oppure il dovere di correggerlo (VILLA).
Il dovere di mantenimento deve essere commisurato ai redditi, alla consistenza del patrimonio
ed alla idoneità lavorativa e professionale dei
genitori; in particolare si ritiene che non possa
esaurirsi nelle cure prestate al figlio nella normale convivenza, ma riguardi anche la sfera della
vita di relazione e le esigenze di sviluppo della
personalità (SESTA).
L’obbligo di mantenimento, a differenza di quello alimentare, non è limitata al soddisfacimento
dei bisogni elementari di vita, ma comprende
anche ogni altra spesa necessaria per arricchire la
personalità del beneficiario; non è subordinato
allo stato di bisogno del beneficiario, ma discende automaticamente dalla posizione del singolo
all’interno della famiglia, a prescindere da qualsiasi altro presupposto; inoltre l’onerato per essere esonerato deve dimostrare, oltre alla mancanza
di mezzi, anche l’incolpevole impossibilità di
procurarseli (DOGLIOTTI).
Il mantenimento dei figli grava su ciascun genitore, il quale dovrà contribuirvi in proporzione
alle proprie sostanze e alla propria capacità di
lavoro, professionale o casalingo.
Nell’eventualità in cui soltanto uno dei genitori
abbia integralmente adempiuto l’obbligo di mantenimento dei figli, facendosi carico anche della
quota gravante sull’altro, lo stesso sarà legittimato ad agire iure proprio nei confronti di quest’ultimo per il rimborso di detta quota, anche per il
periodo anteriore alla domanda.
Il genitore affidatario il quale continui a provve-
MAGGIO - AGOSTO 2006
dere direttamente ed integralmente al mantenimento dei figli divenuti maggiorenni e non
ancora economicamente autosufficienti resta
legittimato non solo ad ottenere “iure proprio”,
e non già “ capite filiorum”, il rimborso di quanto da lui anticipato a titolo di contributo dovuto
dall’altro genitore, ma anche a pretendere detto
contributo per il mantenimento futuro dei figli
stessi
(Cass. civ., sez. I, 16.2.01, n. 2289)
Il coniuge che abbia integralmente adempiuto
l’obbligo di mantenimento dei figli, pure per la
quota facente carico all’altro coniuge, è legittimato ad agire “iure proprio” nei confronti di
quest’ultimo per il rimborso di detta quota,
anche per il periodo anteriore alla domanda,
atteso che l’obbligo di mantenimento dei figli
sorge per effetto della filiazione e che nell’indicato comportamento del genitore adempiente è
ravvisabile un caso di gestione di affari, produttiva a carico dell’altro genitore degli effetti di
cui all’art. 2031 cod. civ.
(Cass. civ., sez. I, 4.9.99, n. 9386)
Il coniuge che abbia integralmente adempiuto
l’obbligo di mantenimento dei figli, pure per la
quota facente carico all’altro coniuge, è legittimato ad agire “iure proprio” nei confronti di
quest’ultimo per il rimborso di detta quota,
anche per il periodo anteriore alla domanda,
atteso che l’obbligo di mantenimento dei figli
sorge per effetto della filiazione e che nell’indicato comportamento del genitore adempiente è
ravvisabile un caso di gestione di affari, produttiva a carico dell’altro genitore degli effetti di
cui all’art. 2031 cod. civ.
(Cass. civ., sez. I, 5.12.96, n. 10849)
Tale principio si ritiene applicabile anche con
riferimento alla filiazione naturale qualora il
genitore che abbia provveduto al mantenimento
del figlio intenda agire nei confronti dell’altro,
una volta che sia emersa la genitorialità, a seguito di riconoscimento o dichiarazione giudiziale.
Il riconoscimento del figlio naturale comporta
l’assunzione di tutti i diritti e doveri propri della procreazione legittima, ivi compreso l’obbligo di mantenimento, che, per il suo carattere
essenzialmente patrimoniale, esula dallo stretto
contenuto della potestà genitoriale, e in relazione al quale, pertanto, non rileva, come, invece,
avviene con riguardo a quest’ultima, a norma
dell’art. 317 bis cod. civ., la circostanza che i
genitori siano o no conviventi, incombendo detto obbligo su entrambi, in quanto nascente dal
fatto stesso della procreazione. Ne consegue
che, nell’ipotesi in cui al mantenimento abbia
provveduto, integralmente o comunque al di là
delle proprie sostanze, uno soltanto dei genitori, a lui spetta il diritto di agire in regresso, per
il recupero della quota del genitore inadempiente, secondo le regole generali del rapporto
tra condebitori solidali, come si desume, in par-
RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE
ticolare, dall’art. 148 cod. civ., richiamato dall’art. 261 cod. civ., che prevede l’azione giudiziaria contro il genitore inadempiente, e senza,
pertanto, che sia configurabile un caso di
gestione di affari altrui. L’obbligo in esame, non
avendo natura alimentare, e decorrendo dalla
nascita, dalla stessa data deve essere rimborsato
“pro quota”
(Cass. civ., sez. I, 22.11.00, n. 15063).
Il dovere di mantenimento non viene meno con il
raggiungimento della maggiore età da parte del
figlio, ma si protrae fino a quando il figlio stesso
abbia raggiunto una propria indipendenza economica, ovvero versi in colpa per non essersi messo
in condizione di conseguire un proprio reddito.
L’obbligo dei genitori di concorrere tra loro al
mantenimento dei figli secondo le regole dell’art. 148 cod. civ. non cessa, “ipso facto”, con
il raggiungimento della maggiore età da parte di
questi ultimi, ma perdura, immutato, finché il
genitore interessato alla declaratoria della cessazione dell’obbligo stesso non dia la prova che
il figlio ha raggiunto l’indipendenza economica,
ovvero che il mancato svolgimento di un’attività
economica dipende da un atteggiamento di
inerzia ovvero di rifiuto ingiustificato dello stesso, il cui accertamento non può che ispirarsi a
criteri di relatività, in quanto necessariamente
ancorato alle aspirazioni, al percorso scolastico,
universitario e post - universitario del soggetto
ed alla situazione attuale del mercato del lavoro, con specifico riguardo al settore nel quale il
soggetto abbia indirizzato la propria formazione
e la propria specializzazione. Deve, pertanto, in
via generale escludersi che siano ravvisabili profili di colpa nella condotta del figlio che rifiuti
una sistemazione lavorativa non adeguata
rispetto a quella cui la sua specifica preparazione, le sue attitudini ed i suoi effettivi interessi
siano rivolti, quanto meno nei limiti temporali
in cui dette aspirazioni abbiano una ragionevole possibilità di essere realizzate, e sempre che
tale atteggiamento di rifiuto sia compatibile con
le condizioni economiche della famiglia
(Cass. civ., sez. I, 3.4.02, n. 4765)
L’obbligo dei genitori di concorrere tra loro al
mantenimento dei figli secondo le regole dell’art. 148 cod. civ. non cessa, “ipso facto”, con
il raggiungimento della maggiore età da parte di
questi ultimi, ma perdura, immutato, finché il
genitore interessato alla declaratoria della cessazione dell’obbligo stesso non dia la prova che
il figlio ha raggiunto l’indipendenza economica,
ovvero è stato posto nelle concrete condizioni
per poter essere economicamente autosufficiente, senza trarne utilmente profitto per sua colpa
o per sua (discutibile) scelta. (Nella specie, è
stato escluso la persistenza dell’obbligo di mantenimento di un figlio trentacinquenne - e convivente con la madre - a carico del padre separato per essere il figlio stesso ben lontano dal
conseguimento della laurea in medicina nonostante risultasse iscritto presso tale facoltà da
89
RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE
quindici anni, e senza che il suo comportamento potesse in qualche modo derivare o risentire
della presenza paterna, essendo trascorso un
periodo pressoché equivalente a quello necessario per l’utile completamento dell’intero corso
di studi da quando il padre aveva cessato di
convivere con moglie e figli)
(Cass. civ., sez. I, 30.8.99, n. 9109)
L’obbligo di mantenere il figlio non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età, ma si protrae, qualora questi, senza
sua colpa, divenuto maggiorenne, sia tuttavia
ancora dipendente dai genitori. Ne consegue
che, in tale ipotesi, il coniuge separato o divorziato, già affidatario è legittimato, iure proprio
(ed in via concorrente con la diversa legittimazione del figlio, che trova fondamento nella titolarità, in capo a quest’ultimo, del diritto al mantenimento), ad ottenere dall’altro coniuge un
contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne
(Cass. civ., sez. I, 18.2.99, n. 1353)
Anche in caso di separazione personale tra
coniugi, l’obbligo dei genitori di concorrere tra
loro, secondo le regole di cui all’art. 148 cod.
civ., al mantenimento dei figli non cessa automaticamente con il raggiungimento, da parte di
questi, della maggiore età, ma persiste finché il
figlio stesso non abbia raggiunto l’indipendenza
economica (o sia stato avviato ad attività lavorativa con concreta prospettiva di indipendenza
economica), ovvero finché non sia provato che,
posto nelle concrete condizioni per poter addivenire alla autosufficienza economica, egli non
ne abbia, poi, tratto profitto per sua colpa. Non
può ritenersi, peraltro, idonea ad esonerare il
genitore non convivente dall’obbligo di mantenimento la profferta di una qualsiasi occasione
di lavoro eventualmente rifiutata dal figlio,
dovendo essa risultare, per converso, del tutto
idonea rispetto alle concrete e ragionevoli
aspettative del giovane, sì da far ritenere il suo
eventuale rifiuto privo di qualsivoglia, accettabile giustificazione (principio affermato dalla
S.C. in relazione al rifiuto - ritenuto, nella specie, legittimo, contrariamente a quanto stabilito
dal giudice di merito - opposto dal figlio ventenne di genitori separati ad una offerta di
ingaggio per un anno, e per la somma di ottocentomila lire mensili più vitto ed alloggio, ricevuto da una società di pallacanestro. La corte di
legittimità, nel cassare la sentenza, ha, ancora,
osservato che, in essa, mancava ogni valutazione tanto in ordine alla precarietà dell’offerta
quanto alla ragionevolezza delle aspirazioni del
giovane, che vi aveva rinunciato per non sacrificare l’anno scolastico - V liceo scientifico - da
lui frequentato)
(Cass. civ., sez. I, 7. 5.98, n. 4616)
Poiché l’obbligo di mantenimento a carico dei
genitori permane fino al momento in cui il figlio
maggiorenne abbia raggiunto una propria indipendenza economica, sussiste la legittimazione
processuale del genitore (in via alternativa con
quella del figlio maggiorenne) ad ottenere 90
AIAF RIVISTA 2/2006
“iure proprio” - dall’altro coniuge, nel giudizio
di separazione personale, un contributo per il
mantenimento del figlio maggiorenne con esso
convivente il quale non sia ancora in grado di
procurarsi autonomi mezzi di sostentamento
(Trib. Cagliari, 11.3.97)
In caso di inadempimento dell’obbligo di mantenimento, il comma 2, dell’art. 148 c.c., prevede che il Presidente del Tribunale possa ordinare, con decreto, che una quota dei redditi
dell’obbligato venga versata direttamente all’altro coniuge o a chi (ascendenti legittimi o naturali, in ordine di prossimità) sopporta le spese
per il mantenimento, l’istruzione e l’educazione
dei figli.
Potranno trovare, inoltre, applicazione, le limitazioni della potestà previste negli artt. 330 e
333 c.c., e potrà anche giungersi alla dichiarazione dello stato di adottabilità se dovesse
emergere la condizione di abbandono- morale e
materiale- del minore, da parte di entrambi i
genitori..
Inoltre la condotta omissiva del genitore, che
non provvede al dovere di mantenimento dei
figli, su lui incombente, può integrare gli estremi del delitto di violazione degli obblighi di
assistenza familiare, di cui all’art. 570 c.p.,
anche qualora i figli non vengano a trovarsi in
stato di bisogno, perché ad essi provvede l’altro
genitore o altri parenti
(Cass. pen., sez. VI, 12.11.02, n. 57;
Cass.pen.,sez. VI, 21.3.96; Trib. Genova,
9.10.03; contra in dottrina VILLA)
Nell’elencazione contenuta nell’art. 147 c.c., al
dovere di mantenimento seguono i doveri di
istruzione e di educazione della prole.
La Costituzione riconosce e tutela un diritto all’istruzione non soltanto in relazione al rapporto tra
genitori e figli (art. 30, comma 1, Cost.), ma
anche con riguardo a quello tra minore e istituzioni esterne alla famiglia (art. 34 Cost.).
In particolare, per quanto attiene ai genitori, si
evidenzia come la responsabilità per l’istruzione
dei figli fino ai quattordici anni venga sanzionata
dall’art. 731 c.p., che punisce chiunque, rivestito
di autorità o incaricato della vigilanza sopra un
minore, ometta senza giusto motivo di impartirgli
o di fargli impartire l’istruzione elementare (da
estendersi anche a quella media alla luce dell’art.
34 Cost.) (MORO).
Più complessa, invece, risulta essere l’analisi
relativa al dovere di educazione, poiché trattasi
di un concetto difficilmente definibile, il cui contenuto è strettamente connesso con l’evoluzione
sociale.
Una conferma di tale evoluzione è rappresentata
dal confronto con il previgente testo dell’art. 147
c.c., in base al quale l’educazione doveva essere
conforme “ai principi della morale”, concetto
alquanto indeterminato. Attualmente l’art. 147
MAGGIO - AGOSTO 2006
c.c. è incentrato sul soggetto nei confronti del
quale va realizzata la funzione educativa, in
quanto è fatto obbligo ai genitori di tenere conto
“delle capacità, dell’ inclinazione naturale e delle
aspirazioni dei figli”. Il riferimento ai principi
morali è stato soppresso, ma ciò non significa che
nell’educare il figlio non si debba fare ricorso ai
valori etici che disciplinano una vita corretta e
regolare (FINOCCHIARO).
La giurisprudenza di merito ha riconosciuto, già
da tempo, un dovere dei genitori di rispettare le
scelte dei figli, soprattutto con riferimento allo
studio, alla formazione professionale, all’impegno politico-sociale, alla fede religiosa (Trib.
Min. Genova, 9.2.59; Trib. Min. Bologna,
13.5.72; trib. Min. Bologna, 26.10.73).
Si ritiene comunemente che debbano essere considerati leciti soltanto quei mezzi correttivi e
disciplinari che, nel più profondo e sacro rispetto
dell’incolumità fisica e della personalità psichica
e morale, risultino necessari al raggiungimento
del fine che il rapporto disciplinare si propone,
purché vengano usati nella misura e nella entità
richiesta.
Non può assolutamente ritenersi lecito - e quindi
è bandito dalla jus corrigendi - l’uso della violenza finalizzato a scopi educativi. Ciò sia per il
primato che l’ordinamento attribuisce alla dignità
della persona, anche del “minore”- oramai considerato un soggetto titolare di diritti e non più,
come in passato, semplice oggetto di protezione
(se non addirittura di disposizione) da parte degli
adulti-, sia perché, usando mezzi violenti, non
potrebbe perseguirsi l’obiettivo di realizzare un
armonico sviluppo della personalità sensibile ai
valori di pace, di tolleranza, di convivenza
(BONAMORE, FINOCCHIARO).
Con riguardo ai bambini il termine “correzione”
va assunto come sinonimo di educazione, con
riferimento ai connotati intrinsecamente conformativi di ogni processo educativo. In ogni caso
non può ritenersi tale l’uso della violenza finalizzato a scopi educativi: ciò sia per il primato che
l’ordinamento attribuisce alla dignità della persona, anche del minore, ormai soggetto titolare di
diritti e non più, come in passato, semplice
oggetto di protezione (se non addirittura di disposizione) da parte degli adulti; sia perché non può
perseguirsi,quale meta educativa, un risultato di
armonico sviluppo di personalità, sensibile ai
valori di pace, di tolleranza, di connivenza utilizzando un mezzo violento che tali fini contraddice. Ne consegue che l’eccesso di mezzi di correzione violenti non rientra nella fattispecie dell’art. 571 cod. pen. (abuso di mezzi di correzione) giacché intanto è ipotizzabile un abuso (puni-
RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE
bile in maniera attenuata) in quanto sia lecito l’uso (Cass. pen., sez.VI, 16.5.96).
3. ATTI ILLECITI COMMESSI DAI GENITORI
NEI CONFRONTI DEI FIGLI E
RESPONSABILITÀ CIVILE.
n ordine alle relazioni intercorrenti tra genitori e figli, prima della riforma del diritto di
famiglia del 1975, esisteva, nell’area privatistica, una normativa relativamente immunitaria, considerata una logica conseguenza della
concezione della patria potestas accolta nel
codice del 1942 e dei poteri ad essa connessi.
In sostanza la legge consentiva al genitore l’uso
dei mezzi correzionali adeguati alle diverse situazioni concrete. Ad una cattiva condotta del figlio,
qualora fosse necessario, poteva seguire una violenta reazione del padre, che rappresentava esercizio legittimo della potestà e come tale non
poteva determinare alcun tipo di responsabilità
(PATTI).
L’immunità anche nei rapporti tra genitori e figli
non dipendeva da principi di diritto, ma era ancorata a regole del costume che esprimevano una
concezione della famiglia come gruppo chiuso,
che non lasciava trapelare le crisi che avvenivano
al suo interno ma le risolveva in base a regole
proprie (PATTI).
I figli venivano trattati non alla stregua di soggetti di diritto, bensì come componenti di un
gruppo che si autodisciplinava e, in definitiva,
soggetti all’autorità paterna (FRACCON).
Con la riforma del diritto di famiglia si è ridefinito il ruolo genitoriale in funzione dell’interesse
morale e materiale della prole, anche se ci si è
astenuti- in applicazione del principio di libertà e
di autonomia della famiglia - dal proporre modelli, limitandosi, pertanto, a fornire la direttiva
contenuta nell’art. 147 c.c. che impone di tenere
conto, nell’adempimento dei doveri verso i figli,
delle loro capacità, dell’inclinazione naturale e
delle aspirazioni (FRACCON).
Dunque, anche nei rapporti tra genitori e figli, la
mutata concezione della famiglia impone che il
danneggiato non venga privato della tutela garantita dalla legge, solamente perché un vincolo di
parentela lo lega a chi ha causato il danno.
Un limite al potere discrezionale dei genitori nell’educazione della prole è, dunque, rappresentato
dal divieto di abusare delle proprie funzioni: la
condotta vietata, cioè, deve consistere nell’abuso, ovvero nell’eccesso, nel superamento dei
limiti consentiti e tale abuso deve provocare la
trasformazione della modalità lecita di correzione e disciplina in mezzo illecito (INGRASCÌ).
L’abuso, infatti, oltre che dar luogo ai provvedimenti di cui agli artt. 330 e 333 c.c. può integra-
I
91
RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE
re gli estremi del reato di cui all’art. 571 c.p. che
punisce proprio l’abuso dei mezzi di correzione.
Se, dunque, oggi può ancora parlarsi di jus corrigendi dei genitori, certamente questo presenta
connotazioni diverse rispetto al passato e, inoltre,
ad esso, sono connessi poteri coercitivi molto
sfumati (PATTI).
Integra il reato di cui all’art. 571 cod. pen. l’uso della violenza nei rapporti educativi come
mezzo di correzione e disciplina, comunque
non consentito, qualora dal fatto derivi il pericolo di una malattia del corpo e della mente o
una lesione o la morte
(Cass. pen., sez. VI, 29.11.90)
Lo jus corrigendi attribuito ai genitori non può
mai giustificare condotte che sovente provocano anche gravi lesioni ai malcapitati ragazzi e
che, comunque, non hanno una positiva valenza educativa
(Cass. pen., sez. V, 7224/2000)
L’abuso dei mezzi di correzione può commettersi trasmodando nell’impiego di un mezzo
lecito. Perciò anche un solo schiaffo, quando
sia vibrato con tale violenza da cagionare pericolo di malattia è sufficiente a far avverare l’ipotesi criminosa dall’art. 571 c.p.
(Cass. pen., sez. I, n. 11935/1966)
Dunque manifestazioni brutali, eccessi o violenze dei genitori- comportamenti ancora oggi
parecchio diffusi- non possono ricevere alcuna
forma di tutela, né lasciano sopravvivere l’armonia domestica che non si vorrebbe turbare
ammettendo l’azione in giudizio per il risarcimento dei danni subiti.
Infatti si ritiene (FRACCON) che la rinuncia a far
valere in giudizio il diritto al risarcimento non è
una soluzione normalmente “sana” di un conflitto- spesso profondo e grave- che incide sul vissuto della vittima e pregiudica la possibilità di recuperare una relazione equilibrata con il familiare
responsabile di un illecito ai suoi danni.
Dunque, dalla violazione dei doveri che ciascun
genitore ha nei confronti dei propri figli possono
derivare non soltanto i provvedimenti di cui agli
artt. 330 e ss. c.c., ma anche l’obbligo di risarcire i danni che sono stati causati alla prole.
In modo particolare suscita interesse una pronuncia della Suprema Corte (7.6.00, n. 7713), la quale ha confermato la decisione dei giudici di merito, di condanna al risarcimento del danno non
patrimoniale di un genitore il quale, per lunghi
periodi di tempo, aveva sistematicamente e ostinatamente rifiutato di corrispondere i mezzi di
sussistenza al figlio giudizialmente dichiarato.
Nel caso di specie, non viene risarcito il danno
morale da reato, in quanto il padre era stato assolto, in sede penale, dal reato di cui all’art. 570
92
AIAF RIVISTA 2/2006
c.p., essendosi accertato che aveva corrisposto,
anche se in ritardo, tutto quanto da lui dovuto a
titolo di mantenimento o di concorso nel mantenimento nei confronti del minore.
I giudici civili, invece, riconoscono che la condotta del padre abbia determinato la lesione di
fondamentali diritti della persona, inerenti, in
particolare, alla qualità di figlio e di minore.
In particolare la Suprema Corte nella pronuncia
citata, precisa che il pagamento effettuato a molti anni di distanza non avrebbe escluso comunque
il risarcimento della lesione in sé, che dal comportamento del ricorrente è scaturita, di fondamentali diritti della persona, in particolare di
quelli inerenti alla qualità di figlio e di minore.
La Cassazione ricollega, quindi, l’art. 2043 c.c.
agli artt. 2ss Cost., estendendo così l’area operativa del primo, fino a ricomprendere il risarcimento di tutti i danni ostacolanti le attività realizzatrici della persona umana.
Poiché l’articolo 2043 c.c., correlato agli articoli 2 ss. Costituzione, va necessariamente esteso fino a ricomprendere il risarcimento non solo
dei danni in senso stretto patrimoniali ma di tutti i danni che almeno potenzialmente ostacolano le attività realizzatrici della persona umana,
la lesione di diritti di rilevanza costituzionale va
incontro alla sanzione risarcitoria per il fatto in
sé della lesione (danno evento) indipendentemente dalle eventuali ricadute patrimoniali che
la stessa possa comportare (danno conseguenza). (Nella specie, in applicazione di tale principio la S.C. ha confermato la decisione di
merito che aveva riconosciuto il diritto al risarcimento del danno, liquidato in via equitativa,
del figlio naturale in conseguenza della condotta del genitore, tale riconosciuto a seguito di
dichiarazione giudiziale, che per anni aveva
ostinatamente rifiutato di corrispondere al figlio
i mezzi di sussistenza con conseguente “lesione
in sé” di fondamentali diritti della persona inerenti alla qualità di figlio e di minore)
(Cass. civ., sez. I, 7.6.00, n. 7713)
La sentenza su citata è ritenuta di enorme rilievo
proprio per l’importanza del principio che si può
trarre da essa, secondo il quale la violazione dei
doveri genitoriali è idonea a determinare un danno
ingiusto, allorché tale condotta leda interessi costituzionalmente rilevanti della prole. Di conseguenza non è la semplice violazione del dovere genitoriale a rappresentare il danno ingiusto, quanto
piuttosto la lesione di un interesse ulteriore, ravvisato, nel caso di specie, nella violazione di doveri
fondamentali della persona, inerenti in particolare
alla qualità di figlio e di minore (FACCI).
Di estremo rilievo è anche una pronuncia del Tribunale di Venezia (30.6.04) che ha in sostanza
sancito il principio secondo il quale la figlia che,
abbandonata dal padre, abbia vissuto nella totale
MAGGIO - AGOSTO 2006
RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE
assenza del ruolo paterno, ha diritto al risarcimento del danno in ragione della lesione del suo
diritto all’assistenza morale e materiale da parte
di ciascun genitore.
A tutt’oggi, dunque, quand’anche si assuma che
raggiunta la maggiore età F. goda o possa godere di relativa autonomia patrimoniale, in effetti
secondo l’esito della istruttoria abbandonata l’università lavora come cameriera, il L. continua,
malgrado il detto esistente titolo giudiziale, a
consumare il reato, non avendo, in fatto, adempiuto all’adempimento dell’obbligo per circa
vent’anni
(Trib. Venezia, 30.6.2004).
Costituisce un fatto illecito che obbliga al risarcimento dei danni, il comportamento del padre
che si rifiuta di riconoscere il figlio e si rende
inadempiente agli obblighi alimentari imposti
dal tribunale. Pertanto, il figlio ha diritto al risarcimento del danno morale subito quale conseguenza del reato di violazione degli obblighi
familiari; ed ha altresì diritto al risarcimento del
danno legato alla totale assenza della figura
paterna, considerato l’obbligo, di rango costituzionale, che incombe sul genitore di occuparsi,
non solo economicamente, della prole e di educarla
(Trib. Venezia 30.6.04)
A differenza della pronuncia della S.C. n.
7713\2000, tuttavia, il danno non è ravvisato in
re ipsa, coincidente, cioè, con la lesione dell’interesse di rilievo costituzionale. Il Tribunale di
Venezia, infatti, mette in evidenza i pregiudizi
causati dal comportamento omissivo del genitore,
sottolineando come la mancanza della figura
paterna si sia manifestata, in modo negativo,
“nello sviluppo della personalità” della figlia e
nel “coacervo delle scelte esistenziali della crescita” della stessa.
Viene evidenziato, poi, che la condotta illecita
del padre ha provocato ulteriore pregiudiziomeritevole di una riparazione riequilibratoria -,
rappresentato dalla consapevolezza raggiunta
dalla figlia di essere stata rifiutata ed abbandonata dal padre e di “essere stata trattata come il
figlio di un mammifero di specie diversa da quella umana”.
Viene dunque riconosciuto dal Tribunale di Venezia il risarcimento del danno esistenziale, qualificato anche come “danno non patrimoniale non
coincidente con il mero danno morale” (FACCI).
Il convenuto, pervicace nel disinteresse verso la
figlia naturale anche in questo procedimento, è
il padre di F.V.; non se ne è mai interessato da
alcun punto di vista; ignorandone, sin dalla gravidanza dell’allora compagna, la nascita, le sorti, la vita, le esigenze economiche, maturando,
per così dire, un debito per omessi contributi
alimentari, certo non oggetto del presente procedimento, di cospicua entità.
Ciò premesso in fatto la domanda risarcitoria
come svolta va qualificata e riferita dal Tribunale adito al danno morale conseguente alla consumazione del reato p.e.p. dall’art. 570 c.p.,
certo quivi astrattamente valutabile, nonché alle
ulteriori conseguenze lesive che le predette condotte, illecite ex art. 2043 c.c., avrebbero determinato nella sfera psico-fisica e in ogni caso esistenziale dell’attrice F. (…)
In ordine alla liquidazione dei danni la sentenza
ha previsto che:
Ciò premesso, tenuto conto della durata dell’inadempimento, della assenza di ragionevole
motivazione alcuna, della detta intensità del
dolo, il Tribunale, anche in via equitativa, liquida il danno morale in commento nella somma,
espressa in valori attualizzati e comprensiva
degli interessi compensativi maturati, di Euro
80.000,00.
Nessuna conseguenza direttamente apprezzabile dal punto di vista del danno patrimoniale è in
effetti allegata in causa.
È vero che la domanda, nella sua genericità,
consente il riferimento al coacervo di ogni
astratta possibile voce risarcitoria.
È vero tuttavia che S.V. possiede relativo titolo
esecutivo per l’omessa contribuzione alimentare.
Quanto ad ulteriori voci di danno patrimoniale
astrattamente correlabili all’inadempimento
descritto, riguardanti anche F., come riferibili,
in sostanza, alle possibili occasioni perdute, dal
punto di vista della scolarizzazione e dell’inserimento concorrenziale nella vita, ebbene nulla
viene di fatto allegato (aut richiesto).
L’interessata, per sua fortuna, ha in effetti goduto dell’aiuto ed apporto economico della
madre, di cui s’è detto, e di terzi, estranei al
presente giudizio.
La mancata prosecuzione negli studi universitari non è seriamente correlata, in punto allegazioni e offerta di prova, alla condotta del convenuto.
Si venga dunque, come anticipato, alle ulteriori
implicazione lesive della condotta del convenuto.
L’espletata consulenza esclude, piuttosto categoricamente che F.V. a tutt’oggi presenti un quadro psico-fisico apprezzabile dal punto di vista
della esistenza di un danno biologico.
Si tratta di valutazioni complete ed accurate che
il Tribunale ritiene senz’altro di fare proprie.
Quasi paradossalmente, d’altra parte, proprio
l’esistenza di congrue figure sostitutive, i nonni
e l’attuale marito della attrice, poi, e naturalmente l’impegno ed il coraggio della stessa
madre, hanno posto l’interessata nella condizione di crescere secondo un percorso sostanzialmente regolare, con una regolare evoluzione.
(Trib. Venezia, 30.6.2004).
Sostanzialmente si afferma che la mancanza di un
padre, del vero padre, non rende la condizione
della figlia assimilabile alla posizione di chi
abbia goduto della presenza fattiva, costruttiva ed
affettuosa del genitore naturale.
93
RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE
Si tratta di una valutazione tanto ovvia quanto
irrilevante ai fini di causa dal punto di vista del
lamentato danno biologico: e tanto poiché non
esistono elementi apprezzabili dal punto di vista
di un danno permanente quale lesione eclatante all’integrità psico-fisica della interessata.
Dette considerazioni aprono la strada al tema
ragionevolmente più delicato della controversia.
Liquidato il danno morale da reato, accertata
l’esistenza di un titolo esecutivo che copre il
danno patrimoniale sofferto dalla madre che, da
sola, e comunque con l’aiuto di terzi, ha sopperito all’obbligo alimentare e di mantenimento, esclusi ulteriori profili di danni patrimoniali
apprezzabili dal punto di vista delle chances
perdute dalla figlia, perché non allegate aut non
provate; escluso, ulteriormente, un danno biologico in senso stretto, per l’accertata capacità
di F. di correlazionarsi con la vita e con i rapporti sociali e sentimentali senza presentare profili apprezzabili in punto disagi clinicamente
manifesti, resta da accertare se la condotta palesemente illecita del L. abbia arrecato un danno
ulteriore, non apprezzabile in senso strettamente patrimoniale alla figlia, danno non coincidente con le mere conseguenze risarcitorie del
consumato reato ovvero con il liquidato danno
morale.
Va premesso, quanto alla fonte dell’illecito le cui
ulteriori conseguenze lesive sono in discussione,
che diritti soggettivi assoluti di rango costituzionale appaiono pacificamente violati: perché il
concepimento, che piaccia o meno, non si riduca a fatto meramente materiale, come accade
invece in buona parte del regno animale; la
nostra carta costituzionale obbliga i genitori,
anche naturali e senza distinzione alcuna sulla
natura del vincolo che li lega, ad assistere materialmente e moralmente la prole, dunque un
obbligo non meramente patrimoniale ma esteso,
come è ovvio, alla assistenza educativa.
Solo in assenza aut incapacità di costoro la stessa fonte costituzionale prevede forme sostitutive
di assistenza.
Inutile ricordare che si tratta di una scelta assai
chiara ed univoca, non essendo estranea alla
esperienza di ordinamenti pur vigenti nel ventesimo secolo l’individuazione di un ruolo non
solo meramente sostitutivo ovvero vicario e
necessitato dello Stato nell’assistenza ed educazione dei minori e della prole.
Non assolvere tale obbligo, anzi omettere ogni
condotta assimilabile all’assolvimento in questione, come nel caso di specie, ove non si controverte di una non corretta gestione del ruolo
paterno ma della assoluta obliterazione del
medesimo, è dunque un fatto illecito.
La sanzione penale che lo tipicizza e punisce ne
è ulteriore riprova
(Trib. Venezia, 30.6.2004).
Interessante anche il successivo passo della sentenza:
Il danno non patrimoniale sofferto da F. è interamente assorbito ovvero coincide con il liqui94
AIAF RIVISTA 2/2006
dato danno morale?
O v’è piuttosto un ambito di ulteriori conseguenze lesive che, se ed in quanto provate,
anche per presunzioni semplici, meritano tutela
risarcitoria?
I noti recenti approdi della S.C. e della stessa
Corte Costituzionale, in una lettura congiunta,
tendono, certamente riproponendo chiavi di lettura non del tutto innovative, a proporre all’interprete, anche con riferimento al c.d. danno
esistenziale (ma non solo e non perspicuamente) le seguenti linee guida: riconoscere un danno non strettamente patrimoniale ulteriore e
diverso dal danno morale, quale tradizionalmente inteso; individuare, ben oltre le ipotesi
previste dalla legge (sostanzialmente quelle di
cui all’art. 185 c.p.), situazioni giuridiche
suscettibili di una lesione-danno conseguenza appunto monetizzabile ma non patrimoniale;
restringere all’ambito dei diritti soggettivi costituzionalmente tutelati e come tali riconosciuti
detta tutela.
I detti recenti approdi, come accennato, si inseriscono in un tema la cui soluzione è periodicamente oscillante nella giurisprudenza delle corti superiori e, anche in alternativa, di merito:
ora l’utilizzazione dell’art. 2059 c.c. in termini
elastici; ora l’interpretazione costituzionalmente
orientata del disposto dell’art. 2043 c.c. (come
fu nel rapporto con l’art. 32 della Costituzione;
ovvero, in altri meno noti approdi, come fu nel
rapporto con l’art. 29 della stessa), tanto al fine
di estendere l’ambito delle situazioni giuridiche
soggettive tutelabili dal punto di vista del danno
non strettamente patrimoniale.
Quale che sia il percorso da scegliere, rileva,
piuttosto, in tema, un altro decisivo e non più
confutabile approdo della stessa giurisprudenza
di legittimità: quello per il quale l’ingiustizia del
danno, salvo il criterio di imputazione della
condotta, sia esso schiettamente colposo o
meno, giammai va strettamente riferito alla
natura della situazione legittimante (e che si
assume illecitamente compressa aut violata).
Ecco allora gli estremi per una ennesima pericolosa involuzione (da altro punto di vista argomentativo, ecco i presupposti per un passo
indietro rispetto all’approdo predetto)
(Trib. Venezia, 30.6.2004).
Secondo il Tribunale il fine degli autorevoli precedenti citati è quello di ampliare l’ambito della
tutela, ancorandola, tuttavia, in senso che può
apparire limitativo (salvo assumere che la detta
rilevanza costituzionale legittimante la risarcibilità del danno non patrimoniale vada riferita
appunto al danno in quanto tale, rectius al diritto
costituzionale alla tutela risarcitoria), a situazioni giuridiche degne della medesima ovvero i soli
diritti fondamentali.
Altro, in realtà, è il tema dell’ambito delle situazioni giuridicamente apprezzabili e meritevoli
di tutela (tutte tranne le aspettative di mero fatto), rispetto al tema, più accademico che altro,
MAGGIO - AGOSTO 2006
della giusta collocazione del danno non patrimoniale, ulteriore e diverso dal danno morale
strettamente inteso.
Chi scrive, dunque, non ritiene che i citati
recenti approdi della giurisprudenza della S.C. e
della Corte Costituzionale tolgano o aggiungano
alcunché ad un dibattito che la giurisprudenza
di merito da molti anni ha pienamente scevrato
e colto nei suoi termini essenziali.
In ogni caso, anche alla luce dei detti citati pronunciamenti, non v’è dubbio che anche astrattamente il caso di specie rientri a pieno titolo
nelle ipotesi descritte: si tratta in tesi di un danno non strettamente morale; fa capo ad un diritto soggettivo assoluto certamente di valenza
costituzionale, appunto il diritto di ogni figlio
all’assistenza morale e materiale di ciascun
genitore.
Che nella specie detta assistenza non vi sia stata,
non ve ne sia stata parvenza, è fuor di dubbio.
Non rileva in questa sede tentarne di dedurne le
ragioni.
Invero tale impostazione può essere utile ai soli
fini, non certamente etici, di individuare l’ambito di una lesione, salva la relativa qualificazione, e tentare, assumendone provati i fatti
costitutivi, una quantificazione possibile, anche
in via ineludibilmente equitativa.
In effetti l’attrice allega detta voce di danno: il
danno, che lo si definisca pure esistenziale (le
parole e le definizioni servono alla dottrina più
che agli uomini e alle donne che agiscono per
la tutela dei propri diritti), derivante dalla totale
ed immotivata privazione dell’apporto paterno,
qualsiasi ne fosse stato, se esercitato, il contenuto e il precipitato.
Non lamenta, per così dire, il cattivo esercizio
di un obbligo: lamenta la totale assenza dell’adempimento dell’obbligo medesimo.
Lamenta, dunque, la privazione assoluta di un
padre, quello vero, reiterata e consumatasi negli
anni, sino alla maggiore età e, a ben vedere,
perdurante
(Trib. Venezia, 30.6.2004).
La domanda che il Tribunale si pone è se l’assenza di un padre comporti di per sé un danno?
La risposta non può essere univoca, ferma l’azionabilità, per quanto osservato, della pretesa.
In tesi la presenza di un padre oppressivo o particolarmente ignorante, ovvero culturalmente
violento, ovvero ancora palesemente immaturo
rispetto alla funzione che la natura gli ha dato
(se non imposto, perché no?), può costituire
presenza ben più alienante di una mera assenza: tanto più nel caso, come nella specie, in cui
altri abbiano preso sostanzialmente cura della
interessata.
Se l’art. 30 della Costituzione fosse eticamente
interpretato nessun genitore, ragionevolmente,
andrebbe, astrattamente, esente da censure.
Il rischio, palese per chi scrive, è, allora, la lettura distorta delle norme citate.
L’art. 30 II comma non si limita ad imporre allo
Stato una funzione assistenziale sostitutiva.
Dice, cosa ben più importante, che i figli non
RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE
appartengono, come sarebbe argomentando
nazionalsocialisticamente, allo Stato medesimo;
che ad esso e alle sue diramazioni autoritative,
anche alla giurisdizione, certo non è dato un
potere di valutazione, in chiave di dover essere,
per così dire eticheggiante, delle modalità dell’esercizio delle funzioni genitoriali.
In sostanza è del mondo che sono i figli: ai genitori l’obbligo, forse meglio dire il compito, di
contribuire, per quanto possibile, alla loro educazione, con progressivo prudente inserimento
di dati, utili, per quanto di ragione, ad uno sviluppo sereno del bambino.
Non si esige una costante qualificata presenza
(quali i parametri di valutazione?); non si esige
l’appropriazione di un ruolo (come valutarne
l’apporto concreto in termini di contributo fattivo; forse alla mera luce delle ore trascorse insieme senza alcuna valutazione qualitativa?); non
si esige un risultato.
Più semplicemente, ex art. 30 Costituzione, si
esige lo spiegamento di forze, qualunque ne sia
l’esito: in altri termini tutto, o quasi tutto, salvi i
maltrattamenti, purché al fatto naturale del concepimento, proprio ad ogni specie animale, non
consegua il mero disinteresse, la morte presunta, per così dire, della figura genitoriale.
Ed ecco allora, poiché detta morte presunta,
nella specie, si è consumata per certo con tutto
quanto ne consegue in termini schiettamente
privativi, che il tema si sposta sul piano probatorio e ancor prima eziologico.
Date le predette coordinate (il dovere genitoriale di essere in qualche modo presente; nella
specie la totale immotivata reiterata e perdurante assenza del padre quivi convenuto), ebbene
F.V. ha sofferto conseguenze lesive, manifeste e
apprezzabili, nel suo percorso di maturazione e
crescita evolutiva, fossero anche esse, come è
ovvio nella specie, fortemente legate alle stesse
valutazioni soggettive dell’interessata?
Soccorre, in primo luogo, il dato tanto ovvio
quanto empirico per il quale la circostanza,
comprovata, di una totale assenza di contributo
assistenziale, oltre l’ambito strettamente patrimoniale, sia, ragionevolmente, foriera di conseguenze lesive.
F. ebbe negli anni, ma solo progressivamente,
l’apporto, anche affettivo, dei nonni e del marito della madre: ma appunto solo progressivamente.
Come riferito al c.t.u., e non v’è ragione di non
credere alla interessata, (d’altra parte il convenuto contumace nulla ci dice in merito), la
bambina conosceva sin dall’età di tre anni l’esistenza di un padre naturale che non viveva con
la famiglia; a tutt’oggi, su domanda del perito,
indica nella madre la persona di riferimento,
con la quale sostituì, in sostanza, il padre; nega
di avere maturato, ma sarebbe strano il contrario, sentimenti affettivi negativi verso la figura
assente; ricorda, con senso critico, osserva il
c.t.u. sufficientemente elaborato, un senso di
diversità rispetto ai compagni ai tempi della frequentazione delle scuole elementari, un qual
certo disagio ovvero disorientamento nel dover
riferire il cognome della madre; l’attrice, F., è, a
tutt’oggi, a conoscenza del tentativo del padre
95
RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE
AIAF RIVISTA 2/2006
naturale di inviare, senza successo, la madre ad
una interruzione della gravidanza; ricorda di
avere sostanzialmente fantasticato sulla figura
paterna, non avendo altri dati a disposizione,
sino, tuttavia, alla maturata e determinata decisione di rintracciarlo; descrive, e si tratta di fatti interessanti ai fini di causa, l’ansia che ha
accompagnato la ricerca, la brevità del colloquio infine ottenuto; la maturazione di aspettative per altri incontri costruttivi, sino allo scambio dei rispettivi numeri di telefono; l’esito
sostanzialmente negativo di tale tentato contatto, sino all’abbandono del relativo disegno; la
delusione provata nella constatazione, affatto
scontata, a ben vedere, del detto esito così deludente.
Quanto al resto, ma per ogni altra valutazione
per così dire storica, si fa espresso rinvio alla
c.t.u. e alla relativa anamnesi aut colloquio, la
perizianda vive con serenità, oggi, un proprio
autonomo rapporto affettivo
(Trib. Venezia, 30.6.2004).
morale ed assistenziale chiaramente mancato.
Trattasi di un coacervo di situazioni e fatti,
apporti concreti, i quali, a prescindere dalla
qualità del di loro contenuto, certo non giudicabile dallo scrivente, non sono stati forniti,
malgrado l’obbligo di legge relativo.
L’effetto privativo, tanto premesso, è eclatante:
nello sviluppo della propria personalità, nel
coacervo delle scelte esistenziali della crescita
di cui l’attrice avrebbe potuto godere, con un
contributo, con le modalità, i tempi ed i criteri,
sostanzialmente non sindacabili, offribili dal
convenuto, F. non ha in sostanza ricevuto
alcunché.
La violazione del detto diritto fondamentale - il
diritto alla educazione, alla assistenza non solo
economica, comunque mancata - è stato in
effetti reiteratamente violato: in effetti ne perdura, senza nessuna giustificazione, la violazione.
La percezione di quanto sopra da parte della
interessata, che in tutti questi anni non ha ricevuto alcun segnale da chi aveva, volente o
nolente, che importa, contribuito alla di lei
generazione, ne è la prima prova, in uno con
elementi presuntivi di intuibile comprensione.
La consapevolezza, infine raggiunta, dalla attrice di essere stata trattata come il figlio di un
mammifero di specie diversa da quella umana
(sebbene molti mammiferi, a ben vedere, pongono a lungo cura alla prole), è in sé una conseguenza lesiva della altrui condotta illecita e
merita un risarcimento riequilibratorio.
La relativa domanda va dunque accolta.
Quanto alla non semplice quantificazione del
danno soccorre, nell’economia di liquidazione
equitativa, il coacervo degli elementi di fatto
ricordati, anche con riferimento all’intensità del
dolo, riflesse nella percezione della danneggiata.
Il convenuto, a quanto è dato di conoscere in
causa, una volta rifiutata la paternità, per ragioni che, si ribadisce, non hanno rilievo, si è creato una famiglia e una professionalità: la circostanza aggrava, per così dire, la valutazione della di lui condotta dal punto di vista della percezione negativa che della stessa ha avuto l’attrice, con quanto ne consegue in punto intensità
dell’immotivata dolorosa privazione di un
apporto che la Costituzione le garantiva (le
avrebbe dovuto garantire)
(Trib. Venezia, 30.6.2004).
Come spesso accade in questi casi non si discute
di un danno biologico, non rilevandosi alcuna
apprezzabile patologia (non emergendo elemento
alcuno dal punto di vista di alterazione psicopatologicamente apprezzabile, data l’assenza,
appunto, di sintomi di disturbi comportamentali),
ma di danno esistenziale.
Ma non è di questo, di un danno biologico chiaramente da escludersi, che si va ora discorrendo.
Dunque, anche alla luce delle dichiarazioni
della interessata, ma si legga anche l’esito dell’indagine istruttoria testimoniale, il convenuto
non ha mai contattato né tentato di contattare la
figlia; una volta trovato, sembra proprio la parola giusta, con ogni ragionevolezza, non ha messo la giovane nelle condizioni di maturare un
seppur tardivo contatto.
F. è consapevolmente cresciuta nella consapevolezza di avere un padre (quello vero) completamente assente; il marito della madre ha avuto
un ruolo certo positivo, peraltro mai vissuto
come sostitutivo.
Non si è verificato, e questo appare ragionevole, come osservato dal c.t.u., un improvviso
distacco: bensì, più realisticamente, una totale
assenza, tuttavia nota, consapevolmente nota,
all’attrice.
Con specifico riferimento a tale descritto ultimo
deludente esito della annosa vicenda, non trascurando certo il lungo tempo trascorso, ritiene
dunque provato il Tribunale che la totale assenza della figura paterna sia stata avvertita e sofferta, seppur con la fortunata esistenza di strumenti compensativi che hanno consentito alla
giovane di sviluppare con sostanziale equilibrio
la propria personalità.
Ciò detto, malgrado l’assenza di esiti apprezzabili sul piano psicopatologico, nonché valutato,
anche sulla base della c.t.u., il relativo predetto
equilibrio complessivo e l’assenza di turbe comportamentali, vi è stata e v’è lesione del diritto
fondamentale dell’attrice all’apporto anche
96
In conclusione possiamo, quindi affermare che il
genitore sarà tenuto al risarcimento del danno
non per la violazione in sé dei doveri genitoriali,
ma piuttosto qualora, violando i propri obblighi
nei confronti dei figli, abbia inciso negativamente sul corretto sviluppo della loro personalità.
4. LA RESPONSABILITÀ DEL GENITORE NON
AFFIDATARIO PER MANCATO ESERCIZIO DEL
DIRITTO - DOVERE DI VISITA.
na particolare ipotesi di responsabilità a
carico del genitore può ravvisarsi nell’ipotesi in cui questi, non essendo affidatario della
prole, ometta di esercitare il c.d. diritto di visi-
U
MAGGIO - AGOSTO 2006
ta, che costituisce lo strumento giuridico attraverso il quale garantire la sussistenza del rapporto tra i figli e il genitori non affidatario.
Tale diritto non è espressamente previsto dal legislatore, ma va desunto dalle espressioni contenute nell’art. 155, comma 2, c.c., e nell’art. 6, comma 3, della L. n. 898/70 che attribuiscono al giudice il compito di stabilire le modalità di esercizio dei diritti del genitore non affidatario nei rapporti con i figli.
In materia di affidamento dei figli minori il giudice della separazione e del divorzio deve attenersi al criterio fondamentale - posto, per la
separazione, dal legislatore della riforma del
diritto di famiglia, nell’art. 155 comma primo
cod. civ. (che ha esplicitamente codificato un
principio costantemente adottato in precedenza
dalla giurisprudenza e dalla dottrina), e, per il
divorzio, dall’art. 6 della legge n. 898/70 - rappresentato dall’esclusivo interesse morale e
materiale della prole, privilegiando quel genitore che appaia il più idoneo a ridurre al massimo
- nei limiti consentiti da una situazione comunque traumatizzante - i danni derivati dalla
disgregazione del nucleo familiare e ad assicurare il migliore sviluppo possibile della personalità del minore. In tale prospettiva consegue, da
un lato, che la stessa posizione del genitore affidatario si configuri piuttosto che come un “diritto”, come un “munus”, e che la stessa regolamentazione del c.d. “diritto di visita” del genitore non affidatario debba far conto del profilo
per cui un tal “diritto” si configuri esso stesso
come uno strumento in forma affievolita o ridotta per l’esercizio del fondamentale “diritto dovere” di entrambi i genitori, di mantenere,
istruire ed educare i figli, il quale trova riconoscimento costituzionale nell’art. 30, comma primo della Costituzione, e viene posto, dall’art.
147 cod. civ., fra gli effetti del matrimonio
(Cass. civ., sez. I, 19.4.02, n. 5714)
In tema di separazione personale dei coniugi, il
diritto del genitore non affidatario a mantenere
vivo il rapporto affettivo con i figli, interessandosi anche della loro educazione e istruzione,
essendo sempre finalizzato e subordinato al perseguimento dell’interesse dei minori, può essere
legittimamente disciplinato dal giudice della
separazione in modo da non recare pregiudizio
alla salute psicofisica dei minori medesimi,
anche prevedendo particolari cautele e restrizioni agli incontri, ovvero arrivando perfino a
sospenderli del tutto se necessario
(Cass. civ, sez. I, 17.1.96, n. 364)
Il coniuge separato ha, quindi, diritto di vedersi
assicurata una sufficiente possibilità di rapporti
con il figlio affidato all’altro coniuge, al fine di
essere in grado di guadagnarsi l’affetto ed il
rispetto del figlio stesso. Trattasi, però, di un
diritto che, sia in dottrina (DE FILIPPIS) che in
giurisprudenza (Cass. n. 6446/80) è ritenuto non
RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE
illimitato, in quanto il giudice può disconoscerlo
e, quindi, escluderlo, qualora ricorrano gravi e
comprovate ragioni di incompatibilità del suo
esercizio con la salute psico-fisica del minore.
Il diritto del coniuge separato di vedersi assicurata una sufficiente possibilità di rapporti con il
figlio minore affidato all’altro coniuge… ed
anche al fine di essere in grado di guadagnarsi
l’affetto ed il rispetto del figlio stesso, ha carattere non assoluto, atteso che resta subordinato
ai preminenti interessi morali e materiali del
minore, sicché può essere limitato od anche
disconosciuto dal giudice, ove ricorrano gravi e
comprovate ragioni d’incompatibilità del suo
esercizio con la salute psico-fisica del minore
stesso
(Cass. civ., sez. I, 13.12.80, n. 6446; Cass. civ.,
sez. I, 9.7.89, n. 3249)
Il diritto di visita del genitore non affidatario,
dunque, resta subordinato sempre al principio
basilare in tema di affidamento che è l’interesse
morale e materiale della prole.
La Suprema Corte, in passato, ha individuato nella esasperata conflittualità dei coniugi, emersa in
sede di separazione, la causa di una possibile
esclusione e/o limitazione del diritto di visita da
parte del genitore non affidatario, poiché gli
incontri ripetuti e frequenti del minore con quest’ultimo potrebbero pregiudicare il suo sano sviluppo fisico e mentale.
In tema di provvedimenti riguardanti la prole di
genitori separati, il diritto del coniuge non affidatario di vedersi assicurata una sufficiente possibilità di rapporti con il figlio (cosiddetto diritto
di visita), in correlazione della sua potestà di
controllarne l’educazione ed istruzione, se non
può essere negato per considerazioni di tipo
sanzionatorio attinenti alla responsabilità della
separazione, né per mere valutazioni di opportunità relative al coniuge affidatario, è suscettibile di esclusione o limitazione alla stregua dei
preminenti interessi del minore, alla cui tutela i
suddetti provvedimenti devono essere essenzialmente rivolti, come nel caso nel quale i frequenti incontri del minore stesso con il genitore
non affidatario, indipendentemente da un comportamento censurabile di quest’ultimo, possano implicare pregiudizio al suo sviluppo fisico e
psichico (nella specie, in considerazione di una
esasperata conflittualità esistente fra i coniugi)
(Cass. civ., sez. I, 9.5.85, n. 2882)
La giurisprudenza ha inoltre avuto modo di affermare che il diritto di visita, anche se deve essere
necessariamente subordinato al criterio guida del
preminente interesse del minore, non può, tuttavia, essere escluso, se non in presenza di gravi e
comprovati motivi:
97
RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE
In tema di separazione personale dei coniugi, il
diritto del genitore non affidatario dei figli a
vedersi assicurata una sufficiente possibilità di
rapporti con i minori affidati all’altro coniuge,
per quanto non abbia carattere assoluto, essendo subordinato ai preminenti interessi dei minori, nondimeno non può essere del tutto escluso
per un periodo più o meno lungo di tempo se
non in presenza di gravi motivi, che non possano essere ricondotti unicamente alla pregressa
condotta del genitore, occorrendo invece a tal
fine aver riguardo anche e soprattutto all’impatto psicologico sui minori delle vicende dalle
quali si fa derivare la sospensione del diritto di
visita ed al conseguente pregiudizio psico-fisico
per questi ultimi
(Cass. civ., sez.I, 12.7.94, n. 6548)
In tema di separazione personale dei coniugi, il
diritto del genitore non affidatario a mantenere
vivo il rapporto affettivo con i figli, interessandosi anche della loro educazione e istruzione,
essendo sempre finalizzato e subordinato al perseguimento dell’interesse dei minori, può essere
legittimamente disciplinato dal giudice della
separazione in modo da non recare pregiudizio
alla salute psicofisica dei minori medesimi,
anche prevedendo particolari cautele e restrizioni agli incontri, ovvero arrivando perfino a
sospenderli del tutto se necessario
(Cass. civ., sez.I, 17.1.96, n. 364)
La visita del genitore affidatario, inoltre, non
deve essere inteso soltanto alla stregua di un
diritto, ma deve configurarsi anche come un
dovere, il cui mancato esercizio può essere comportare la decadenza dalla potestà parentale,ai
sensi dell’art. 330 c.c., e integrare gli estremi del
reato di cui all’art. 570 c.p.(violazione degli
obblighi di assistenza familiare).
L’esercizio della c.d. visita del non affidatario
non è solo facoltà ma anche dovere, da inquadrare tra le posizioni dei componenti la famiglia
e nella solidarietà che deve legarli nel gruppo,
anche se i genitori siano separati o divorziati….il dovere dell’affidatario verso il figlio è un
obbligo verso l’altro genitore, espressione della
solidarietà negli oneri per i figli
(Cass.civ., sez. I, 8.2.00, n. 1365)
Nell’ipotesi di separazione personale dei coniugi (o di divorzio), il genitore non affidatario della prole, oltre che il diritto, ha, al tempo stesso,
il dovere/obbligo, categorico e primario, di visitare i figli e permanere con essi anche nei periodi, di regola coincidenti con le vacanze e con le
festività, nei quali i figli stessi hanno il diritto di
permanere con il genitore non affidatario per
un, più o meno lungo, lasso continuativo di
tempo
(Trib. Catania, 2.7.91)
Tutto ciò, però, non implica che si dia luogo ad
un obbligo coercibile, sia perché nessun rimedio
giudiziario è previsto per il caso di non attuazio98
AIAF RIVISTA 2/2006
ne (il genitore affidatario non può rivolgersi al
giudice, come invece il medesimo art. 155 c.c.
prevede, al terzo comma, che possa fare il non
affidatario), sia perché non appare percorribile,
data la natura dell’obbligo e del provvedimento
che lo prevede, la via del ricorso all’ art. 612
c.p.c. (esecuzione forzata di obblighi di fare) (DE
FILIPPIS).
Partendo, dunque, dalla considerazione che il c.
d. diritto di visita è configurato anche come
dovere per il genitore non affidatario, da svolgere nell’interesse della prole, il mancato adempimento dello stesso può comportare, in primis,
una responsabilità nei confronti dei figli, e poi
dare luogo anche ad una responsabilità nei confronti del coniuge affidatario, in quanto “espressione della solidarietà negli oneri per i figli”
(Cass. civ., n. 1365/00).
È stato infatti riconosciuto un risarcimento del
danno patrimoniale a favore del genitore affidatario di una figlia disabile, a titolo di rimborso per
le spese sostenute per l’assistenza della stessa nei
giorni in cui il genitore non affidatario avrebbe
dovuto tenerla presso di sé (Cass. n. 1365/00).
Per quanto attiene, invece, alla responsabilità del
genitore non affidatario, assenteista, nei confronti del figlio, è necessario che questi abbia subito
un danno consistente per esempio nella lesione
della sua serenità personale, o in un pregiudizio
allo sviluppo della sua personalità ecc. Insomma
si dovrà verificare che tale comportamento abbia
inciso in maniera negativa sul corretto sviluppo
della personalità del figlio (FACCI).
Ovviamente non sarà possibile imputare al genitore non affidatario nessuna responsabilità qualora esista un rifiuto insuperabile da parte del
figlio, ad intrattenere rapporti col genitore stesso.
In tale ipotesi si potrà giungere anche ad una
sospensione del diritto-dovere di visita a tempo
indeterminato, proprio per salvaguardare l’interesse del minore ad una crescita serena ed equilibrata.
In tema di provvedimenti relativi alla prole,
conseguenti alla dichiarazione di cessazione
degli effetti civili del matrimonio, ed anche in
base ai principi sanciti dalla Convenzione di
New York del 20 novembre 1989, ratificata con
legge n. 176 del 1991, la circostanza che un
figlio minore, divenuto ormai adolescente e perfettamente consapevole dei propri sentimenti e
delle loro motivazioni, provi nei confronti del
genitore non affidatario sentimenti di avversione
o, addirittura, di ripulsa - a tal punto radicati da
doversi escludere che possano essere rapidamente e facilmente rimossi, nonostante il supporto di strutture sociali e psicopedagogiche costituisce fatto idoneo a giustificare anche la
totale sospensione degli incontri tra il minore
MAGGIO - AGOSTO 2006
RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE
stesso ed il coniuge non affidatario. Tale sospensione può essere disposta indipendentemente
dalle eventuali responsabilità di ciascuno dei
genitori rispetto all’atteggiamento del figlio ed
indipendentemente anche dalla fondatezza delle motivazioni addotte da quest’ultimo per giustificare detti sentimenti, dei quali vanno solo
valutate la profondità e l’intensità, al fine di prevedere se disporre il prosieguo degli incontri
con il genitore avversato potrebbe portare ad un
superamento senza gravi traumi psichici della
sua animosità iniziale ovvero ad una dannosa
radicalizzazione della stessa
(Cass. civ., sez. I, 15.1.98, n. 317).
Nel decidere in ordine alle modalità di esercizio
del diritto di visita del genitore, non affidatario,
il giudice della separazione deve tenere conto
della volontà della prole adolescente (nella specie, di quindici e tredici anni), per cui, qualora
essa abbia manifestato il rifiuto di incontrare il
padre in giorni ed in orari prestabiliti, allegando
di non voler subire l’ossessionante, continuo
recriminare paterno contro la madre, il giudice
non deve coartare la volontà della prole, ma
deve disporre che gli incontri con il genitore
non affidatario avvengano una volta al mese,
ma nel giorno liberamente scelto dalla prole
stessa
(Trib. Catania 17.4.96)
La sentenza su citata, si è visto, non esclude il
ricorso al supporto di strutture sociali e psicopedagogiche, per superare la situazione di ostilità
del minore, ma conclude affermando che, se essa
non è facilmente rimuovibile, deve portare alla
sospensione della facoltà di visita, a prescindere
dal fatto che l’animosità sia stata determinata da
comportamenti negativi del genitore.
Parte della dottrina (DE FILIPPIS, CASABURI),
ritiene che la conclusione raggiunta dalla sentenza non possa essere elevata a principio generale,
ma possa eventualmente essere valida soltanto
per singoli casi. Resta, infatti nella convinzione
che il rapporto tra figlio e genitore sia di fondamentale importanza per lo sviluppo psichico dell’adolescente e che assecondare la volontà del
ragazzo di non frequentare il genitore può solo
formalmente realizzare l’interesse dello stesso,
ma lo nega invece da un punto di vista sostanziale. Ciò a maggior ragione se il coniuge non affidatario non abbia avuto comportamenti negativi e
non sia una persona la cui personalità o stile di
vita possano esercitare conseguenze negative sul
minore.
Nello stesso periodo anche la Corte Europea dei
diritti dell’uomo affermava:
Qualora in un procedimento di separazione personale tra coniugi ravvisata l’opportunità di affidare al padre la figlia minore, ormai adolescente,
sia necessario regolare il diritto di visita della
madre, il giudice non può prescindere dalla particolare situazione psicologica della minore, il
cui rapporto con la genitrice sia talmente difficile e conflittuale, fino all’esasperazione, da indurre la minore a rifiutare gli incontri con la madre
secondo modalità preordinate dal giudice e controllate dagli operatori sociali; allo scopo, pertanto, di evitare la radicalizzazione, forse irreversibile, di tale stato d’animo e di favorire, anzi, il
recupero del rapporto parentale, nel rispetto della volontà della minore, va disposto che i suoi
incontri con la madre avvengano, ma con le
modalità prescelte solo dalla stessa minore
(Trib. Catania 6.12.95)
Anche se il genitore separato, divorziato, o,
comunque, non convivente più con il partner e
non affidatario della prole ha il diritto/dovere di
visitarla, di permanere con essa e di mantenere
costanti rapporti parentali, l’esercizio di tale
diritto/dovere può essere, anche a tempo indeterminato, sospeso qualora la prole, a prescindere dai meriti o dai demeriti del genitore non
affidatario, manifesti, nei confronti di quest’ultimo, anche in virtù dell’influenza esercitata da
persone che la circondano, radicati, costanti
sentimenti di rifiuto e di ripulsa, dovendosi riconoscere al diritto del minore alla serenità personale e familiare ed all’integrale suo benessere
psicologico priorità assoluta
(Corte eur. dir. uomo, 21.10.98)
Risultano ispirate al principio del rispetto della
personalità del minore anche due pronunce del
Tribunale catanese:
5. LA RESPONSABILITÀ DEL GENITORE
AFFIDATARIO CHE OSTACOLA I RAPPORTI
CON L’ALTRO GENITORE.
a responsabilità di un genitore nei confronti
del figlio può sussistere anche nell’ipotesi
in cui impedisca, ostacoli o comunque non
agevoli i rapporti dello stesso con l’altro genitore, perpetrando il più delle volte la fattispecie di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, prevista e punita dall’art. 388, comma 2, c.p.
L
… integra il reato di cui all’art. 388 c.p. il comportamento del coniuge che non osservi i provvedimenti dati dal giudice di primo grado in
tema di affidamento dei figli minori.
(Cass. pen., sez. V, 16.3.00, n. 4730)
Pur dovendosi ritenere che, di regola, la semplice inattività non possa costituire la condotta
“elusiva” dei provvedimenti del giudice in materia di affidamento di minori, prevista come reato dall’art. 388 comma 2 c.p., deve tuttavia
riconoscersi la configurabilità di tale reato quando, richiedendosi da parte del soggetto tenuto
all’osservanza degli obblighi ingiunti con taluno
dei suddetti provvedimenti una certa attività collaborativa, questa venga ingiustificatamente
negata. (Nella specie, in applicazione di tale
principio, la S.C. dopo aver posto in luce il
99
RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE
“ruolo centrale che assume il genitore affidatario nel favorire gli incontri dei figli minori con
l’altro genitore”, ha affermato che: “Il rifiuto di
fatto opposto dal genitore affidatario alla richiesta - verbale o scritta - dell’altro genitore di esercitare il diritto di visita dei figli concreta l’elusione del provvedimento giurisdizionale che
regolamenta tale rapporto, proprio perché l’atteggiamento omissivo dell’obbligato finisce con
il riflettersi negativamente sulla psicologia dei
minori, indotti così a contrastare essi stessi gli
incontri col genitore non affidatario perché non
sensibilizzati ed educati al rapporto con costui
dall’altro genitore”)
(Cass. pen., sez. VI, 18.11.99, n. 2925)
Ai fini della sussistenza del delitto di dolosa mancata esecuzione di un provvedimento del giudice
che concerna l’affidamento di minori, la condotta cosiddetta “elusiva” deve essere intesa come
comprensiva di qualsiasi comportamento positivo o negativo, che non esige né scaltrezza di sorta o subdole modalità né richiede che la pretesa
di attuazione dell’ordine del giudice debba essere avanzata nei modi e nelle forme della minacciata esecuzione degli ordini di fare, secondo il
rito processuale civile, bastando anche il semplice rifiuto del soggetto obbligato alla istanza verbale o scritta del privato interessato
(Cass. pen., sez. VI, 8.5.96, n. 6042)
Ai fini della configurabilità del reato di cui
all’art. 388 cpv. c.p. il termine “elude” va inteso in senso lato, comprensivo di qualsiasi comportamento - positivo o negativo - ad evitare l’esecuzione del provvedimento del giudice civile.
(Nella specie, si è ritenuta sussistente la condotta tipica nel fatto del genitore che abbia portato
i figli minori, da affidare alla madre per tre mesi,
nell’abitazione del proprio fratello anziché in
quella di lei, ed abbia subordinato la consegna
alla volontà dei figli e al trasferimento della
moglie nella propria abitazione)
(Cass. pen. sez. VI, 4.6.90)
In tema di mancata esecuzione di un provvedimento del giudice civile concernente l’affidamento di un figlio minore, qualora il genitore
affidatario, pur obbligato a consentire l’esercizio del diritto di visita da parte dell’altro genitore secondo le prescrizioni stabilite dal giudice,
viene a trovarsi in una concreta situazione di
difficoltà determinata dalla resistenza del minore, ed essendo egli nello stesso tempo tenuto a
garantire la crescita serena ed equilibrata del
minore a norma dell’art. 155 comma 3 c.c., ha
in ogni momento il diritto-dovere di assicurare
massima tutela all’interesse preminente del
minore, ove tale interesse, per la naturale fluidità di ogni situazione umana, non sia potuto
essere tempestivamente stato portato alla valutazione del giudice civile. Ne consegue che, ai
fini della sussistenza del dolo, occorre stabilire
da parte del giudice penale se il genitore affidatario, nell’impedire al genitore non affidatario il
diritto di visita ricusato dal minore, sia stato
eventualmente mosso dalla necessità di tutelare
l’interesse morale e materiale del minore mede100
AIAF RIVISTA 2/2006
simo, soggetto di diritti e non mero oggetto di
finalità esecutive perseguite da altri
(Cass. pen., sez. VI, 16.3.99, n. 7077)
In un caso di qualche anno fa il Tribunale di
Roma si è trovato ad esaminare il caso di una
madre divorziata, cui era stata affidato il figlio,
che sistematicamente e senza giustificate ragioni
impediva all’altro genitore di intrattenere rapporti con il minore, contravvenendo, quindi alle specifiche disposizioni dettate dal giudice e in sede
di separazione e in sede di divorzio.
Il genitore non affidatario, quindi, vista la situazione, si rivolgeva al Tribunale romano chiedendo la condanna della ex moglie al risarcimento
del danno biologico e morale sia suo che del
figlio minore, poiché il comportamento della
donna aveva inciso “sulle loro proiezioni di vita,
sul loro inserimento sociale, sulla tutela e conservazione della famiglia, sui loro rapporti affettivi,
sui rapporti socio-culturali, sulle loro condizioni
fisio-psichiche”.
Il giudice investito ha ravvisato, pertanto, nel comportamento della moglie gli estremi del reato di
“Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento
del giudice”, previsto all’art. 388 c.p., e ha riconosciuto al padre, ostacolato nel rapporto col figlio, il
diritto al risarcimento del danno morale e del danno alla salute fisio-psichica (in realtà più che di
danno biologico si tratta di danno esistenziale):
…laddove egli non possa, incolpevolmente
assolvere i predetti suoi importanti doveri verso
il proprio figlio, né soddisfare il suo diritto di
conoscerlo, di frequentarlo e di educarlo, in
ragione e in proporzione anche del proprio senso di responsabilità e del proprio prolungato,
ma vano, impegno posto in essere per il soddisfacimento di setto diritto-dovere: circostanze
tutte, queste, accertate nel caso di specie.
Sicché nella fattispecie è certamente ravvisabile
e risarcibile - a mente degli artt. 2043, 2057 e
2059 c.c, in relazione all’art. 32 Cost. - il danno permanete biologico, oltre che morale,
cagionato dalla P.R. alla persona del B.A., la cui
esistenza ontologica, in termini di subito pregiudizio alle sue preesistenti condizioni fisiopsichiche, è provata in re ipsa
e va comunque presunta ai sensi degli artt. 2727
e 2729 c.c., trattandosi di danno emergente che
deriva dai prolungati turbamenti neuro-psichici,
dal dolore, dalle ansie e dalla logorante angoscia in lui prodottisi per non aver potuto assolvere, non per la sua volontà, agli stringenti
doveri verso il figlio, né soddisfare i suoi legittimi diritti di padre, con pregiudizievoli riflessi
anche sulla propria vita di relazione (nei rapporti parentali, speciali, ricreativi ecc.),menomazioni tutte fortemente incidenti sulla salute
fisio-psichica d un individuo anche in proiezione futura e, perciò, di concreta e permanente
rilevanza biologica, per le quali, quindi, può
MAGGIO - AGOSTO 2006
essere fatta valere l’aspettativa riparatrice
(Trib. Roma, 13.6.00)
Il risarcimento nei confronti del figlio, invece,
riconosciuto in astratto, veniva negato in concreto, per difetto di legitimatio ad processum (Trib.
Roma, 13.6.00).
Più recente, invece, è una pronuncia del Tribunale di Monza la quale ha evidenziato come la compromissione sofferta dalla madre, nella sfera dei
rapporti affettivi con il figlio minore (affidato al
padre), attraverso l’interruzione di ogni apprezzabile relazione per un periodo di dieci anni dovuto al comportamento del padre che non ha
mai dato un reale contributo positivo all’evoluzione della relazione del figlio con la madre-,
integri una lesione di un diritto personale costituzionalmente garantito, e rappresenti quindi un
fatto costitutivo del diritto al risarcimento dei
danni non patrimoniali, sotto l’aspetto sia del
danno morale soggettivo (patema d’animo), sia
dell’ulteriore pregiudizio derivante dalla privazione delle positività derivanti dal rapporto
parentale.
Il genitore non affidatario che venga meno al
fondamentale dovere, morale e giuridico, di
non ostacolare, ma anzi di favorire la partecipazione dell’altro genitore alla crescita ed alla
vita affettiva del figlio, è responsabile per il grave pregiudizio arrecato al diritto personale del
genitore non affidatario alla piena realizzazione
del rapporto parentale (nel caso di specie, l’organo giudicante ha condannato il genitore ostacolante a risarcire, a titolo di danno morale ed
esistenziale, al genitore non affidatario la somma di E. 50.000,00)
(Trib. Monza, 5.11.04)
Ha diritto al risarcimento del danno il genitore
non affidatario che non aveva potuto esercitare
per lungo tempo il diritto di visita al figlio per
effetto, oltre che di problemi personali dello
stesso non affidatario, delle condotta ostruzionistica del genitore affidatario
(Trib. Monza, 5.11.04)
In particolare, dunque, il Tribunale di Monza, con
tale pronuncia- che costituisce una delle prime
decisioni che riconoscono la risarcibilità del danno non patrimoniale sofferto dal genitore non affidatario per gli ostacoli frapposti all’esercizio del
diritto di visita da parte dell’altro genitore- ha
riconosciuto in capo alla madre il diritto ad essere risarcita in relazione ai turbamenti prolungati,
al dolore, alle ansie prodottisi in lei per non avere
potuto assolvere - non per sua volontà - agli stringenti doveri verso il figlio, né soddisfare i suoi
legittimi diritti di madre a partecipare alla crescita ed alla vita affettiva del figlio (RAMACCIONI).
RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE
6. RESPONSABILITÀ DA RICONOSCIMENTO
NON VERITIERO DI PATERNITÀ. IL
DISCONOSCIMENTO DELLA PATERNITÀ.
uò sussistere responsabilità extracontrattuale, ex art. 2043 c.c., del genitore nei confronti della prole, anche nell’ipotesi in cui venga accertato che sia stato fatto un riconoscimento non veritiero di figlio naturale. Tale fatto, oltre che integrare gli estremi del reato contemplato all’art. 483 c.p (Falsità ideologica
commessa da privato in atto pubblico), può
comportare anche una lesione, un pregiudizio
al figlio che, credendo- fino a quel momento di essere realmente figlio di quel genitore, scopra all’improvviso che c’è una discrasia tra la
situazione reale e quella legale.
Un caso di tal specie è stato analizzato dal Tribunale di Torino nel 1992, il quale, dopo aver accertato la nullità del riconoscimento della figlia
naturale, per difetto di veridicità, e aver riscontrato l’esistenza degli estremi del reato di cui
all’art. 483 c.p., aveva condannato il padre, autore del falso riconoscimento, al risarcimento del
danno in favore della figlia allora dodicenne, per
i pregiudizi alla stessa arrecati.
P
Nel giudizio promosso dal preteso padre per la
declaratoria di nullità, per difetto di veridicità,
del riconoscimento di figlio naturale, deve considerarsi ammissibile e può nel merito essere
accolta la domanda, del curatore speciale del
minore, diretta ad ottenere il risarcimento del
danno non patrimoniale causato al minore dal
riconoscimento falso, danno psicofisico e di
carattere anche sociale inevitabilmente inferto;
il danno non patrimoniale è risarcibile perché il
falso riconoscimento integra il reato di falso
ideologico
(Trib. Torino, 31.3.92)
Il Tribunale evidenziava come, dalla situazione
prospettata, la minore avrebbe subito un notevole pregiudizio psico-fisico, consistente nella difficoltà a reinserirsi col nuovo cognome nell’ambiente sociale e scolastico, nelle notevoli sofferenze che le sarebbero derivate dai commenti dei
terzi sul suo conto e sulla sua vicenda e nel grave dolore nello scoprire all’improvviso la nuova
realtà.
Maggiore è, infatti l’età della persona interessata,
e più gravi saranno i danni da lei subiti, in quanto persona in grado di rendersi pienamente conto
della situazione circostante e di quanto accaduto
alla sua vita.
Nel caso in esame l’impugnazione del riconoscimento da parte del falso padre era avvenuto a
distanza di molti anni sia dal riconoscimento
stesso che dalla rottura dei rapporti affettivi con
la madre della bambina. Senza dubbio, secondo
101
RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE
l’opinione del giudice torinese, questo ha contribuito ad aumentare le ripercussioni negative della vicenda sulla sfera personale della bambina.
Anche il disconoscimento di paternità, che provoca la perdita dello status di figlio legittimo,
può essere causa di grave pregiudizio- soprattutto di carattere non patrimoniale- sia per il minore
che per il figlio ormai adulto.
Comunque, in ogni caso, il termine abbastanza
ristretto per la proposizione della domanda (ad
eccezione dell’ipotesi in cui la stessa venga proposta dal figlio stesso entro un anno dal raggiungimento della maggiore età o dal momento in cui
venga a conoscenza dei fatti che rendono ammissibile il disconoscimento), dovrebbe comportare
una riduzione dei pregiudizi subiti.
7. LA RESPONSABILITÀ DA PROCREAZIONE.
l dibattito su questa problematica si è sviluppato nel nostro paese nei primi anni ‘50, sulla scia di una pronuncia del Tribunale di Piacenza che riconobbe ad una donna, venuta al
mondo con lue congenita, il diritto al risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. nei confronti dei genitori (Trib. Piacenza 31.7.1950).
La questione, poi, non è stata riaffrontata nel
merito dalla Corte d’Appello di Bologna poiché,
avendo il Tribunale di Piacenza dichiarato solidalmente responsabili entrambi i genitori, è stata
negata alla madre la legittimazione ad agire per i
danni quale rappresentante legale della figlia,
ritenendosi necessaria la nomina di un curatore
speciale (App. Bologna, 7.6.1951).
In ogni caso numerose sono state le voci di critica che si sono sollevate in merito alla pronuncia
(CARNELUTTI, RESCIGNO).
Si riteneva essenzialmente che esistessero degli
ostacoli a ravvisare l’esistenza di una responsabilità: in primis si dubitava dell’esistenza di un
danno, data la possibilità di curare la malattia e la
non apprezzabile diminuzione di rendimento
lavorativo del leutico, ma la difficoltà maggiore
per la configurabilità dell’esistenza di una
responsabilità è stata individuata nell’impossibilità di configurare una lesione alla salute, ossia
un bene della vita, costituzionalmente tutelato, in
capo ad un soggetto non ancora vivente, essendo
stata l’infezione, nella fattispecie, contestuale al
concepimento (PATTI).
Altra parte della dottrina, pur se minoritaria
(RESCIGNO), osservava, invece, che “se l’illecito
e la conseguenza dannosa possono essere separati nel tempo, non è necessario che il soggetto passivo già esista nel momento in cui l’atto è compiuto, così come non si richiede che tuttora esista
l’autore dell’illecito nel momento in cui il danno
si produce. Una conferma viene tratta dalla risar-
I
102
AIAF RIVISTA 2/2006
cibilità del danno morale per un’ingiuria subita
prima del nascere. Si pensi al caso del nascituro
che venga ingiuriato come bastardo: si potrebbe
dire che, mancando il soggetto manca l’opinione
della propria onorabilità e la volontà di tutelarla.
Ma la nozione oggettiva di onore consente di
risarcire il danno che il soggetto subisce affacciandosi alla vita ed entrando nella società.
* già Docente di Istituzioni di Diritto Privato nell'Università LUISS di Roma;
Titolare delle cattedre di Diritto Civile e Diritto dell'Internet nell'European School of Economics.
MAGGIO - AGOSTO 2006
RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE
GIUSEPPE CASSANO
Rapporti familiari, responsabilità civile e danno esistenziale.
Il risarcimento del danno non patrimoniale all’interno della famiglia
CEDAM
È stato pubblicato con la CEDAM e presentato, in occasione di un Convegno sul tema organizzato
dall’AIAF Abruzzo presso il Tribunale di Pescara, il libro del Prof. Avv. Giuseppe Cassano:”Rapporti
familiari, responsabilità civile e danno esistenziale”.
Con il suo libro, Giuseppe Cassano si cala appieno nel tema “caldo” della responsabilità civile e del
risarcimento del danno all’interno dei rapporti familiari, che sostanzialmente costituisce la fattispecie
più nuova che, da trent’anni a questa parte, si è affacciata nel panorama giuridico del pianeta famiglia: fattispecie che ha in qualche modo recepito e portato a sintesi, in una configurazione con valenza giuridica, tutte le trasformazioni di non poco momento avvenute in questi anni dentro i rapporti familiari, avviate dai mutamenti del costume sociale, accolte e nello stesso tempo sollecitate dalla riforma del diritto di famiglia del 1975.
Fattispecie che a sua volta, da una parte recepisce e dall’altra dà impulso ad un nuovo e più definito concetto di responsabilità
dei soggetti e dei loro comportamenti nel rapporto familiare, che era andato progressivamente sbiadendo con un’interpretazione
ed un progressivo svuotamento dell’istituto dell’addebito, (di natura peraltro del tutto diversa), i cui confini indefiniti e fumosi
hanno rivelato tutti i loro limiti nell’applicazione giurisprudenziale.
L’autore si propone di ricostruire, a partire da una analisi completa ed esauriente della categoria del danno, di così grande attualità nel nostro ordinamento, il passaggio giustamente definito “epocale” da molti studiosi, dalla concezione della famiglia come
istituzione preordinata ad uno scopo esterno a sé, la conservazione dell’ordine sociale, alla famiglia sentita come comunità di
soggetti autonomi, ciascuno dei quali è portatore di diritti che meritano tutela giuridica.
E ciò fa attraverso una sistematica indagine, che intreccia i profili dottrinari con una accurata ricerca delle decisioni giurisprudenziali e dei principi che le hanno ispirate nel corso degli anni, conducendo il lettore a poco a poco dalla conoscenza e dall’esame delle diverse fattispecie di danno così come affermatesi in questi anni alla più specifica categoria del danno endofamiliare, che ha, da non molto tempo, trovato ampio spazio nel dibattito e qualche, ancora timida, applicazione, in particolare nella giurisprudenza di merito, fino ad arrivare alla ormai nota sentenza della Suprema Corte 10/5/05, n. 9801.
Il testo, insomma, porta il lettore a focalizzare per tappe successive, insieme alla giurisprudenza sul punto, il passaggio da una
idea consolidata nel mondo giuridico dell’esistenza di una disciplina chiusa e completa in se stessa del diritto familiare al progressivo ampliamento dei suoi confini, alla possibilità, anzi alla necessità che i rapporti familiari attingano risorse per la loro regolamentazione anche da altri significativi principi dell’ordinamento.
Ne viene fuori un quadro sistematico del problema affrontato: partendo dalle riflessioni di una dottrina attenta a quanto maturava nei rapporti familiari sul piano sociologico ed alle conseguenze giuridiche da ciò prodotte sugli istituti tradizionali, l’autore
opera una risistemazione dei principi, che hanno in qualche modo sollecitato la nascita del danno esistenziale per poi passare
ad una trattazione più specifica dello stesso nelle singole fattispecie, badando a connotare e differenziare i vari tipi di danno, sia
sul piano definitorio sia con il supporto delle sentenze di riferimento, adeguatamente riportate nei loro passaggi più significativi.
Di particolare interesse per le novità che introduce il tema dei profili risarcitori in relazione alla violazione dei doveri coniugali:
né vengono tralasciati sotto il profilo del danno, istituti nuovi, quali gli ordini di protezione, di cui alla legge n. 154/01, o quelli introdotti con la legge n. 40/04 sulle inseminazioni artificiali eterologhe, che configurano forme particolari di responsabilità,
figure comunque emerse all’attenzione del legislatore a seguito del processo in corso di trasformazione della famiglia.
I formulari finali, evidentemente diretti agli studenti, evidenziano la volontà dell’autore di fornire anche uno strumento pratico di
lavoro a chi si avvicina per la prima volta alla materia e può così verificare la traduzione concreta delle riflessioni dottrinarie e
degli orientamenti giurisprudenziali così efficacemente descritti.
In definitiva, non solo uno strumento completo di studio, ma nel contempo una ricostruzione, che può offrirci spunti di domanda e di ulteriori riflessioni sul ruolo del risarcimento del danno all’interno della famiglia: certo una possibilità nuova per la tutela del coniuge nei confronti del comportamento dell’altro, quando questo viola e lede i valori fondamentali della persona, una
possibilità tuttavia da maneggiare con delicatezza, ed attenzione, come sottolinea l’autore stesso, laddove il comportamento del
familiare sia di gravità tale da violare diritti ritenuti inviolabili dall’ordinamento e pertanto meritevoli di tutela specifica, che fuoriesce dai tradizionali strumenti riservati al diritto familiare.
Il discorso è aperto, ci suggerisce l’Autore: vedremo dove ci porterà.
AVV. MARIACARLA SERAFINI
103
RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE
I. IL SISTEMA DI RISARCIMENTO DEL DANNO
ALLA PERSONA
ur se a tutti Voi ben noto, appare opportuno, prima di trattare specificamente del
rilievo del danno psichico, ricordare brevemente gli importanti mutamenti che sono
intervenuti nel sistema di risarcimento del danno alla persona.
Il sistema tradizionale così detto “tripolare” prevedeva il riconoscimento, in sostanza, di tre voci
di danno alla persona:
P
a) il danno alla salute, o danno biologico, dannoevento del fatto lesivo della salute, pregiudizio
primario, immancabile e sempre risarcibile ex
IL RILIEVO CIVILISTICO
DEL DANNO PSICHICO
ALESSANDRO
SARTORI*
art. 2043 del C.C. e 32 della Cost.;
b) il danno morale, caratterizzato dal turbamento
psicologico del soggetto leso, danno-conseguenza, riconosciuto solo nel caso in cui
venissero accertate la sussistenza e le condizioni di risarcibilità con una restrittiva valutazione dell’art. 2059 C.C.
c) il danno patrimoniale, anch’esso danno-conseguenza, che per essere risarcito, esigeva la
dimostrazione della sua esistenza.
A fianco di queste tre voci di danno, nel corso
degli ultimi anni (in particolare dal 1999) parte
della dottrina e dalla giurisprudenza 1 hanno
aggiunto una quarta voce di danno e, cioè, il così
detto danno esistenziale.
Una voce di danno differente dal danno patrimoniale, da quello biologico e da quello morale che
veniva definita come quel danno derivato dalla
forzosa rinuncia allo svolgimento di attività non
remunerative, fonte di compiacimento o benessere per il danneggiato, ma non causata da una
compromissione della integrità psicofisica.
1
AIAF RIVISTA 2/2006
Il sistema risarcitorio “tripolare” o “quadripolare” è stato finalmente rivisitato a metà del 2003
dalle fondamentali decisioni numero 8827 e 8828
del 31.5.2003 della Suprema Corte.
Secondo la nuova interpretazione della Corte di
Cassazione, condivisa poi anche dalla Corte
Costituzionale con la sentenza 233/2003, nel quadro di un sistema risarcitorio del danno alla persona “bipolare”, contraddistinto da danno patrimoniale e dal danno non patrimoniale, l’art. 2059
C.C. ricomprende nell’astratta previsione della
norma ogni danno di natura non patrimoniale
derivante da lesione di valori inerenti alla persona tra cui:
a) il danno morale soggettivo, inteso come transeunte turbamento dello stato d’animo della
vittima;
b) il danno biologico in senso stretto, inteso
come lesione dell’interesse, costituzionalmente garantito all’integrità psico-fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico;
c) il danno derivante dalla lesione di altri interessi di rango costituzionale inerenti alla persona.
L’altra grande novità strettamente collegata al
nuovo sistema “bipolare nell’ambito di questa
interpretazione “costituzionalmente orientata”
dell’art. 2059 C.C., è data dalla affermazione della risarcibilità del danno non patrimoniale senza
che più vi sia di ostacolo il mancato positivo
accertamento della colpa dell’autore del danno se
tale colpa, come nei casi di cui agli art. 2051 e
2054 C.C. “debba ritenersi sussistente in base ad
una presunzione di legge e se, ricorrendo la colpa, il fatto sarebbe qualificabile come reato”.
Pertanto l’art. 2059 C.C. “deve essere interpretato nel senso che il danno non patrimoniale, in
quanto riferito alla astratta fattispecie di reato, è
risarcibile anche nell’ipotesi in cui, in sede civile, la colpa dell’autore del fatto risulti da una
presunzione di legge”.
Tale novità è stata affermata da Cass. 7281, 7282
e 7283 del 12.5.2003 e dalla stessa Corte Costituzionale su ricordata in totale contrasto con la
giurisprudenza che si era consolidata negli anni e
che può essere, ad esempio, verificata in Cass.
9598/98 e 12741/99.
Il “revirement” della Suprema Corte è stato soltanto fugacemente, per dir così, contrastato dalla
sentenza n. 10987 del 14.7.2003, peraltro subito
smentita dalle decisioni più recenti che hanno
ribadito come “alla risarcibilità del danno non
patrimoniale, ai sensi degli art. 2059 C.C. e 185
C.P., non osta il mancato positivo accertamento
Ricordiamo Cass. 911/99 - Cass. 7713/2000 - Cass. 4881/2001 - Corte dei Conti, Sezioni Riunite 23.4.2003 n. 10/Q, mentre, per la giurisprudenza di merito: Trib. Milano n. 9417/99 - Trib. Venezia 14.1.2003 in Resp. Civ. e Prev. 2003, 198, Trib. Monza 13.5.2003 in
Giurisp. di Merito 2003, Fasc. 6
104
MAGGIO - AGOSTO 2006
della colpa dell’autore del danno se essa, come
nel caso dell’art. 2054 C.C., debba ritenersi sussistente in base ad una presunzione di colpa e se,
ricorrendo la colpa, il fatto sarebbe qualificato
come reato” (Cass. 26.2.2004 n. 3871).
II. IL DANNO BIOLOGICO
atta questa opportuna e doverosa ricognizione del sistema risarcitorio “bipolare” che
appare il più coerente nell’interpretare, dopo
tanti dibattiti e tante interpretazioni, la normativa vigente in materia di risarcimento per
responsabilità aquiliana, per giungere ad una
più precisa identificazione del danno psichico,
dobbiamo ripetere a noi stessi il significato
ormai consolidato di “danno biologico”, che
può essere definito come “la temporanea o
definitiva compromissione della complessiva
integrità psico-fisica dell’individuo, suscettibile di essere positivamente accertata sotto il
profilo medico legale, dalla quale compromissione sia derivato un peggioramento concreto
dell’esistenza del soggetto leso2.
È assolutamente pacifico, poi, che nella nozione
di danno biologico rientri tutta quella serie di
“danni” che erano stati creati dalla dottrina e,
soprattutto, dalla giurisprudenza per consentire il
risarcimento di determinate fattispecie.
Il nuovo sistema risarcitorio non ha influito sui
criteri liquidativi già in uso per la liquidazione del
danno biologico che continuano ad essere considerati del tutto validi, come, ad esempio, precisato nella sentenza n. 19057 del 12.12.2003 della
Suprema Corte in cui si precisa che “Ai fini del
risarcimento del danno biologico, anche a seguito del nuovo inquadramento della tutela del diritto all’integrità psico-fisica della persona....., i
criteri di liquidazione del danno non mutano e, in
particolare, rimane ferma la necessità di far riferimento al criterio equitativo che va esercitato
tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto e specificamente della gravità delle lesioni,
degli eventuali postumi permanenti, dell’età, dell’attività espletata e delle condizioni familiari e
sociali del danneggiato” tant’è che la sentenza
citata precisa come nell’ambito indicato poteva
essere adottato come parametro di riferimento il
valore medico del punto di invalidità purché adeguato alle peculiarità del caso concreto.
Ne è derivata, quindi, la conferma della legittimità e applicabilità dei criteri liquidativi predisposti dalla giurisprudenza, sia quello del così
detto calcolo “a punto” (o metodo pisano) sia
F
RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE
quello, utilizzato in misura prevalente, del così
detto punto tabellare, indicato anche come
“metodo milanese”, il tutto purché il giudicante
effettui la necessaria personalizzazione del criterio adottato al caso specifico3.
Per cui, in definitiva, i criteri tabellari non devono mai essere applicati automaticamente perchè
“in tema di liquidazione equitativa del danno
biologico il ricorso ai criteri standardizzati e
predefiniti delle “tabelle” deve essere accompagnato da una corretta opera di adeguamento delle stesse al caso concreto, tenendo conto della
gravità della lesione che abbia inciso anche sulla capacità recuperatoria o stabilizzatrice della
salute, procedendo ad adeguate e prudenti maggiorazioni” (Cass. 4.11.2003 n. 16525)
III. IL DANNO PSICHICO
u questo tipo di danno si è fatta e si fa talvolta parecchia confusione confondendolo
con il danno psicologico, quello esistenziale,
quello neurologico o quello alla vita di relazione etc..
Appare necessario fare alcune distinzioni chiare.
La premessa da cui non si può decampare, naturalmente è l’inquadramento, per quanto abbiamo
poc’anzi riferito, di tutti questi tipi di danno nel
danno non patrimoniale e, in particolare, nel
vasto genus del danno biologico.
Ad esempio il danno psichico non è un danno
neurologico, perchè quest’ultimo colpisce il
sistema nervoso, ossia l’apparato costituito da
encefalo, midollo spinale, organi di senso e nervi
periferici, entità anatomiche tutte ben individuabili, ciascuna, su un atlante di anatomia.
Il danno neurologico si accerta con l’esame
obiettivo neurologico, mercè l’ausilio di strumenti vari (martelletto, diapason, provetta calda
e fredda, oftalmoscopia, etc.) e di esami strumentali più complessi (elettroencefalogramma,
angiografia, scintigrafica, TAC, risonanza
magnetica).
La maggior parte dei casi di danno neurologico
non pone, quindi, problemi anche se talvolta questo tipo di danno si esprime con una sintomatologia di tipo psichico e non si esprime con sindromi riconducibili a precisi centri encefalici.
“Si tratta, perlopiù, di difficoltà di concentrazione, di dismnesie, di deterioramenti modesti, di
alterazioni di carattere, soventi riscontrabili
anche in casi di danno psichico, senza pregresse
lesioni cranio encefaliche” (RAFFAELE CASTIGLIONI , Danno psichico: Diagnosi, nesso causa-
S
2
Per tutte: Cass. 9.12.94 n. 10539 e Cass. 28.11.98 n. 12083
3
Vedansi: Cass. 31.7.2002 n. 11376 - Cass. 5.3.2003 n. 3285 e Cass. 18.3.2003 n. 3997
105
RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE
le, transitorietà e permanenza, quantificazione).
In tali casi molto spesso i dubbi possono essere
fugati con test psicometrici e neuropsicologici
Il danno psichico non è neppure un danno psicologico, in quanto il danno psicologico, quale danno a sintomatologia soggettiva e relativo alla
modifica della personalità dell’individuo, può
comportare la lesione della dignità offesa, il mero
turbamento dell’animo, il peggioramento della
qualità della vita, senza far conseguire al danneggiato una patologia permanente.
Va ricordato che la psicologia è la scienza che
studia l’attività psichica, il comportamento e la
personalità dell’uomo psicosomaticamente sano,
mentre la psichiatria è la scienza che studia la
psicopatologia, per cui il danno psicologico attiene alla sintomatologia soggettiva dell’individuo,
di ardua analisi da parte dell’esaminatore, sfuggendo a raffronti e a parametri oggettivi comuni
ed è per sua natura un patema d’animo o uno stato d’angoscia tendenzialmente transeunte e si
manifesta, appunto, in sintomatologie soggettive,
in rinunce ad attività quotidiane di qualsiasi
genere, in compromissione delle proprie sfere di
esplicazione personali, in lesione della dignità
offesa, in mero turbamento dell’animo, insomma
in quel non facere che costituisce il presupposto
della perdita di utilità quotidiana.
Il danno psichico, invece, presuppone una patologia; non solo il manifestarsi di una sintomatologia soggettiva, ma anche di una oggettiva rilevabile con parametri comuni (ad esempio: la patologia dissociativa, quella fobica, quella isterica,
quella paranoica, etc.).
Il danno psichico colpisce la psiche o mente
costituita, secondo i canoni classici di psicopatologia, da tre fondamentali facoltà o sfere: conoscitiva, affettivo-istintiva, volitiva.
Il danno psichico è “un danno che è sia puramente morale e, cioè, riconducibile soltanto alla
sofferenza soggettiva ed al dolore che possono
conseguire ad un trauma fisico o psichico e che
non sia neppure un danno organico e, cioè, consistente in una menomazione derivante dalla
lesione oggettiva di una parte dell’organismo,
essendo un danno che va inteso come una compromissione durevole ed obiettiva che riguardi la
personalità individuale nella sua efficienza, nel
suo adattamento, nel suo equilibrio, come un
danno consistente, non effimero, né puramente
soggettivo e che.... riduce in qualche misura le
capacità, le potenzialità, le qualità della vita della persona con una compromissione permanente
attinente al settore psichico dell’individuo”.
(PAOLO VINCI, Riflessioni sul danno psichico).
Fino a qualche anno fa la valutazione dei danni di
carattere psichico si poneva quale questione per106
AIAF RIVISTA 2/2006
lopiù aggiuntiva nell’ambito di una più ampia
valutazione di danni fisici cagionati soprattutto
da incidenti del traffico.
La crescente sensibilità per il problema dell’integrità psichica, oltre che per quella fisica e le conseguenti maggiori esigenze di tutela hanno condotto a valutare anche quadri psichici dipendenti
da cause lesive assai diverse, come, ad esempio,
le traversie lavorative cagionate da illeciti comportamenti in ambito lavorativo posti in essere da
organi gerarchicamente superiori o da colleghi di
lavoro (mobbing), lo stress da inquinamento acustico, i maltrattamenti in famiglia o scorrette cure
mediche fino a giungere ai casi di danno psichico
da morte di congiunti.
È senz’altro possibile affermare che “il danno
psichico è una species del genus “danno alla
salute” e che, quindi, normalmente debba essere
liquidato in via equitativa, ma, soprattutto, in
questo tipo di danno, appare impossibile prescindere dalla personalizzazione della fattispecie di
lesione presa in esame, per cui la quantificazione
del danno psichico andrà inevitabilmente determinata attraverso la considerazione e l’attenta
valorizzazione delle innate specifiche prerogative
che differenziano e caratterizzano ciascun essere
umano” (F RANCESCA TOPPETTI , Il danno
psichico), perchè occorre sempre considerare il
fatto che “il disturbo psichico non è la mera somma di tanti fattori, ma il l’irripetibile modo
secondo cui in quel soggetto i singoli fattori si
sono integrati” (PONTI, Danno psichico ed attuale percezione psichiatrica del disturbo mentale).
IV. NESSO DI CAUSALITÀ
ralasciando l’indicazione della tipologia
delle menomazioni psichiche che ci ha già
indicato il Prof. Andreoli e che competono alla
scienza psichiatrica, un qualche interesse per
l’operatore del diritto ha il “nesso di causa” nel
danno psichico, in quanto la questione della
causalità nell’accertamento medico legale del
danno psichico è tra le più controverse.
Per individuare, non tanto la “causa” del “trauma
psichico” (Corte Cost. Sent. n. 372/94) si fa riferimento ad una interazione tra molteplici fattori
con una variabilità di proporzioni pressoché infinita da individuo ad individuo per giungere alla
identificazione di “concause” del trauma e, quindi, del danno psichico.
Come nella valutazione di tale tipo di danno bisogna procedere ad una “personalizzazione della
fattispecie di lesione presa in esame” (TOPPETTI,
op. cit.), così nella individuazione delle concause
bisogna, anzitutto, ricordare che “il trauma si
inserisce su un preesistente substrato psichico e
c’è la concorrenza in varia e pressoché indeter-
T
MAGGIO - AGOSTO 2006
minabile proporzione, di influenze biologiche,
psicologiche, familiari e ambientali”. (R. CASTIGLIONI , op. cit.).
Il problema del nesso di causa tra un trauma e il
danno psichico (ossia il “disturbo” che viene
allegato come danno), è stato a livello medico
legale risolto in due modi opposti.
Il primo modo valorizzava la preesistenza, talora
dimostrata e talora genericamente presunta, per
concludere che la stessa prevaleva sul “trauma” e
per supportare questo metodo si ricorreva molto
spesso al concetto di “causa occasionale” o
“occasione” che rappresentavano il complesso
delle circostanze che avevano favorito l’entra in
azione delle cause, talché l’”occasione” compartecipava a promuovere il “trauma” (PALMIERI e
ZANGANI, Medicina Legale delle Assicurazioni).
Il secondo modo di risoluzione del problema del
nesso causale, che appare assai più attendibile,
considera, sì, anche il substrato “preesistente” ma
rifiuta, “concetti ambigui come quello di causa
occasionale, che frequentemente ha portato ad
escludere il risarcimento, quando i fattori preesistenti e favorenti si ritenevano avere una prevalenza nella psicopatogenesi” (G. PONTI, op. cit.).
Il concetto di “causa occasionale” appare una
mostruosità sul piano giuridico, in quanto non ha
senso parlare di occasione che “favorisce” lo
scompenso, ma che non è causa o concausa. “Se
un trauma “favorisce” anche in minima parte....
un evento, significa che è concausa. Non ha senso parlare di causa che è “poco causa”, tanto
poco da non avere, in fin dei conti, alcuna
dignità causale” (R. CASTIGLIONI, op. cit. e in
Eventi traumatici modesti e sequele psichiche: il
problema del nesso di causalità materiale).
Va, infatti, ricordato che la normativa sul nesso
causale (art. 40 e 41 C.P.) è ispirata alla concezione condizionalistica, per cui ogni condizione,
sia pur minima, che contribuisce a determinare
l’evento, assume ruolo causale.
Non va sottaciuto, poi, che “ciascuno ha diritto
all’integrità della propria salute fisio-psichica
così com’è, sia che goda della proverbiale salute
“di ferro”, sia che soffra di più fragile equilibrio
psichico” (R. CASTIGLIONI, op. cit.).
Pertanto ogni evento traumatico, ancorché modesto o naturale, è potenzialmente idoneo ad innescare dinamiche intrapsichiche atte a dare poi
corpo ad un quadro psicopatologico.
Dovrà, quindi, il medico legale supportato da un
consulente psichiatrico, valutare attraverso strumenti diagnostici appropriati, soprattutto in uso
nella pratica psichiatrica, tener conto degli eventi psicosociali stressanti “che si siano verificati
quantomeno nell’anno che precede la valutazione del caso e che possano aver contribuito ad
RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE
una delle seguenti situazioni:
1) insorgenza di un nuovo disturbo mentale;
2) ricaduta di un disturbo mentale precedente;
3) esacerbazione di un disturbo mentale già esistente”
(R. CASTIGLIONI, op. cit.), per cui la valutazione
della gravità degli eventi traumatici sarà basata
sulla valutazione dello stress che una persona
media in condizioni simili e di simile contesto
socio colturale potrebbe subire dal particolare
evento stressante.
Abbiamo ritenuto di richiamare il problema del
nesso causale e delle concause, perchè la consulenza medico legale, da supportare, come detto,
con una consulenza specialistica psichiatrica,
deve offrire all’operatore del diritto una valutazione del caso tenendo conto, come già più volte
si è detto, della personalizzazione della fattispecie
e ciò per evitare contestazioni e consentire, quindi, al legale e al giudicante una più adeguata valutazione del valore del danno psichico, anche se, in
un particolare caso che riferirò tra poco, la considerazione dello stato di salute concretamente
attribuibile al soggetto leso prima del verificarsi
dell’evento lesivo potrebbe avere poca rilevanza.
V. QUANTIFICAZIONE DEL DANNO
PSICHICO
l problema della quantificazione del danno
puramente psichico appare di assai ardua
soluzione, in quanto non esistono né tabelle, né
esperienze sufficientemente consolidate.
Taluno propone di far riferimento alle tabelle
usate per l’accertamento degli stati di invalidità
civile pur facendosi carico delle diverse finalità
tra la valutazione dello stato di invalidità civile e
quello dei postumi risarcibili in conseguenza di
fatto illecito.
Tale criterio ha un grave limite, in quanto le
tabelle per l’invalidità civile, oltre ad essere sommarie, si attengono ad un criterio nosologico
indicando sindromi ben definite, per cui rimane
in ombra la sterminata area dei “disturbi psichici” che non sono vere e proprie “infermità”.
Altro grave problema è dato proprio da quanto
abbiamo poco fa ricordato circa la “preesistenza”, cioè lo stato anteriore che rende il soggetto
più vulnerabile e lo predispone, per dir così, al
disturbo psichico.
Qualche altro propone una specie di “tara” forfettaria sulle tabelle del 10% e una quantificazione del danno sul restante 90%, ma anche tale criterio pone un interrogativo di fondo.
È, infatti, necessario tener conto della preesistente menomazione, per esempio, di un organo o di
un arto già compromessi per un pregresso infortunio o malattia, ma è forse lecito considerare la
I
107
RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE
“psiche” alle stregua di un “organo”?.
La mente è “espressione peculiare dell’individuo
e l’eventuale maggior vulnerabilità non è effetto
di un precedente infortunio, bensì risultato della
naturale interazione di molteplici e multiformi
fattori. Ogni assetto psichico, ogni personalità,
ogni equilibrio, sia pure precario è, a ben riflettere, uno degli infinti “modi d’essere” dell’individuo” (R. CASTIGLIONI, op. cit.).
Pertanto non si vede perchè non si debba considerare la validità di ogni stato psichico preesistente al trauma pari al 100% come per ogni organo sano.
“In realtà, tutto ciò che è psichico sfugge, per sua
natura, a qualsiasi tentativo di quantificazione
numerica” (R. CASTIGLIONI, già citato) e, d’altronde, proprio l’art. 1226 C.C. prevede la liquidazione equitativa del danno quando lo stesso non
possa essere provato nel suo preciso ammontare.
Ecco perchè è fondamentale, come detto, che le
indagini in tema di danno psichico siano affidate
o a medici legali con formazione anche psichiatrica o a psichiatri anche con formazione medico
legale, oppure, come appare più agevole, ad un
collegio di consulenti e i CC.TT.UU. dovranno
ben rendere edotto il Giudice dei problemi insiti
nell’indagine su questo particolare tipo di danno,
particolarmente chiarendo l’impossibilità di fornire pseudo-quantificazioni con cervellotiche
cifre percentuali.
Nell’adempiere al loro compito di ausiliari del
Giudice i consulenti dovranno anche fornire indicazioni precise sulla reversibilità o meno del danno psichico, sulle terapie che dovranno essere
seguite dal danneggiato per favorire l’eventuale
reversibilità e quanto anche tali terapie potranno
influire sulla qualità della vita del danneggiato
stesso. Dovranno, insomma, fornire tutti quegli
elementi che possano essere utilizzati dagli operatori del diritto per monetizzare il danno psichico subito.
È pur vero che gli operatori del diritto vorrebbero avere una indicazione chiara e facilmente
quantificabile, ma vi sono casi in cui i Giudici
debbono esprimere giudizi di valore, supportati
dall’impegno dei legali delle parti che devono
contribuire a promuovere una giurisprudenza che
costruisca un sistema di accertamento e di risarcimento del danno psichico sapendo opportunamente scegliere tra le indicazioni proposte dai
tecnici consulenti che, proprio in questo tipo di
danno, dovrebbero limitarsi a dare una compiuta
informazione del tipo di lesione subito dalla psiche, lasciando alla sensibilità degli operatori del
diritto quantificare, con adeguate riflessioni, il
danno stesso.
108
AIAF RIVISTA 2/2006
VI. ALCUNE IPOTESI E FATTISPECIE
APPLICATIVE
enendo conto della limitatezza del tempo,
vorrei subito introdurre una ipotesi di danno
in cui, appunto, appare arduo considerare lo
stato di salute del soggetto leso prima del verificarsi dell’evento e provocare, come già
preannunciato, una riflessione da parte del
Prof. Andreoli.
Trattasi del danno da “SINDROME DI ALIENAZIONE GENITORIALE” o “P.A.S. - Parental
Alienation Syndrome”.
È un danno-disturbo che insorge quasi esclusivamente nel contesto delle controversie per la
custodia dei figli.
“In questo disturbo, un genitore (alienatore) attiva un programma di denigrazione contro l’altro
genitore (genitore alienato)” (FULVIO SCAPARRO,
PAS La sindrome di alienazione genitoriale).
In questa fattispecie si verifica una programmazione al fine “di instillare, “una realtà virtuale”
nel sistema cognitivo del bambino, tesa ad impedire una relazione piena e soddisfacente tra figlio
e genitore non affidatario, spingendo il bambino
a rifiutare quest’ultimo” (F. SCAPARRO, op. cit.).
“L’ispirazione della PAS nel bambino comporta
una programmazione di paura, diffidenza e odio
nei figli determinando l’isolamento degli stessi
dalla “realtà reale familiare” e creando le condizioni che generano il rilascio di espressioni di
astio, disprezzo e denigrazione nei confronti del
genitore alienato; tale “realtà virtuale familiare” attraversa l’ambiente sociale creando una
“realtà virtuale sociale” che agisce sul genitore
alienato per mezzo delle dinamiche biologiche di
difesa del gruppo dal deviante e conduce all’isolamento del genitore alienato dal proprio contesto sociale, deprivandolo di diritti e di doveri,
relegandolo, così, nel ruolo di soggetto debole
disconosciuto”. (Sindrome del Genitore Deprivato di Diritti)” (F. SCAPARRO).
La Sindrome di Alienazione Genitoriale non è
una patologia del genitore alienante, ma una
patologia instillata nel bambino che, come qualunque altra patologia, può presentarsi con differenti livelli di gravità.
Quel che qui interessa è rilevare come, una volta
instillata la patologia nel bambino, si è certamente prodotto nello stesso un danno psichico.
In questo caso credo sia relativo (data la giovanissima età) indagare sulle situazioni preesistenti.
Il danno che consegue al minore dovrà essere
attentamente valutato da un neuropsichiatra
infantile che potrà fare delle prognosi di reversibilità attuando, ad esempio, quello che la dottrina
in materia chiama il TRANSITIONAL SITE
PROGRAM, ma non v’è dubbio che un danno è
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MAGGIO - AGOSTO 2006
stato provocato e che il minore ha diritto ad un
risarcimento che sarà tanto più elevato quanto più
grave sarà la sindrome di alienazione genitoriale
in cui versa4.
VI-A. MOBBING E DANNO PSICHICO
Il termine “mobbing” (che in inglese significa
“assalto - attacco”) è stato utilizzato per la prima
volta da Konrad Lorenz nel descrivere gli attacchi di piccoli gruppi di animali contro un’altro
più grande e isolato, per allontanarlo dal gruppo
(o dal nido).
Nel 1984 lo psicologo svedese Heinz Leymann
esposte in un libro un particolare fenomeno
riscontrato in ambito lavorativo consistente in
una forma di violenza psicologica messa in atto
da un superiore (mobbing verticale) o da più colleghi di lavoro (mobbing orizzontale) nei confronti di una “vittima” soggetta a continui attacchi e ingiustizie che, a lungo andare, portano l’individuo ad una condizione di estremo disagio psicologico, quando non anche ad un crollo del suo
equilibrio psicofisico.
Va rilevato, per inciso, che il termine mobbing
non è utilizzato nei paesi anglosassoni in quanto
in Inghilterra il fenomeno è chiamato “bullying at
workplace”, non sottacendo che negli Stati Uniti
il fenomeno ha riguardato soprattutto la così detta violenza morale sul lavoro con forte connotazione di tutela della donna con l’esplosione, in
particolare, del fenomeno denominato “harrassmen”, mentre in Francia sono avviate (con molto ritardo rispetto anche al nostro paese) ricerche
su quello che lì viene chiamato “harcelement
morale”.
Nel mondo del lavoro il “mobbing” è, per usare
la definizione di Leymann5 “quella forma di
comunicazione ostile ed immorale diretta in
maniera sistematica da uno o più individui (mobber o gruppo di mobber) verso un altro individuo
(mobbizzato) che si viene a trovare in una posizione di mancata difesa”, un fenomeno in cui,
usando la definizione dello studioso Harald Ege6,
“la persona attaccata è messa in una posizione
di debolezza e mancanza di difese, aggredita
direttamente e indirettamente da una o più persone con aggressioni sistematiche, frequenti e pro-
RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE
tratte nel tempo il cui fine consiste nell’estromissione, reale o virtuale, della vittima dal luogo di
lavoro”.
Questa attività mobbizzante conduce ad una vera
e propria lesione alla saluta psichica del mobbizzato e la proliferazione di pronunce giurisprudenziali in tema di mobbing ha consentito l’approfondimento delle problematiche legate al danno psichico nel mondo del lavoro, un danno cui è
stato riconosciuto il rango di malattia professionale, tant’è che nella tabella delle tecnopatie
INAIL si fa riferimento anche a questo genere di
patologie.
Giuridicamente il referente normativo cui è stata
ancorata la risarcibilità dei danni di tipo psichico
patiti dal lavoratore si è rinvenuto nell’art. 2087
C.C., che impone all’imprenditore di adottare nell’esercizio della impresa le misure che, secondo la
particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica
sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la
personalità morale del prestatore di lavoro.
Sulla base di tale norma “si è trasferito in ambito contrattuale il più generale principio del
“neminem laedere” con quanto ne consegue sul
piano della ripartizione dell’onere della prova,
talché grava sul datore di lavoro l’onere di provare di aver ottemperato all’obbligo di protezione dell’integrità psico-fisica del lavoratore, mentre grava su quest’ultimo il solo onere di provare
la lesione dell’integrità psico-fisica ed il nesso di
causalità tra tale evento dannoso e l’espletamento della prestazione lavorativa” (F. TOPPETTI)7.
La prima sentenza italiana che ha dato ingresso al
“mobbing” nella giurisprudenza del lavoro è stata emessa dal Tribunale di Torino il 16.11.1999,
cui ha fatto seguito un continuo riconoscimento
da parte di tutti gli altri Giudici di merito e, più
recentemente, Cass. Civ. Sez. Lav. 15.1.2004 n.
515, con un’ampia varietà di casi particolari che
hanno riconosciuto, appunto, il diritto al danno
psichico con ripetuti riconoscimenti in capo al
lavoratore di essere affetto da “sindrome ansiosodepressiva”.
Ma, oltre al “mobbing” più conosciuto vi è anche
quello coniugale, o altrimenti detto “mobbing
familiare” e, laddove ne sussistano i presupposti
4
Vedasi in merito alla PAS: RICHARD GARDNER: Introduzione e commenti sulla PAS - Traduzione di Rosa Polizzi, L’acquisizione di potere
del bambino nello sviluppo della Sindrome di Alienazione Genitoriale - Traduzione di Guido Parodi, Dalla disputa all’avversione - riflessioni critiche in ambito forense e clinico sulla Sindrome di Alienazione Genitoriale a cura di ROBERTO GIORGI
G. GULOTTA, La Sindrome di Alienazione Genitoriale
W. FISCHER, Un modello di intervento per tribunali minorili, periti e servizi sociali minorili - Traduzione di Arnaldo Tesi
5
H. LEYMANN, Mobbing and psicologycal terror at workplaces. Violence and wictims
6
H. EGE, Mobbing. Che cos’è il terrore psicologico sul posto di lavoro.
Il Mobbing in Italia. Introduzione al mobbing culturale. Il Mobbing estremo
7
Vedasi anche Cass. 12763/98
109
RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE
clinici, il conseguente “danno psichico”.
La sentenza 21.2.200 della Corte D’Appello di
Torino ha ritenuto causa giustificante la addebitabilità della responsabilità della separazione in
capo ad un coniuge che teneva comportamenti
assimilabili al “mobbing”, elencando tutta una
serie di comportamenti irriguardosi e di non riconoscimento della partner (“additava ai parenti ed
amici la moglie come persona rifiutata e non
riconosciuta, sia come compagna che sul piano
della gradevolezza estetica, esternando anche
valutazioni negative sulle modeste condizioni
economiche della sua famiglia d’origine, offendendola non solo in privato ma anche davanti agli
amici, affermando pubblicamente che avrebbe
voluto una donna diversa e assumendo nei suoi
confronti atteggiamenti sprezzanti ed espulsivi...
curando il marito sempre solo il rapporto di avere, trascurando quello dell’essere... talché ferì la
moglie nell’autostima, nell’identità personale e
nel significato che lei aveva della propria vita”).
Trattasi di un “mobbing” che è ormai divenuto
diffuso, talché si auspicherebbe che venga considerato reato per legge e severamente sanzionato
al di là della modesta previsione dell’art. 570 c.p.
e ricordiamo con piacere che il Procuratore della
Repubblica di Verona ha invocato una normativa
più pregnante per la tutela di certe violenze familiari e non v’è dubbio che il tipo di “mobbing” di
cui stiamo parlando rappresenta una vera e propria violenza, se pensiamo che vale anche qui
quanto vale per tutte le altre forme di “mobbing”
umano: “il meccanismo della persecuzione è
implacabile e può avvalersi di mille piccoli o
grandi gesti quotidiani che conducono irrimediabilmente verso l’isolamento, come precisa H. Ege
in “Stress e Mobbing”.
Tutto ciò può portare,come già detto, ad un danno psichico rilevante.
VI-B. DANNO PSICHICO DA NASCITA INDESIDERATA
L’ipotesi del risarcimento del danno psichico da
nascita indesiderata si verifica allorquando la
nascita di un figlio avvenga contro la volontà del
genitore (come nell’ipotesi di insuccesso di un
intervento abortivo o di un intervento di sterilizzazione), oppure al di là della volontà del genitore
AIAF RIVISTA 2/2006
(come nell’ipotesi di omessa informazione circa le
malformazioni del feto, con conseguente perdita
della possibilità di interrompere la gravidanza).
È, in particolare, in relazione a questa seconda
patologia di fattispecie che l’elaborazione giurisprudenziale si è sviluppata.
Da un lato è stato posto il problema relativo alla
determinazione della responsabilità del sanitario,
dall’altro il problema della delimitazione del
danno risarcibile in considerazione della molteplicità di situazioni pregiudizievoli che possono
avere rilievo.
Vi è, infatti, il pregiudizio patito dai genitori per
non essersi potuti preparare psicologicamente ad
affrontare un evento così traumatico quale la
nascita di un figlio affetto da malformazioni, ma
vi è anche il pregiudizio consistente nella lesione
del diritto della madre all’autodeterminazione in
relazione alla propria gravidanza con conseguente lesione del diritto alla procreazione cosciente e
responsabile.
Infatti la gestante dopo il 90° giorno di gravidanza in base alla L. 194/78 può esercitare il diritto
all’aborto solo in presenza di due condizioni
positive che riguardano la salute del feto e la propria salute e di una condizione negativa consistente nella mancanza di possibilità di vita autonoma del nascituro.8
Le decisioni giurisprudenziali richiamano in casi
del genere il danno psicofisico derivante dal
maggior sacrificio incombente ai genitori dalla
nascita di un figlio con malformazioni rispetto
all’ordinario dovere di accudire e crescere il
minore con affetto e partecipazione, ma riconoscono anche il diritto al risarcimento per lo shock
emotivo e la conseguente lesione psichica derivante ai genitori stessi.9
VI-C. DANNO PSICHICO E COMPROMISSIONE
DELL’AMBIENTE
Trattasi del danno psichico derivante da intollerabili immissioni di rumore, problema che è stato
oggetto di rilevante interesse agli inizi della scoperta della risarcibilità del danno psichico.
Gli effetti del rumore, variabili a seconda dell’intensità e della natura, vanno dal fastidio all’affaticamento, fino a raggiungere il livello del distur-
8
La legge 198/74 stabilisce che dopo i primi 90 giorni l’interruzione volontaria della gravidanza può essere praticata:
1) quando la gravidanza e il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna (art. 6 lettera a); solo in questo caso, l’interruzione può essere praticata anche se sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, ma il medico che esegue l’intervento deve adottare
ogni misura idonea a salvaguardarla (art. 7 terzo comma)
2) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del feto, che determinino un
grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna; in questo caso l’interruzione può essere praticata se per il feto non sussiste la
possibilità di vita autonoma.
F. TOPPETTI - già citato
9
Vedansi: Cass. Civ. Sez. III 29.7.2004 n. 14488; Cass. Civ. Sez. III 1.12.1998 n. 1219; Cass. Civ. 10.5.2002 n. 6735, Tribunale Roma
8.10.203 n. 32010; Tribunale Roma 15.3.2004 n. 8454
110
MAGGIO - AGOSTO 2006
bo psichico patologico.
Le immissioni sonore intollerabili assumono
rilievo nel nostro caso non tanto per le lesioni
organiche che il rumore possa provocare per l’organismo umano, ma proprio per la oggettiva
capacità del rumore stesso di travolgere l’equilibrio della persona e, in particolare, il suo equilibrio psichico.
Il danno psichico da immissioni intollerabili può
anche configurarsi, oltre anche per immissioni
acustiche, ipoteticamente, anche come conseguenza di immissioni elettromagnetiche.10
Anche la giurisprudenza ha messo in rilievo
l’”alterazione del benessere psicofisico e lo stato
di malessere psichico diffuso” che possono derivare dalla compromissione dell’ambiente, anche
se le non molte decisioni sembrano più riferirsi
ad un danno che si riflette sull’alterazione delle
normali attività dell’individuo come il riposo,
l’attività lavorativa domiciliare, il danno alla
serenità personale etc., ma non si può negare che
una costante e continua compromissione ambientale possa portare ad un vero e proprio stato patologico psichico.11
VI-D. DANNO PSICHICO DA ERRORE GIUDIZIARIO
È il caso trattato dalla famosa sentenza della Cassazione Penale Sez. IV 22.1.2004 n. 2050 che ha
riconosciuto il danno psichico subito da chi aveva scontato una pena prima cautelare e poi in
espiazione di anni 7 mesi 5 e giorni 10 con una
detenzione rivelatasi ingiusta essendo stato assolto in appello “per non aver commesso il fatto”
dalla accusa di traffico di ingenti quantitativi di
sostanze stupefacenti.
È il famoso caso Barillà in cui la Suprema Corte
riconosce la presenza di un danno psichico rilevante, essendo il soggetto che lo ha patito affetto
da “una grave sintomatologia depressiva con
idee di rovina e soppressive, accompagnate da
una sorta di ottusità emotiva, tendenza all’isolamento sociale con la presenza di una sindrome
ansiosa con sintomatologia cefalalgica sovrapposta e la presenza, altresì, di un’ideazione persecutoria ben delineata determinata dallo sviluppo di tematiche di sospettività e diffidenza”, danno tutto che, nel rispetto del nuovo orientamento
in corso dal 2003, è stato inserito in quello non
patrimoniale come sofferenza psicologica non
certo transitoria.
RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE
Ometto deliberatamente di soffermarmi sul danno
psichico causato dalla perdita di un congiunto per
un evento illecito di varia natura che è stato ormai
ampiamente riconosciuto come parte del danno
biologico da far valere iure proprio, ammesso sin
dalla celebre sentenza della Corte Cost.
27.10.1994 n. 372 e poi più recentemente focalizzato nelle note sentenze ricordate in esordio.
Naturalmente è stata affermata la risarcibilità
astratta, ma, perchè vi sia effettivo danno psichico, dovrà la parte che lo richiede assolvere l’onere della prova.
Interessante, infine, in relazione a quanto abbiamo riferito in merito alla accertabilità del danno
psichico stesso, è una sentenza del Tribunale di
Messina 14.7.2002 laddove si fa espresso riferimento ad accertamenti diagnostici significativi in
quanto il Tribunale osserva che, pur essendo
innegabile l’esistenza di uno stato di grave prostrazione psicologica in una madre privata della
vita di un figlio, “non emergono oggettivi elementi clinici significativi che consentano di farla
assurgere a livello di una vera e propria malattia”, infatti dall’analisi della paziente ai sensi del
DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dei
Disturbi Mentali) emerge il concetto di situazione di “lutto non complicato” e viene esclusa la
riconducibilità ai due più vicini raggruppamenti
di disturbi mentali: ossia al “Disturbo Post-Traumatico da Stress (DPTS)” o ai “Disturbi dell’Adattamento”.
Il che ci riporta a quanto precedentemente riferito in merito alla necessità di una accurata indagine sulla effettiva consistenza del danno di cui
abbiamo forse troppo lungamente parlato.
* avvocato in Verona
10 Vedansi: MAZZOLA, TAIOLI, Inquinamento elettromagnetico; BARBAGALLO, Il danno biologico ed esistenziale da immissioni di onde elettromagnetiche nell’ambiente
11 Vedansi Tribunale di Milano 21.10.1999; Tribunale Modena 11.11.2003 n. 42; Corte d’Appello Milano 14.2.2003 e Cass. Civ. Sez. Unite 21.2.2002 n. 2515 (il caso Seveso) citate in F. TOPPETTI op. cit.
111
AIAF RIVISTA 2/2006
AIAF
AIAF - ORGANI STATUTARI
Consiglio di Presidenza
Marino Marina (rappresentante legale)
Fanni Luisella
Dionisio Antonio
Comitato Direttivo Centrale
Presidenti delle sezioni regionali:
Serafini Maria Carla
Mendicino Stefania
Campania - Napoli: Delcogliano Erminia
Campania - Salerno: Gassani Gian Ettore
Emilia Romagna:
Fabj Ada Valeria
Friuli Venezia Giulia: Montemurro Maria
Lazio:
Marino Marina
Figone Alberto
Liguria:
Lombardia:
Pini Milena
Marche:
Pelamatti Cagnoni Anna
Piemonte:
Scolaro Antonina
Puglia:
Marseglia Ada
Fanni Luisella
Sardegna:
Sicilia:
D’Agata Remigia
Toscana:
Cecchi Manuela
Umbria:
Tiburzi Maria Rita
Sartori Alessandro
Veneto:
Abruzzo:
viale Leopoldo Muzii 100, 65123, Pescara; tel 085.4214275, fax 085.4229715; [email protected]
Calabria:
via del mare, 88040, Lamezia Terme (CZ); tel. 0968.51003; [email protected]
via Scipione Capece 3/c, 80121, Napoli; tel. 081.640726 - 0824.312909
corso Vittorio Emanuele 203, 84122 Salerno; tel. e fax 089.220254; [email protected]
via Garibaldi 5, 40124, Bologna; tel 051.581706, fax 051.581329; [email protected]
via Nazario Sauro 3, 33100, Udine; [email protected]
viale Mazzini 9 -11, 00195, Roma; tel 06.3202351, fax 06.3202345; [email protected]
piazza Leonardo da Vinci, 2/3, 16146 Genova; tel 010.367908, fax 010.367908
Galleria Buenos Aires 1, 20124, Milano; tel 02.29525195, fax 02.29531352; [email protected]
via Calatafimi 2, 60121, Ancona; tel 071.202108, fax 071.200972; [email protected]
corso Re Umberto 28, 10128, Torino; tel 011.5617102, fax 011.5617188; [email protected]
via Tasso 12, 72019, S.Vito dei Normanni (BR); tel 0831.951611, fax 0831.952872; [email protected]
via Deledda 39, 09127, Cagliari; tel.070.663904, fax 070.663904; [email protected]
via G.Almirante 15/17, 95030, Tremestieri Etnero (CT); tel 095.505305, fax 095.508660; [email protected]
via Bonifacio Lupi 14, 50129, Firenze; tel 055.494284, fax 055.486912; [email protected]
viale Indipendenza, 06124, Perugia; tel 075.5726151, fax 075.5726151; [email protected]
via Dominutti 20, 37135, Verona; tel 045.8011711, fax 045.8002752; [email protected]
Componenti eletti:
Abram Daniela
Alessio Franca
Bet Enrico
Bond Lorenza
Cacco Maria Paola
Dama Rosanna
De Strobel Gabriella
Dionisio Antonio
Geraci Diego
Macis Valentina
Maggiano Liana
Marcucci Carla
Marinucci Anna
Mirto Caterina
Montano Maria Gigliola
Morandi Nicoletta
Pacciarini Anna Maria
Pomarici Costanza
Quattrone Mirella
via Barberia 14, 40100 Bologna; tel. 051.583338
via Roma 45, 22053, Lecco; tel 0341.282181, fax 0341.286164; [email protected]
p.zza della Vittoria 11/16, 16121, Genova; tel 010.5959159-010.580117, fax 010.5760014; [email protected]
via D’Azeglio 27, 40123, Bologna; tel 051.6486123, fax 051.6565579
via Longhin 121, 35129, Padova; tel 049.774276, fax 049.776909; [email protected]
viale Costituzione Is.G/1, 80143, Napoli; tel 081.7879271, fax 081.7879274
via Santa Chiara 15, 37129, Verona; tel 045.594301, fax 045.8011023
c.so Vittorio Emanuele 92, 10121 Torino; tel. 011.5613742, fax 011.5613982; [email protected]
via D’Annunzio 62, 95129 Catania; tel. 095.552183, fax 095.445011; [email protected]
via Rossini 61, 09128, Cagliari; tel.070.41082, fax 070.485101; [email protected]
via Assarotti 10/18, 16122 Genova; tel. 010.8313041, fax 010.816805; [email protected]
via Francesco Carrara 28, 55100 Lucca; tel. 0583.495616, fax 0583.490484; [email protected]
piazza Duomo 11 / B, 07100, Sassari; tel e fax 079.235548; [email protected]
via Agrigento 61, 90141, Palermo; [email protected]
piazza Benamozegh 17, 57123, Livorno; tel 0586.891084, fax 0586.899857; [email protected]
viale Carso 51, 00195, Roma; tel. 06.3720292, fax 06.37352806; [email protected]
via Marconi 3, 06012 Città di Castello (PG); tel. 075.8554434, fax 075.8554434; [email protected]
via Lucrezio Caro 38, 00193, Roma; tel 06.3244839, fax 06.32609700
via Varese 67, 22100, Como; tel 031.272461, fax 031.271647; [email protected]
Collegio dei probiviri
Ferraris Giovanna
Lupo Marina
Pozzi Angela
112
via Manzoni 3, 21100, Varese; tel 0332.234601, fax 0332.835255; email [email protected]
corso Italia 29, 50123 Firenze; tel. 055.286207, fax 055.2645821; [email protected]
via Rubbiani 1, 40124, Bologna;tel 051.580096, fax 051.580759