RIVISTA DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA DEGLI AVVOCATI PER LA FAMIGLIA E PER I MINORI 2006/2 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIÙ DEBOLI L’AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE W W W. A I A F - A V V O C AT I . I T Anno XI - no 2, maggio-agosto 2006 Qadrimestrale; registr. Tribunale Roma n.496 del 9.10.95. Stampa: Tip. Quatrini A. & figli snc, v. S.Lucia 43-47, 01100 Viterbo SOMMARIO Editoriale_ 2 La crescente attenzione ai diritti degli anziani e dei soggetti più deboli AVV. MILENA PINI Diritti degli anziani e tutela dei soggetti più deboli_ 3 I diritti degli anziani: non discriminazione e rispetto delle diversità nell'ordinamento europeo AVV. CATERINA MIRTO 9 Bioetica e diritti degli anziani. DOCUMENTO DEL COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA DEL 20 GENNAIO 2006 34 Legge 1 marzo 2006, n.67 Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni L’amministrazione di sostegno_ L' amministrazione di sostegno. Questioni sostanziali e processuali nell'analisi della giurisprudenza: 36 I. Il regime di invalidità e di pubblicità degli atti nell'amministrazione di sostegno. Il punto della giurisprudenza a due anni dall'entrata in vigore della legge. 50 II. Norme applicabili all'amministrazione di sostegno e disciplina processuale. PROF. AVV. GIUSEPPE CASSANO 71 Giurisprudenza civile e penale in tema di amministrazione di sostegno, interdizione e circonvenzione di incapace 83 Documento Sullo stato dell'assistenza psichiatrica in Italia e sull'attuazione dei progetti obiettivo per la tutela della salute mentale, APPROVATO DALLA COMMISSIONE IGIENE E SANITÀ DEL SENATO NELLA SEDUTA DEL 14 FEBBRAIO 2006 (XIV LEGISLATURA) Rapporti familiari e responsabilità civile _ 87 Rapporti tra genitori e figli, illecito civile e responsabilità. La rivoluzione giurisprudenziale degli ultimi anni alla luce del danno esistenziale PROF. AVV. GIUSEPPE CASSANO 104 Il rilievo civilistico del danno psichico AVV. ALESSANDRO SARTORI ANNO XI - N° 2, MAGGIO-AGOSTO 2006, NUOVA SERIE QUADRIMESTRALE Redazione GALLERIA BUENOS AIRES 1, 20124 MILANO TEL. E FAX 02.29535945 EMAIL: [email protected] WEB: WWW.AIAF-AVVOCATI.IT Direttore responsabile MILENA PINI Stampa TIPOGRAFIA QUATRINI A. & FIGLI SNC V. S.LUCIA 43-47, 01100 VITERBO 1 EDITORIALE C resce l’attenzione e la sensibilità, in sede legislativa e giudiziaria, in ambito comunitario come nazionale, verso la tutela dei diritti dei soggetti più deboli, quali le persone incapaci, prive di autonomia e quindi anche gli anziani. In Italia negli ultimi cinquant’anni gli ultra-sessantacinquenni sono aumentati di circa il 150%, fino a raggiungere nel 2003 quasi il 20% della popolazione complessiva, e tale fenomeno ha portato, come è noto, nuove problematiche sul piano sociale, economico, assistenziale, medico, giudiziario. I principi della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (2000), che all’art. 25, “Diritti degli anziani”, riconosce il diritto di questi ultimi di “condurre una vita dignitosa ed indipendente e LA CRESCENTE ATTENZIONE AI DIRITTI DEGLI ANZIANI E DEI SOGGETTI PIÙ DEBOLI di tutela, non può essere di per sé considerato un soggetto da differenziare e discriminare rispetto agli altri cittadini maggiorenni. Anzi, come rileva la Collega Caterina Mirto nel suo articolo pubblicato su questo numero della Rivista, la società del futuro sarà una società di persone anziane, considerato il prolungamento della vita e la costante diminuzione della natalità. Il recente documento “Bioetica e diritti degli anziani” del Comitato Nazionale per la Bioetica, che qui pubblichiamo, dà un quadro complessivo delle diverse problematiche inerenti la terza età e spunti di riflessione utili nello svolgimento sia della nostra professione legale nell’ambito dei procedimenti di nomina dell’amministratore di sostegno e di dichiarazione di interdizione, sia degli incarichi di amministratore di sostegno o di tutore spesso conferitici dai giudici. Come ben sappiamo la legge sull’amministrazione di sostegno ha suscitato posizioni contrastanti tra gli operatori del diritto e differenti orientamenti giurisprudenziali in sede di applicazione, che non sembra aver risolto neppure la recente sentenza della Cassazione (che di fatto rimette all’esclusiva valutazione discrezionale del giudice l’applicazione dell’ads piuttosto che dell’interdizione). I due saggi di Giuseppe Cassano sulle questioni sostanziali e processuali dell’amministrazione di sostegno, qui pubblicati, consentono un approfondito e puntuale esame degli orientamenti della giurisprudenza dal 2004 ad oggi. * Direttore della Rivista MILENA PINI * 2 di partecipare alla vita sociale e culturale” sono da tempo oggetto di attenzione da parte del nostro legislatore così come degli enti locali, che - pur con i noti limiti dettati da problemi di ordine economico - hanno attuato negli ultimi anni interventi legislativi e di sostegno di tipo socialeeconomico-assistenziale. Un’espressione di questo indirizzo è la legge del 9 gennaio 2004, n. 6, che ha introdotto l’istituto dell’”amministrazione di sostegno” e che rappresenta una forte rottura rispetto ai precedenti e consolidati schemi culturali rigidi per ciò che concerne la tutela dei soggetti deboli. È indubbio che il maggior pregio di questa legge consiste nell’aver introdotto uno strumento di sostegno e di protezione a favore delle persone con una limitata autonomia fisica o psichica, che non necessariamente coincide con una limitata capacità di intendere e volere. La “vecchiaia” in quanto tale non significa malattia e comunque deficienza psichica, e sebbene l’anziano bisognoso, malato o invalido possa rientrare in una categoria a rischio che necessita SITO AIAF: NUOVA AREA RISERVATA AI SOCI Durante il mese di settembre tutti i soci hanno ricevuto una comunicazione con le modalità di accesso alla nuova Area Riservata del nostro sito www.aiaf-avvocati.it. Si tratta di un nuovo servizio che offriamo ai soci AIAF, che comprende un archivio delle sentenze più significative (per il momento della sola Cassazione) e della legislazione vigente in materia di famiglia e minori. Nell'area riservata ai soci è stato anche inserito un Forum che offre la possibilità di un'utile comunicazione e scambio di esperienze professionali. Invitiamo ciascuno a visitare la nuova sezione del sito (che è anche stato rinnovato nell’impostazione grafica e nelle funzionalità di navigazione), e soprattutto ad utilizzare il forum. L'iniziativa è in una fase sperimentale, in vista di ulteriori miglioramenti ed implementazioni e quindi ogni suggerimento o indicazione saranno bene accolti.; il riferimento è: [email protected]. DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI A nziano vuol dire letteralmente “nato prima”, una etimologia della parola che non contiene in sè nulla di negativo; eppure, nel sentire comune, diventare anziano significa, il più delle volte, andare incontro ad una fase della vita caratterizzata dall’insorgere di eventi negativi. Il momento in cui il processo di invecchiamento, che comincia dalla nascita, trasforma un individuo adulto in un anziano non è stabilito soltanto da convenzioni sociali, ma è legato sovente all’insorgere di una malattia, alla perdita dell’autosufficienza, alla solitudine ed alla discriminazione da parte di una società ove proliferano i processi di forte individualizzazione improntati al culto dell’io e alla realizzazione del sè piuttosto che alla doverosità nei confronti della classe più fragile. Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da un crescente aumento della speranza media di vita (la vita media ha raggiunto i 77 anni per gli uomini e gli 83 per le donne) e tale evoluzione è sicuramente attribuibile ad una maggiore attenzione per le leggi che tutelano gli equilibri dello ecosistema, ad un più lungimirante sfruttamento delle risorse offerte dal pianeta, al miglioramento delle risorse alimentari, all’attenzione rivolta al tessuto sociale ed ai progressi nel campo medico scientifico. L’invecchiamento si manifesta in maniera diversa in relazione all’ambiente ove l’individuo si è realizzato ed alle opportunità di sviluppo culturale che lo stesso negli anni ha saputo raccogliere. All’invecchiamento non sempre quindi corrisponde la necessità di cura ed assistenza anche se è innegabile che il declino verso l’indebolimento fisico porta comunque verso una diversa categoria di esigenze. Recenti indagini hanno infatti evidenziato come, in Italia, oltre il 75% di coloro che si trovano in un’età compresa tra i 65 e gli 80 anni dichiarano di non sentirsi anziani, sfuggendo allo stereotipo che la società attribuisce agli individui in questa fascia di età1. Ma, a fronte di tali dichiarazioni, esiste invece una realtà alla quale non possiamo sfuggire, che riguarda l’invecchiamento globale dell’Europa. Se esaminiamo attentamente i risultati offerti dalle più recenti statistiche, vedremo che il futuro dell’Europa è nelle mani di una popolazione anziana e di conseguenza, qualsiasi forma attuale di discriminazione nei confronti dell’anziano e del processo di invecchiamento porterà domani ad un ingente danno di tipo economico e morale 1 Relazione al Convegno “I diritti degli anziani”, tenutosi a Palermo il 6-8 aprile 2006, organizzato dalla Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali Gioacchino Scaduto, dal Dipartimento di Diritto Privato Generale e dal Consiglio Superiore della Magistratura - Formazione decentrata Distretto di Palermo. per l’intero Paese2. L’incremento della vita media determinerà la necessità di diversa programmazione e progettazione delle risorse dell’intera Europa. L’intero assetto politico, i servizi socio-sanitari, il mondo culturale e ambientale dovrà tenere conto del mutamento sociale in atto per dare “vita agli anni” come dicono le moderne teorie sulla gerontologia. Le statistiche ci indicano, infatti, che nei prossi- I DIRITTI DEGLI ANZIANI: NON DISCRIMINAZIONE E RISPETTO DELLE DIVERSITÀ NELL’ORDINAMENTO EUROPEO mi 25 anni le persone di età superiore ai 65 anni costituiranno un quarto della popolazione dell’Unione Europea. Gli anziani, già nel 2000, costituivano oltre il 15% della popolazione3 e se nell’Europa il processo di invecchiamento è stato complessivamente abbastanza stabile, secondo tabelle recentemente redatte, un dato allarmante proviene proprio dal nostro Paese ed evidenzia come nel periodo compreso tra il 2005 ed il 2040 si avrà un CATERINA MIRTO* Censis: indagine proposta in cinque regioni (Liguria, Emilia Romagna, Lazio, Basilicata, Calabria) 2 FRANK SCHIRRMACHER, Il complotto di Matusalemme - Come prepararsi a vivere in un mondo di ultrasettantenni, Ed. Mondadori 3 FRANCO PESARESI e CRISTIANO GORI: L’assistenza agli anziani non autosufficienti in Europa - “Anziani e sistemi del Welfore”, Ed. FrancoAngeli 3 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI aumento di oltre 200.000 anziani per ogni anno4. Se poi tali dati si associano a quelli riguardanti la contrazione delle nascite, risulta evidente come l’Europa stia vivendo in questo momento un attacco su due fronti in quanto si vive più a lungo e si mettono al mondo meno figli. Chi diverrà anziano dopo il 2020 si troverà così una rete familiare impoverita sia in senso verticale, a causa del sempre crescente minor numero di figli, sia in senso orizzontale, con riferimento a sorelle, fratelli o cugini, oppure, ancora, a causa della longevità, si stabiliranno paradossali relazioni basate sulla crescente contemporaneità di vita di più generazioni. Di conseguenza, le relazioni umane subiranno e stanno già subendo drastici cambiamenti. Le famiglie allargate in senso verticale comprenderanno allora un numero sempre crescente di persone anziane, che avranno bisogno di ricevere cure particolari, ma la loro richiesta sarà rivolta a chi, a sua volta, a causa dell’età potrà non essere più nelle migliori condizioni per prestare assistenza ad un genitore anziano e così ci troveremo di fronte ad un unico individuo costretto ad assumere solo su di sé il carico di più generazioni. L’aumento della incidenza della popolazione anziana deve destare, allora, non poche preoccupazioni. L’invecchiamento della popolazione è un fenomeno che ha assunto una portata mondiale: in nessuna altra epoca della storia si è avuto un fenomeno di riferimento pari a quello che ci prepariamo a vivere nei prossimi anni. Le stime dicono che nel 2030, all’interno dell’Unione Europea, l’Italia e la Svezia diventeranno i paesi più vecchi (con il 14,1% e 13,4% della popolazione anziana) seguiti da Grecia, Francia, Austria e Germania5. Abbiamo quindi il dovere di chiederci se la società del terzo millennio è pronta ad affrontare i problemi della terza età, creando un supporto normativo e socio-assistenziale in maniera organica e programmata, riconoscendo i giusti diritti dell’anziano, e rimuovendo radicate ed ingiustificate discriminazioni o se continuerà piuttosto ad intervenire in favore degli anziani in maniera non sistematica ed improntata per lo più ad interventi di supporto improvvisati o di emergenza. Cicerone, nel saggio sulla vecchiaia6 spiegando la sua filosofia di vita sosteneva che “la vecchiaia può essere una fase felice della vita per 4 AIAF RIVISTA 2/2006 quegli uomini che hanno saputo operare con saggezza e con giustizia”; viene esaltata, dunque, “quella vecchiaia che si regge sulle fondamenta della giovinezza, mentre infelice è quella vecchiaia che a sua difesa non ha che parole”. Prendendo spunto dalla dotta riflessione, mai come adesso abbiamo la necessità di trarne insegnamento. Il riconoscimento dei giusti diritti e la non discriminazione nei confronti della terza età potrà trovare l’equo ristoro solo se l’uomo, oggi, riuscirà a costruire con saggezza e giustizia la società del domani, attraverso fatti concreti e non semplici parole. Il cammino è impervio! Purtroppo, ormai da anni, si assiste ad una trasformazione dei valori che ha minato la prima cellula della nostra società costituita dalla famiglia, sostegno principale e culturale della persona anziana. La crescente riduzione delle risorse familiari, il calo della fecondità, l’espansione di nuovi modelli di aggregazione personale, lo scioglimento delle coppie, il divorzio, hanno determinato il crescente venir meno del supporto familiare e della solidarietà parentale che, soprattutto in Italia, forniva all’anziano una garanzia di accompagnamento, nella fase fragile della vita. La centralità della famiglia, che da sempre ha costituito la rete all’interno della quale l’anziano restava per anni amorevolmente imbrigliato e protetto, ha indotto le politiche sociali italiane ed essere meno attive e pronte di fronte alle necessità e alle domande di sostegno dei soggetti deboli, restando, di conseguenza, indietro rispetto ad altri paesi dell’Unione Europea, in cui, non potendo contare su radicati valori di supporto familiare, si è sviluppato un tipo di solidarietà diversa, che predilige lo sviluppo socio-assistenziale pubblico. I sistemi e l’organizzazione assistenziale in favore dell’anziano presentano significative differenze nei vari paesi che compongono l’Unione Europea, differenze legate alla consapevolezza di dovere rendere attuali il principio di uguaglianza e la non discriminabilità dell’individuo in funzione dell’età. Ma, poiché i pregiudizi legati all’età non rivestono ancora per i politici un fenomeno di massa, altri sono stati sino ad oggi i problemi da mettere sul tappeto delle concertazioni, non essendo il problema dell’anziano un argomento di richiamo7. Nonostante ciò, in molte parti di Europa si è fat- CARLA FACCHINI: Invecchiamento della popolazione e trasformazione dei modelli familiari in Lombardia - Anziani e sistemi di Welfare Franco Angeli 5 FRANCO PESARESI e CRISTIANO GORI, op. cit 6 PUBLIO CORNELIO CICERONE, “De Senectute” 7 MICHELE BODMER: “Sfatare i miti sui lavoratori anziani” 8.11.05 - Redazione Emagazine - Intervista a François Hopflinger - Professore Ordinario di Sociologia - Università di Zurigo 4 MAGGIO - AGOSTO 2006 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI to un buon lavoro che ha riguardato soprattutto la promozione della non istituzionalizzazione degli anziani, riconoscendo quale fondamentale diritto la possibilità, anzi la doverosità, di mantenere l’anziano all’interno di ambienti allo stesso familiari. Non dimentichiamo che tale necessità era stata evidenziata già nel lontano 1982 allorquando l’Assemblea Mondiale sulla condizioni dell’anziano, svoltasi in quell’anno a Vienna, accogliendo la raccomandazione n. 13 del Piano di Azione mondiale approvato (nello stesso anno) dall’ONU, diffondeva il principio di ampliare l’assistenza a domicilio dell’anziano, perchè come testualmente indicato: “lo stesso possa abitare nella comunità di origine e vivere autonomamente il più possibile”. In tale ottica i paesi scandinavi sono stati i primi a sentire la necessità di dare risposte adeguate alla cura degli anziani, organizzando ed integrando i servizi sociali e sanitari in maniera tale da rispondere unitariamente ai bisogni della terza età e studiando soluzioni volte a migliorare la qualità di vita dell’anziano. Dette soluzioni hanno peraltro, nel corso degli anni, portato anche ad una riduzione della spesa sanitaria. In mancanza del supporto familiare e dei valori della doverosità assistenziale, in Olanda e Danimarca si è dato spazio ai c.d. “volontari” che, a fronte dell’assistenza riservata agli anziani, ricevono pagamenti sotto forma di rimborsi. In Norvegia e Finlandia è privilegiata la figura della famiglia affidataria che, per la cura prestata ad un anziano, riceve una specifica indennità. Negli anni novanta l’Olanda ha indirizzato gli studi di domotica verso la possibilità di consentire all’individuo anziano di mantenere la propria dimensione abitativa anche in presenza di una progressiva perdita di autosufficienza. Ciò ha comportato un impegno nel realizzare ambienti residenziali ed urbani adatti agli anziani attraverso la costruzione o l’adattamento di abitazioni secondo criteri che dovevano tener conto del sistema dei servizi di supporto. In tal modo l’anziano, che col passare degli anni perde la sua autonomia, vede l’ambiente che lo circonda adattarsi man mano alle proprie crescenti esigenze, senza per questo dovere abbandonare i luoghi familiari ed evocativi del proprio passato. Gli stati di ispirazione bismarkiana dopo avere constatato che i tradizionali sistemi di assistenza sociale non riuscivano più a garantire un adeguato supporto all’individuo anziano non autosufficiente, hanno invece fatto ricorso al mercato assicurativo, studiando forme di particolare copertura garantita a partire da una determinata soglia di bisogno. Influenzata dai paesi scandinavi, colpita da una gravissima contrazione delle nascite, che crea sempre più lo sfaldamento delle rete familiare di assistenza, la Germania ha, negli ultimi anni, investito anche sul mercato edilizio per garantire agli anziani di potere condurre una vita autosufficiente evitando l’istituzionalizzazione; “abitare assistito” è il nome del progetto tedesco che fornisce un appartamento senza barriere architettoniche, servizi domiciliari ed aiuto nei lavori di casa. Seppur con passo più lento anche la Francia, il Regno Unito, il Belgio e l’Austria vanno verso la creazione di strutture alternative alla istituzionalizzazione, mentre i paesi del sud Europa, tra cui l’Italia, stentano ancora ad affrontare il problema in maniera soddisfacente. Un primo intervento a livello nazionale è stato inserito nella legge finanziaria 11.03.88 n.67 prevedendo la realizzazione di 140.000 posti in strutture residenziali per anziani che non possono essere assistiti a domicilio. Le normative successive sono state tutte rivolte alle Regioni ed agli Enti Locali indirizzando le stesse a programmare in maniera organica ed omogenea una rete di risorse di ampliamento della cura dell’anziano tra domiciliarità e residenzialità. Nel primo quinquennio degli anni novanta sono stati programmati, in maniera decentrata, gli interventi per gli anziani ultrasessantacinquenni, e con il coordinamento degli interventi assistenziali e sanitari si è creata la rete delle ADI (Assistenza domiciliare integrata) e delle RSA (Residenze sanitarie assistenziali). Sulla spinta delle innovazioni introdotte, il Ministero della Sanità, sempre negli anni novanta, ha elaborato una serie di progetti obiettivi con l’indicazione di linee guida da seguire. È rimasto, purtroppo, nelle stanze del Ministero il POA (Progetto obiettivo anziani) elaborato nel 1999 che proponeva per la tutela dell’anziano nove principi fondamentali: 1) La partecipazione degli anziani alla vita sociale. 2) L’equità di accesso ai servizi 3) L’appropriatezza e flessibilità della rete dei servizi sociosanitari. 4) La promozione di stili di vita positivi. 5) La prevenzione delle principali patologie. 6) Il sostegno per convivere attivamente con la cronicità. 7) La promozione dell’integrazione tra servizi sanitari e sociali. 8) La promozione della ricerca sull’invecchiamento e sulle malattie croniche invalidanti 9) La formazione mirata alla multidisciplinarietà, alla qualità delle prestazioni e alla umanizzazione dei servizi. La fine del millennio ha visto poi l’inserimento 5 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI di interventi a favore degli anziani nella redazione dei piani sanitari nazionali e fra tutti vale la pena ricordare il Piano Nazionale degli interventi e Servizi Sociali 2001/2003 dove si torna ancora alla responsabilizzazione e valorizzazione ella famiglia quale principale ambito di sviluppo e di cura della persona anziana, scegliendo di conseguenza la strada del supporto finanziario ai nuclei familiari di sostegno. In questa ottica si è mossa la Regione Sicilia emanando la Legge n.10 del 21.07.03 che all’art. 10 ha introdotto il buono socio-sanitario per la assistenza e la cura dei soggetti con più di 69 anni e non autosufficienti o per persone con disabilità grave8. Il diritto a restare nel proprio ambiente non è di certo l’unica battaglia che un anziano deve affrontare in un momento della vita in cui spesso, uscito dallo scenario lavorativo, si sente improvvisamente debole, vulnerabile e costretto a far fronte all’evidente discriminazione sociale nei confronti dell’invecchiamento e della vecchiaia. Se nel campo della medicina e della ricerca le problematiche relative alla terza età sono state studiate con una particolare attenzione, altrettanto non possiamo affermare per quel che riguarda le risposte fornite a questo tema dalle istituzioni politiche. Dalla breve disamina degli interventi istituzionali risulta evidente il ritardo con cui il nostro paese affronta il problema e per mascherare le gravi responsabilità istituzionali in ordine alla tutela dei diritti degli anziani, ormai da alcuni anni, veniamo mediaticamente bombardati da una rappresentazione dell’anziano autosufficien- AIAF RIVISTA 2/2006 te, iperattivo, appagato da una vita lavorativa soddisfacente e pronto, quindi, a godere degli anni della pensione dividendosi tra viaggi, tennis, golf e giovani donne ammaliate dal fascino del danaroso uomo maturo. Questa è finzione! Se esiste certamente una fascia di individui che per cultura, estrazione sociale ed opportunità economiche possono permettersi di vivere ogni momento della loro vita senza sentire nocumento dall’evoluzione dell’età anagrafica,, se è vero che tanti uomini e donne di una certa età sono sani e ipersportivi, questo non ci permette di dimenticare che, la maggior parte degli anziani, conduce una vita grigia e sedentaria a causa di malattie, acciacchi, precarietà economica e che essi vivono scontrandosi, giornalmente, con i pregiudizi che la società continua a riservare loro. La Costituzione Italiana9, l’articolo 13 del trattato di Amsterdam10, la Carta dei Diritti fondamentali approvata a Nizza11, hanno indicato la strada per la non discriminazione, ma il nostro Paese è ancora molto lontano da una seria politica che attui detto principio. La discriminazione può manifestarsi in vari modi e tutti siamo ormai consapevoli che esiste una forma di discriminazione indiretta che si realizza quando spesso la neutralità di regole e leggi vigenti favorisce di fatto forme di esclusione. Nel mondo lavorativo, ad esempio, il problema della disoccupazione è ritenuto un problema dei giovani12; l’uomo anziano non è favorito nella ricerca di un lavoro e non gli viene facilmente riconosciuta una ulteriore opportunità di guada- 8 ASSESSORATO REGIONE SICILIA DELLA FAMIGLIA, POLITICHE SOCIALI E DELLE AUTONOMIE SOCIALI: “Si tratta di uno dei provvedimenti più importanti e innovativi della legge sulla Famiglia - dice l’Assessore Stancanelli - perchè consente alle famiglie di prendersi cura dei loro parenti che necessitano di assistenza, senza dover ricorrere al ricovero ospedaliero. Questo, innanzitutto, renderà più umana e calorosa l’assistenza agli anziani non autosufficienti o con grave disabilità, ma consente, anche, di alleggerire la spesa per le cure sanitarie. È una iniziativa frutto della sinergia tra i due Assessorati regionali titolari degli interventi sanitari e sociali, cioè l’Assessorato della Sanità e quello della Famiglia, che avrà la titolarità degli interventi, d’intesa con i funzionari della Presidenza”. 9 ART. 3 COST. “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” 10 TRATTATO DI AMSTERDAM FIRMATO IL 2.10.97 - ART. 13 “....il Consiglio,....., può prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali” 11 Nel corso della CONFERENZA INTERGOVERNATIVA TENUTASI A NIZZA NEL DICEMBRE 2000, gli Stati membri hanno deciso di aggiungere un secondo paragrafo all’art. 13 del trattato CE. A partire dall’entrata in vigore del trattato il Consiglio potrà adottare, a norma della procedura di cui all’art. 251 del Trattato CE, misure di incoraggiamento per sostenere le azioni intraprese dagli Stati membri al fine di combattere ogni forma di discriminazione 12 Se il lavoratore rimasto disoccupato è anziano, ovvero ha compiuto i 52 anni, non è lecito farlo precipitare nella spirale del precariato cronico proponendogli rapporti di lavoro a tempo determinato. Ed è dunque illecita, alla luce del diritto comunitario (e più in particolare della direttiva 2000/78/Cee del Consiglio relativa alla creazione di un quadro generale in favore dell’uguaglianza di trattamento in materia di impiego e di lavoro) una norma interna che consenta, liberamente e senza restrizioni, di imporre tali tipi di condizioni ai lavoratori; una previsione di tale genere, infatti, deve essere interpretata come una discriminazione fondata in ragione dell’età e il giudice nazionale - ove chiamato a pronunciarsi. deve assicurare il rispetto del principio di non discriminazione disapplicando ogni contraria disposizione. Ciò non toglie che possano esservi deroghe possibili, ma queste, correlate alle politiche interne relative all’impiego e al mercato del lavoro, devono utilizzare strumenti appropriati e necessari, condizioni che devono essere concretamente dimostrabili. Corte giustizia CR, 22 novembre 2005, n. 144 6 MAGGIO - AGOSTO 2006 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI gno venendo in tal modo compromessa la possibilità di indipendenza e ponendo spesso l’anziano in una condizione di sudditanza economica. Il sistema di servizi burocratici è oggi rivolto a persone giovani, abili ed abituate all’utilizzo dei sistemi informatici. Nessun riguardo viene riservato all’anziano che, pertanto, rimane spesso imbrigliato nella rete dei servizi pubblici, dilatandone i tempi di utilizzo ed ottenendo risultati, spesso, non consoni alle richieste inoltrate; si pensi ad esempio ai tempi delle liste di attesa per l’erogazione di un servizio sanitario o al riconoscimento di una pensione di invalidità o di un assegno di accompagnamento. Che vale, ad esempio, l’istituzione da parte della Regione Sicilia del buono socio-sanitario se lo stesso non viene erogato e rimane nelle casse regionali? Il sistema dei trasporti non tiene in sufficiente considerazione le persone anziane, i mezzi non sono idonei, le tariffe risultano elevate e le informazioni sono per lo più inaccessibili. La società, poi, non riesce a creare una sufficiente rete di protezione dell’anziano che, pertanto, rimane spesso vittima di truffe, raggiri, abusi e maltrattamenti.13 Un importante evento normativo, per la tutela dell’anziano, è stato certamente determinato dalla emanazione della legge 9.1.04 n. 614 che ha introdotto nel libro I del codice civile la figura dell’amministratore di sostegno rileggendo, in tal modo, gli istituti della interdizione e della inabilitazione. La legge non ha come unici destinatari gli anziani da tutelare, essa rientra nel più ampio concetto di tutela dei soggetti deboli, ai quali deve essere assicurata una adeguata protezione senza dovere necessariamente ricorrere alla negativa figura dell’interdizione scolasticamente ricordata come l’azzeramento delle capacità volitive di un individuo. Eppure, questa società, che non riesce a riservare, se non sporadicamente, uguaglianza di cure ai suoi componenti, che spinge verso l’eterna giovinezza e verso la esaltazione di valori effimeri, continua pur sempre a ritenere gli anziani custodi di uno straordinario patrimonio di cultura, di esperienza e valori, un prezioso ed insostituibile punto di riferimento e segno di continuità per l’intera collettività. A secoli di distanza sembra rinnovarsi davanti ai nostri occhi l’antico dualismo tra Atene e Sparta. La civiltà estetizzante di Atene ritiene inaccettabile il fenomeno della decadenza fisica e tende a cancellare la vecchiaia dalla memoria collettiva, con l’emarginazione dell’anziano e l’esaltazione della giovinezza. Per Sparta invece il vecchio sopravvissuto a molte battaglie merita onori, riconoscimenti ed incarichi pubblici per potere tramandare alla collettività virtù e saggezza. Alla fine nell’era moderna la battaglia è vinta soltanto dall’anziano attivo, un anziano ancora accudente e non inabile, un punto di riferimento per i figli non perchè dispensatore di virtù e saggezza, ma perchè talvolta unico sostegno economico nei confronti di chi non è riuscito a crearsi una propria indipendenza o ha cercato ausilio perchè in fuga da realtà familiari fallimentari. Un anziano che deve essere pronto a supportare il figlio talvolta sostituendosi nella cura e nell’accudimento dei nipoti. Al dovere di cura materiale imposta agli ascendenti dal nostro ordinamento non è coinciso il riconoscimento del diritto di tutela del rapporto tra nonni e nipoti. Per anni la giurisprudenza di merito ha cercato di valorizzare la figura dell’anziano nell’importante ruolo di nonno, sottolineando la valenza positiva che tale figura può ricoprire per un armonico sviluppo di un minore. Si doveva arrivare alla legge 54/06 per l’ingresso seppur indiretto, nel nostro ordinamento dell’ampliamento delle relazioni affettive nell’ambito parentale. Ancora una volta però non abbiamo avuto il riconoscimento di un diritto dell’anziano, abbiamo semmai avuto la massima affermazione dell’interesse del minore al quale viene garantita la tutela dei rapporti parentali psicologicamente e pedagogicamente ritenuti indispensabili per la serena crescita e per la salvaguardia dei rapporti affettivi. Ancora una volta, anche il Legislatore attinge, 13 Il metano ti dà una mano (e con l’altra ti sfila il portafoglio). L’emergenza energetica continua e sta rendendosi complice di una delle truffe più diffuse in questo periodo. Anziani soli vengono depredati da falsi incaricati dell’azienda municipale, penetrati nelle abitazioni con la scusa di controllare l’impianto domestico. Ti ripuliscono la giacca (e già che ci sono, anche il portafoglio). Generalmente operano donne con bambini e bande di ragazzini. Scelgono la vittima, la urtano macchiandola di caffé o di gelato e cominciano a darsi da fare per ripulirla. Se mettono le mani sul vestito il portafogli prende il volo. Falsi d’occasione. Persone dall’aspetto rassicurante fingono di dover prendere un aereo al volo e siccome non hanno abbastanza contanti, offrono, in cambio di una somma, un orologio o un gioiello. Di solito operano in due: uno che vende e un compare che finge di voler soffiare l’affare alla vittima potenziale. 14 LEGGE 9.1.04 N. 6 - Introduzione nel libro primo titolo XII, del Codice Civile del Capo I, relativo all’istituzione dell’amministrazione di sostegno e modifica degli artt. 388, 414, 417, 418, 424, 426, 427 e 429 c.c. in materia di interdizioni e di inabilitazione, nonché relative norme di attuazione, di coordinamento e finali (G.U. n. 14 del 19.01.04) 7 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI con intenti propagandistici, di sicuro effetto mediatico, alla fonte costituita dall’anziano, fornendogli in cambio solo la parvenza di protagonismo, lasciandolo, in realtà, nell’eterna attesa del riconoscimento di un diritto e della effettiva definizione del valore rappresentato. La novella 54/06 che, nel modificare ed innovare l’art. 155 del Codice Civile, ha introdotto nello scenario patologico della crisi familiare, la regola della esaltazione del principio di garanzia della biogenitorialità, ha sfruttato la “pietas” del nonno, cercando di riequilibrare una rete di legami familiari alla deriva. Nel momento della maggiore manifestazione del conflitto coniugale che ha già prodotto una frattura nella coppia, il legislatore introduce, infatti, una regola di condivisione dell’affido della prole minore riservando agli ascendenti ed ai parenti di ciascun ramo genitoriale un ruolo di coprotagonisti. Volendo costruire uno scenario concreto in che modo potrà tradursi il coprotagonismo dell’anziano nella gestione di una rete familiare in crisi? Temiamo che, ancora una volta, ciò pubblicizzi solo un bel principio astratto che, invece, nasconde la mera richiesta di supporto materiale rivolto all’anziano, il quale si vedrà così costretto a dimenticarsi di sé e delle sue esigenze per rincorrere la vita dei propri figli, nel prioritario desiderio di salvaguardare il rapporto affettivo nei confronti della sua discendenza. Ancora una volta quindi disuguaglianza e discriminazione rischiano di far da compagni alla vita dell’anziano, anche quando sembrava essergli stata promessa e garantita la possibilità di rendersi strumento di stabilità e continuità di quei legami che egli stesso ha, pazientemente, costruito nel corso della sua esistenza. Si impone, allora, la ricerca di sane prospettive e la risposta a questa esigenza non potremo certo sperare di trovarla nell’ennesima “pillola magica”, appositamente “confezionata” per il pubblico anziano da questo o quello istituto farmaceutico o nella manovra socio-economica di cui si renda promotore l’uno o l’altro schieramento politico, in eterna contesa con la propria opposizione. Inutile tentare di sfuggire l’unica possibilità di riuscita, la più difficile. In questa società malata, preoccupata prioritariamente di affastellare, a ritmi frenetici, quanti più stimoli possibili, senza badare al rispetto delle unicità di ogni anziano anche nel ruolo di nonno ed alla esaltazione delle originali caratteristiche dell’individuo, dandogli così la possibilità di cercare, trovare ed essere pago del proprio posto tra gli altri simili, ciascuno è chiamato all’impegno nella ricostruzione e salvaguardia dei valori familiari, nella 8 AIAF RIVISTA 2/2006 protezione e cura degli affetti, nella riscoperta di ciò che non è destinato a consumarsi in fretta per far spasmodicamente posto a ciò che è nuovo, ma molto raramente migliore, alla pazienza ed alla tenacia nel mantenere i piedi saldi su di un faticoso ma sano cammino personale che rispetti l’altro nella sua unicità e garantisca, così alla vita associata la possibilità del suo perpetuarsi. La sfida è ambiziosa.....Al lavoro! * avvocato in Palermo MAGGIO - AGOSTO 2006 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA BIOETICA E DIRITTI DEGLI ANZIANI 20 gennaio 2006 INDICE INTRODUZIONE PREMESSA - la questione demografica - il profilo epidemiologico - l’anziano “autosufficiente” - l’anziano “non autosufficiente” - il volontariato e il “prendersi cura” dell’anziano - la riabilitazione PARTE PRIMA: BIOETICA E SENESCENZA 1. La vecchiaia tra riflessione filosofica e indagine bioetica 1.1. La congiura del silenzio 1.2. La crisi di identificazione ed il perseguimento dei significati 2. Dalla CURA all’AVER CURA al SELF CARE 2.1. Il bilancio di competenze dell’anziano 2.1.1. Centri per la salute dell’anziano 2.1.2. Le diverse fasi del bilancio di competenze 3. Anzianità: comunicazione intergenerazionale e aspetti culturali, valoriali e spirituali 3.1. La comunicazione intergenerazionale 3.2. Spiritualità e religiosità nella senescenza 3.2.1. L’universo valoriale nella vita della persona anziana PARTE SECONDA: L’ANZIANO NON AUTOSUFFICIENTE E L’ETICA DELLA CURA 4. L’invecchiamento 5. L’anziano autosufficiente e privo di gravi patologie 6. L’anziano fragile 6.1. Operatori, servizi, persone: risorsa per l’anziano 7. L’anziano emarginato 8. L’anziano maltrattato 9. L’anziano dal punto di vista giuridico CONCLUSIONI APPENDICI Carta dei diritti dell’anziano Linee guida per il comportamento delle nuove figure domestico-assistenziali (“badanti”) INTRODUZIONE DI FRANCESCO D’AGOSTINO Per quel che concerne l’intendimento della vecchiaia, tra noi e coloro che sono appartenuti alle generazioni antecedenti alla nostra, c’è una sorta di abisso ermeneutico, che ci è molto difficile poter colmare. Infatti non è più possibile, oggi, considerare la condizione anziana facendo coincidere -secondo un paradigma classico, fortemente consolidato e peraltro in gran parte ancora ampiamente condiviso- la prospettiva ontologica con la prospettiva biologica: non è più possibile, in altre parole, definire cosa sia la vecchiaia analizzandola riduzionisticamente, a partire ad es. dalla perdita della capacità riproduttiva o dal “rallentarsi” dell’attività intellettuale o dal deficit, anzi dal costante e irreversibile degrado, di qualunque altra specifica funzione fisico-biologica. È ormai acquisizione consolidata che “la vecchiaia è espressione di una biologia in un ambiente”, secondo la felice espres- 9 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI AIAF RIVISTA 2/2006 sione di Andreoli e che l’ambiente è nozione meta-biologica, nella quale interagiscono dinamiche psicologiche, politiche, sociali, storico-culturali. Ci è stato spiegato dalla demografia come la modernità abbia profondamente modificato la struttura della popolazione nelle società avanzate, destrutturando la caratteristica forma piramidale che ha caratterizzato per millenni il rapporto tra le generazioni ed abbia di conseguenza cambiato radicalmente la nostra percezione della fisicità della condizione anziana. È cambiata con tale rapidità da non consentire al linguaggio di aggiornarsi: come acutamente osservò Norberto Bobbio “nulla prova la novità del fenomeno meglio che il constatare la mancanza di una parola per designarlo: anche nei documenti ufficiali agli agés seguono i tres agés”, agli young old, la nuova categoria demografica circoscritta tra i sessantacinque e i settantacinque anni, seguono gli oldest old, che superano i settantacinque anni. Gli studi che si sono moltiplicati negli ultimi decenni -oltre che più in generale l’esperienza diffusa di cui siamo tutti testimoni- ci hanno convinto dell’infondatezza del paradigma che vedeva l’anziano come un individuo in preda a un progressivo ed inesorabile sfacelo psico-fisico che annientava la sua vita individuale e la sua funzione sociale. In altre parole è divenuto assolutamente obsoleto il motto di Terenzio: “Senectus ipsa morbus”. “Invecchiare - ha scritto John Eccles - è un concetto relativo. La c.d. senescenza è un processo dovuto al rallentamento o alla diminuzione delle possibilità intellettuali, causato da ridotte capacità di apprendimento, memorizzazione e creatività. Ma proprio perché è definita in questo modo, non esiste un’età tipica del suo apparire” Sono crollati di conseguenza o sono comunque destinati a rimodellarsi stereotipi radicatissimi nella coscienza collettiva. È crollato lo stereotipo della specifica ammirazione che meriterebbe la saggezza senile, che la qualificherebbe precipuamente per l’attività politica e che, sempre stereotipatamente, in ogni generazione si lamenta che sia andata perduta. Perde di senso, a seguito dell’impressionante innalzamento dell’indice della vita media, l’invidia per l’evento, un tempo rarissimo, della longevità. Perde di asprezza e acquista nuovi connotati di bonomia la tradizionale irritazione attivata dalla vecchiaia dispotica, pretenziosa, arrogante e imbelle, destinata ad essere beffata e punita e che tanto materiale, dall’antichità fino all’Ottocento avanzato, ha sempre fornito a poeti, commediografi e a librettisti d’opera; ma perde simmetricamente di forza il senso di tenerezza attivato da una vecchiaia mite e tornata ad essere pressoché infantile, di cui sono testimonianza favole e miti (Filemone e Bauci). Ma crolla anche lo stereotipo della atrocità della vecchiaia, la vecchiaia paragonabile a un decayed house, ad una casa in rovina, ritenuta così detestabile, da far apparire auspicabile la morte precoce (si ricordi il detto classico Muor giovane colui che agli dèi è caro, un tema che troviamo ancora nel giovane Leopardi, che spera di non dover mai varcare la detestata soglia della vecchiezza); perdono incisività e si involgariscono nell’immaginario collettivo le fantastiche illusioni di poter trovare una via per conquistare una eterna giovinezza, illusioni che vengono più prosaicamente ma anche con ben maggiore concretezza sostituite dal legittimo desiderio di garantirsi una terza età sana, efficiente, socialmente garantita, sessualmente attiva. La vecchiaia appare oggi insomma alla stregua di una età della vita caratterizzata sì (peraltro come ogni altra età della vita) da particolari fragilità -e proprio per questo meritevole di doverose e specifiche attenzioni igieniche, biomediche e sociali-, ma non certo come una età in cui debba di necessità, in virtù di una imperscrutabile volontà della natura, affievolirsi il diritto alla salute, come diritto umano fondamentale non solo alla terapia, ma in senso più lato alla cura. La riflessione bioetica possiede sotto questo profilo spazi di operatività, soprattutto sociale, davvero sconfinati. Essa deve denunciare tutte le forme di violenza, in gran parte subdole e indirette, cui vengono sottoposti gli anziani. Deve denunciare come un vero e proprio mito quello della ineluttabilità e della progressività del loro declino psico-fisico; e lo deve denunciare come un mito pernicioso, perché è esso stesso in gran parte la ragione della situazione di disagio -sociale, politico, psicologico- in cui nella modernità vengono spesso a trovarsi gli anziani, vittime di dinamiche di emarginazione intollerabili sotto tutti i profili. Ove la bioetica uscisse vittoriosa da questa battaglia (ma in realtà non è questa una battaglia che si possa vincere una volta per tutte, perché è destinata a riaccendersi ad ogni generazione), non per questo potrebbe ritenere esauriti i propri compiti. Le resterebbe comunque da combattere una battaglia ulteriore, infinitamente più complessa: quella che ha per oggetto non la biologia, ma l’ontologia della condizione anziana in quanto tale. Infatti, per quanto si possano doverosamente ed efficacemente rivendicare i diritti dei soggetti anziani e per quanto la medicina possa efficacemente operare per dare all’esercizio concreto di questi diritti un solido supporto biologico, resta per la condizione anziana il problema di fronteggiare l’ostacolo più grande, quel duro dato, come ha scritto Romano Guardini, della “segreta ostilità che la vita in crescita oppone alla vita declinante”; le resta da fronteggiare quel diffuso sentimento di disprezzo nei suoi confronti, che si ha raramente il coraggio di considerare fino in fondo e che trova la sua ultima radice nella innaturalità che in qualche modo possiede per l’uomo il diventare vecchio e la cui evidenza, stampata nei volti senili, suscita, in chi ancora vecchio non è, un turbamento profondo, che viene in genere rimosso e occultato, ma che più spesso ancora suscita sentimenti di aggressività. Se il compito di promuovere la difesa della vita anziana nelle sue dimensioni materiali richiede un’alleanza tra bioetica, medicina e politica sociale, quello di prendere sul serio la difficilissima dialettica che contrappone la vecchiaia alle precedenti età della vita è un compito che con ogni probabilità spetta esclusivamente alla bioetica, come etica della vita. E non possiamo dire che la bioetica sia, generalmente parlando, bene attrezzata per adempierlo. Partendo da questa consapevolezza, il Comitato Nazionale per la Bioetica nella riunione plenaria del 19 settembre 2002 decise di attivare un gruppo di lavoro, dedicandolo alla Bioetica e diritti degli anziani. Il carattere interdisciplinare della ricerca e della riflessione in materia indusse a nominare ben tre diversi coordinatori del gruppo, nelle persone di Adriano Bompiani, Luisella Battaglia e Annalisa Silvestro. Del gruppo entrarono subito a far parte numerosi colleghi, tra i quali Paola Binetti, Isabella Coghi, Carlo Flamigni, Romano Forleo, Laura Palazzani, Elio Sgreccia, Giancarlo Umani Ronchi. La prima stesura del testo venne costruita in numerose e vivaci riunioni di gruppo; esauriti i lavori preliminari, la bozza del documento fu portata infine all’attenzione del Comitato riunito in seduta plenaria il 28 gennaio 2005 e in questa occasione si decise di affidare alle cure della prof.ssa Cinzia Caporale una ulteriore revisione del testo, perché meglio venissero strutturate e coordinate le sue diverse parti. Il testo che ora viene dato alle stampe è stato infine definitivamente approvato nella seduta del 20 gennaio 2006: offrendolo al proprio pubblico il CNB è consapevole dei limiti della sua riflessione, ma nello stesso tempo giustamente orgoglioso di aver con tanto impegno portato definitivamente una tematica così delicata e così essenziale all’attenzione della bioetica italiana. 10 MAGGIO - AGOSTO 2006 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI PREMESSA Il Comitato Nazionale per la Bioetica propone all’attenzione dell’opinione pubblica alcune riflessioni riguardanti la condizione dell’anziano nell’attuale congiuntura sociale, invitando i cittadini a considerare con maggiore disponibilità la dignità e i diritti che spettano alle persone che attraversano questa particolare fase della vita umana. Il Comitato desidera anzitutto sottolineare che una bioetica con gli anziani è ormai assolutamente opportuna, in quanto suscettibile di coinvolgere diversi soggetti (individui, famiglie, istituzioni, associazioni del volontariato, etc.) e capace di favorire una riflessione ad ampio raggio su una questione sociale urgente che va affrontata secondo diverse prospettive: medico-sanitaria, psico-sociale, etico-normativa e in definitiva antropologica, sia sul versante delle persone interessate che sul versante pubblico. La trattazione di questi aspetti ha raggiunto - sia in sede nazionale che internazionale - una dimensione assai vasta per numerosità di contributi, molti dei quali di elevata qualità. Il CNB, pur tenendo conto delle principali linee di pensiero emerse al riguardo, non ha tuttavia inteso tentarne una sintesi, né condurre un’analisi circostanziata della letteratura disponibile. E nemmeno il CNB ha voluto soffermarsi sulle questioni economiche che in molti casi gravano sulla persona che si inoltra nell’età che segue la cessazione dal lavoro, o sulle questioni strettamente politico-amministrative (pur riconoscendone la notevolissima rilevanza nella vita del soggetto), né dibattere la “classificazione” dell’anzianità rispetto ai limiti temporali e alle denominazioni che sono state proposte dalla demografia per le diverse classi (ad es.: anziano, vecchio, longevo, vegliardo, etc.). Ricomprendendo nel concetto di anzianità quel continuum di problemi che interviene dopo la cessazione del lavoro professionale e comunque convenzionalmente fissato a partire dai 65 anni, con il presente Documento il CNB vuole ribadire con argomentazioni bioetiche la doverosità di alcuni comportamenti che - adottati universalmente - potrebbero contribuire a rafforzare il concetto di dignità dell’anziano e favorire il rispetto dei diritti che a lui spettano. LA QUESTIONE DEMOGRAFICA Esiste una consapevolezza diffusa dell’importanza che riveste il fenomeno del progressivo aumento della vita media per un equilibrato assetto sociale. Un fenomeno che si è accentuato nella seconda metà del XX secolo in particolare in tutti i Paesi a elevato tenore di vita e sufficiente alfabetizzazione e organizzazione sanitaria, e a cui peraltro gran parte delle trattazioni si riferisce come a un elemento di “pericolo” per i fondamenti stessi del sistema di protezione sociale. Meno diffusa, almeno in alcuni Paesi, sembra invece essere la consapevolezza che l’invecchiamento della popolazione - inteso come indice globale dell’equilibrio ai fini sociali delle varie classi d’età - è influenzato non solamente dallo spostamento verso età sempre più avanzate della mortalità, ma anche dalla diminuzione degli indici di fertilità. Come noto, invecchiamento della popolazione e diminuzione dell’indice di fertilità rappresentano un fenomeno che decorre “a forbice” in molti Paesi europei, ma che è particolarmente accentuato in Italia dove si svolge con notevole rapidità. Senza entrare in questa sede in una discussione sulle modalità con le quali il fenomeno possa essere affrontato, il CNB non può esimersi dal suggerire che i fenomeni demografici vengano portati in forma idonea all’attenzione dell’opinione pubblica. Questo approccio, comunque sempre rispettoso delle scelte che ciascun interessato vorrà assumersi nel momento della procreazione, non deve intendersi come mera espressione di un’etica utilitaristica promossa dal potere pubblico per il riequilibrio del sistema previdenziale, ma dovrebbe assumere il significato della “solidarietà fra le generazioni”, che il CNB considera come un principio etico essenziale nell’argomento in esame. In sintesi, in Italia negli ultimi cinquant’anni gli ultra-sessantacinquenni sono aumentati di circa il 150%, fino a raggiungere nel 2003 quasi il 20% della popolazione complessiva. La crescita è diffusa ovunque nel nostro Paese, anche se non mancano differenze territoriali consistenti: alla Liguria spetta il primato del maggior numero di anziani (ben il 24,4% della popolazione); seguono l’Umbria con il 22% e l’Emilia Romagna con il 21,9%. La percentuale più bassa è in Campania dove è pari al 14,2%. Le femmine anche nel nostro paese sono quantitativamente più dei maschi (in Italia si contano 93,8 uomini ogni 100 donne). Questa differenza di genere, che si è ulteriormente consolidata nell’ultimo decennio per le fasce di età oltre i 75 anni, è dovuta al progressivo invecchiamento della popolazione e alla maggiore speranza di vita delle donne. Infatti, sebbene nascano più maschi che femmine, la più elevata mortalità che colpisce gli uomini fin dalle età più giovani comporta che nel totale della popolazione le donne siano più numerose. Il vantaggio del sesso femminile in termine di anni vissuti è probabilmente legato anche alla ridotta esposizione ai rischi del lavoro e alle profonde differenze degli stili di vita: l’abuso di alcol è ancora prevalentemente maschile, mentre per il consumo di tabacco le donne più giovani stanno aumentando in modo più che proporzionale. Le predette variazioni demografiche hanno trasformano profondamente la famiglia che oggi è spesso multigenerazionale e tende ad ‘allungarsi’ per la sensibile riduzione di fratelli, sorelle e cugini. I componenti raramente rimangono uniti nella casa d’origine dove vive, sempre più di frequente, una persona sola, in genere una donna anziana data la maggiore longevità femminile. Le famiglie ‘unipersonali’, non in coabitazione con altri, sono quasi una su quattro e in notevole aumento rispetto al decennio scorso. Proprio in virtù del suo primato di longevità, che si accompagna purtroppo a un aumento dell’indice di dipendenza strutturale, l’Italia potrebbe rappresentare un vero e proprio “laboratorio” per gli altri Paesi attraverso la proposizione e la sperimentazione di programmi e interventi diretti alla valorizzazione sociale dell’anziano autosufficiente, ma anche alla prevenzione e all’assistenza dei bisogni dell’anziano non autosufficiente. IL PROFILO EPIDEMIOLOGICO Contemporaneamente all’invecchiamento della popolazione si sta assistendo a radicali cambiamenti epidemiologici, che interessano in primo luogo la medicina e - più da vicino - l’assistenza sanitaria e la differente allocazione delle risorse finanziarie. Questi cambiamenti epidemiologici possono così riassumersi. Il continuo spostamento in avanti della mortalità coincide con la progressiva prevalenza delle malattie cronico-degenerative (patologie cardio-vascolari, tumori, diabete, osteoporosi, demenze) rispetto alle malattie infettive che viceversa dominavano fino alla prima metà del XX secolo. La prevalenza delle patologie cronico-degenerative si accompagna a due altri aspetti tipici dell’invecchiamento della popolazione: l’aumento età-correlato della comorbilità o polipatologia, e della disabilità, misurata come attività comuni del vivere quoti- 11 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI AIAF RIVISTA 2/2006 diano - e cioè l’essere autonomi nel controllo degli sfinteri, nel lavarsi, nel vestirsi, nello spostarsi all’interno della casa, nell’alimentarsi e nell’avere cura della propria persona. L’aumento età -correlato della comorbilità e della disabilità - non è però tale da portare a uno stato di salute scadente tutte le persone molto anziane: anche tra gli ultra-ottantenni, vi è sempre una percentuale di soggetti - dal 5% a oltre il 20% - che è priva di malattie importanti ed è perfettamente autonoma. Nell’ottica medica, la vecchiaia viene interpretata come quel periodo della vita in cui più alta è la probabilità di dover ricorrere a terapie e a trattamenti medici. Questa probabilità è certamente minima nell’età che fa seguito - normalmente - all’inizio del pensionamento (nei paesi OCDE, circa 65 anni), mentre si fa in generale sempre più rilevante con il trascorrere della vita (dal concetto di anziano a quello di vecchio, etc.) Secondo le conclusioni più importanti da trarre dai dati demografico-epidemiologici sin qui raccolti, il CNB ritiene di poter condividere questi principi: Una prevenzione efficace è ancora “possibile” anche nelle persone molto anziane, purché siano opportunamente seguite da equipe geriatriche esperte. - La combinazione di comorbilità e disabilità esprime il concetto di “fragilità” della vecchiaia, e richiede l’intervento di operatori di diversa professionalità e con formazione specifica. - L’anziano fragile e disabile necessita di un sistema integrato di servizi in grado di assicuragli un’assistenza continuativa. Mentre questi principi si applicano all’etica dei diritti della singola persona anziana, parallelamente l’evoluzione demografica descritta ha investito l’ottica dell’etica pubblica, per la quale la vecchiaia viene esaminata nella prospettiva delle teorie normative della giustizia e, più precisamente, dell’equità nella distribuzione soprattutto delle risorse medico-sanitarie disponibili in un dato contesto sociale, nel quale il constatato rapido incremento della popolazione anziana e il corrispondente aumento della spesa sanitaria impongono di stabilire criteri per allocare in modo equo risorse scarse. In tal modo si è avviato un dibattito sui caratteri essenziali di un sistema sanitario da considerarsi “giusto”, giudizio questo che viene fornito non senza contrasti in rapporto alle principali tradizioni etico-politiche (personalismo, utilitarismo, liberalismo, contrattualismo, comunitarismo etc.) che si riscontrano nella società. L’ANZIANO “AUTOSUFFICIENTE” Prima di esaminare più direttamente le questioni bioetiche poste dalla fragilità e dalla dipendenza, il CNB ha ritenuto opportuno soffermarsi a considerare anche alcuni aspetti della “fisiologia” dell’invecchiamento, inteso sotto l’aspetto non tanto delle modificazioni corporee, quanto dell’ “esperienza dell’anzianità” che gran parte delle persone compiono. Questo processo di “coscentizzazione” del proprio esistere come anziano e del possibile divenire come vecchio è ineludibile per chi avanza negli anni, presentandosi sia nelle condizioni di “autosufficienza” che di “dipendenza”. Esso è però influenzato da questi stati, è diversamente avvertito soggettivamente, ed è comunque correlato a una molteplicità di fattori, in parte “innati” e in parte “ambientali”. Già da molto tempo si è cercato di delineare la costellazione dell’invecchiamento “fisiologico”, offrendone un giudizio antropologico valido per le condizioni di autosufficienza. Tuttavia, dalla letteratura appare evidente che non può offrirsi al riguardo un giudizio uniforme. Il CNB riconosce che nel contesto antropologico che può definirsi ottimistico prorompe con tutta la sua millenaria forza, espressa nelle diverse culture, l’immagine della vecchiaia come portatrice di saggezza. Una concezione che è fondamento della gerontocrazia di molte società che si sono sviluppate nel corso dei secoli. Questo ruolo, certamente oggi molto attenuato nelle civiltà tecnologiche occidentali, non è però del tutto soppresso. Anzi, molti sostengono che il compito sapienziale dell’anziano è ancora più urgente in una società in cui lo sviluppo tecnologico rischia di compromettere i valori umani. D’altro canto, nella propensione diffusa verso il giudizio pessimistico dell’invecchiamento si insiste nel sottolineare che la senescenza rende più vicina la percezione della morte, limita il dispiegamento di potenzialità corporee e psichiche nonché l’armonico rapportarsi con l’ambiente, esalta la fragilità e le debolezze della propria salute le quali, pur non potendosi ancora definire malattie, sono fonte di ostacoli al migliore esercizio delle funzioni vitali. Il giudizio pessimistico vede nella vecchiaia una condizione socialmente sgradevole, in quanto connessa al ruolo di “malato” che molto spesso la società attribuisce all’anziano, ed è comunque fonte di “discriminazione” rispetto all’esercizio di capacità decisionali che l’anziano potrebbe ancora svolgere nella società. Il CNB ritiene ciascuno degli angoli visuali “autentico” in rapporto al contesto nel quale ogni osservatore ha fatto la sua esperienza. Angoli visuali che impongono di fare opportune distinzioni nel formulare giudizi in rapporto alla fascia d’età considerata, allo stato di salute e soprattutto alle caratteristiche del tipo di vita che viene condotta. Tuttavia è certo che la vita biologica e la vita psichica si svolgono in rapporti stretti ed essenziali con l’ambiente e che la privazione di stimoli ambientali (visivi, uditivi, motori etc.) riduce gli adattamenti cerebrali a qualsiasi età la si consideri (come può essere documentato anche elettroencefalograficamente). Da queste considerazioni deriva l’indicazione - che anche il CNB condivide - secondo la quale nell’età anziana occorre mantenere un “lavoro” capace di stimolare l’interesse e la sensorialità, svolgere esercizi fisici che consolidino gli schemi corporei psico-motori, e sviluppare un rapporto con l’ambiente che appaia al soggetto interessato “gratificante” (ciò corrisponde al cosiddetto “invecchiamento attivo”). Occorre anche reagire alla progressiva perdita di “autostima” che generalmente insorge con la perdita del ruolo lavorativo o del ruolo familiare primario con il subentrare delle difficoltà economiche, e che porta l’anziano all’isolamento volontario e alla passività. La letteratura convalida il fatto che l’anziano solo, privo di stimoli familiari o ricoverato è maggiormente soggetto a tale involuzione. Per far fronte a questo fenomeno sarebbe proficuo favorire lo sviluppo di interessi e occupazioni parallele al lavoro al fine di ampliare gli orizzonti culturali e di socializzazione dell’anziano. Gli studi di sociologia religiosa - infine - confermano nella popolazione anziana attuale la frequente presenza di una spiritualità 12 MAGGIO - AGOSTO 2006 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI aperta alla fede religiosa. Questo fattore è capace di infondere speranza e ottimismo creativo nella persona anziana. Spesso stimola alla solidarietà dell’anziano verso l’anziano e contribuisce al fattore di coesione all’interno della famiglia e della comunità. Nel rispetto della coscienza di ogni soggetto e del diritto di libertà religiosa, laddove questa esigenza è sentita, essa va accolta e favorita essendo la religiosità, insieme alla spiritualità, una dimensione essenziale dell’animo umano. L’ANZIANO NON AUTOSUFFICIENTE Il CNB ha considerato, con particolare attenzione, la situazione “morale” della persona anziana non autosufficiente, definita anche “dipendente”. Tale è lo stato nel quale si trovano le persone che - per ragioni legate alla mancanza o alla perdita di autonomia fisica, psichica o intellettuale -, hanno bisogno di un’assistenza e/o di aiuti importanti allo scopo di compiere atti correnti della vita. Oggi si aggiunge, per l’anziano, la seguente espressione a completamento della definizione: “nelle persone anziane, la dipendenza può egualmente essere causata o aggravata dall’assenza di un’integrazione sociale, di relazioni di solidarietà e di risorse economiche sufficienti”. I PROBLEMI BIOETICI CHE NASCONO IN QUESTO CONTESTO SONO MOLTEPLICI E ALCUNI SONO DI NOTEVOLE INTERESSE: a) La dipendenza e la misura della qualità di vita Il problema ha due versanti: soggettivo e oggettivo. Ambedue pongono questioni di definizione e di misurazione. La qualità di vita potrebbe essere definita “la soddisfazione che la vita procura, il benessere soggettivo, fisico, la capacità di adattamento alle situazioni concrete” (valutazione soggettiva). Il criterio oggettivo, invece, consiste nella misura secondo varie scale di indici che esplorano la dimensione assoluta o relativa della soddisfazione della persona, interrogata nel senso di paragonare la sua situazione di fatto rispetto alla situazione ideale riguardo ad ambiti diversi. Ci si può chiedere se talune di queste indagini, compiute talora senza molto riguardo per la dignità dell’anziano e per il rispetto a lui dovuto, corrispondano ai criteri bioetici che regolano la ricerca sull’uomo. Complessa è la stessa definizione di qualità di vita in presenza di demenze, laddove manchi - nelle indagini - l’efficacia del consenso della persona. I criteri assistenziali che prevalgono nella trattatistica - e che come indicazione di massima sono oggi ampiamente accolti - sembrano essere quelli di aggiungere qualità agli anni residui piuttosto che aggiungere anni a una vita di ridotta qualità. b) I principi bioetici che debbono applicarsi anche alla condizione di “dipendenza” dell’anziano sono: - rispetto dell’autonomia morale dell’anziano; - integrità della persona, con atteggiamenti di “beneficità” e rigetto di ogni espressione di “maleficienza”. Da questi due principi, derivano anzitutto le applicazioni enunciate dall’art.11, 15 e 23 della Carta sociale Europea del Consiglio d’Europa (edizione 2000) per le persone dipendenti, e cioè: diritto alla protezione della salute; diritto degli handicappati - e molti anziani non autosufficienti lo sono - a godere dell’autonomia residua, di un’adeguata integrazione sociale e della partecipazione alla vita comunitaria; diritto degli anziani a una protezione sociale. c) Strategie dell’assistenza Questi diritti evocano cinque principi validi per impostare la strategia dell’assistenza: - Occorre rispettare (nella misura del possibile) le preferenze delle persone dipendenti al fine di incoraggiare il loro senso di autonomia e benessere. - I servizi di sostegno debbono essere pluridisciplinari e si dovrebbero prediligere soluzioni che prevedano l’assistenza domiciliare. - L’offerta dei servizi da fornire deve essere graduata sui bisogni reali della singola persona3. - Occorre assicurare l’equità di accesso ai servizi che debbono essere ripartiti sul territorio in modo proporzionale alla densità della popolazione e resi facilmente fruibili. d) Il rispetto dell’integrità dell’anziano e la non maleficienza Il CNB si è soffermato a considerare anche le questioni bioetiche che ineriscono al rispetto dell’integrità corporea e morale dell’anziano, focalizzando la propria attenzione su maltrattamento, abuso e abbandono, sino alla vera e propria violenza. A tal riguardo, occorre sottolineare come la maleficienza verso l’anziano possa corrispondere alla contenzione, intesa come limitazione meccanica o farmacologica delle possibilità di movimento autonomo di un individuo. Tale contenzione è assolutamente riprovevole allorché venga applicata senza un più che giustificato motivo e soltanto ai fini della tutela dell’incolumità della persona. Identico giudizio negativo vale per un ingiustificato isolamento. Va peraltro evidenziata la mutata coscienza pubblica, anche nel nostro Paese, verso il problema storicamente e gravemente emergente della tutela dei soggetti più deboli - fra cui ovviamente gli anziani, in specie quelli affetti da patologie -, mutamento che ha portato a una rilettura degli art. 2 e 3 del dettato costituzionale, precisando il senso di alcuni valori fondamentali (dignità, uguaglianza, libertà, integrità fisica, psichica, relazionale e spirituale). Un rinnovato rispetto per la persona umana, per la sua autonomia e le sue legittime aspettative che ha ricevuto una forte spinta anche dai documenti in ambito internazionale e comunitario. Si può menzionare la Convenzione dell’Aja del 13 gennaio 2000, che raccomanda la tutela dei soggetti deboli ed indica fra gli strumenti da adottare la possibilità da parte del soggetto interessato di conferire un mandato ad agire, dato sia attraverso apposito contratto sia mediante atto unilaterale, per l’ipotesi futura ed eventuale di sopravvenienza di uno stato di incapacità o di limitata capacità. Ancora, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (2000), che all’art. 25, “Diritti degli anziani”, riconosce il diritto di questi ultimi di “condurre una vita dignitosa ed indipendente e di partecipare alla vita sociale e culturale” Espressioni queste ultime che sono state punto di riferimento primario per il nostro legislatore nel determinarsi ad emanare la legge del 9 gennaio 2004, n. 6, che ha dato vita all’istituto dell’”amministrazione di sostegno” e che rappresenta una forte rottura rispetto ai precedenti e consolidati schemi culturali rigidi e vetusti per ciò che concerne la tutela di soggetti fragili. Trattasi, difatti, di una normativa che intende “sostenere” tutti coloro che si trovino nell’impossibilità, anche transitoria, di provvedere ai propri interessi ed esprime il principio per cui il “sostegno” alla cura della persona e agli interessi di essa non si limita alla sfera economico-patrimoniale, ma tiene conto dei bisogni e delle aspirazioni dell’uomo, ricomprendendo ogni attività significativa della vita civile. Un istituto che ha consentito, in casi come quelli della progressiva demenza senile, di relegare a soluzioni giuridiche residuali l’interdizione e l’inabilitazione che, recepite dal sentire comune come “morte civile”, si presentano come vicende 13 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI AIAF RIVISTA 2/2006 “escludenti” dal contesto sociale, ben lontane dal poter sostenere e promuovere l’individuo. IL VOLONTARIATO E IL “PRENDERSI CURA” DELL’ANZIANO Il CNB sottolinea l’importanza dello svilupparsi di una rete di associazioni di volontariato e/o di cooperative senza scopo di lucro che manifestano l’attenzione della società verso il problema dell’assistenza agli anziani sia autosufficienti ma soli o privi di sostegno familiare, sia non autosufficienti. Ovviamente, occorre ribadire che tali iniziative non debbono e non possono sostituire i doveri delle istituzioni pubbliche, ma semmai debbono integrarne l’azione. Espressione di un settore “amichevole” della società è anche quel volontariato che si prende cura dell’anziano con la semplice gestione della “presenza” e della “compagnia”, allorché l’anziano stesso è confinato (soprattutto per l’età, o per malattie croniche a lento decorso) nel proprio domicilio. Il volontario offre empatia, ad esempio con la lettura, con la conversazione, con la sostituzione per qualche ora del familiare altrove necessariamente occupato, con il disbrigo delle piccole incombenze casalinghe. Appare evidente il “significato morale” positivo per chi riceve, ma anche per chi offre, questa condivisione di esperienze. LA RIABILITAZIONE La riabilitazione va intesa non solamente come un insieme di tecniche e di metodologie, ma anche come una filosofia di interventi tesa a restituire alla persona il suo stato funzionale e ambientale precedente, o, in alternativa, a mantenere o massimizzare le sue funzioni rimanenti. Pertanto, elevati sono i contenuti etici della stessa: si tratta di una filosofia di intervento che è antagonista alla disabilità e alla sua passiva accettazione. Una tensione morale dovrà sostenere il soggetto da riabilitare e il personale, per superare barriere fisiche e psicologiche, per compensare quel margine di disabilità e handicap che rimane insuperabile, per sviluppare nuove potenzialità della personalità integrale. Possiamo ancora ricordare che in tema di provvedimenti riguardo l’affido dei figli minori nel momento di crisi del nucleo familiare è stato recentemente previsto dal legislatore il diritto del minore di “conservare rapporti significativi” con gli ascendenti. Una innovazione normativa anticipata dalla giurisprudenza che, gia da tempo, ha riconosciuto e regolamentato la facoltà di incontro e frequentazione con i nonni, ritenendo oggetto di tutela i vincoli che affondano le loro radici nella tradizione familiare, di cui i componenti più anziani rappresentano un punto di riferimento fondamentale per un corretto sviluppo psico-fisico dei minori (Cass. n. 9606/1998; n. 1115/1981). PARTE PRIMA. BIOETICA E SENESCENZA 1. LA VECCHIAIA TRA RIFLESSIONE FILOSOFICA E INDAGINE BIOETICA Nel dibattito bioetico contemporaneo, il tema dell’invecchiamento viene prevalentemente considerato secondo due ottiche: un’ottica medica (la vecchiaia viene interpretata come quel periodo della vita in cui più alta è la probabilità di dover ricorrere a terapie e a trattamenti medici) e un’ottica di etica pubblica (la vecchiaia viene esaminata nella prospettiva delle teorie normative della giustizia e, più precisamente, dell’equità nella distribuzione delle risorse medico-sanitarie disponibili in un dato contesto sociale). Le due ottiche, per quanto importanti e dense di problematiche, paiono tuttavia di portata limitata in quanto offrono una comprensione parziale - se non riduttiva - dell’esperienza dell’invecchiamento. Oltre, infatti, a trascurare gli aspetti psicologici e socio-culturali relativi al significato dell’età anziana nella civiltà contemporanea e la questione delle relazioni - soprattutto comunicative - tra le generazioni, in un contesto familiare e sociale profondamente mutato, non affrontano adeguatamente il problema cruciale del senso dell’invecchiamento nella vita individuale come nell’esistenza collettiva. L’invecchiamento oggi costituisce un fenomeno che ha caratteristiche peculiari almeno sotto tre profili: a. la dimensione quantitativa (si parla di una struttura della popolazione che, in prospettiva, potrebbe addirittura essere dominata da anziani); b. il prolungamento della vita e il parallelo aumento della non autonomia (o non autosufficienza), generatrici di situazioni di dipendenza che richiedono interventi di assistenza sanitaria crescenti; c. il diverso modo di organizzare e di vivere il tempo rispetto al lavoro, alla formazione della famiglia, nonché un nuovo sistema di diritti e di doveri che influenzano notevolmente il cambiamento culturale. Si tratta, pertanto, di un fenomeno strutturale che corrisponde a un travaglio che questa forma di civiltà industriale sta attraversando, e che segna un cambiamento sociale di grande portata, relativo al nostro stesso modello di sviluppo e alle regole della convivenza. Purtroppo l’invecchiamento è oggi tutt’altro che attivo, come potrebbe (e dovrebbe) essere: l’emarginazione, l’esclusione, l’isolamento ma anche le truffe, le aggressioni, gli abusi rischiano di farne un’età a grave rischio. La cultura dei nostri giorni non offre una buona immagine della vecchiaia: semmai suggerisce l’idea di poter rimanere giovani per sempre. Anche i messaggi che ci vengono trasmessi da alcuni ambienti della ricerca scientifica tendono a convincerci che l’invecchiamento si può contrastare, facendoci sperare che esso non esista o che riguardi solo gli altri, quelli che noi vediamo come vecchi. Di qui la necessità di una riflessione che, oltre a mostrare che la vecchiaia coinvolge tutti noi direttamente, ci inviti a scoprirne i contenuti, a conoscerne i modi - sia per capire la vecchiaia degli altri che per accettare la nostra. 1.1 LA CONGIURA DEL SILENZIO Riconoscere il processo dell’invecchiamento, nella sua realtà autentica, intenderlo nelle sue caratteristiche e nel suo divenire è la condizione perché ci appartenga fino in fondo. Viceversa, nella società moderna la vecchiaia tende a trasformarsi in una sorta di tabù, in un argomento proibito, come se essa non esistesse. Ma contro il male incurabile dell’invecchiare non valgono né gli esorcismi della ragione analitica, né i processi di rimozione collettiva. La categoria dell’alterità potrebbe essere adottata per caratterizzare la condizione dell’anziano così come viene percepito - e spesso trattato - dalla società. Gli adulti, cioè, tendono a vedere nell’anziano non un proprio simile ma un ‘altro’. Un ‘altro’ la cui immagine può essere sublimata o degradata ma che è in ogni caso al di fuori dell’umano. 14 MAGGIO - AGOSTO 2006 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI La situazione del vecchio si presenta in questa singolare prospettiva: pur essendo come ogni individuo una libertà autonoma, si scopre e si sceglie in una società in cui gli viene imposta la parte dell’altro. Il dramma della persona anziana consiste nel conflitto tra la rivendicazione fondamentale di ogni soggetto che si pone sempre come essenziale e le esigenze di una situazione che fa di lui un inessenziale. Data questa condizione, in che modo potrà rivendicare la sua piena umanità e ottenere quel minimo che si ritiene necessario per condurre una vita degna di questo nome? A parere della de Beauvoir, spingiamo talmente in là questo ostracismo da arrivare addirittura a rivolgerlo contro noi stessi, rifiutando di riconoscerci nel vecchio che noi stessi saremo. ‘Di tutte le realtà, la vecchiaia è forse quella di cui conserviamo più a lungo nella vita una nozione puramente astratta’ ha giustamente notato Proust. Tutti gli uomini sono mortali, questo lo ammettono. Ma che molti divengano dei vecchi, quasi nessuno pensa in anticipo a questa metamorfosi. (Simone de Beauvoir, La Vieillesse) Ma come avviene la scoperta della vecchiaia? Secondo Goethe “l’età si impadronisce di noi di sorpresa”. Ciascuno è per se stesso l’unico soggetto e spesso ci stupiamo quando la sorte comune diviene la nostra dinanzi a malattie, disgrazie, lutti. La vecchiaia è un destino e quando si impadronisce della nostra vita ci lascia stupefatti: che il passare del tempo universale abbia portato a una metamorfosi personale è qualcosa che ci sconcerta. Ma la vecchiaia è particolarmente difficile da assumere poiché l’abbiamo sempre considerata come una specie estranea: sarei dunque diventato un altro mentre rimango sempre me stesso? In effetti, consideriamo con maggiore lucidità la morte rispetto alla vecchiaia. La morte rientra, infatti, nelle nostre possibilità immediate, ci minaccia a qualunque età, ci capita di sfiorarla, spesso ne abbiamo paura, mentre non è che si diventi vecchi in un istante. Giovani o nella piena maturità, non pensiamo di essere già abitati dalla nostra futura vecchiaia, la quale è separata da noi da un tempo così lungo da confondersi ai nostri occhi con l’eternità: un lontano avvenire che ci sembra irreale. A vent’anni, a quarant’anni, pensarsi vecchio equivale a pensarsi un altro e v’è un che di spaventoso in ogni metamorfosi. Ma la vecchiaia si distingue, altresì, dalla malattia con cui spesso si confonde (senectus ipsa morbus): questa infatti ci avverte della sua presenza e l’organismo si difende contro di essa. La malattia inoltre esiste con più evidenza per il soggetto che la subisce che non per coloro che lo circondano e che spesso ne misconoscono l’importanza. La vecchiaia, invece, appare agli altri più chiaramente che non al soggetto stesso: è un nuovo stato di equilibrio biologico e, se l’adattamento si opera senza scosse, l’individuo invecchiando non se ne accorge. Gli artifici, le abitudini permettono di attenuare per molto tempo le deficienze psicomotorie; indisposizioni dovute alla senescenza possono venire appena percepite e passate sotto silenzio: bisogna avere già coscienza della propria età per decifrarle nel proprio corpo. Molti vogliono a ogni costo credersi giovani, preferendo ritenersi in cattiva salute piuttosto che anziani. Altri trovano comodo definirsi vecchi magari prematuramente, vedendo nella vecchiaia una sorta di alibi; altri ancora, senza accettare con piacere la vecchiaia, la preferiscono tuttavia a malattie che li spaventano e che li costringerebbero a prendere delle contromisure. Come avviene, dunque, la scoperta e l’assunzione della vecchiaia? La rivelazione dell’altro che è in noi, della nostra nuova immagine, ci viene in realtà dall’esterno, da coloro che ci guardano. 1.2. LA CRISI DI IDENTIFICAZIONE E IL PERSEGUIMENTO DI SIGNIFICATI Nella vecchiaia si produce una vera e propria crisi di identificazione: è in gioco la nostra stessa immagine. Noi cerchiamo di rappresentarci chi siamo attraverso la visione che gli altri hanno di noi. Vi sono periodi in cui essa basta a rassicurarci della nostra identità - è il caso dei bambini che si sentono amati e che sono soddisfatti di quel riflesso di loro stessi che scoprono attraverso le parole e i comportamenti dei loro congiunti e a cui si conformano, assumendolo come proprio. Alle soglie dell’adolescenza l’immagine si frantuma e un ondeggiamento analogo si produce anche alle soglie della vecchiaia. In entrambi i casi, si parla di una crisi di identificazione pur se esistono grandi differenze: l’adolescente si rende conto di attraversare un periodo di transizione, il suo corpo si trasforma e ciò lo imbarazza; l’individuo anziano si sente vecchio attraverso gli altri, senza aver provato serie mutazioni: interiormente non aderisce all’etichetta che gli viene appiccicata addosso, e finisce per non sapere più chi è. In questa nuova condizione, volenti o nolenti si finisce per arrendersi al punto di vista altrui, ma questa resa non è mai semplice. V’è infatti una discrepanza tra la situazione che io vivo e di cui ho esperienza interiore e la forma obiettiva che essa assume per gli altri ma che a me sfugge. Nella nostra società, la persona anziana è designata come tale dal costume, dal comportamento altrui, dal vocabolario stesso: essa deve assumere questa realtà. Vi è un’infinità di modi per farlo ma nessuno mi permetterà di coincidere con la realtà che assumo io stesso. Affinché la vecchiaia non diventi una comica parodia della nostra esistenza precedente, non v’è che una soluzione e cioè continuare a perseguire dei fini che diano un senso alla nostra vita: la dedizione ad altre persone, a una collettività, a una qualche causa, al lavoro sociale o politico, intellettuale o creativo. Contrariamente a quel che talora consigliano i moralisti - che predicano la serena accettazione dei mali che la scienza e la tecnica non sarebbero in grado di eliminare - occorrerebbe conservare fino alla tarda età delle passioni abbastanza forti da farci evitare il ripiegamento su noi stessi. La vita, infatti, conserva un valore finché si dà valore a quella degli altri, attraverso l’amore, l’amicizia, l’indignazione, la compassione. Rimangono allora delle 15 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI AIAF RIVISTA 2/2006 ragioni per agire e per parlare. La condizione senile sembra suggerire una riconsiderazione dei rapporti tra gli uomini. Se la cultura non fosse un sapere inerte, acquisito una volta e poi dimenticato, se fosse viva, ogni individuo avrebbe sul suo ambiente una presa capace di realizzarsi e di rinnovarsi nel corso degli anni e sarebbe un cittadino attivo e utile a qualunque età. Se l’individuo non fosse atomizzato fin dall’infanzia, chiuso e isolato in mezzo ad altri atomi, se partecipasse a una vita collettiva, altrettanto quotidiana ed essenziale quanto la propria, non conoscerebbe l’esilio della vecchiaia. E come dovrebbe essere una società perché un uomo possa rimanere tale anche da anziano? La risposta è semplice: bisognerebbe che egli fosse sempre stato trattato come uomo. È dinanzi alla vecchiaia, infatti, che la società si smaschera: il modo in cui tratta i suoi membri inattivi descrive molto di se stessa e di quanta enfasi riponga sulla mera dimensione produttiva degli individui. D’altra parte anche l’anziano può diventare complice di una cultura oppressiva del dover essere che autoritariamente gli viene assegnato. In cambio della protezione che essa gli offre, può compiacersi nella parte di altro e barattare la libertà, l’autenticità in cambio di una tutela, peraltro più apparente che reale. Sappiamo, infatti, che ogni individuo, oltre all’esigenza di affermarsi come soggetto - che è un’esigenza etica - porta in sé la tentazione di fuggire la propria libertà, di trasformarsi in cosa. È un cammino nefasto ma è anche un cammino agevole: si evita, infatti, in tal modo, l’angoscia e la tensione di un’esistenza autenticamente vissuta. Non è, infatti, solo la società ma è il nostro stesso io a definire il vecchio come altro. Mentre nel primo caso il processo di decostruzione dell’alterità riguarda il sociale (le immagini, i miti, gli stereotipi che circondano la vecchiaia), nel secondo è coinvolto il nostro stesso inconscio e tale processo appare, pertanto, più complesso giacché il tabù riguarda noi stessi. D’altra parte, si può notare una connivenza tra i miti giovanilistici della società e il nostro stesso inconscio. Davanti all’immagine del nostro avvenire che i vecchi ci propongono noi restiamo increduli, una voce dentro di noi ci mormora assurdamente che questo a noi non succederà, che non saremo più noi quando questo succederà. La vecchiaia è qualcosa che riguarda solo gli altri. È così che si può comprendere come la società riesca a impedirci di riconoscerci negli anziani. Per vedere nei vecchi non degli altri ma dei nostri simili, per non essere più indifferenti al destino di chi sentiamo lontano, estraneo, separato ma ci è invece vicino, familiare, prossimo è necessaria quella che si potrebbe definire una identificazione prospettica, il riconoscimento, cioè, della nostra identità in anticipo sui tempi della nostra vita. L’invecchiamento individuale è una parte dell’avventura umana che solleva le questioni fondamentali dell’esistenza: confrontata alla sua finitezza, la persona anziana reinterpreta la sua presenza al mondo. In questa storia non è isolata ma resta strettamente solidale rispetto al gruppo culturale, sociale e familiare al quale è collegata. Ogni società, infatti, attribuisce, implicitamente o esplicitamente, un ruolo ai suoi anziani e organizza delle risposte ai bisogni dei più deboli, in particolare dei ‘grandi vecchi’ non autosufficienti. Anche alla luce di questi rilievi ci si può stupire dello scarso interesse riservato ai problemi degli anziani nei dibattiti etici, i quali non ignorano certo i dati relativi ai cosiddetti ‘soggetti deboli’; tuttavia gli aspetti legati alla vecchiaia (isolamento sociofamiliare, scarsità di risorse finanziarie, dipendenza) sono di rado oggetto di una riflessione approfondita. La vecchiaia resta ancora argomento marginale nella disamina della nostra società occidentale nonostante che i progressi medici collochino in un contesto nuovo il vissuto dell’invecchiamento e l’approccio alla morte. In Occidente le categorie egemoni, quelle della funzionalità e dell’utilità, fanno invecchiare davvero male. Non s’invecchia, infatti, solo per degenerazione biologica ma, come si è visto, anche e soprattutto per ragioni culturali e precisamente per l’idea che la nostra cultura si è fatta della vecchiaia. D’altra parte, la discussione sul senso dell’invecchiamento non può essere puramente teorica. Ciascuno è confrontato alla realtà di un avvenire possibile, per se stesso, per i suoi parenti e amici: gli interrogativi da porsi presuppongono un approfondimento personale in relazione al tema dell’alterità. Si tratta, a un tempo, di riconoscere l’altro come se stesso e di rispettare, al di là di ciò che esprime, il segreto della sua irriducibile intimità. In situazioni di dipendenza, tutti gli attori (e sono molti, dai figli alle loro famiglie fino alle istituzioni e ai responsabili politici) sono rinviati alle loro concezioni della persona e del rispetto della sua dignità. Ciascuno si trova così chiamato a giustificare le interpretazioni delle nozioni di solidarietà, di progresso, l’idea stessa che si fa del suo potere sulla vita. 2. DALLA CURA ALL’AVER CURA, AL SELF CARE Se è indubbiamente vero che il tema dell’invecchiamento è strettamente intrecciato ad altre questioni bioetiche di grande rilevanza (la fine della vita, il diritto alla salute, l’accanimento terapeutico etc.), esso esige tuttavia di essere esaminato in se stesso come fenomeno che presenta una specificità e dei caratteri che devono essere enucleati attraverso un’analisi filosofica rigorosa. In particolare, la questione del valore dell’età avanzata non può essere esaminata assumendo come modello di riferimento unicamente il paradigma della salute. La quale, anche intesa come pienezza del vigore psico-fisico, non sembra un metro adeguato per ricercare un possibile senso della condizione anziana e, in generale, delle varie fasi della vita. Ciò vale proprio per l’età anziana, ove si consideri la ingravescente frequenza, con il passare degli anni, di condizioni intermedie fra piena salute e conclamata malattia, che non tolgono valore alla dignità dell’anziano. Se si dovesse paragonare la vecchiaia alla malattia, si dovrebbe forse scegliere una condizione di ‘normalità’ nella vita dell’uomo quale parametro unico per definire la salute. Ciò non può avvenire perché ogni età dell’uomo ha la propria ‘normalità’: esistono, in altri termini, tante normalità in rapporto alle diverse età (infanzia, adolescenza, maturità etc.). In tal senso, la vecchiaia non è una ‘perdita di normalità’ ma è di per sé stessa una condizione normale, connotata in modo specifico a tutti i livelli - fisico, psicologico, sociale. E tuttavia troppo spesso, secondo una prospettiva leggibile nei modelli culturali occidentali, la malattia stessa può essere usata come strumento per mascherare la vecchiaia: siccome la malattia può essere curata è legittimo sperare di guarire; se questo poi non avviene, la colpa risale all’incapacità della scienza medica, mai alla vecchiaia. È una specie di mascheramento che evita di riconoscere la vecchiaia in piena coerenza, però, col paradigma scientifico in base al quale, prima o poi, alla malattia si troverà rimedio. Può allora succedere che si rinunci a prendersi cura dell’invecchiamento, nella sua globalità e nelle sue dimensioni, per rincorrere ipotetiche guarigioni, con la conseguenza, talora, che la scelta del programma di cura perda il riferimento alla qualità della vita degli anziani. Come ha scritto Daniel Callahan, uno degli studiosi di bioetica maggiormente impegnati su questo fronte, “La ricerca del senso 16 MAGGIO - AGOSTO 2006 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI e la ricerca della salute non camminano mano nella mano”. La tentazione della medicina contemporanea di far valere il proprio metro di giudizio in termini di salute per determinare il valore globale della vita delle persone non tiene conto della complessità di tale valore che appare - nei suoi tratti essenziali - piuttosto legato al tempo e alle relazioni che intercorrono tra il passato, il presente e il futuro. È da attribuire al progresso tecnico-scientifico il miglioramento delle condizioni di vita (maggiore disponibilità di risorse, migliore alimentazione e cura della persona, igiene della casa più sicura) e quindi delle condizioni igienico-sanitarie della vita collettiva (scomparsa delle grandi epidemie, maggiore tutela dell’ambiente etc.). Da un lato, i risultati della ricerca scientifica e tecnologica, specie in campo medico e biologico, consentono di aggredire in modo sempre più efficace molte malattie con interventi e cure un tempo inimmaginabili, dall’altro, le modifiche nel campo dell’organizzazione del lavoro e dell’economia (derivanti dalle applicazioni della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnologico) permettono la riduzione della fatica e la contrazione del tempo del lavoro. Ci si interroga, alla luce di tali problematiche (aumento della durata media della vita, corrispondente crescita dei bisogni medici, correlativo aumento della spesa sanitaria) sulla prassi medica e sui suoi scopi, nel quadro di una vera e propria sfida all’autocomprensione della medicina. Uno dei problemi centrali è come riformulare il rapporto di quest’ultima con la salute e con la malattia. Secondo Callahan, occorre attribuire maggiore importanza al raggiungimento di una buona qualità della vita anziché alla lotta senza quartiere alla malattia, rimettendo in questione taluni atteggiamenti tradizionali nei confronti della morte e della vita (quelli, ad esempio, per cui la medicina si oppone alla morte difendendo strenuamente la vita). In tal modo, viene propugnato un cambiamento nel nostro sistema sanitario, orientato verso la cura (cure) anziché l’aver cura (care) - una sorta di rivoluzione nel nostro modo di pensare e nelle nostre abitudini. Invece di un sistema diretto a estendere la durata della vita, dovremmo elaborare una filosofia della medicina e un tipo di assistenza sanitaria capaci di individuare un migliore equilibrio tra la medicina curativa e aggressiva (tecnologica) e quella più paziente del prendersi cura. Per quanto riguarda specificamente gli anziani, tale filosofia dovrebbe riconoscere che essi hanno bisogno di interventi tesi non a prolungare a ogni costo la vita, ma a evitare la morte prematura e a garantire loro una esistenza qualitativamente buona entro i limiti detti. Nella visione dell’invecchiamento come ‘gara contro la morte’ v’è il tentativo di occultamento della morte, in cui si vede, comunque, il segno di una sconfitta. Per questo si predispongono luoghi appositi per accogliere i morenti, ritirandoli tempestivamente dalla comunità dei vivi, oppure si relegano nelle corsie di un ospedale o nei cronicari. È qui che l’invecchiamento interroga la cultura, l’etica, l’organizzazione sociale, la politica: la risposta non va cercata all’interno di un dibattito sull’eutanasia ma entro il sistema dei diritti della persona, nel quadro di una bioetica del caring, che si faccia carico della difesa dei diritti dei soggetti più deboli. Oggi abbiamo una medicina riluttante ad accettare il nostro comune destino, che è la vecchiaia, il declino, la morte. In tal senso, il movimento anti-invecchiamento e la medicina altamente tecnologizzata sono alleati in quanto ciascuno conferma i pregiudizi dell’altro: l’uno nel minimizzare le caratteristiche generali della vecchiaia, l’altro nel tendere a rattoppare singoli corpi deteriorati dalla loro mortalità. Non c’è limite, rileva al riguardo Callahan, alla possibilità di spendere denaro per combattere l’inevitabile declino biologico e l’inevitabile morte che sono inerenti alla vecchiaia. Callahan fa rilevare che è proprio la predisposizione che abbiamo verso la medicina tecnologica a richiedere l’investimento di quote sproporzionate delle risorse sanitarie. Al contrario, una filosofia della medicina orientata al paradigma bioetico del prendersi cura e incentrata sulla difesa della qualità della vita può situare meglio l’individualità della persona entro un contesto di maggiore interdipendenza sociale e di prudente accettazione della mortalità. La priorità di una simile medicina sarà quella non di dilatare indefinitamente la vita ma di utilizzare le nostre risorse per far sì che la vecchiaia sia un tempo di compimento e di arricchimento, ponendo al primo posto l’assistenza infermieristica, la fornitura di ampi servizi sociali al fine di aiutare gli anziani malati cronici e i loro familiari. È forse superfluo sottolineare che si sta proponendo non di eliminare la medicina curativa tecnologica ma solo di ridimensionarla, di renderla nel futuro meno centrale, evidenziando nuove priorità. Le persone, si è detto, hanno il diritto di ‘invecchiare vivendo’, godendo, cioè, di una qualità di vita che corrisponda al più alto livello di benessere possibile. Ma occorre, al riguardo, segnalare l’assenza di una riflessione adeguata intorno al tema dei parametri minimi di qualità della vita da tutelare nel vecchio, a vantaggio, ancora una volta, della ricerca scientifica, della sperimentazione clinica e, talora, dell’accanimento terapeutico. Questa stessa predisposizione verso la medicina curativa rischia di privare di significato la vecchiaia. 2.1. IL BILANCIO DI COMPETENZE NELL’ANZIANO L’anzianità è caratterizzata da un lato da una maggiore incidenza di malattie, di inabilità, di disfunzioni, ma d’altra parte si vanno anche evidenziando risorse intellettuali ed emotive impreviste, che le conferiscono nuovi contorni e nuove prospettive. La mancanza di univocità sul concetto di invecchiamento rende difficile raccogliere dati certi sul problema, anche se tutti sono d’accordo sul fatto che non si possa farlo coincidere con un criterio meramente cronologico. Il livello di dipendenza sociale dell’anziano sta attualmente diventando il parametro di riferimento per prevedere e calcolare il tipo di risorse di cui avrà bisogno in un tempo dato, in modo da predisporre con le modalità opportune le risorse necessarie. L’anzianità non si identifica tanto con l’età, ma con il livello di autonomia sociale, che misura contestualmente in che modo il soggetto è in grado di prendersi cura di sé e possibilmente di chi gli sta accanto - spesso si tratta di coppie di anziani -, in che modo è in grado di affrontare e risolvere i propri problemi, attingendo alle risorse comunemente disponibili nel sistema socio-sanitario, e in terzo luogo quale sia la consistenza della rete sociale in cui è inserito: numero di legami attivi, efficienza dei medesimi e loro reciprocità. Già da alcuni anni a livello socio-sanitario si tende a considerare l’anziano in una prospettiva di self care, che passa attraverso un progetto di formazione permanente, per cui il soggetto re-impara a gestire le proprie risorse tenendo conto, più che degli inevitabili limiti, delle risorse disponibili a livello personale e a livello di rete sociale. Se si fa più esplicito il riferimento alla autonomia sociale e alla capacità di fronteggiare l’esperienza della quotidianità, il processo di invecchiamento corre meno il rischio di essere medicalizzato e identificato con il profilo del disagio psico-fisico, anche se ovviamente questi dati hanno il loro peso nel modulare l’immagine che l’anziano ha di sé stesso, la sua sicurezza personale e la percezione della rete sociale. Se si accetta che la vecchiaia possa esprimersi soprattutto attraverso il consumo di risorse sanitarie 17 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI AIAF RIVISTA 2/2006 in un determinato tempo, la fonte principali di dati potrà venire dal mondo sanitario e dirci, sia pure in modo approssimato, perché non codificato con criteri condivisi, quale sia il bisogno di salute espresso attraverso ricoveri, day hospital, ambulatori e diagnostica strumentale. Sono dati necessari ma insufficienti a descrivere i nuovi confini della vecchiaia, non sempre adeguati ad attivare un’efficace azione di prevenzione, né a garantire una migliore qualità di vita e a contenere i costi emergenti. È stato detto autorevolmente che il livello di civiltà di una società si commisura al grado di attenzione e di tutela nei confronti dei soggetti fragili di una comunità. Dato, però, che l’universo anzianità sembra sempre più configurarsi come una galassia policroma al punto da potersi riferire senza alcun dubbio ad anzianità al plurale, va senz’altro superato lo stereotipo dell’anziano “solo” come problema per orientarsi sempre più alla persona anziana come “risorsa”, qualunque sia il suo stato psico-fisico. Ciò, allora ribalta la prospettiva sociale nei confronti dell’anziano anche sotto il profilo religioso-spirituale e valoriale. Si può dunque parlare di una società che cresce in maturità civile non solo quando tutela e protegge, quanto quando promuove la persona e ne libera le risorse, in qualsiasi epoca della sua vita. Operativamente questo passa attraverso la necessaria messa a punto di servizi, organizzazioni civiche, strutture abitative “adeguate” all’uomo nella sua totalità. Per la persona anziana, allora, la soluzione non consiste tanto e solo nell’incremento dei servizi socio-sanitari, bensì nella promozione di quella che è stata definita anzianità attiva e creativa (Active Aging). L’anzianità è un’età che - se “educata” - può essere ancora attiva e creativa secondo le capacità di ciascuno in ogni singola fase della vita. Di più, una società altamente civilizzata è quella che mette in atto strategie pedagogiche per prepararsi alla condizione anziana (la c.d. geragogia). Quel che si vuole affermare, invece, è che la persona umana, con i suoi diritti e doveri, è titolare di una dignità e di una ricchezza che devono essere promosse in ogni fase della propria esistenza. L’anziano va dunque considerato sempre soggetto di partecipazione alla costruzione della società, secondo le possibilità di ciascuno. In tal senso, allora una società matura è chiamata a non tralasciare i soggetti quando raggiungono l’anzianità bensì a promuoverne le risorse di cultura, di trasmissione di valori e di vissuti, di abilità e capacità attuali individuali, di spiritualità e religiosità: in tal senso può intendersi compiutamente il concetto di Active Aging. 2.1.1. CENTRI PER LA SALUTE DELL’ANZIANO La creazione di Centri di salute per l’anziano ha permesso di integrare meglio gli interventi di tipo riabilitativo-assistenziale, unificandoli in un unico contesto in cui siano più facilmente accessibili per l’anziano e per i suoi familiari, e ha consentito di sperimentare alcune azioni positive di potenziamento della sua salute, attraverso una serie di interventi di tipo socio-psico-pedagogico, che partono per ogni anziano dal bilancio delle sue competenze. Il bilancio ha l’obiettivo di permettere a una persona di conoscere meglio le sue competenze, facendo il punto su di loro in funzione di un nuovo progetto personale o professionale, mettendo in evidenza i mezzi e le fasi necessarie per realizzarlo. Le caratteristiche principali del bilancio provengono da una sintesi di procedure conosciute che associano un’analisi psicologica delle competenze a una dimensione di pedagogia attiva. I mezzi più importanti per realizzare un bilancio di questo tipo sono un ascolto empatico personalizzato e un’osservazione attenta, distribuita lungo un arco di tempo sufficientemente lungo, per verificare le modalità concrete di affrontare situazioni diverse tra di loro e gestirle. Si tratta di un percorso che include aspetti teorici, metodologici e operativi da attraversare insieme all’anziano. La qualità di vita da lui percepita è legata alla consapevolezza della sua storia, in cui le circostanze cambiano, e cambia anche il modo in cui può rispondere alle nuove sollecitazioni, senza che qualcuno gli si sostituisca nelle decisioni da prendere, nel ritmo da dare agli eventi, nella caratterizzazione delle soluzioni a cui va gradatamente approdando. I problemi della persona anziana, come quelli di chiunque, in qualsiasi arco di età si trovi, vanno affrontati con un approccio integrato, per garantire il necessario livello di qualità socio-assistenziale. Non si può ridurre la percezione che una persona ha di sé stessa alla percezione della sua malattia, o del suo stato di indigenza, dimenticando l’esperienza culturale e professionale di cui per vari decenni è stato portatore. In molti documenti dell’OMS si fa rilevare spesso come l’obiettivo fondamentale sia quello di far coincidere l’aspettativa di vita totale con l’aspettativa di vita attiva: aggiungere vita agli anni è più importante che aggiungere anni alla vita. Attualmente nelle strutture più avanzate dedicate agli anziani viene effettuata una valutazione multi-dimensionale delle loro necessità assistenziali, utilizzando una gamma di test che esplorano le problematiche funzionali e ambientali non comprese nel normale esame obiettivo. Si tratta di un approccio più completo, ma pur sempre focalizzato sui bisogni di assistenza. Modificare l’approccio all’anziano de-medicalizzandolo e implementando invece l’attenzione alle sue capacità e alle energie effettivamente disponibili, richiede un progetto che prevede: - una diversa base antropologica per la definizione della vecchiaia, - una nuova competenza psico-pedagogica per identificare le risorse attive su cui intervenire, - una rete socio-sanitaria adeguatamente motivata e competente. Per affrontare questa nuova sfida che, se può comportare anche una riduzione dei costi a carico del Servizio sanitario nazionale, va comunque assunta prevalentemente in funzione del miglioramento della qualità di vita dell’anziano, è stata formulata l’ipotesi che il monitoraggio della sua salute non possa essere fatto solo con il tradizionale approccio clinico. Ci saranno sempre casi in cui il livello di disabilità richieda un intervento continuativo sul piano della riabilitazione fisica, come conseguenza di patologie cardio-vascolari, neurologiche o post-traumatiche. Ma anche allora il miglior recupero si ottiene integrando il piano psico-motorio (mai esclusivamente) motorio, con quello orientato a un progetto personalizzato di potenziamento delle learning abilities, dopo aver effettuato un vero e proprio bilancio di competenze. Le figure professionali coinvolte in questo processo sono molto variegate e comprendono il geriatra, il fisiatra, ma anche l’infermiere, il fisioterapista, il logopedista, lo psicologo, l’educatore, etc. Con il contributo di tutti si crea un port-folio, che è qualcosa di più di una semplice cartella clinica, in cui sono raccolti in modo ordinato, ma spesso frammentato, i dati clinici che riguardano l’anziano: è la descrizione propositiva del bilancio delle sue competenze attive. Definire cosa sia il bilancio di competenze non è però cosa facile. Il bilancio di competenze deve permettere all’anziano di passare in rassegna tutte le sue attività professionali per fare il punto sulle sue esperienze personali e professionali: reperire e valutare le sue acquisizioni legate al lavoro, alla formazione e alla vita sociale; identificare meglio i suoi saperi, le sue competenze e le sue attitudini; scoprire le sue potenzialità inesplorate; raccogliere e strutturare gli elementi che gli consentono di elaborare 18 MAGGIO - AGOSTO 2006 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI un progetto personale e professionale, gestire al meglio le sue risorse personali; organizzare le sue priorità personali e familiari, utilizzare al meglio le sue risorse nella negoziazione delle sue esigenze con interlocutori esterni. Il bilancio di competenze si colloca nella linea di frontiera tra una dimensione retrospettiva: le grandi tappe della propria attività professionale e socio-familiare, per reperire le competenze acquisite, i centri di interesse e le motivazioni in una dimensione prospettica, che gli consenta di formulare realisticamente nuove scelte, prendendo le decisioni adeguate. Nel bilancio di competenze il momento diagnostico-valutativo si orienta in senso formativo, perché esprime apertura a una nuova tappa della vita, con caratteristiche in parte uguali e in parte diverse da quelle precedenti, ma comunque si tratta pur sempre alla propria vita. Il bilancio di competenze mentre restituisce all’anziano la consapevolezza delle sue capacità, gli ricorda l’urgenza di doverle adattare alle nuove situazioni e probabilmente anche la necessità di acquisirne di nuove. In altri termini guarda alla vecchiaia in termini di una nuova tappa formativa, con un suo peculiare approccio psico-pedagogico, che va oltre i confini della medicalizzazione (pur spesso necessaria). Lo slogan, che caratterizza questo approccio prospettico, è ricordare che si deve imparare a invecchiare per realizzare cose interessanti e forse ancora mai fatte o fatte finora in modo diverso. La direttiva tecnico-metodologica di riferimento prende le distanze quindi da una concezione strettamente diagnostica e si converte in una nuova opportunità formativa, che coinvolge il soggetto in modo attivo. Diventa così possibile pensare a una rivalutazione dell’inserimento sociale dell’anziano sia rispetto alla famiglia che a una più vasta rete sociale. Gli obiettivi basilari di una attività di bilancio di competenze sono quindi: - fornire supporto alla ricostruzione critica del passato professionale, per evidenziare abilità e competenze spendibili all’interno di altri contesti; - facilitare l’identificazione dei valori, delle preferenze, degli interessi e delle motivazioni del soggetto; - aiutarlo a elaborare un progetto personale e sociale, eventualmente anche con risvolti professionali, per negoziare le possibilità di espressione e di realizzazione del soggetto stesso. Il bilancio rappresenta per ogni anziano l’occasione per verificare la sua capacità di convertire il bagaglio di esperienze e competenze accumulato in precedenza nella nuova situazione, apportando i dovuti fattori di adattamento e quindi ne potenzia la capacità di convertire a proprio favore le situazioni di cambiamento. 2.1.2. LE DIVERSE FASI DEL BILANCIO DI COMPETENZE L’intervento sul Bilancio di competenze è strutturalmente un intervento di equipe, in cui accanto al ruolo di uno psicologo, che può fare da trainer per potenziare nel soggetto la percezione della propria auto-efficacia, si avvale del contributo di nuove figure di Educatori. Costoro debbono essere capaci di elaborare con gli anziani stessi un progetto-sviluppo mirato al potenziamento delle loro capacità, che vanno dalla garanzia dei livelli minimi di autonomia a più elevati profili di impegno. L’obiettivo è quello di giungere a un progetto che riduca il gap tra piano delle aspirazioni e timore della propria incapacità a farvi fronte, per individuare un percorso che consenta di mettere a fuoco realisticamente le strategie necessarie per realizzare ciò di cui ha bisogno. L’educatore in questa fase utilizza sia tecniche di insegnamento-addestramento, che strategie di counseling, per generare una auto-percezione in prospettiva positiva. I termini capacità, attitudine, qualifica e competenza non sono sinonimi, anche se sono parzialmente inclusi gli uni nell’altro. Abitualmente una persona competente sa far fronte a situazioni complesse e sa risolvere i suoi problemi utilizzando in modo flessibile il suo know-how. Richiede una certa dose di creatività per saper trasferire il proprio bagaglio di capacità in situazioni non sempre prevedibili a priori, anche in difetto delle abituali risorse utilizzate in situazioni simili. Gli studi sulle learning abilities nell’anziano mostrano proprio in questi due aspetti le maggiori criticità: il trasferimento delle abilità possedute in ambiti leggermente differenti da quelli che definiscono i contorni della sua quotidianità e l’applicazione a contesti noti di abilità consolidate, ma ridotte. Sono sempre in gioco le relazioni dell’anziano con se stesso e con il suo contesto: sociofamiliare, tecnico-organizzativo, etc. Insegnare e imparare nuovamente a gestire se stesso e le circostanze è l’obiettivo di questo nuovo approccio. Si tratta di un bilancio dinamico orientato in senso positivo, che contempla anche la possibilità di insegnare all’anziano come servirsi di nuove strategie tecniche e comportamentali, superando i livelli di ansia connessi al cambiamento. La formazione degli operatori in questo campo non è facile né scontata. Non si tratta di osservare o di valutare asetticamente, ma di porsi accanto al soggetto per accompagnarlo nello sforzo di oggettivare quali sono le cose che vorrebbe fare e non riesce a fare, suggerendo discretamente percorsi alternativi, senza sostituirsi. È importante stimolare l’anziano a esercitare una forte autoattenzione per cogliere i giusti nessi associativi tra competenze percepite e compiti da svolgere. Più che di un expertise si tratta di un aiuto strutturante, fortemente interattivo che si avvale di una pedagogia dell’appropriazione. Ciò che è decisivo è interpretare l’anzianità non tanto in termini di perdita di capacità quanto di formazione permanente, con categorie proprie, sia sul piano delle metodologie che della valutazione. L’emergenza anziani rappresenta ancora una novità per il nostro contesto socio-sanitario e non è facile ribaltare l’approccio medicalizzato, finora pressoché unico, in favore di un approccio psico-educativo, in cui al centro dell’attenzione non c’è il deficit di competenze, che rende l’anziano in modo più o meno esplicito dipendente, ma il suo potenziale di self-care. L’intervento dell’operatore in questa logica deve assumere un orientamento diverso, fondato sul riconoscimento del portato esperienziale dell’anziano, che diventa fonte privilegiata della comune riflessione. Il colloquio non rappresenta l’angolo dello sfogo e qualche volta della ricerca di consolazione, ma il momento del ricordo attivo delle esperienze positive fatte. L’approccio retrospettivo a cui occorre attenersi punta a identificare episodi della vita del soggetto, in cui si è assunto responsabilità a cui è stato capace di fare fronte. Sono le strategie poste in primo piano per essere rielaborate e applicate al presente. Non sono tanto i fatti in sé stessi che interessano, ma la percezione dei fatti, secondo una tecnica che integra il piano soggettivo con quello oggettivo e consente di esplorare in modo più approfondito la relazione dell’anziano con sé stesso, o come si è detto acutamente con il fantasma di sé stesso. Attraverso la sua memoria il soggetto rivela all’educatore uno spazio molto interessante in cui affiora la possibilità di mettere in risalto le competenze a suo tempo posseduto, per interpretarle e restituirle al soggetto, come momento rassicurante di quanto è in grado di fare ancora oggi. Ripensare l’anzianità in termini di formazione permanente richiede anche l’individuazione di strumenti con cui tener conto del 19 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI AIAF RIVISTA 2/2006 suo processo di adattamento alle nuove sollecitazioni che maturano sia dalle mutate circostante esteriori che dalle diverse risorse psico-fisiche disponibili. La storia di questo segmento formativo dell’anziano, l’ultimo della sua vita, rappresenta anche la spirale di un circuito educativo che si è iniziato molti anni prima, e che ha trovato la sua efficacia proprio quando ha cominciato a mettere in relazione obiettivi, intesi come bisogni specifici, con contenuti adeguati e metodologie didattiche appropriate, per concludersi con una valutazione coerente con i bisogni inizialmente evidenziati e con i risultati raggiunti. Anche l’anziano ha diritto a imparare a essere anziano e questo diritto comporta l’obbligo che qualcuno si disponga a insegnarglielo, senza necessariamente vedere i suoi limiti come malattia. L’acquisizione di nuove competenze, con la relativa consapevolezza, migliora l’immagine di se stesso e rafforza l’autostima e la sicurezza. Diventa così più facile conservare un locus of control interno, sentendosi padrone della propria vita è più facile superare i limiti angusti di una visione stereotipata della vecchiaia, che si centra sulla diagnosi dei limiti e sollecita solo interventi di tipo medicalizzato. Diventare consapevoli di sé e della propria immagine nell’interfaccia con l’ambiente esterno può presentare delle difficoltà a qualsiasi età ed è importante che avvenga nel contesto di una relazione empatica, capace di garantire accoglienza e supporto alla gestione degli incidenti critici, in cui la percezione di sé si carica di negatività. Il concetto di assistenza acquisisce in questa chiave una valenza particolare e tocca gli aspetti più intimi della propria vita emotiva, della solitudine, dell’abbandono, se trova nell’altro un ascolto disponibile a farsi carico dei propri problemi. Difficile dire a questo punto a chi tocchi: se al geriatra, o all’infermiere, allo psicologo o all’educatore. Tocca tutta l’equipe nella sua struttura unitaria, anche se viene delegata al soggetto più capace di stabilire una relazione significativa con l’anziano, superando il rischio di un anonimato di gruppo, in cui chiunque va bene, perché nessuno ha espresso un’opzione reale per il soggetto. Ciò che è necessario sottolineare è che, nel bilancio di competenze dell’anziano, oltre agli aspetti culturali e tecnico-scientifici, vanno esplorati quelli relazionali e valoriali. Su questi ultimi vale la pena insistere, perché rappresentano l’humus su cui l’anziano va rielaborando la propria storia personale e si appresta a giudicarla. È difficile cioè interagire positivamente con un anziano se non se ne conosce la scala di valori di riferimento. 3. ANZIANITÀ: COMUNICAZIONE INTERGENERAZIONALE E ASPETTI CULTURALI, VALORIALI E SPIRITUALI/RELIGIOSI 3.1. LA COMUNICAZIONE INTERGENERAZIONALE Qual è il senso dell’invecchiamento come parte del ciclo vitale e nel quadro della biografia individuale? Uno degli ambiti che appaiono più degni di riflessione è quello della comunicazione intergenerazionale, da intendersi fondamentalmente come scambio di significati appropriati alle diverse fasi della vita e ricerca di un senso condiviso sui valori che abitano i vari tempi dell’esistenza. Si sono più volte segnalate - a proposito dell’incapacità della civiltà contemporanea di reperire un tale senso comunicativo dello stare al mondo, soprattutto quando le condizioni di vita non sono ottimali - le cause culturali (e cioè la mancanza di una rete di significati condivisi circa le dimensioni fondamentali del vivere: la nascita, la generazione, la morte) e quelle sociali (le condizioni di vita odierne sono tali da rendere sempre più difficili forme autentiche di comunicazione). Per favorire tale processo - configurabile nei termini dell’invecchiamento creativo - potrebbe essere utile confrontarci con la nostra percezione della vecchiaia attraverso un percorso storico e antropologico che aiuti a riscoprirne le immagini nelle diverse civiltà ed epoche storiche, e che consenta di recuperare la trama dei significati simbolici legati alla figura degli anziani - uomini e donne. Tale percorso sembra importante per ricostituire un rapporto tra le generazioni che colleghi il mondo di ieri al mondo di oggi e alle sue sfide. In questo quadro appare di particolare rilievo il concetto elaborato da Erik H. Erikson di generatività - quale caratteristica dell’età adulta. Come rileva Erikson, l’adulto che si prende cura delle generazioni successive, assume su di sé il compito generazionale di coltivare forza in quelli che vengono dopo di lui. Tale concetto ci riconduce, tra l’altro, al rapporto cruciale dell’anziano col tempo. Superare l’egocentrismo per aprirsi all’altro significa, infatti, uscire dal cerchio del presente e proiettarsi nel futuro, oltrepassando il puro e semplice consumo dell’esistenza per generare qualcosa di nuovo: più mature condizioni di esistenza e più profondi legami con la vita. Quello di Erikson è un suggestivo tentativo di dare senso all’intero ciclo della vita attraverso l’idea di percorso, un percorso aperto e mai definitivamente concluso che si snoda in diverse fasi e ruoli con forte enfasi sui valori dello scambio e della reciprocità. Nell’età adulta, la crisi di sviluppo è contrassegnata da due forze antagonistiche: la generatività contro la stagnazione. Il conflitto conosce fasi alterne e l’equilibrio psichico del singolo è, pertanto, instabile. Si tratta, tuttavia, di un normale stadio di crescita per la qual cosa il soggetto va sollecitato a far prevalere le forze sane e a resistere agli stimoli patogeni. Ma che cosa s’intende, propriamente, per generatività? Si può definire come la disposizione del soggetto a concepire individui, prodotti, idee; ad arricchire la propria personalità e a farsi guida di chi cresce. È, quindi, una capacità che abbraccia un’ampia gamma di attività, di progetti e di intenzioni, in quanto concerne non solo l’attitudine ad avere figli o a manifestare le doti possedute nei vari campi, bensì anche la tendenza a seguire l’ascesa dei giovani alla vita adulta. La generatività non discende, pertanto, automaticamente dall’esser genitori ma è un indubbio segno di una maturazione psicosessuale e psicosociale visibile negli adulti allorché prevalgano in loro le forze costruttive della persona. La stagnazione, in cui Erikson ravvisa il nucleo patologico della vita adulta, è, al contrario, un affievolimento delle tendenze che rendono l’individuo un essere produttivo e creativo, una regressione a un’intimità innaturale accompagnata da un’insoddisfazione diffusa, da un autocompiacimento non di rado indotto da minorazioni psicofisiche generatrici di ansia. Dall’antinomia tra generatività e stagnazione deriva la virtù della cura, termine che indica un tipo di impegno e di premura in continua espansione, ove confluiscono le forze positive dell’età anteriore. Essa esprime l’istintivo impulso ad amare, ad accarezzare chiunque, in stato di abbandono, renda manifesta la sua disperazione. Come si vede, tra le relazioni interumane assume un’importanza centrale il caring, visto come l’essenza della prima e dell’ultima fase della vita: è esso a conferire all’esistenza il profilo del ciclo, il significato del ritorno. Erikson avverte che presenta gli stadi della vita a partire dall’ultimo, quello dell’età senile, per verificare quale senso può assumere una rassegna del completo ciclo vitale nel contesto globale del suo iter. Riafferma, altresì, la sua convinzione che, dopo 20 MAGGIO - AGOSTO 2006 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI aver portato a termine l’interconnessione tra tutti gli stadi, sia possibile partire da uno qualsiasi di essi per arrivare agli altri all’interno della mappa che ne esprime il senso e la posizione. In questo quadro si ribadisce che l’età adulta è l’anello di congiunzione tra il ciclo vitale dell’individuo e quello delle generazioni. Un’obiettiva difficoltà propria della fase di transizione che stiamo attraversando e che va dall’élite di vecchi alla massa degli anziani, è quella del rapporto tra mutamento delle condizioni sociali e persistenza delle immagini culturali. E tuttavia le persone anziane possono e devono conservare un’importante funzione generativa: nell’età senile, infatti, a parere di Erikson, tutte le qualità del passato si arricchiscono di nuovi valori. Assume, pertanto, grande importanza lo stadio generativo proprio dell’età adulta che precede l’età senile anche se, va ricordato, in uno schema epigenetico, il dopo significa solo la successiva versione di un livello precedente, non la sua perdita. La generatività include in sé i caratteri della procreatività, della produttività e della creatività, la capacità, quindi, non solo di generare nuovi individui ma anche una sorta di potere autogenerativo relativo all’ulteriore sviluppo dell’identità. Erikson insiste sull’atteggiamento di cura che l’anziano può assumere nei confronti delle persone a lui care, atteggiamento che può mantenere e rafforzare la sua stessa identità oltre ad aprire al rapporto con le altre generazioni. Si tratta di un aspetto assai interessante e, in genere, scarsamente considerato nella riflessione sulla senescenza giacché, quando si parla dell’anziano, si sottolinea soprattutto la dimensione soggettiva della cura di sé, della preoccupazione per il proprio destino. Per Erikson non ci sono dubbi: il ruolo dell’età senile dev’essere riconsiderato e rivisto alla luce del fatto che l’ultimo stadio della vita assume un enorme rilievo per il primo: nelle culture più vitali, i bambini maturano mentalmente grazie al rapporto che vengono ad avere con le persone anziane. Si dovrà pertanto riflettere a lungo sull’importanza che avrà, e dovrà avere in futuro, questo rapporto quando una matura età senile costituirà il bagaglio di un’esperienza suscettibile di essere appresa secondo un ‘invecchiamento creativo’. Le modificazioni indotte dal tempo - tra le quali il prolungamento della vita media - richiedono, infatti, nuove e più profonde ri-ritualizzazioni, capaci di assicurare un più significativo interscambio tra l’inizio e la fine della vita, una più definita sintesi degli stadi. Erikson denuncia l’attuale disorganizzazione della vita familiare come causa che contribuisce, in larga misura, alla perdita, nell’età senile, di quel minimo di coinvolgimento vitale che è necessario per sentirsi veramente vivi. La mancanza di questo coinvolgimento gli sembra il tema nostalgico nascosto nei sintomi manifesti che spingono le persone anziane a far ricorso alla psicoterapia, il motivo più frequente della loro disperazione, dovuta a un senso prolungato di stagnazione. Non c’è niente di naturale, avverte Erikson, nella solitudine degli anziani: non è nella loro natura rinunciare all’incontro con l’altro, allo scambio. Anzi, appartenere a pieno titolo alla comunità, e con tutta la ricchezza della propria storia personale, appare come uno dei bisogni più forti di questa stagione della vita. L’isolamento degli anziani non è, dunque, inevitabile giacché non è il frutto di una loro inclinazione ma il portato di pregiudizi e di barriere culturali e sociali, che dobbiamo impegnarci a rimuovere. Sta a noi tutti - quello degli anziani non è un problema solo loro - tracciare il progetto di una cultura nuova, fatta di leggi ma anche di comportamenti, che sia capace di vedere nell’invecchiamento quel momento della vita in cui si fondono e acquistano senso tutti i temi di quel che si è vissuto, appreso, sofferto - come in una sinfonia o in un racconto che, col suo carico enorme di saggezza, potrebbe costituire un raccordo prezioso tra le generazioni. 3.2. SPIRITUALITÀ E RELIGIOSITÀ NELLA SENESCENZA La condizione anziana può essere indagata tra i diversi ambiti - si pensi, ad esempio, allo stato di salute e ai servizi socio-sanitari o alle attività (lavorative e ludiche) - anche relativamente a fattori che giocano un ruolo non meno rilevante nel determinare la concreta situazione di vita personale. Parliamo, cioè, di elementi “immateriali” ma fortemente influenzanti la “materialità” del quotidiano, come: le relazioni interpersonali, la spiritualità (senso della vita, della morte e della trascendenza) e la religiosità con il suo portato di atteggiamenti e pratiche cultuali, la sfera valoriale personale e sociale, la formazione e la promozione della persona anche nell’età anziana, la sua creatività (Active Aging), facendo anche cenno alla preparazione delle giovani generazioni all’anzianità (geragogia). Indipendentemente dalla concezione filosofica generale con cui ognuno considera la vita nel suo insieme, la dimensione spirituale e religiosa rappresenta un elemento dal quale è ben difficile prescindere quando si affronta il discorso sull’uomo. E sebbene tale dimensione richiami connotazioni semantiche assai ampie e spesso eterogenee, è comunque fuor di dubbio che spiritualità e religiosità costituiscano un orizzonte privilegiato attraverso cui la persona, e la persona anziana in particolare, può meglio penetrare una quotidianità spesso frettolosa e superficiale. La religiosità delle persone anziane rappresenta, dunque, un campo di indagine molto interessante - ancorché meno indagato dalla letteratura specialistica di altri settori - perché apre alcuni spiragli su un mondo di natura prevalentemente esistenziale a cui si correlano molti altri fattori (soddisfazione di vita, qualità di vita, percezione del tempo ecc.). Inoltre, occorre considerare che la componente spirituale acquista una maggiore consapevolezza nell’anzianità che, spesso, è l’età in cui più forte è il desiderio di ricevere rassicurazioni sulla vita futura. Dagli studi disponibili emerge chiaramente che la religione influenza moltissimo la qualità di vita dell’anziano, sia che si trovi in condizioni di autosufficienza, sia che si trovi in condizioni di disabilità. Ciò trova conferma in una concezione di qualità della vita di tipo personalista in base alla quale il benessere della persona deve essere valutato in maniera globale includendovi anche i bisogni e i desideri, i quali sono chiamati a essere orientati ai valori che, soli, realizzano la plenitudine della persona. È stato da più parti affermato che l’anzianità è l’età dei cambiamenti (a livello sociale, fisico-biologico e valoriale): tali cambiamenti possono essere traumatizzanti e destabilizzanti per l’anziano perché vengono meno quei punti di riferimento che hanno caratterizzato tutto il percorso di vita. A questo proposito le ricerche “ad hoc” lasciano trapelare che per molti la religione sia uno di quei capisaldi che con l’età non vengono meno, anzi spesso si rafforzano o, se in gioventù poco presenti, possono assumere, nell’anzianità, un peso e uno spazio maggiori. La religiosità conferisce all’anziano stabilità e una buona dose di certezze che lo aiutano a fronteggiare i possibili disadattamenti dovuti all’età. I valori etico-religiosi veicolati in un primo momento dalla famiglia di origine e assunti, quasi automaticamente, nella giovane età, diventano nell’età senile qualcosa di integrante nel vissuto personale. Il generale processo di secolarizzazione della società odierna ha colpito in misura minore gli anziani, sia per un fattore generazionale sia per uno esistenziale in quanto l’anzianità rappresenta un ciclo di vita “che inevitabilmente conduce a porsi degli inter- 21 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI AIAF RIVISTA 2/2006 rogativi sul senso della vita e sul destino dell’uomo dopo la morte, ovvero a sviluppare o recuperare una sensibilità per i temi centrali di ogni esperienza o messaggio religioso”. L’anziano assiste infatti a una serie di cambiamenti traumatizzanti che tendono a stravolgere tutte le sue certezze facendolo sentire del tutto (o in parte) inadeguato alla nuova realtà che si va configurando. L’anziano si rende conto che tra il suo mondo e quello delle nuove generazioni spesso non c’è continuità (in questo senso la religiosità è un esempio molto indicativo), non c’è un effettivo trasferimento di valori. La società odierna ha modificato la scala di valori di cui l’anziano è depositario. La dignità personale viene sostituita da criteri di pura efficienza, funzionalità e utilità: “l’altro è apprezzato non per quello che ‘è’ ma per quello che ha, fa e rende”. Risulta evidente che nella società contemporanea è permeata da un forte empirismo pragmatico che porta l’uomo a valutare soprattutto, se non solamente, la fattualità piuttosto che l’idealità. È l’affermazione dell’homo oeconomicus o homo technicus (dunque del “fare”) sull’homo humanus (o dell’”essere”) che, solo, può garantire all’uomo il recupero dell’integrità perduta. Ai fini di un recupero del senso dell’essere possono concorrere tutte le correnti di pensiero, religiose e culturali che giocano la loro partita antropologica sul valore-persona e, tra queste, anche la visione cristiana. La religione può rappresentare, pertanto, uno strumento valido per recuperare tutto un mondo di valori che il processo di industrializzazione e di modernizzazione ha progressivamente attenuato. È anche per questo che il tempo dell’anziano gradualmente perde i contorni del tempo reale e tangibile per assumere quelli di un tempo trascendente e spirituale, che si concretizza in una particolare attenzione al mondo escatologico. L’anziano viene in questo modo messo nelle condizioni di poter risignificare la propria vita così fortemente connotata di cambiamenti. La logica che pervade la realtà contemporanea ha modificato in maniera profonda e radicale le aspettative e i significati da attribuire alla vita. In questo senso, l’obiettivo dell’anziano diventa, a livello più o meno consapevole, il recupero della parola spirituale, interiore e umana. Il riemergere della dimensione religiosa rappresenta - in molti dei casi analizzati - un anello di congiunzione con il passato giovanile spesso connotato da un forte senso religioso. Il senso di continuità si realizza più facilmente nella dimensione spirituale che non in quella fisico-corporea dove l’anziano sperimenta la sua fragilità e vulnerabilità, oltre che la contingenza. Attraverso il mondo spirituale si può recuperare la “civiltà dell’essere” che si rivela “nel momento contemplativo, nella ricerca dell’al di là del ‘segno’ e si colloca dentro il ‘significato’”. Del resto, la saggezza e la maturità che caratterizzano l’età anziana, conferiscono a questa particolare fase della vita umana un senso e un fine diversi, in quanto si dovrebbe essere orientati alla realizzazione di una più profonda interiorità e alla ricerca di valori che trascendono la realtà materiale. 3.2.1 L’UNIVERSO VALORIALE NELLA VITA DELLA PERSONA ANZIANA La dimensione morale - sia sul versante delle scelte di valore personali sia su questioni etiche a rilevanza maggiormente sociale - costituisce un campo di indagine particolarmente interessante. Non solo, però, in quanto tale, bensì anche in relazione ad altri aspetti: la formazione ricevuta in famiglia e nelle “agenzie” formative classiche: scuola, chiesa, ambiente di lavoro. Ciò assume ulteriore rilevanza non tanto e non solo per gli anziani di oggi, ma anche per quelli di domani. Più recentemente, anche la disciplina bioetica si è occupata a fondo di questioni etiche insorgenti nell’anzianità. In complesso, la letteratura disponibile indica alcune linee di tendenza generali. Il profilo valoriale dell’anzianità contemporanea, almeno alle latitudini occidentali europee mostrerebbe due elementi salienti: 1. una disomogeneità rispetto alla consapevolezza del rapporto antropologia/valore.; 2. riguardo alle scale valoriali, sembrerebbe di poter rilevare una diffusa omogeneità rispetto ai “modelli” etici ricevuti, con una significativa prevalenza del lavoro su altri aspetti che potrebbero avere rilevanza etica previa. Da quanto sopra esposto nasce però una domanda sul perché la letteratura riferisca di una certa “emarginazione” dai processi decisionali ed educativi della famiglia di appartenenza, di un sottile “silenziamento” della voce esperienziale della persona anziana. Forse la soluzione potrebbe rintracciarsi in un recupero e nella promozione della cultura dell’essere a partire dalla focalizzazione della persona nell’ambiente ove si snodano tutte le fasi del suo esserci nel mondo: la struttura familiare. E cultura dell’essere significa presumere che a suo fondamento si postuli la centralità di una plenaria cultura della vita che necessariamente rinvia poi - non prima - alla sua qualità che ha senso e significato solo se rapportata alla vita: infatti “la qualità è un attributo, una disposizione che acquisisce senso se riferita alla sostanza” e guarda prima di tutto alla plenitudine della persona, ai valori che la fondano. Dal recupero dell’essere e dell’esserci dell’uomo in tutte le sue fasi deriva poi la focalizzazione sulla possibilità squisitamente umana della scelta e, pertanto, sulla dimensione etica senza la quale i valori sono colti solo nella loro qualità eudaimonistica, economica, soddisfattiva di bisogni. Occorre invece andare oltre e riconoscere nei valori infraumani spirituali, nel valore morale (e in quello religioso come ultimo passaggio atteso) gli obiettivi da raggiungere quale matura espressione di umanità, nella giovinezza come anche nell’anzianità. Dunque va ricercato un ventaglio “elevato” dei valori, secondo la precisa scala di priorità appena detta, pena la rincorsa affannosa e mai soddisfatta alla saturazione di bisogni falsi, superflui, seguendo unicamente la filosofia dell’Avere che lo porta inevitabilmente a essere un uomo “a una dimensione”, un uomo che ha perso la parte migliore di sé. D’altra parte, in una simile “logica” l’anziano gioca una partita persa in partenza per i caratteri propri della condizione esistenziale e biologica che egli vive. A conferma di ciò, è suggestivo che anche relativamente alla sofferenza dagli studi emerga un monito di grande significato per tutte le età: l’essere deve poter prevalere sulla cultura del fare e del produrre per consentire all’animo umano di percorrere tutte le tappe della sua evoluzione. È solo in questa dimensione, infatti, che “l’anziano non va verso la caligine, ma verso la pienezza dell’essere personale: la verità sta in fondo al cammino, la verità e la gioia si trovano nella pienezza realizzata”. PARTE SECONDA. L’ANZIANO NON AUTOSUFFICIENTE E L’ETICA DELLA CURA Il variegato e sofferto mondo degli anziani, sembra oggetto di proponimenti tanto retorici e ripetitivi quanto poveri di realizzazioni concrete. Sono ben note le iniziative dell’ONU che negli ultimi decenni ha studiato le straordinarie dimensioni mondiali dell’invecchia22 MAGGIO - AGOSTO 2006 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI mento, ha elaborato “Piani di azione” e “Principi” fondati su indipendenza, partecipazione, cura, auto-realizzazione e dignità, e nel 2002 ha convocato a Madrid l’Assemblea mondiale sull’invecchiamento. Da allora nessun programma concreto per la valorizzazione degli anziani nella vita sociale, produttiva, economica e culturale, si è realizzato (se non iniziative frammentarie e riflessioni all’interno di altri programmi quali la lotta all’esclusione o alla discriminazione, e risoluzioni di carattere sanitario come per l’Alzheimer). L’auspicata “Società per tutte le età” non decolla se non nei proponimenti di una certa élite socio culturale, nonostante le sofferenze degli anziani aumentino soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, dove si combatte, dove rivoluzioni e terrorismo mietono ogni giorno decine di vittime: le invocate dignità, partecipazione e indipendenza, a parte lodevoli considerazioni che dovrebbero tenere conto dell’evoluzione longitudinale della vita piuttosto che di situazioni trasversali standardizzate, sono ancora un’opzione a beneficio di pochi fortunati nei paesi sviluppati. Né sembra diffondersi particolarmente il valore di un’autentica solidarietà, quella che ogni uomo - indipendentemente dalla società in cui vive e dalle proprie credenze - può e deve dimostrare nei confronti di ogni altro uomo, solidarietà della quale l’anziano rappresenta oggetto di attenzione ma anche e forse soprattutto soggetto attivo capace di offrire quanto di unico è in grado ancora di dare. 4. L’INVECCHIAMENTO L’invecchiamento determina la perdita progressiva della capacità di adattamento dell’organismo all’ambiente per l’esaurimento delle riserve funzionali. Al fine di comprendere i complessi meccanismi che lo determinano sono state formulate varie teorie, tra le più accreditate quelle dei “radicali liberi e dei legami crociati”, della “alterata sintesi proteica” e dell’orologio molecolare o “fenomeno di Hayflick”, quest’ultima più rispondente alle domande della scienza moderna. Il processo di invecchiamento non appare come un fenomeno uniforme e omogeneo. soprattutto dal punto di vista psicologico. Sono molteplici i fattori che lo condizionano: il patrimonio genetico, le malattie e i traumi subiti, l’educazione ricevuta, le esperienze vissute, le perdite sofferte, la semantica degli affetti, le opportunità e le difficoltà incontrate, le caratteristiche del proprio ambiente familiare e sociale e soprattutto il desiderio di “essere e di vivere”. Esistono una vita e un invecchiamento per ogni singola persona, ogni individuo è inconsciamente responsabile del proprio percorso di crescita anche attraverso il confronto con l’ambiente e con gli eventi che lo caratterizzano. Assumono un’importante rilievo, in questa fase della vita, l’ambiente familiare, quello sociale e assistenziale, le componenti affettive e motivazionali. La vita vissuta e la vita che si sta vivendo possono condizionare le ulteriori capacità di crescere senza limiti fino all’ultimo istante come dimostrano la storia dell’arte, la letteratura, la scienza, ma anche la quotidianità dell’individuo che può trovare in se stesso proprio nella parte ultima della vita la forza per “l’ultima pennellata… quella che dà più luce e dà forse il senso finale al quadro” Se alcune determinanti biologiche non sono correggibili, altri fattori sono suscettibili di modifica, ad esempio il decadimento fisico che consegue alla inattività e che può dar luogo a quella grave compromissione funzionale che va sotto il nome di “sindrome ipocinetica” responsabile o corresponsabile di un gran numero di ricoveri di soggetti anziani in centri di riabilitazione. L’attività fisica è in grado di prolungare la Studi effettuati su colture di fibroblasti estratti dal polmone di un feto, portarono all’osservazione di una rapida moltiplicazione iniziale di queste cellule, seguita da un rallentamento della loro crescita (fase senescente), fino a giungere al termine delle divisioni cellulari. Hayflick ne dedusse che, non potendo i fibroblasti moltiplicarsi oltre un numero programmato, doveva esistere un “orologio molecolare” in grado di regolarne la riproduzione. Le uniche cellule in grado di superare tale limite di moltiplicazione previsto, sono quelle neoplastiche. Le più importanti scoperte neuro-scientifiche negli ultimi anni hanno contribuito a superare l’antico preconcetto che interpretava il cervello come organo destinato esclusivamente all’involuzione e alla perdita delle sue cellule. Se è vero che invecchiando si determina una riduzione dei neuroni, è altrettanto vero che le cellule nervose sono in grado di ricostruire e compensare le parti mancanti e riattivare le stazioni neuronali silenti. Assumono grande rilievo in tal senso una stimolazione ambientale appropriata per il recupero di competenze psichiche, relazioni e sociali. Quanto alle diverse funzioni talora è possibile rilevare un rallentamento psico-motorio in rapporto soprattutto al tempo necessario a organizzare i processi decisionali. La coscienza non presenta in condizioni normali particolari involuzioni, possono tuttavia insorgere, più frequentemente che in età giovanile, episodi di confusione mentale non necessariamente attribuibili a stati patologici. La autocoscienza, vale a dire la coscienza dell’Io che si interseca e concorre con i cosiddetti “sentimenti dell’Io”, è influenzata di solito da gravi sofferenze psichiche. Nell’anziano può essere collegata con turbative della memoria, in particolare della memoria iconica (sensoriale o di brevissima durata) e di quella a breve termine che sono meno attive con riduzione della capacità di ricordare i fatti più recenti, mentre la capacità di ricordare eventi del passato rimane particolarmente vivace. In condizioni di benessere psico-fisico l’anziano è in grado di apprendere e conoscere allo stesso modo del giovane e dell’adulto, pur se può avere bisogno di tempi più lunghi per l’assimilazione. Le motivazioni sono comunque essenziali, come - all’inverso - la scarsa partecipazione attiva riduce non poco la memoria e accentua le difficoltà di apprendimento. Si può osservare inoltre un certo decremento della funzione attentiva. La riduzione delle funzioni visive e uditive può attenuare le capacità percettive. L’isolamento culturale, il basso livello economico e sociale accentuano il declino psichico. Al contrario l’integrazione sociale e la maggiore cultura creano premesse per una vecchiaia e longevità migliori. Tanto più che l’anziano è spesso in grado di vicariare qualche défaillances con altre doti quali la continuità, la prudenza, l’esperienza, la motivazione, la capacità di controllo emotivo, di riflessione e sintesi, la maggiore precisione oltre alla sostanziale conservazione di importanti funzioni come il linguaggio, il pensiero, la percezione, l’attenzione e il riconoscimento. Nonostante un generale e progressivo declino dell’attività sessuale correlato all’età, il sesso e la sessualità rappresentano per gli anziani parte integrante della esperienza esistenziale, che non si identifica solamente con il rapporto fisico, ma si associa sotto il profilo psicologico ed emozionale con la creazione di una profonda intimità tra i partner. La riduzione della potenza aumenta in modo lieve nel corso del settimo decennio e diviene più marcata nell’ottavo e può assumere una certa consistenza solamente dopo i 75 anni. La riduzione è condizionata non solo da fattori fisiopatologici e socio-ambientali, ma anche dall’emergenza o dall’aggravarsi di patologie capaci di interferire con l’attività sessuale che può venir meno per cause differenti nei due sessi. Nelle donne sono generalmente legate alla presenza e alla capacità del coniuge, mentre per gli uomini sono quasi sempre rappresentate dalla propria incapacità. 23 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI AIAF RIVISTA 2/2006 È comunque importante sfatare i pregiudizi che configurano la vita sessuale dell’anziano come qualcosa di inesistente, di sconveniente, di inopportuno e pericoloso per la salute e la sua cessazione come evento ineluttabilmente legato al trascorrere degli anni. In Italia aumentano e nascono con maggior frequenza relazioni fra anziani quando professione, figli e vite familiari fanno parte del passato. Secondo i sociologi tra breve non saranno più una rarità né una novità le coppie attempate che si amano e che decidono di iniziare l’ultimo cammino insieme (che nel loro entusiasmo non è mai l’ultimo). Tuttavia, gli stereotipi culturali fanno sì che questi legami vengano spesso occultati, derisi, o avversati. Gli psicologi invece sollecitano gli anziani a rifarsi una vita, soprattutto se vedovi e soli. In sintesi, in età senile, soprattutto in ambito psicologico, nulla deve essere considerato con approssimazione e relegato nei luoghi comuni del risaputo, della diagnosi e del sintomo. Seguire l’indirizzo del cosiddetto ageismo, vale a dire lo stereotipo per cui il raggiungimento di una determinata età anagrafica equivale a essere anziani, con tutto il carico di patologie che possono creare dipendenza funzionale, è certamente fuori luogo dato che la terza età si presenta eterogenea quanto ad autosufficienza, salute fisica e mentale, qualità di vita: l’età in senso anagrafico non può rappresentare un criterio per individuare la scelta assistenziale e/o terapeutica e per escludere chicchessia da terapie finalizzate alla guarigione o al prolungamento della vita. Il periodo di anzianità attiva, che precede di molto quella involutiva, richiede un approccio orientato all’active-ageing, ossia a un invecchiamento creativo in buona salute. Per il cosiddetto invecchiamento sociale, non esistono regole fisse definite dalla legge, contrariamente al minore (che è tale dalla nascita al compimento del diciottesimo anno). La normativa pensionistica riguarda i soggetti di età avanzata, ma neppure in questo caso vengono fornite indicazioni precise che definiscano l’anziano se non attraverso mere pratiche contributive talora non univoche, funzione delle categorie professionali di appartenenza e molto spesso di situazioni particolari: basti pensare alle baby pensioni, ai prepensionamenti forzosi o patteggiati con le aziende, alle condizioni dei magistrati e dei docenti universitari. Se il pensionamento può determinare una precoce e significativa perdita di valore della persona attraverso la “svalutazione della funzione dell’esperienza”, negli ultimi venti anni i modelli tradizionali hanno perso progressivamente significato in quanto proprio il sapere e l’esperienza vengono meno con l’invecchiamento in rapporto al modificarsi dei costumi e al progresso tumultuoso della tecnologia che la persona anziana spesso non è in grado di seguire. In linea di massima, all’invecchiamento della popolazione si accompagna un certo deterioramento della professionalità tanto che le aziende considerano spesso i lavoratori anziani un peso perché privi del necessario aggiornamento professionale e tendono per questo ad allontanarli dal lavoro o a isolarli dalle decisioni e dai processi aziendali attraverso un progressivo demansionamento che può degenerare nel fenomeno del “mobbing”. Al riguardo, sembra necessario - come suggerito dai rapporti dell’OCSE fin dagli anni Novanta - investire maggiormente in formazione professionale permanente che mantenga l’anziano al passo con l’innovazione e prevedere un pensionamento flessibile, anche nella prospettiva delle politiche più recenti che tendono a favorire il recupero lavorativo dell’anziano tanto più che anche nella terza età vale l’affermazione secondo la quale “ Il lavoro non è soltanto una necessità per guadagnare, ma una condizione per vivere”. A queste condizioni gli anziani, pur con i loro limiti, dovranno costituire, secondo l’orientamento odierno, sempre più una risorsa umana, professionale e culturale e proprio per questo la “soglia dell’anzianità sociale”, rappresenterà sempre più un valore proprio di ogni singolo individuo, da considerare in modo realistico in base al desiderio e alla capacità di fare, mentre l’età anagrafica negli anni a venire sarà un indicatore sempre meno significativo delle effettive condizioni e delle reali necessità dell’individuo. Molto più realisticamente - anche sotto questo aspetto - saranno la assenza di patologie, l’autosufficienza, la capacità di essere e non più l’anagrafe, a fare la differenza. 5. L’ANZIANO AUTOSUFFICIENTE E PRIVO DI GRAVI PATOLOGIE L’anziano autosufficiente e privo di gravi patologie non offre particolari problemi. La sua condizione di benessere dipende soprattutto dalla possibilità di conservare interessi lavorativi e non, di mantenere contatti con i più giovani, di dialogare con loro con la mente rivolta al futuro della famiglia e della società, al di fuori dei consueti modelli negativi della vecchiaia, senza necessariamente suscitare quel “rispetto” che potrebbe rappresentare l’anticamera dell’imbarazzo e della sopportazione, ma neppure offrire il destro ad atteggiamenti di mera tolleranza o compassionevoli. La donna anziana vive di solito in famiglia con i nipoti che crescono, non di rado rappresenta la guida anche economica della casa. Con il marito progressivamente autoinsufficiente, è spesso in grado di assumere le funzioni di caregiver. Gli elementi che possono segnare la vita della donna sono la solitudine che segue alla vedovanza, le più scarse risorse economiche, un più lungo periodo di disabilità in rapporto alla maggiore sopravvivenza, il basso livello di istruzione che ancora si percepisce nelle fasce di età più elevate ma che sta progressivamente migliorando e cambierà ancora nei prossimi decenni, la depressione. Le statistiche dimostrano che le donne presentano in genere una situazione più sfavorevole, soprattutto dai settanta anni in poi in rapporto all’aggravamento delle patologie croniche ad alta invalidità e lunga durata. Le donne subiscono una minore “selezione” durante la vita rispetto agli uomini (che soffrono più frequentemente di malattie a più alta letalità e minore durata come i tumori, gli accidenti cerebro e cardiovascolari) e questo fenomeno spiegherebbe il maggior stato di sofferenza in vecchiaia. Ciò anche se non mancano, e anzi sono sempre più frequenti, i modelli di donna medio-anziana diversi da quello tradizionale per i quali la donna inizia una terza vita modificando radicalmente i propri interessi, è in grado di affrontare situazioni nuove con iniziative originali e costruttive soprattutto nel volontariato socio-culturale, e vive in parallelo - e non sempre in dimensioni ridotte - l’esistenza delle donne più giovani, libere da qualsiasi tipo di soggezione. La sensazione di distacco dal proprio corpo nel quale la donna, ma anche l’uomo, non si riconoscono e che sentono come estraneo, può non avere nulla a che fare con la nostalgia della bellezza e della gioventù e spesso non sono le piccole patologie a limitarne la libertà! Molto più spesso si tratta - come già accennato nella “Prima parte” del presente Documento di una vera e propria crisi di identificazione che mette in gioco la nostra stessa immagine. Quando l’illusione di un’eterna giovinezza è dissipata, interviene un trauma narcisistico che genera una psicosi depressiva. Donne e uomini, nel tentativo illusorio di recuperare se stessi, di ricomporre corpo e psiche, o quanto meno di approdare verso nuovi equilibri, per alleviare il rimpianto e la depressione, ma anche per far fronte alle esigenze della vita sociale e di lavoro non di rado percorrono le soluzioni offerte dalla chirurgia estetica. Il dato statistico è sempre più significativo per gli interventi chirurgici e i trattamenti estetici, anche se trova un più elevato 24 MAGGIO - AGOSTO 2006 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI riscontro nella fasce di età inferiori ai 65 anni. La conseguenza è il fatto che esiste ormai una terza età, un’età ufficiosa ignorata dalla gerontologia, quella dei “senza tempo”, di coloro che si affidano alla chirurgia per cancellare i segni degli anni, e che ottengono volti inespressivi che non rappresentano il vissuto della persona, in una sorta di omologazione estetica. Il suggerimento di Ugo Ojetti, “saper invecchiare significa saper trovare un accordo decente tra il tuo volto di vecchio e il tuo cuore e cervello di giovane”, è tuttora valido e può rappresentare la chiave di volta in grado di dare alla donna una nuova bellezza “non ritoccata” e realmente vissuta per gli anni che verranno. Mentre l’immagine della donna anziana preda del decadimento fisico e di gravi problemi intellettivi frutto di una letteratura oggi anacronistica o di studi incentrati su persone ricoverate in ospedali o in ospizi, deve considerarsi in gran parte superato almeno nelle fasce di età inferiori agli ottanta anni. Talora l’anziano in buona salute vive presso istituti pubblici o privati. Il problema psicologico-sociale dell’anziano istituzionalizzato è visto spesso, e a torto, come una contrapposizione tra famiglia e istituto, per cui l’istituto rappresenterebbe una soluzione di ripiego imposta dalle circostanze o da una famiglia che, per interessi anche legittimi, non può far fronte ai bisogni dell’anziano. Ma non va trascurato il fatto che oggi (e non solo da oggi) la Casa di Riposo può rappresentare la scelta cosciente di non pochi anziani autosufficienti anche economicamente, vedovi e non, che vogliono garantirsi una vita autonoma anche sotto il profilo sociale e affettivo. Ove, al contrario, vi fosse costretto, l’anziano potrebbe trovarsi ad affrontare situazioni di profondo disagio in rapporto anche alla voglia di vivere, alla formazione socio-culturale, etc. L’impatto può essere penoso per una serie di problemi: la convivenza con persone estranee in relazione alle capacità di socializzazione, il rischio di chiudersi sempre più in se stesso e di presentare vere e proprie crisi di aggressività verso altri ospiti, le carenze affettive, l’obbligo di sottostare a regole e a volte a ordini, possono indurre nell’anziano un senso di impotenza e di “oggettualità”; la dipendenza psico-fisica può portarlo ad abbandonarsi passivamente alle cure per soggezione, per bisogno di affetto o di compagnia. Ovviamente un tale sfortunato impatto può innescare un processo involutivo attraverso un circolo vizioso che accentua il senso di disistima verso se stesso e la dipendenza dagli altri. Per l’anziano autosufficiente un problema emergente è infine rappresentato dal fatto che i nonni sono spesso penalizzati dalla separazione o dal divorzio dei figli riguardo a un’eventuale forzosa interruzione del rapporto con i nipoti. A loro volta i bambini possono subire un ulteriore trauma per la perdita dei nonni quale memoria storica ed emotiva che consentiva loro di percepire il senso delle proprie radici e della continuità della vita. La Giurisprudenza ha più volte confermato il “diritto di visita dei nonni” e ribadito l’importanza di un’adeguata tutela del vincolo esistente tra nonni e nipoti che affonda nella tradizione familiare riconosciuta dall’art. 29 della Costituzione. 6. L’ANZIANO FRAGILE I maggiori problemi, anche di interesse bioetico, riguardano gli anziani ai limiti della autosufficienza o non autosufficienti, i cosiddetti anziani fragili, soprattutto ove manchino il supporto della famiglia e sussistano condizioni economiche precarie. Nel nostro Paese l’equazione secondo la quale l’anziano è di per se stesso assimilabile al malato o all’invalido secondo il classico aforisma “senectus ipsa morbus”, nei fatti non sembra pienamente superata, quanto meno sotto il profilo strettamente psicologico. È infatti ancora dominante l’atteggiamento di chi ritiene le malattie del vecchio conseguenza dell’invecchiamento e spesso destinate a evolvere fatalmente. La trascuratezza e l’ignoranza portano a confondere l’incedere della vecchiaia con patologie ancora trattabili che, se non diagnosticate e curate, possono essere responsabili della perdita dell’autosufficienza e di costi sociali e umani elevatissimi. Evitare questa drammatica evoluzione è compito precipuo della geriatria, cosa che la distingue dalle altre specialità mediche. Va inoltre considerato che la sperimentazione geriatrica riguarda essenzialmente le patologie cognitive prevalenti nella terza età, per le quali l’impegno è massimo e i risultati promettenti, mentre viene trascurato lo studio specifico sugli effetti dei farmaci per le patologie comuni al di là di quanto noto dalla medicina interna dove però i soggetti della sperimentazione raramente superano i cinquant’anni. Le persone anziane vengono cioè private dei risultati di studi adeguati su farmaci e interventi e spesso trattate in base a protocolli terapeutici e assistenziali inadeguati e per di più con ricadute economiche considerevoli e non giustificate. Eppure l’anziano è un paziente particolare, diverso dall’adulto, un malato spesso affetto da polipatologie la cui evoluzione può portare alla disabilità. La somministrazione dei farmaci dovrebbe pertanto essere effettuata con accortezza ed essere legata alla specificità del soggetto e del particolare quadro morboso, con grande attenzione agli effetti collaterali, e non dovrebbe semplicemente seguire raccomandazioni e cautele generiche. La limitata sperimentazione farmacologica nell’anziano dovrebbe essere considerata una discriminazione, come se la cura in età avanzata non fosse meritevole di investimenti specifici, piuttosto che essere ritenuta la conseguenza di un atteggiamento prudenziale in rapporto all’età dei soggetti sui quali si sperimenta. L’esperienza dimostra invece che in tarda età è ancora possibile intervenire e curare con successo anche chirurgicamente alcune patologie (come quelle cardiache), con il risultato di offrire al paziente anziano ulteriori anni di vita in buone condizioni di salute. Tra gli esempi che ricorrono nella pratica, si segnala la carenza di interventi geriatrici o psicogeriatrici di supporto nel trattamento chirurgico di gravi patologie degenerative o traumatiche dell’anca. In questi casi, anche se la protesizzazione è perfettamente riuscita, è possibile che si sviluppi una psicopatologia latente che potrebbe essere evitata con un adeguato e preventivo intervento di sostegno. Le incongruenze economiche emergono anche dal numero dei ricoveri degli anziani non in linea con i parametri LEA (“Livelli Essenziali di Assistenza”): secondo l’OTE (Osservatorio della terza età) gli anziani ‘parcheggiati’ in ospedale, la mancanza di prestazioni sul territorio, la percezione di poter essere curati solo se ricoverati, ‘costano’ all’Italia, ogni anno, 18 milioni di giornate di degenze improprie che potrebbero esseri evitate con un risparmio di 5,7 miliardi di euro, proprio quelli che, secondo l’organo di vigilanza sul bilancio statale, sarebbero necessari per riequilibrare il deficit del settore. Ad esempio: il trattamento domiciliare degli ultra-ottantenni colpiti da ictus si è dimostrato tanto efficace quanto quello ospedaliero, con la differenza essenziale di garantire una migliore qualità della vita e un numero certamente inferiore di reazioni depressive o evoluzioni negative di psicopatologie latenti. Di notevole interesse bioetico, oltre che economico, il fatto che ì pazienti anziani sono responsabili di oltre la metà della spesa farmaceutica a carico del SSN (51,9%) e delle prescrizioni dei medici di base (53,2%), anche se rappresentano solo il 21,5% degli assistiti. Questi dati potrebbero essere meno preoccupanti se la “Relazione sullo stato sanitario del Paese 2001-2002” non evidenziasse che le cure sono “inappropriate nel 25% dei casi e causano sprechi di 8 miliardi di euro all’anno”. La Società Italiana di Geriatria e Gerontologia ha segnalato150.000 ricoveri all’anno per gli effetti secondari da farmaci, associazioni erronee o inop- 25 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI AIAF RIVISTA 2/2006 portune, assunzione di farmaci sbagliati. È un segno allarmante della situazione di fragilità e di assistenza insufficiente in cui vivono gran parte degli anziani. Spesso sono rischi legati all’impossibilità di muoversi da casa per recarsi dal medico o alla necessità di provvedere da soli in qualche modo. A questo dato, si deve aggiungere quello degli errori nelle prescrizioni ospedaliere, quasi tutti evitabili: sono ben 15 ogni 100 ricette (comunicazione preliminare dalla SIFO, in assenza di statistiche nazionali ufficiali). L’assistenza domiciliare integrata (ADI) potrebbe garantire anche in Italia, come avviene in altri Paesi, un più corretto supporto socio-assistenziale-sanitario, anche se non è agevole disporre di dati affidabili per un confronto a livello europeo in quanto il generico termine di “assistenza a domicilio” comprende un’ampia e diversificata gamma di servizi, spesso con obiettivi e modalità diverse, erogati da più soggetti, pubblici e/o privati, all’interno di ogni singolo Paese. Le punte massime di questo genere di assistenza si registrano in Danimarca (24,6%), la media nei Paesi del Nord Europa è comunque superiore al 10%, ed è molto inferiore nel Sud (sono interessati solo il 3% degli anziani). Secondo il rapporto Censis 2004, meno di un terzo della popolazione italiana ultra-sessantacinquenne è a conoscenza dell’esistenza del servizio di “assistenza domiciliare integrata” (ADI). A complicare il quadro vi è il fatto che buona parte dell’Italia meridionale (circa un quarto) ne è sprovvisto. Inoltre, se il servizio può essere attivato celermente nel Nord Est (entro 48 ore, o al più tardi entro una settimana) a seguito della richiesta alla Asl competente e previo accertamento da parte della Unità di Valutazione Geriatrica integrata dalle consulenze specialistiche, nel Sud i tempi sono decisamente più lunghi (anche oltre un mese). Eppure la ADI è privilegiata da tutti i governi europei per contrastare il rischio di istituzionalizzazione, per garantire agli anziani una migliore qualità della vita e permettere ancora, ove possibile, un certo inserimento sociale. L’assistenza è migliore sotto il profilo dei servizi e dei costi e risulta largamente preferita dai pazienti che possono rimanere nel proprio ambiente, circondati dalle persone e dalle cose care, con il ricordo dei momenti felici, essendo il ricorso in Ospedale, anche solo diurno, riservato alle riacutizzazioni della patologia o alla necessità di accertamenti. È evidente che l’assistenza domiciliare non può essere imposta ai pazienti e alle loro famiglie. La generosità e l’affetto dei familiari - pur essenziali per ricondurre a una dimensione umana la condizione di emarginazione che spesso il malato e l’anziano devono sopportare - non sempre sono sufficienti a far fronte a problemi complessi che, anche al di fuori delle emergenze, possono richiedere prestazioni di particolare impegno. Ad esempio, l’influenza delle barriere architettoniche può essere di grave ostacolo alle necessità degli anziani disabili e all’efficacia del trattamento riabilitativo svolto in regime di ADI. Il centro motore e decisionale, naturale anello di congiunzione tra struttura sanitaria e assistiti, è rappresentato dal medico di medicina generale che propone e coadiuva gli interventi specialistici, d’accordo con il paziente finché egli in grado di comprendere e di esprimere un consenso valido. È evidente che la medicina di base talora non è in grado di affrontare i problemi degli anziani, mancano infatti nelle nostre università insegnamenti idonei alla valutazione delle capacità psicofisiche e sociali nella terza età, all’approccio multidisciplinare nello studio del paziente anziano, all’utilizzazione di mezzi diagnostici poco complessi in ambulatorio o presso il domicilio del paziente, alla comunicazione con il paziente anziano che presenta delle sue proprie peculiarità, all’individuazione di alterazioni comportamentali e alla possibilità di un tempestivo e appropriato trattamento. Il geriatra dovrebbe poi rappresentare la principale figura di riferimento nel trattamento del paziente anziano ma spesso non lo è essendo la geriatria assimilata a qualsiasi altra branca medica. Né può la medicina interna vicariale questo ruolo essendo essa diretta essenzialmente allo studio di patologie acute, priva di riferimenti specifici alla polipatologia dell’anziano, alla riabilitazione geriatrica, alla peculiarità della nutrizione del vecchio, etc. Quanto alle strutture residenziali (Residenze Assistenziali [RA], e Residenze Sanitarie Assistenziali [RSA], secondo la terminologia italiana) il confronto con gli altri Paesi è complesso per la disomogeneità di un insieme di caratteristiche organizzative ed economiche, e per le funzioni che debbono assolvere. Un buon esempio è tuttavia rappresentato dalla Danimarca che - come altri paesi del Nord Europa - ha sperimentato iniziative interessanti: dal 1988, dopo un’esperienza ventennale, è prevalsa la scelta politica di non costruire più RSA e case protette e di riconvertire quelle esistenti in abitazioni per gli anziani con servizi flessibili conformi alle loro esigenze. L’esperienza in questi Paesi è tale che gli standard strutturali relativi al comfort erano più avanzati di quelli italiani già dal 1967. È più che evidente che la distanza va colmata al più presto per migliorare la disponibilità, l’accessibilità, l’organizzazione, la vivibilità, la qualità dell’assistenza di quel fondamentale presidio rappresentato dalle RA e RSA, tenendo presente che i Paesi del Nord negli ultimi dieci anni stanno sempre più concentrando la loro attenzione sul miglioramento della qualità dell’ambiente e delle prestazioni, eliminando ove possibile gli aspetti più spiacevoli della vita collettiva e favorendo gli spazi di intimità, le cure personalizzate, il rispetto dei ritmi normali della vita quotidiana, fino a superare il concetto di struttura residenziale con l’offerta di “alloggi protetti”. Questi ultimi derivano spesso dalla trasformazione delle tradizionali residenze collettive adattate alle esigenze di chi perda autonomia e possa seguitare a vivere autonomamente con l’aiuto dell’assistenza domiciliare e la garanzia di una maggiore sicurezza anche per la diffusione delle tecnologie informatiche o telematiche applicate agli alloggi e di strumenti automatizzati di ausilio allo svolgimento delle attività quotidiane. La flessibilità e la personalizzazione dei servizi per quanto concerne le prestazioni integrate sociali e sanitarie è garantita dalla fornitura di pacchetti studiati su misura per i singoli utenti, secondo le politiche di mantenimento dell’anziano al proprio domicilio. Nei Paesi del Sud Europa continua invece a crescere l’interesse per le strutture residenziali tradizionali, peraltro con grande lentezza almeno in Italia, in ritardo nelle strategie di assistenza all’anziano e non ancora in grado di perseguire concretamente scelte di significativo interesse bioetico con il duplice fine di ridurre i costi dell’assistenza e garantire una migliore qualità della vita presso il domicilio dell’anziano. Il servizio sanitario nazionale comunque, pur con le difficoltà quotidiane ben note, resta tra i pochi al mondo in grado di garantire gratuitamente ai cittadini l’assistenza integrativa socio sanitaria. Un aspetto ulteriore da tenere presente è il fatto che il personale infermieristico, e soprattutto quello socio assistenziale, è spesso purtroppo numericamente carente. Il problema riguarda tutti i Paesi europei dove nell’ultimo decennio il numero dei dipendenti dei servizi residenziali e domiciliari senza qualifica è aumentato di sei volte. I problemi legati al personale possono essere molteplici, frequente in particolare il cosiddetto burn out che può sfociare in gravi crisi depressive soprattutto a contatto con pazienti terminali affetti da neoplasie e da demenza, e che rappresenta la maggiore causa di defezioni. Le caratteristiche del malato psichiatrico (aggressività e comportamenti violenti) possono comportare notevole stress per il personale, che può sfociare in un clima di violenza reciproca. Il volontariato è d’obbligo, anche per supplire alle carenze, e, con un incremento del 120% circa negli ultimi anni, rappresenta una risorsa determinante e addirittura insostituibile per la tutela della salute, tanto da prestare assistenza a ben otto milioni di 26 MAGGIO - AGOSTO 2006 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI anziani e malati, spesso al di là del puro “atto sanitario”. Per ulteriori sviluppi della assistenza non rimane che attendere provvedimenti concreti del Parlamento Europeo in riferimento alle proposte presentate e alle più recenti delibere. Di particolare rilievo sono le patologie psichiatriche che colpiscono l’anziano. Secondo l’OMS la depressione rappresenta la principale causa di invalidità (12 % dei casi), in parte funzione anche del modesto grado di cultura, della precaria situazione economica e delle patologie che affliggono l’anziano. La demenza interessa poco meno di un milione di italiani, ma il numero è destinato a raddoppiare entro il 2050 per l’effetto combinato della maggiore aspettativa di vita e del miglioramento dello stato di salute della popolazione generale. Il 60-70% dei casi di grave deterioramento cognitivo che si osservano nell’invecchiamento sono rappresentati dalla demenza di tipo Alzheimer (AD), la cui incidenza aumenta in maniera esponenziale con l’età. I costi diretti e indiretti ammontano a 35-50 mila euro all’anno per paziente. I disturbi sono spesso improntati a tematiche persecutorie o di gelosia che possono condurre a un gesto drammatico vissuto come ineludibile. Le alterazioni che coinvolgono la personalità fisica e soprattutto psichica dell’anziano possono scatenare manifestazioni antisociali soprattutto se al disadattamento si aggiungono circostanze ambientali sfavorevoli e l’abuso di alcolici. Le attività criminose del vecchio riguardano in genere lesioni personali volontarie o colpose contro il coniuge e i familiari fino all’uxoricidio, comportamenti pedofili e delitti sessuali. In alcuni casi espressione di problemi caratteriali, depressione o deliri di tipo paranoide. Talora lo stesso pensionamento - in soggetti predisposti - può dar luogo a reazioni depressive importanti per la sensazione di appartenere ormai alla fascia di marginalità sociale che spesso significa perdita affettiva ed economica soprattutto quando coincide con modificazioni strutturali della famiglia (figli grandi e indipendenti che non guardano più al padre come a un punto di riferimento). Il grave senso di malessere che talora colpisce l’anziano può essere favorito e aggravato da una serie di altri fenomeni quali il progresso tecnologico, il mutare dei modelli culturali, la crisi delle istituzioni, la progressiva perdita di ideali certi e condivisi in grado di alterare la realtà intellettuale dell’anziano e determinarne l’ulteriore distacco. Questa complessa situazione può creare e sostenere un preoccupante stato di tensione con perdita di finalità e fiducia, paura, sconforto, inefficienza, stati d’ansia e forme depressive anche di notevole rilievo che possono rappresentare l’anticamera - in soggetti predisposti - di comportamenti anche violenti che l’anziano può mettere in opera soprattutto contro se stesso. Di solito è colpito l’uomo, ma anche la donna ove gli interessi familiari non rimangano vivi e prevalenti, in quanto il lavoro rappresenta sempre più di frequente oltre che un mezzo di sostegno della economia familiare, una necessità interiore, un bisogno di confrontarsi e di dimostrare le proprie qualità anche al di fuori della famiglia. I problemi che impediscono alle fasce più deboli il pieno accesso ai servizi sono rappresentati dalla difficoltà o dalla mancata integrazione dell’assistenza primaria fornita dai medici di famiglia con gli altri servizi territoriali per l’assistenza psichiatrica, soprattutto nelle regioni meridionali, dove preoccupanti risultano le conseguenze della carente collaborazione (in oltre la metà dei casi) tra medici di famiglia e Servizio di Igiene mentale. Conseguenza gravissima è la sottrazione a queste persone particolarmente fragili della indispensabile continuità terapeutica. Di fronte alle insufficienze dell’assistenza pubblica le famiglie si rivolgono al mercato internazionale del lavoro che fornisce opportunità a prezzi contenuti. L’iniziativa privata si sostituisce al pubblico attraverso le cosiddette badanti, al cui istinto affidiamo il bene prezioso rappresentato dai nostri cari. Queste convivenze nascono per necessità, talvolta forzano il volere dell’anziano ma spesso approdano a equilibri accettabili, creando legami di affetto e solidarietà. Non si possono trascurare, anche sotto il profilo bioetico, i problemi degli anziani in carcere anche se possono sembrare secondari in considerazione della percentuale modesta degli ultra-sessantacinquenni detenuti, mentre la legge garantisce una qualità e una continuità di cure equivalenti a quelle offerte al resto della popolazione. La loro condizione può imporre iniziative urgenti ove venga richiesto il riconoscimento dell’incompatibilità con il regime carcerario a causa di gravi patologie in atto. La burocrazie è però lenta e le procedure farraginose: spesso la cartella clinica non è redatta a dovere nei penitenziari più grandi anche per la mancata continuità assistenziale da parte dei medici e degli specialisti; il ritardo nell’esecuzione di accertamenti può essere notevole soprattutto se richiede il trasferimento del detenuto in un ospedale pubblico che avviene con non poche difficoltà e a volte a fatale distanza di tempo dalla richiesta. Sono decisive la consulenza del medico legale e degli altri specialisti nominati dall’Autorità giudiziaria, ma anche in questo caso le indagini possono essere lunghe per la necessità di accertamenti strumentali che, spesso, anche se semplici, richiedono attese esagerate, spiegabili solo con una burocrazia inefficiente. Talora possono avvicendarsi più consulenze, comprese quelle richieste nell’interesse del detenuto, mentre trascorrono tanti più mesi quanto più grave è il reato e rigido il regime di detenzione. La malattia può aggravarsi, il ricovero in un centro attrezzato adeguato alla patologia sofferta può essere tardivo e la morte può paradossalmente ‘eliminare’ ogni problema circa la concessione delle cure. Il sovraffollamento, la promiscuità, le malattie infettive, la violenza tra carcerati, la mancata tutela della privacy nelle celle collettive, il sovraccarico di lavoro per il personale dei penitenziari rendono penose e umilianti le condizioni di vita dei detenuti soprattutto anziani e incidono decisamente in senso negativo sulla possibilità di un effettivo recupero sociale per cui la permanenza in carcere diventa sempre più spesso un percorso verso l’emarginazione. Anche se non disponiamo di statistiche specifiche per la terza età, l’incidenza di disturbi psichici quali la depressione e l’aumento dei decessi in seguito ad atto suicida sono relativamente frequenti. Un accenno infine sul problema delle truffe che negli ultimi anni affliggono sempre più gli anziani (l’aumento è del 471% tra il 2001 e il 2003). Il danno morale e psichico è elevatissimo, sia per la depressione reattiva alla sensazione di incapacità, sia per la perdita di oggetti di grande significato affettivo anche se talora di modesto valore. L’entità del fenomeno è tale da richiedere interventi specifici, ma la scarsa propensione a denunciare i raggiri aggrava considerevolmente il rischio di incappare in persone senza scrupoli. 6.1. OPERATORI, SERVIZI, PERSONE: RISORSA PER L’ANZIANO A seguito delle considerazioni avanzate sulla particolarità dell’età anziana, è importante considerare chi sono oggi gli operatori che si prendono cura dell’anziano. Conoscere meglio le peculiarità di queste figure può permettere una valutazione delle risorse professionali oggi a disposizione per l’anziano, oltre naturalmente a quelle del medico di base o curante e del geriatra. L’infermiere responsabile dell’assistenza generale infermieristica, precedentemente denominato “infermiere professionale”, è il professionista responsabile dell’assistenza, sia questa infermieristica che di base. Per realizzare ciò si avvale di progetti assistenziali per la singola persona o il gruppo o la comunità, centrati su diagnosi infermieristiche. In questi progetti si parte dall’indivi27 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI AIAF RIVISTA 2/2006 duazione dei bisogni della persona, per valutare il suo bisogno di assistenza o meno; successivamente, a seguito dei questo accertamento, l’infermiere potrà individuare gli specifici problemi per i quali la persona necessità di assistenza infermieristica e/o di assistenza di base, pianificando la risoluzione di questi mediante opportuni interventi. In questa pianificazioni saranno previsti quindi gli interventi che dovranno essere svolti direttamente dall’infermiere e quelli che saranno affidati all’Oss: questi ultimi varieranno a seconda del contesto, delle condizioni della persona assistita, della presenza o meno di persone risorsa. Accanto all’infermiere distrettuale si stanno sviluppando in molte realtà italiane esperienze pilota suggerite dalla Federazione nazionale dei Collegi Ipasvi stessa, che mirano ad attualizzare la presa in carico del soggetto anziano. Orientati a esperienze europee già consolidate, nell’assistenza infermieristica si propone oggi l’infermiere di famiglia, ovvero un professionista che assieme al medico di base prenda in carico e segua nel tempo l’evoluzione dello stato di salute della persona, offrendo continuità di cure e anche personalizzazione delle stesse, per superare l’offerta di servizi standardizzati, quindi in un qualche modo rigidi e centrati sulle prestazioni da erogare anziché sulla persona da assistere. L’infermiere di famiglia segue un certo numero di soggetti, verificando nel tempo l’evoluzione della sua situazione, attivando e/o segnalando al curante la necessità di risorse umane (professionisti e operatori ad hoc) e materiali (es. assistenza integrativa) per il singolo caso. L’operatore socio-sanitario (Oss) è una figura di supporto all’assistenza, che agisce in collaborazione con l’infermiere e l’assistente sociale, occupandosi direttamente dell’assistenza di base, ovvero di quell’accudimento un tempo fornito dalla famiglia patriarcale, ma oggi scomparso per l’evoluzione verso famiglie mononucleari. Sicuramente la comparsa sulla scena socio-sanitaria di personale di supporto all’assistenza ha segnato un passo avanti nella presa in carico e gestione dei bisogni della popolazione anziana, troppo spesso afflitta da patologie cronico-degenerative che si sommano agli effetti dell’anzianità. Succede così che la persona viva condizioni di mortificazione e riduzione della propria dignità di persona: per esempio per l’impossibilità di lavarsi regolarmente a causa della riduzione della forza e competenza funzionale, oppure alimentarsi regolarmente per la non autosufficienza nel disbrigo della spesa e nell’approntamento dei pasti. L’assistente sociale è il professionista che opera nella prevenzione, nel sostegno e nel recupero di persone, famiglie, gruppi o comunità che si trovino in situazioni di bisogno o di disagio sociale. Attraverso progetti mirati e un’azione di rete, si occupa di creare opportunità di recupero per soggetti svantaggiati, anche in relazione ai problemi della comunità specifica cui è assegnato: agisce infatti su base territoriale o all’interno di strutture di cui è referente. All’interno delle Residenze Sanitarie Assistenziali l’assistente sociale è spesso presente come Responsabile, curando la quotidianità e le scelte più generali di persone a volte sole e/o lontane dai propri cari loro malgrado. Relativamente ai servizi per l’anziano, distinguiamo: a) Il distretto socio-sanitario, nel suo significato più proprio di insieme di popolazione, area geografica e rete di servizi, è il luogo dove si tende a mantenere il benessere dei cittadini attraverso la possibilità di informazioni, orientamenti, prestazioni per gli abitanti. Non si tratta quindi di un edificio che contiene operatori e servizi, offerti a richiesta del singolo interessato, ma dell’insieme di case, scuole, fabbriche, uffici dove le persone trascorrono la loro vita abituale, usufruendo dell’apporto di operatori (medici curanti, infermieri, assistente sociale, Oss, psicologo ecc.). Le attività per la prevenzione, la cura e la riabilitazione vengono così portate direttamente al domicilio del soggetto (assistenza domiciliare sanitaria e sociale), oppure negli ambienti di studio e lavoro (interventi educativi nella scuola, controlli, igiene e sicurezza nelle sedi lavorative,etc.) o infine centralizzati in strutture predisposte, ovvero il centro socio-sanitario. Le prestazioni erogabili a domicilio comprendono, in integrazione appunto, assistenza medica, medico specialistica, infermieristica, riabilitativa e/o di recupero funzionale, nonché quelle di natura sociale. Alcune regioni contemplano come servizi complementari quelli riferiti a pasti, lavanderia, stireria, organizzati a livello di distretto. L’accesso al servizio può essere richiesto dagli interessati stessi, dal medico curante, dall’ospedale in cui il soggetto si trova ricoverato, indirizzando a seconda dei casi l’assistito verso un rientro a domicilio, il day hospital o la Residenza Sanitaria Assistita. Le visite si articolano nell’arco dell’intera settimana, con frequenze variabili a seconda dei casi, includendovi anche i turni festivi. b) La Residenza Sanitaria Assistita (Rsa) è un presidio che offre assistenza infermieristica e di base, oltre a riabilitazione e assistenza tutelare e alberghiera, a soggetti con esiti di patologie non curabili a domicilio. All’interno della Rsa gli ospiti devono poter ritrovare un contesto il più possibile simile a quello domestico; spazi comuni interni ed esterni, ma anche ambiti più appropriati per consentire una minima privacy sono requisiti essenziali di tali strutture. Esse sono inserite nella rete dei servizi territoriali che fanno capo alle attività socio sanitarie del distretto; la loro direzione organizzativa e alberghiera è affidata a un responsabile con profilo professionale non medico. Per quanto riguarda gli standard di personale sono previsti infermieri, personale di supporto all’assistenza, terapisti, educatori. Il personale per attività specialistiche non è invece inserito a tempo pieno. c) La Residenza per Anziani (Ra) è invece genericamente adibita all’ospitalità di persone in età avanzata, ma ancora autosufficienti; in questi casi è soprattutto la problematica sociale alla base della necessità di accesso. Di conseguenza, l’organizzazione interna prevedrà un comfort alberghiero e attività ricreative genericamente intese. Un particolare esperienza in proposito è quella del Centro sociale o Centro Residenziale per Anziani, che ha avuto realizzazioni (e a volte denominazioni) diverse a seconda delle varie regioni. d) In sostituzione delle totalizzanti Case di riposo, tipiche di alcuni anni fa, in alcune realtà si sono 28 MAGGIO - AGOSTO 2006 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI sviluppati Centri per Anziani, che uniscono la funzione di casa albergo e centro diurno. In questo modo sono assolte più necessità senza tuttavia arrivare alla struttura per non autosufficienti: vi trovano alloggio anziani totalmente o parzialmente autosufficienti che presentano soprattutto problemi di alloggio (per es. per sfratto, barriere architettoniche, mancanza di ascensore, coabitazioni forzate), o di solitudine, o di sicurezza psicologica. Ai residenti, che vivono in moduli abitativi di piccole dimensioni, vengono offerti servizi essenziali come mensa, bar, pulizie ambientali. Tutte le volte che è possibile l’anziano rimane il padrone di casa, occupandosi in prima persona delle sue necessità quotidiane. In un clima di questo tipo, inoltre, la cooperazione tra anziani è facilitata, e questo incide positivamente sul mantenimento dei livelli di autonomia anche per soggetti molto avanti con l’età. L’assistenza è presente, ma certamente non assume ritmi e modalità assistenzialistiche tipiche di altre strutture, così da non opprimere la libertà individuale. Questo tipo di struttura si ispira a modelli anglosassoni e scandinavi, con collocazioni dei Centri per Anziani in plessi urbani, così da inserire soggetti altrimenti marginalizzati in tessuti sociali ancora vivaci, evitando lo sradicamento dell’anziano dal suo precedente contesto abitativo. e) I Centri diurni accolgono l’utenza che necessita di forme di accudimento, assistenza, integrazione (anziani, disabili, tossicodipendenti, pazienti psichiatrici) per un arco di tempo limitato nella giornata. Il loro scopo è quello di favorire la socializzazione e il recupero con semplici attività artigianali e manuali (ceramica, disegno su stoffa, lavori in legno, altro) usufruendo anche del supporto di operatori specifici (animatori, educatori, terapisti occupazionali) Il Centro deve essere dotato di spazi per attività ricreative e per la mensa. La permanenza nel Centro per alcune ore della giornata allevia e supporta, nel contempo, anche la famiglia dell’utente; chi si fa carico di questi soggetti è sottoposto a uno stress non indifferente, pertanto deve essere garantita anche una tutela, per quanto possibile, della qualità di vita di questi, oltre che dell’assistito. f) Le Case Famiglia sono strutture di limitate dimensioni, destinate ad accogliere persone di varia fascia di età, così da ricostituire un clima di coabitazione tipico del nucleo familiare. L’organizzazione degli spazi interni e della vita che vi si svolge è molto simile al contesto domestico. g) Il Day Hospital è la struttura che accoglie utenti che necessitano di trattamenti terapeutici o diagnostici complessi, per un arco di tempo limitato. Di norma è annesso al presidio ospedaliero, dei cui servizi generali si avvale. Il suo orario di apertura al pubblico si protrae tra le sette e dodici ore. Il personale che vi opera (medici, infermieri, altre figure professionali a seconda dell’indirizzo di intervento: terapisti della riabilitazione, podologi, dietisti) è assegnato stabilmente a tale servizio e comunque all’UO ospedaliera di riferimento. Il day hospital nasce per risponde alle necessità di trattamento per il quale è richiesta sì una permanenza prolungata nella struttura, ma non una degenza a tempo pieno; l’utente può così avere soddisfatte le proprie esigenze senza per questo sottoporsi a un ricovero protratto. Ne sono esempi la day surgery, che oggi sta sempre più sostituendo le degenze di Chirurgia generale degli ospedali: si tratta di unità dedicate a interventi di entità limitata, che possono essere assolti in giornata e quindi evitare al cliente di dover restare in degenza. Ne deriva che l’organizzazione di tale struttura deve potersi avvalere dei servizi generali del presidio ospedaliero (lavanderia, cucina, altro), ma per concludere comunque l’attività nell’arco diurno. Ciò comporta risparmi in ordine a risorse, personale, sedi, oltre ai vantaggi facilmente desumibili per l’utenza (permanenza nel proprio domicilio, minor disagio per i familiari, risposte in tempi reali alle esigenze di cura) h) Il Presidio ospedaliero è oggi destinato a rivedere il proprio target classico, per indirizzarsi particolarmente a soggetti acuti e postacuti, con risorse umane professionali e dotazioni strumentali di livello avanzato. Si tratta di ospedali di medie dimensioni, comprendente in genere i settori di base di Medicina e Chirurgia, oltre ad altre unità operative di dimensioni e quantità variabili. Rispetto alla centralità di cui ha sempre goduto nel nostro Ssn, oggi la sua posizione è in netto ridimensionamento. Lo stato di salute odierno della popolazione, lo sviluppo di servizi alternativi per la riduzione dei quadri acuti che la medicina ha permesso, ne fanno ai nostri giorni una struttura riservata a pochi casi limitati, che però necessitano di risorse e modalità di cura avanzate. Ecco quindi che gli ospedali si stanno preparando a essere sempre meno luoghi di cura abituali, per divenire servizi destinati a esigenze di trattamento ad alta intensività. Dal punto di vista strutturale l’edificio ospedaliero sta pian piano evolvendo verso moduli più flessibili, con diversi livelli di cure: uno intensivo, o high care, e uno di convalescenza o stabilizzazione vigilata, o low care. Le strutture accreditate operano in stretta sinergia con quelle pubbliche, parimenti chiamate a rispondere agli stessi standard previsti per i presidi pubblici. 7. L’ANZIANO EMARGINATO La solitudine può nascere dalla vedovanza, dalla perdita dei figli e della famiglia, dalla povertà; sono soprattutto le complesse eterogenee dinamiche delle grandi città metropolitane a favorire fenomeni di emarginazione o di autoemarginazione soprattutto nelle persone anziane che possono vivere vegetando, ammalarsi, suicidarsi, morire per strada o in condizioni di degrado materiale e morale. Non di rado l’anziano viene dimenticato in istituti o in comunità, in fantomatici ospizi, addirittura nella propria abitazione e in famiglia viene privato degli affetti, a volte costretto a rilasciare procure o donazioni, o ricattato per ottenere un tetto, talora vittima della nevrosi dei familiari, incolpato per la sua incapacità e le sue necessità, maltrattato, vilipeso, malnutrito, beffeggiato e addirittura spinto al suicidio. La morte in solitudine è frequente soprattutto nel periodo estivo e la salma può essere ritrovata dai familiari dopo molti giorni, al ritorno delle vacanze o dai vigili del fuoco chiamati da un vicino. Ma non ci risulta che casi di morte, anche se favoriti dall’abbandono dei parenti, siano stati oggetto di denuncia. Da non dimenticare, nel problema più generale dello stato di abbandono e di emarginazione, gli eventi accidentali in casa. Meno numerosi dei suicidi, costituiscono spesso il sintomo dello stato di bisogno e di vulnerabilità che si esprime drammaticamente con un incidente, per lo più evitabile e contenibile nella sua gravità, qualora l’anziano fosse soccorso sollecitamente. Spesso l’abbandono continua negli obitori, come è avvenuto in Francia nell’agosto del 2003 e tristemente mostrato dai telegiornali. Il fatto che i familiari dimentichino i genitori o i nonni negando loro anche il funerale e non solo per ragioni economiche, è purtroppo esperienza frequente anche nel nostro Paese, tanto che la forzata tumulazione avviene spesso senza l’intervento dei parenti, a spese del Comune e con un’ordinanza della magistratura, a volte dopo mesi o anni, per la necessità di liberare le celle. E se la società è indifferente di fronte all’anziano socialmente inutile, i governi, il parlamento, le regioni varano spesso piani in gran in parte non applicati o non applicabili pur rappresentando l’anziano emarginato - distante dalla cultura, dalla produttività e sempre più dal contesto sociale -, una realtà comunque numericamente importante. 29 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI AIAF RIVISTA 2/2006 8. L’ANZIANO MALTRATTATO I maltrattamenti agli anziani rientrano in fattispecie previste dai codici, come i delitti di violenza privata (art. 610 c.p.) e di lesione personale (artt. 582 e 583 c.p.). Molti eventi drammatici rimangono “sepolti” nell’ambito della famiglia o degli istituti, specialmente se il reato è opera di familiari e manchi la denuncia delle vittime affette da problemi cognitivi o timorose di ulteriori violenze. Giuridicamente rilevante l’abbandono di persona incapace (art.591), eventualità che può riguardare anche il vecchio. In quanto delitto perseguibile d’ufficio in questi casi il referto è obbligatorio. La mancata denuncia del fenomeno del maltrattamento degli anziani è dovuta, a volte, al comprensibile riserbo della vittima, alla speranza di un diverso atteggiamento dell’aggressore, alla vergogna, alla non infrequente complicità di terze persone nell’ambito della famiglia. Il medico legale che operi nell’ambito della struttura pubblica potrebbe essere molto utile ai colleghi e in particolare al medico di base per la diagnosi e la valutazione dei casi di violenza di difficile interpretazione anche al fine della decisione di inviare il referto alla autorità giudiziaria. Ma tale possibilità non viene presa in considerazione dalle ASL, nonostante sia stata più volte auspicata. Rilevante è il maltrattamento negli Istituti a cui si deve aggiungere la noncuranza e la superficialità dei medici, la leggerezza degli educatori, e talora l’impreparazione delle forze dell’ordine. Il fenomeno, pur essendo ampiamente conosciuto, è stato finora sottovalutato sia dal punto di vista quantitativo che della gravità. Negli USA, secondo il National Elder Abuse Incidence Study, almeno un milione e mezzo di anziani subirebbe ogni anno abusi anche se, verosimilmente, il fenomeno assume proporzioni ben più elevate. La violenza psichica sfugge a qualsiasi controllo, tanto più che in non pochi casi si consuma nell’ambito della famiglia o nell’isolato rapporto di soggezione vittima-aggressore. La trascuratezza è una forma frequentissima di maltrattamento che riguarda i bisogni personali, il vestire, l’alimentazione, l’incuria, la mancanza di pulizia, gli avvelenamenti da farmaci o gli iperdosaggi per distrazione, l’inadeguata assistenza sanitaria. Frequentissimo l’uso di mezzi di contenzione, l’abuso verbale ed emozionale, il turpiloquio, il furto di beni personali, il ricatto, la circonvenzione etc. Significativa anche l’incidenza delle cause “istituzionali” indirettamente responsabili del disagio degli ospiti anziani, legate alla scarsità di fondi destinati all’assistenza, agli ambienti fatiscenti, alla carente formazione dei membri dello staff assistenziale. Spesso - come già detto - possono essere responsabili gli operatori addetti all’assistenza e gli inservienti, in genere mal pagati, in numero insufficiente rispetto all’organico, spesso soggetti a fenomeni di burn out, con progressivo disinteresse per il lavoro, vittime di una condizione di logorio psichico (e spesso anche fisico), della progressiva perdita delle spinte ideali, da una sensazione di impotenza e fallimento per l’incolmabile squilibrio tra bisogni e risorse, tra ideale e realtà, tra ciò che gli assistiti chiedono e le possibilità di rispondere a necessità anche elementari. Basta consultare i media per avere un’idea delle condizioni dell’anziano in alcune istituzioni pubbliche e private convenzionate o meno con il Servizio Sanitario Nazionale, e dei gravi danni fisici per gli ospiti che giungono fino alla morte. Ripetute ispezioni dei NAS negli ultimi anni hanno evidenziato drammatiche inadempienze. Secondo fonti ufficiali del Ministero della Salute nell’estate 2003 su 685 istituti sottoposti a ispezione, ben 281 risultavano fuori norma. Le condizioni di maltrattamento sono evidentemente diverse, peculiari e più gravi nei Paesi in via di sviluppo, in particolare in quelli africani dove le persone anziane (soprattutto le donne) sono spesso costrette a subire violenze psichiche in quanto accusate di portare sfortuna alla comunità e di essere causa di inondazioni, siccità, malattie e morte. Per queste ragioni possono subire l’ostracismo, torture e mutilazioni, e talora vengono uccise se rifiutano di abbandonare il villaggio. Le persone anziane possono inoltre essere interessate direttamente dalle conseguenze di guerre, rivoluzioni e intolleranze ideologiche ove penosamente costrette a fuggire; ma ne possono soffrire anche indirettamente ove non vengano specificamente considerate e siano trascurate dai piani di assistenza umanitaria. Nei campi profughi gli anziani hanno spesso la peggio e subiscono discriminazioni quando costretti a competere nella distribuzione degli alimenti e per l’assistenza sanitaria. La violenza collegata all’HIV/AIDS è frequente in quei Paesi che ne sono stati più duramente colpiti: sono le donne anziane a portare il maggior peso dell’assistenza ai parenti che stanno morendo e ai bambini rimasti orfani e possono essere obbligate all’isolamento in quanto componenti della famiglia del malato dal quale non di rado subiscono il contagio per aver prestato assistenza. Il suicidio è un fenomeno di portata non trascurabile e, senza alcun dubbio, collegato a situazioni di disagio personale ma anche a un’obiettiva condizione di disadattamento e di marginalità sociale e familiare nella quale possono versare i soggetti anziani. Se il suicidio di un giovane desta grande emozione, l’anziano o il vecchio che si toglie la vita viene spesso trascurato non solo dalla opinione pubblica, ma addirittura dalle Istituzioni. Il suicidio viene talora compreso come scelta razionale che implica una sorta di bilancio della propria esistenza, della sofferenze per malattie croniche invalidanti, anche psichiatriche, rimanendo comunque insufficiente l’impegno preventivo. Il tasso di suicidio aumenta vertiginosamente con l’età, come dimostrano le statistiche delle diverse scuole medico legali del nostro Paese. La vecchiaia, la solitudine, i problemi affettivi, le patologie croniche, rappresentano i fattori suicidogeni di maggiore rilievo che vengono moltiplicati dal maltrattamento e dall’emarginazione. Tenuto conto dei rilievi popolazionistici, la percentuale dei suicidi dei non occupati è impressionante rispetto a quella di chi ancora lavora. 9. L’ANZIANO DAL PUNTO DI VISTA GIURIDICO Se la legge definisce il minore, opportunamente non si interessa dell’anziano il cui stato può essere delineato dalla medicina, dalla psicologia, dalla sociologia, ma certamente non dai codici che prevedono norme generiche riferibili anche alla incapacità dell’anziano, ma non specificamente a esso (come l’interdizione, l’inabilitazione, la capacità a testare, la incapacità naturale). La Cassazione ha precisato che la “vecchiaia” in quanto tale non significa malattia e comunque deficienza psichica. In effetti identificare l’anziano e differenziarlo dagli altri cittadini maggiorenni avrebbe potuto rappresentare una forma di discriminazione: l’anziano capace e attivo è dunque, e giustamente, un soggetto come qualsiasi altro dal punto di vista giuridico, conservando il pieno godimento dei suoi diritti di cittadino. Anche se, non di rado, nella quotidianità, emerge sotto il profilo psicologico una sottile linea di emarginazione. Solo l’anziano bisognoso, malato e invalido viene preso in considerazione dalla legge, ma soltanto perché entra a far parte di determinate categorie a rischio (quella dei poveri, dei malati cronici, dei non autosufficienti, degli incapaci, ecc.), ferme restando alcune misure di tutela “anche al fine di prevenire e di rimuovere le condizioni che possono concorre alla loro emarginazione”. La legge n. 6 del 2004 che ha un significato etico e pratico di grande rilievo, ha istituito la figura dell’amministratore di sostegno 30 MAGGIO - AGOSTO 2006 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI che si propone di sostenere e limitare la capacità di agire di chi si trovi “nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi” come gli anziani, i malati terminali, i ciechi, gli alcolisti, i tossicodipendenti, i carcerati, senza fare ricorso alla interdizione o alla inabilitazione. Tra le problematiche giuridiche che possono presentarsi nella età avanzata a causa di condizioni patologiche comuni, di particolare rilievo è l’eventuale incapacità a manifestare un consenso valido all’atto medico-chirurgico, anche considerato che moglie e figli non hanno alcun titolo in proposito. Come per qualsiasi soggetto maggiorenne non interdetto, solo al medico spetta la valutazione se nella fattispecie il paziente si trovi in una condizione di “incapacità naturale” ed eventualmente richiedere l’intervento del giudice tutelare. Fermo restando che nei casi urgenti il medico è comunque tenuto a intervenire nei limiti dei trattamenti non procrastinabili e indispensabili per superare l’emergenza. Un altro aspetto che merita di essere preso in considerazione sotto il profilo bioetico è quello del risarcimento del danno in responsabilità civile che, nel caso dell’anziano, può presentare prospettive fortemente penalizzanti. Come ben noto, il danno biologico rappresenta la lesione del diritto alla salute costituzionalmente garantito quale diritto umano inviolabile (art. 2), specificamente tutelato (art. 32) in senso dinamico e funzionale (art.3). Il medico legale, oltre a indicare i giorni di malattia e la percentuale di invalidità in riferimento al cosiddetto danno biologico “statico” che verrà liquidato secondo tabelle previste dalla legge (57/2001, 273/2002) che fissano un importo crescente in rapporto alla percentuale di invalidità e decrescente in rapporto all’età, deve descrivere tutte le conseguenze negative del “modo di essere” del danneggiato quali le limitazioni delle possibilità dinamico relazionali, le rinunce, le turbative della qualità della vita, le prospettive di sopravvivenza, etc. Tali pregiudizi che potevano essere risarciti dal giudice senza limitazioni (legge 57/2001), sono stati fortemente svalutati dalla 273/2002 nel senso che la somma da liquidare non può essere superiore di un quinto rispetto a quella attribuita al danno biologico statico. Ciò premesso, i problemi significativi nel risarcimento del danno all’anziano sono duplici: 1. la progressiva riduzione della liquidazione del “danno biologico statico” al crescere dell’età in base alla presunzione del minore numero di anni da vivere (ma la legge non tiene conto dei meccanismi di adattamento e di compenso che nel giovane possono ridurre notevolmente il pregiudizio effettivo, mentre la entità del danno tende ad aggravarsi nel vecchio); 2. il fatto che nell’anziano i postumi di una lesione minimale per un giovane (ad esempio la frattura di un metatarso) possono alterare in modo rilevante la qualità della vita dell’anziano rendendogli impossibile il piacere di una breve passeggiata e arrecando comunque problemi esistenziali che potranno essere liquidati dal giudice solo in misura irrisoria. Per non parlare della ingiusta svalutazione del danno estetico dell’anziano (talora responsabile di un vissuto psichico rilevante) che, alla pari di tutti, ha diritto alla tutela del proprio aspetto. Anche un eventuale danno alla capacità sessuale rischia di essere sostanzialmente annullato, soprattutto nella donna, pur se sesso e sessualità rappresentano anche per gli anziani parte integrante dell’esperienza esistenziale. CONCLUSIONI 1. Il CNB ha ritenuto opportuno portare ancora una volta l’attenzione - nei limiti del proprio mandato - sulla condizione “morale” dell’anziano, la consapevolezza piena della quale è premessa a un’attenzione fattiva di amicizia e di sostegno alle persone che sempre più numerose vivono l’età avanzata. Non si può ragionare, infatti, in termini meramente demografici e economici sull’invecchiamento della popolazione e relative conseguenze per i bilanci pubblici e privati, senza considerare - altresì - la condizione di “pari dignità” dei cittadini, indipendentemente dall’età, dalle condizioni di salute in cui essi versano e dall’apporto che essi sono capaci di dare con la loro “presenza” al benessere globale della società. Questa pari dignità sostiene anche una serie di “diritti”, che debbono essere intesi come requisiti del sostegno che la comunità - in base al “patto sociale di cittadinanza” - è giusto che assicuri con la maggiore ampiezza redistributiva possibile anche a chi ha contribuito al benessere collettivo nel passato e continua, in qualche misura, a fornire nel presente. Comunità che ha tra l’altro tra i suoi precisi doveri anche quello di guardare all’anziano con la mente sgombra da falsi quanto pericolosi luoghi comuni e stereotipi. Come nel passato si è individuato il “diritto dei diritti” del minore, è bene parlare oggi di “diritto dei diritti “ dell’anziano, interpretando le intenzioni dell’art. 25 della Carta Europea dei Diritti dell’uomo in cui “l’Unione riconosce e rispetta il diritto degli anziani di condurre una vita dignitosa e indipendente” in cui per la prima volta si riconosce il diritto dell’anziano come soggetto, come individuo investito di una legittimazione propria. Questo diritto deriva dal fatto di essere anziano perché si reputa che la persona si trovi in una fase della sua vita biologica nella quale può versare in condizioni di minore capacità di autotutela essendo esposta a maggior rischi. Per questa ragione i suoi diritti devono essere protetti, riconosciuti e soddisfatti. In questo quadro il CNB ritiene auspicabile la costituzione di un OSSERVATORIO SULLA CONDIZIONE DEGLI ANZIANI che provveda alla verifica di attuazione delle norme sia nazionali che internazionali che li riguardano. Si può riassumere il contesto di questi diritti nelle seguenti proposizioni: - l’anziano è persona e come tale va rispettato; - l’anziano ha diritto e dovere di promuovere le proprie risorse umane e in particolare spirituali; - la società ha il dovere etico di facilitare la promozione della dignità di vita della persona anziana; - l’anziano ha diritto di essere trattato secondo i principi di equità e giustizia, indipendentemente dal suo grado di autonomia e di salute. 2. Sul piano dell’assistenza sanitaria e della formazione del medico va detto che non sempre i corsi di laurea sono all’altezza dell’insegnamento della geriatria. Spesso sono invece carenti nell’approccio multidisciplinare necessario alla gestione del paziente anziano, inadeguati nella pratica utilizzazione di mezzi diagnostici semplici, insufficienti nella cultura e nell’etica della comunicazione con il paziente che spesso viene trascurato limitandosi il medico a contatti in ambulatorio con i familiari. È necessario riqualificare l’insegnamento della geriatria e delle scienze geriatriche anche ai fini della riabilitazione dell’anziano, della prevenzione di psicopatologie latenti, e della disabilità. È fondamentale sviluppare e ampliare le scuole di specializzazione considerato il fatto che i geriatri dovrebbero rappresentare il punto di riferimento della assistenza domicilia- 31 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI AIAF RIVISTA 2/2006 re integrata. È opportuno inoltre potenziare la sperimentazione, anche al di fuori dei farmaci antidemenza, per non privare le persone anziane dei risultati di studi appropriati piuttosto che affidarsi a protocolli terapeutici e assistenziali generici, inadeguati e costosi. Quanto al ruolo del medico nel tragico problema dei maltrattamenti, il CNB auspica che il medico legale, inserito nell’assistenza sanitaria pubblica, porti la sua esperienza nello studio del fenomeno nelle istituzioni e in ambito familiare, non solo come esperto eventualmente designato dall’autorità giudiziaria, ma soprattutto come specialista che, nel pieno rispetto della privacy, è a disposizione dei medici della struttura e del medico di base per la valutazione dei casi di difficile interpretazione. Il medico legale è in grado di consigliare il medico di medicina generale tenuto conto che i maltrattamenti sono spesso subdoli e in genere sottaciuti dal paziente che teme problemi peggiori e, nonostante tutto, l’allontanamento dalla famiglia. 3. Appare evidente dall’esperienza acquisita almeno nel nostro Paese che il benessere dell’anziano (psicologico, sociale, economico) è fortemente correlato al contesto familiare nel quale egli generalmente vive, ove le relazioni intra-familiari possono assumere per l’anziano una rilevanza particolare dopo il ritiro dall’attività lavorativa. Appare sempre più evidente che le “crisi” della relazione intrafamiliare hanno evidente effetto sulla “fragilità” della condizione anziana. Crescente appare la percentuale degli anziani che vive in modo solitario. La recente istituzione della figura dell’”amministratore di sostegno” è certamente una prova che la società è sensibile anche a esigenze che - soprattutto per gli anziani soli, privi dell’ambiente familiare - si pongono nella vita quotidiana allorché sia stata perduta almeno in parte la autosufficienza. Si vuole inoltre riaffermare che l’affetto e la cura dei familiari, in primo luogo, sono ancora oggi gli elementi “naturali” che rassicurano e sostengono l’anziano. Ma sempre di più, appare evidente che anche la sensibilità, l’altruismo, l’entusiasmo degli operatori che i servizi pubblici e privati sanitari e sociali pongono in campo, potranno aiutare la persona anziana a combattere l’isolamento, la demoralizzazione per la perdita dell’autonomia e a rinforzare in essa la convinzione di essere un valore e di conservare ancora un “valore” per gli altri. 4. Ai fini operativi, la distinzione fra anziano autosufficiente e anziano non autosufficiente (dipendente) ha una valida giustificazione, sebbene fra questi due stati estremi esistano forme di passaggio. Per l’anziano autosufficiente, desideroso di mantenersi attivo e di continuare a produrre reddito per la propria famiglia, si dovrebbero favorire possibilità di impegno lavorativo, proporzionate alle capacità e alle risorse fisiche e mentali disponibili. Il CNB è consapevole delle difficoltà inerenti alla realizzazione pratica di questo obiettivo, che tuttavia ritiene debba essere sostenuto (anche in ragione del positivo risultato offerto ad esempio da gruppi di volontariato attivo e cooperative sociali formate da anziani, impegnate a pieno titolo in attività produttive, ecc..) anche per il messaggio di “solidarietà intergenerazionale” che può veicolare. 5. Il CNB è pienamente consapevole della particolare delicatezza che - sotto l’aspetto bioetico oltre che organizzativo e politico - presenta la condizione dell’anziano non autosufficiente. Il CNB chiude questa riflessione fermandosi alle soglie della malattia terminale, delle cure palliative, dell’avvicinarsi della morte, perché questi argomenti costituiscono - se mai - oggetto di altre e più specifiche riflessioni (su alcune delle quali, peraltro, ha già prodotto precedenti documenti: v. ad es Definizione e accertamento della morte nell’uomo (15 febbraio 1991;) Parere sulla proposta di risoluzione sull’assistenza ai pazienti terminali (6 settembre 1991); Questioni bioetiche relative alla fine della vita umana (14 luglio 1995); La terapia del dolore: orientamenti bioetici (30 marzo 2001); Parere del CNB su Dichiarazioni anticipate di trattamento (18 dicembre 2003); L’alimentazione e l’idratazione dei pazienti in stato vegetativo persistente” (30 settembre 2005)). Il CNB sottolinea comunque la condizione di fragilità dell’anziano, che si aggrava - nella dimensione naturale della vita - scivolando nel corso del tempo quasi immancabilmente nella dipendenza, fenomeno di interesse bioetico personale e sociale tanto più rilevante quanto più si allunga la vita media. Il CNB sottolinea, tuttavia che in ogni età e in ogni circostanza, l’anziano non autosufficiente conserva le sue caratteristiche insopprimibili di persona umana e di cittadino, un doppio “valore” che ne tutela la dignità, i diritti e gli interessi. 6. Il CNB rileva che l’evoluzione del dibattito internazionale sui “diritti dell’anziano” ha prodotto documenti di notevole interesse, ma la cui applicazione resta sempre riservata ai singoli Paesi, nella misura consentita dai loro ordinamenti e dai loro bilanci. Per il nostro Paese, quanto è stato elaborato e stabilito nel “Progetto obiettivo anziani” rimane un punto di riferimento non eludibile. 32 MAGGIO - AGOSTO 2006 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI APPENDICE CARTA DEI DIRITTI DELL’ANZIANO (EISS, 1995) Art. 1 Diritto degli anziani ad accedere alla “qualità totale” del vivere umano in cui consiste la sostanza del bene comune Art. 2 Diritto al mantenimento delle condizioni personali dell’anziano al più alto grado possibile di autosufficienza sul piano mentale, psichico e fisico Art. 3 Diritto alle cure preventive e riabilitative di primo, secondo e terzo grado Art. 4 Diritto a ottenere gratuitamente le cure e gli strumenti necessari a restare in comunicazione con l’ambiente sociale e a evitare il degrado fisico e psichico: protesi acustiche e dentarie, occhiali e altri sussidi atti a conservare la funzionalità e il decoro della propria persona Art. 5 Diritto a vivere in un ambiente familiare e accogliente Art. 6 Diritto a essere accolti nei luoghi di ricovero alloggiativi od ospedalieri da tutto il personale, compresi i quadri dirigenti, con atteggiamenti cortesi, premurosi, umanamente rispettosi della dignità della persona umana Art. 7 Diritto degli anziani a essere rispettati ovunque nella loro identità personale e a non essere offesi nel loro senso di pudicizia, salvaguardando la loro intimità personale Art. 8 Diritto ad avere garantito un reddito che consenta non solo la mera sopravvivenza, ma la prosecuzione di una vita sociale normale, integrata nel proprio contesto e in esso il diritto all’autodeterminazione e all’autopromozione Art. 9 Diritto a che le potenzialità, le risorse e le esperienze personali degli anziani vengano valorizzate e impiegate a vantaggio del bene comune Art. 10 Diritto a che lo Stato - con il generoso apporto del volontariato e la paritaria collaborazione del settore non-profit - predisponga nuovi servizi informativo-culturali e strutture atte a favorire l’apprendimento di nuove acquisizioni mirate a mantenere gli anziani attivi e protagonisti della loro vita, nonché partecipi dello sviluppo civile della comunità LINEE GUIDA PER IL COMPORTAMENTO DELLE NUOVE FIGURE DOMESTICO-ASSISTENZIALI (“BADANTI”) 1. Rispettare l’anziano come persona, valorizzandone la dignità, ascoltandolo con attenzione, senza mai banalizzare i suoi problemi e le sue richieste. 2. Favorire il mantenimento dell’autonomia nell’anziano, aiutandolo a scoprire nuove strategie per conservare la sua autosufficienza sul piano fisico e mentale, per quanto possibile. 3. Prestare particolare attenzione alla sicurezza dell’anziano, anche nel contesto familiare, per prevenire ed evitare, per quanto possibile, tutte le situazioni di rischio 4. Aiutare l’anziano a mantenere il più attiva possibile la rete di contatti con il suo ambiente familiare e sociale, favorendo tutte le iniziative che lo aiutino a sentirsi in famiglia, stimolando nei figli e nei nipoti ogni possibile forma di relazione di cura. 5. Favorire il rispetto e la cura della sua persona fisica, intervenendo solo se necessario, e rispettando per quanto possibile, il senso dell’intimità personale. Stimolare il mantenimento di quella eleganza naturale che ha caratterizzato il suo stile di vita 6. Curare l’ambiente della casa come memoria attiva dell’anziano, mantenendo, per esempio, la cura dello spazio e delle cose, per conservare il suo orientamento negli ambienti domestici, anche in rapporto alla valenza affettiva degli oggetti, a cui va garantita. 7. Definire con chiarezza i termini contrattuali e accettare solo il compenso pattuito, evitando forme di retribuzione o di compensazione indiretta e rispettando i criteri di corretta amministrazione familiare (giustificativi di spesa) (cfr.art. 9 Codice deontologico internazionale delle infermiere - Consiglio Internazionale delle Infermiere, San Paolo del Brasile, 10 luglio 1953) 33 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI AIAF RIVISTA 2/2006 LEGGE 1 MARZO 2006, N.67 MISURE PER LA TUTELA GIUDIZIARIA DELLE PERSONE CON DISABILITÀ, VITTIME DI DISCRIMINAZIONI PUBBLICATA NELLA GAZZETTA UFFICIALE N. 54 DEL 6 MARZO 2006 Art. 1. (Finalità e ambito di applicazione) 1. La presente legge, ai sensi dell’articolo 3 della Costituzione, promuove la piena attuazione del principio di parità di trattamento e delle pari opportunità nei confronti delle persone con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, al fine di garantire alle stesse il pieno godimento dei loro diritti civili, politici, economici e sociali. 2. Restano salve, nei casi di discriminazioni in pregiudizio delle persone con disabilità relative all’accesso al lavoro e sul lavoro, le disposizioni del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, recante attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Art. 2. (Nozione di discriminazione) 1. Il principio di parità di trattamento comporta che non può essere praticata alcuna discriminazione in pregiudizio delle persone con disabilità. 2. Si ha discriminazione diretta quando, per motivi connessi alla disabilità, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata una persona non disabile in situazione analoga. 3. Si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono una persona con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone. 4. Sono, altresì, considerati come discriminazioni le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi connessi alla disabilità, che violano la dignità e la libertà di una persona con disabilità, ovvero creano un clima di intimidazione, di umiliazione e di ostilità nei suoi confronti. Art. 3. (Tutela giurisdizionale) 1. La tutela giurisdizionale avverso gli atti ed i comportamenti di cui all’articolo 2 della presente legge è attuata nelle forme previste dall’articolo 44, commi da 1 a 6 e 8, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286. 2. Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno, può dedurre in giudizio elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti, che il giudice valuta nei limiti di cui all’articolo 2729, primo comma, del codice civile. 3. Con il provvedimento che accoglie il ricorso il giudice, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno, anche non patrimoniale, ordina la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio, ove ancora sussistente, e adotta ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione, compresa l’adozione, entro il termine fissato nel provvedimento stesso, di un piano di rimozione delle discriminazioni accertate. 4. Il giudice può ordinare la pubblicazione del provvedimento di cui al comma 3, a spese del convenuto, per una sola volta, su un quotidiano a tiratura nazionale, ovvero su uno dei quotidiani a maggiore diffusione nel territorio interessato. Art. 4. (Legittimazione ad agire) 1. Sono altresì legittimati ad agire ai sensi dell’articolo 3 in forza di delega rilasciata per atto pubblico o per scrittura privata autenticata a pena di nullità, in nome e per conto del soggetto passivo della discriminazione, le associazioni e gli enti individuati con decreto del Ministro per le pari opportunità, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sulla base della finalità statutaria e della stabilità dell’organizzazione. 2. Le associazioni e gli enti di cui al comma 1 possono intervenire nei giudizi per danno subito dalle persone con disabilità e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti lesivi degli interessi delle persone stesse. 3. Le associazioni e gli enti di cui al comma 1 sono altresì legittimati ad agire, in relazione ai comportamenti discrimina34 MAGGIO - AGOSTO 2006 DIRITTI DEGLI ANZIANI E TUTELA DEI SOGGETTI PIU' DEBOLI tori di cui ai commi 2 e 3 dell’articolo 2, quando questi assumano carattere collettivo. La presente legge, munita del sigillo dello Stato, sarà inserita nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato. Data a Roma, addì 1° marzo 2006 Note all’art. 1: - Il testo dell’art. 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Leggequadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 17 febbraio 1992, n. 39, S.O., è il seguente: «Art. 3 (Soggetti aventi diritto). - 1. È persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione. 2. La persona handicappata ha diritto alle prestazioni stabilite in suo favore in relazione alla natura e alla consistenza della minorazione, alla capacità complessiva individuale residua e alla efficacia delle terapie riabilitative. 3. Qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, la situazione assume connotazione di gravità. Le situazioni riconosciute di gravità determinano priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici. 4. La presente legge si applica anche agli stranieri e agli apolidi, residenti, domiciliati o aventi stabile dimora nel territorio nazionale. Le relative prestazioni sono corrisposte nei limiti ed alle condizioni previste dalla vigente legislazione o da accordi internazionali.». - Il decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, reca: «Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro», pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 13 agosto 2003, n. 187. Note all’art. 3: - Il testo dell’art. 44, commi da 1 a 6 e 8, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 18 agosto 1998, n. 191, S.O., è il seguente: «Art. 44 (Azione civile contro la discriminazione). (Legge 6 marzo 1988, n. 40, art. 42). - 1. Quando il comportamento di un privato o della pubblica amministrazione produce una discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, il giudice però, su istanza di parte, ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione. 2. La domanda si propone con ricorso depositato, anche personalmente dalla parte, nella cancelleria del pretore del luogo di domicilio dell’istante. 3. Il pretore, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto. 4. Il pretore provvede con ordinanza all’accoglimento o al rigetto della domanda. Se accoglie la domanda emette i provvedimenti richiesti che sono immediatamente esecutivi. 5. Nei casi di urgenza il pretore provvede con decreto motivato, assunte, ove occorre, sommarie informazioni. In tal caso fissa, con lo stesso decreto, l’udienza di comparizione delle parti davanti a sé entro un termine non superiore a quindici giorni, assegnando all’istante un termine non superiore a otto giorni per la notificazione del ricorso e del decreto. A tale udienza, il pretore, con ordinanza, conferma, modifica o revoca i provvedimenti emanati nel decreto. 6. Contro i provvedimenti del pretore e' ammesso reclamo al tribunale nei termini di cui all'art. 739, secondo comma, del codice di procedura civile. Si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737, 738 e 739 del codice di procedura civile. 7. (Omissis). 8. Chiunque elude l'esecuzione di provvedimenti del pretore di cui ai commi 4 e 5 e dei provvedimenti del tribunale di cui al comma 6 e' punito ai sensi dell'art. 388, primo comma, del codice penale.» - Il testo dell'art. 2729, primo comma, del codice civile, e' il seguente: “Art. 2729 (Presunzioni semplici). - Le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti.” 35 L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO L’ AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO. QUESTIONI SOSTANZIALI E PROCESSUALI NELL’ANALISI DELLA GIURISPRUDENZA.1 SOMMARIO I. IL REGIME DI INVALIDITÀ E DI PUBBLICITÀ DEGLI ATTI NELL’AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO. IL PUNTO DELLA GIURISPRUDENZA A DUE ANNI DALL’ENTRATA IN VIGORE DELLA LEGGE. GIUSEPPE CASSANO* 1. LA CAPACITÀ DEL BENEFICIARIO a legge n. 6/04 ha come fine quello di tutelare con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, attraverso interventi di sostegno temporaneo e permanente (art. 1). Nel perseguire tal obiettivo essa ha introdotto uno strumento flessibile idoneo a far fronte alle diverse situazioni di disagio del soggetto debole. L 1. I 2 saggi che seguono costituiscono la trascrizione di parte dell’intervento del Prof. Avv. Giuseppe Cassano al Master di Diritto di Famiglia, tenutosi a Roma nell’anno accademico 2005/2006, e sono parte della dispensa ad uso dei corsisti. Per più compiute argomentazioni si rimanda a GIUSEPPE CASSANO, L’amministrazione di sostegno. Questioni sostanziali e processuali nell’analisi della giurisprudenza, Halley, 2006. 36 1. La capacità del beneficiario. 2. Gli atti di diritto di famiglia. 3. Le invalidità nell’amministrazione di sostegno. 4. Violazione di disposizioni del giudice. 5. Violazione di disposizioni di legge. 6. Accettazione di eredità e alienazione di beni ereditari. 7. Azione di annullamento. 8. Le norme in materia di pubblicità degli atti relativi all’amministrazione di sostegno. Come si è già accennato nelle pagine della Rivista DirittoeGiustizia on line del 23.12.2005, www.dirittoegiustizia.it, il nuovo istituto dell’amministrazione di sostegno si differenzia notevolmente dai tradizionali istituti a protezione del disabili, là dove questi ultimi attribuivano al soggetto una qualità giuridica (status), privando il soggetto totalmente o parzialmente della capacità di agire. Conseguenza del riconoscimento dell’assoluta o parziale incapacità della persona era la nomina del tutore o del curatore. Diversamente, la nomina dell’amministratore di sostegno non ha come presupposto la privazione del soggetto della capacità di agire, il quale conserva la propria capacità per gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno (art. 409 c.c.). A fronte di una generale capacità del beneficiario sarà il provvedimento di nomina ad individuare l’oggetto e l’incarico e gli atti che l’amministratore di sostegno ha il potere di compiere (ex art. 405). Il beneficiario non sarà legittimato a compiere esclusivamente gli atti con riferimento ai quali il decreto di nomina abbia attribuito all’amministratore un potere di rappresentanza esclusiva (ex art. 409). MAGGIO - AGOSTO 2006 L’amministratore di sostegno, in un amplissimo ambito di compiti di protezione, che, come si è accennato, spaziano dalla rappresentanza sino all’assistenza nel compimento di atti giuridici, all’amministrazione del patrimonio, alla cura della persona, si vedrà conferiti quegli specifici poteri-doveri strettamente necessari al soddisfacimento delle concrete esigenze del beneficiario. Normalmente l’amministratore non assume le funzioni del procuratore o del mandatario, posto che la sua rappresentanza si esercita di regola in via esclusiva e non in via concorrente rispetto alle facoltà dell’amministrato (salvo per quanto si dirà a proposito degli atti della vita quotidiana): in linea di principio, la persona beneficiaria dell’amministrazione vedrà limitata la propria capacità legale di agire soltanto in relazione gli atti per il compimento dei quali è previsto l’intervento dell’amministratore di sostegno. In altri termini, ai poteri dell’amministratore fanno da contrappunto, in linea di principio, le limitazioni alla capacità dell’amministrato, il quale (art. 409) conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno. Con l’amministrazione di sostegno non è quindi configurabile alcuna limitazione della capacità della persona debole senza il corrispondente conferimento di poteri all’amministratore (salvo quanto si dirà oltre sull’art. 411 comma 4) né è configurabile alcuna penalizzazione dei diritti e delle facoltà del soggetto che non risponda ad un’effettiva finalità di protezione. Per quanto sopra illustrato può quindi affermarsi che l’amministrazione di sostegno è una forma di tutela ampia (non meramente patrimoniale ma comprendente anche la cura della persona), propositiva e non interdittiva, espansiva e non inibitoria, personalizzata, modulabile e non standardizzata, frutto di una concezione dei diritti delle fasce deboli della popolazione veramente conforme ai fini costituzionali di promozione del pieno sviluppo della persona umana (art. 3, comma 2, Cost.). L’amministrazione di sostegno può determinare un’incapacità del soggetto totale (atti per i quali occorre la rappresentanza esclusiva dell’amministratore) o parziale (atti per i quali occorre l’assistenza dell’amministratore), ma pur sempre settoriale, relativa. Beneficiari dell’amministrazione di sostegno sono innanzitutto i soggetti deboli che, prima dell’entrata in vigore della Legge 9 gennaio 2004, n. 6, non godevano di alcuna forma di protezione preventiva (una forma di protezione “successiva” all’atto dannoso era - ed è - quella, molto limitata, dell’art. 428 c.c. che prevede, a certe condizioni - gravità del pregiudizio, prova della malafede dell’altro contraente - l’annullabilità degli atti compiuti dall’incapace naturale). Possono così fruire del nuovo istituto le persone che sono pacificamente escluse dall’ambito di applicazione dell’interdizione e dell’inabilitazione e quindi i soggetti affetti da patologie mentali transitorie o cicliche, quelli in condizioni di mera debolezza psichica anche se non affetti da patologie mentali, i soggetti depressi, gli alcoli- L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO sti, i tossicodipendenti, i lungodegenti, i portatori di handicap fisici, i disadattati sociali, gli anziani in situazione di disagio anche soltanto fisico ecc... Il comune denominatore per l’applicabilità della nuova disciplina è che il soggetto sia privo, in tutto o in parte, di autonomia (rubrica del titolo XII), cioè (art. 404) si trovi nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi: il beneficiario, pertanto, pur essendo soggetto debole, potrebbe conservare la naturale capacità di agire, intesa come capacità di intendere e di volere: in tal caso, la limitazione della legale capacità di agire è un sacrificio imposto dalla necessità di soddisfare le esigenze di vita del beneficiario mediante il conferimento ad un diverso soggetto poteri sostitutivi (cura, rappresentanza) o confermativi (assistenza) o di amministrazione, da esercitarsi sotto il controllo (successivo, ma anche preventivo, sotto forma di autorizzazione) dell’Autorità giudiziaria (Trib. Pinerolo 4.11.04, in Nuova giur. civ. comm., 2005, 3) Vedremo come, qualora egli compia un atto per il quale è stato attribuito all’amministratore il potere di rappresentanza esclusiva, tale atto sia impugnabile. Notevole rilievo riveste in materia la previsione di cui all’art. 409, co. 2, c.c., ai sensi del quale il beneficiario può in ogni caso compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della vita quotidiana. La previsione suscita particolare interesse, poiché sembrerebbe escludere che l’interessato possa essere privato della capacità di agire in relazione a determinati atti (in questo senso DELLE MONACHE ); il punto, tuttavia, è controverso, poiché vi è chi ha sostenuto che, qualora ne ricorrano le condizioni, possa essere sancita l’incapacità del dell’interessato anche con riguardo a tali atti, paventando il rischio che un’opposta soluzione, implicherebbe la necessità di ricorrere all’interdizione, nell’ipotesi in cui il soggetto risulti inidoneo a realizzare alcuni di tali atti necessari a soddisfare le esigenze della vita quotidiana (LISELLA). Sicuramente deve essere ammessa la possibilità di conferire il potere di rappresentanza all’amministratore di sostegno anche con riguardo agli atti diretti a soddisfare esigenze della vita quotidiana - eventualmente concorrente con quella del beneficiario -, il ché si rivelerebbe utile nelle ipotesi in cui il beneficiario non sia in grado di provvedere da solo al relativo compimento per le più variegate ragioni. La legge prevede, tuttavia, che il giudice tutelare possa disporre che determinati effetti, limitazioni o decadenze, previsti da disposizioni di legge per l’interdetto e per l’inabilitato, si estendano al beneficiario dell’amministrazione di sostegno, ma esclusivamente avuto riguardo all’interesse del medesimo ed a quello tutelato dalle disposi37 L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO zioni di cui si estende l’applicazione. In dottrina a tal proposito si è rilevato come “il rapporto tra capacità ed incapacità, stabilito nel codice nei termini di un’alternativa netta e senza scampo, diviene ora mobile e fluido. L’incapacitazione del disabile che nello schema tradizionale, costituiva il momento pregiudiziale rispetto ad una astratta protezione dello stesso, diventa ora una conseguenza eventuale e residuale per alcune categorie di atti per i quali si prospetta come necessario ai fini della sua protezione” (FERRANDO). Particolare rilievo assumono, nell’ambito delle modifiche apportate dalla legge n. 6/04 al sistema degli strumenti di tutela dei soggetti deboli, le risposte offerte dalla stessa ai problemi posti dal rapporto fra impossibilità di provvedere ai propri interessi ed esercizio dei diritti fondamentali della personalità. In particolare, spetterà al giudice stabilire quali siano i poteri dell’amministratore di sostegno anche con riguardo alla cura personae - e, dunque, in merito a decisioni concernenti la salute, il diritto alla riservatezza, nell’eventualità che si renda necessaria una manifestazione del consenso relativa ai trattamenti medici o al trattamento dei dati personali. -, e come debbano essere preservate le attitudini di autodeterminazione e di discernimento del disabile (FERRANDO). In dottrina si ipotizza che un tale discorso possa estendersi anche ad altri diritti della personalità (FERRANDO). Dubbia è l’ammissibilità di un’amministrazione di sostegno non incapacitante: alcuni autori ritengono, infatti, che si possa istituire l’amministrazione di sostegno anche allorquando non ricorrano i presupposti per la determinazione dell’incapacità di agire del beneficiario (LISELLA). Si tratta delle ipotesi in cui il soggetto conserva una lucidità mentale sufficiente, ma incontra difficoltà nella cura dei propri interessi. Argomenti a favore di tale tesi sono: l’art. 412 che rende annullabili gli atti compiuti dal beneficiario esclusivamente se compiuti in violazione di legge o di disposizioni del giudice; l’art. 409, ai sensi del quale il soggetto conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza elusiva o l’assistenza dell’ amministratore di sostegno; l’art. 1 che inserisce fra le finalità della legge la protezione dei soggetti privi di autonomia con la minore limitazione possibile della capacità di agire; e l’art. 405 che riconosce un’ampia discrezionalità al giudice tutelare, consentendogli di adottare, anche d’ufficio, i provvedimenti urgenti per la cura della persona interessata e per la conservazione e l’amministrazione del suo patrimonio (LISELLA). 38 AIAF RIVISTA 2/2006 Anche la giurisprudenza sembra aderire alla tesi di cui sopra. Il giudice tutelare del Tribunale di Pinerolo ha, infatti, nominato un amministratore di sostegno a favore di un beneficiario, conferendogli poteri di rappresentanza concorrenti con quelli del beneficiario stesso. Si è detto che la normale struttura dell’amministrazione di sostegno prevede l’attribuzione di poteri all’amministratore e la corrispondente perdita di capacità del beneficiario, che comunque conserva sempre la piena capacità, concorrente con quella dell’amministratore, per gli atti quotidiani della vita (c.d. “atti minimi”). Rispetto a questo schema, la sopra richiamata previsione dell’art. 411, comma 4, c.c. delinea un percorso atipico dell’amministrazione di sostegno in senso restrittivo (perdita di capacità del Beneficiario senza attribuzione di poteri corrispondenti all’amministratore). È, però, ipotizzabile anche un percorso atipico di segno opposto: si potrebbe, cioè, strutturare, in concreto, l’amministrazione di sostegno come una procura controllata, con attribuzione di poteri all’amministratore senza perdita di capacità del Beneficiario (così come avviene sempre, ex lege, per gli atti “minimi”). Qualora, infatti, la persona Beneficiaria non presenti deficit psichici o intellettivi, ma sia impossibilitata a perseguire i propri interessi di natura personale o patrimoniale per effetto di una menomazione esclusivamente fisica, senza ripercussioni nell’ambito cognitivo e volitivo, non vi è ragione per comprimere la sfera della sua capacità legale di agire. In simili condizioni, si impone una lettura più articolata dell’art. 409 c.c., secondo il quale - come si è già ricordato - il beneficiario conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno. La norma, letta a contrario, lascia aperti spazi applicativi per una rappresentanza non esclusiva del beneficiario da parte dell’amministratore: una rappresentanza, quindi, con effetti analoghi a quella negoziale, con la peculiarità costituita dal controllo dell’organo pubblico - il Giudice Tutelare - sull’attività svolta dall’amministratore. L’amministrazione di sostegno si connota, in questa ipotesi, come strumento espansivo delle facoltà del soggetto debole, realizzandosi la protezione essenzialmente nel controllo pubblico dell’attività svolta dall’amministratore: controllo soltanto ex post se nel decreto l’unico onere per l’amministratore è quello di rendere il conto; controllo anche ex ante se il Giudice Tutelare, applicando, con il meccanismo dell’art. 411, comma 4, c.c., gli effetti e le limitazioni di cui agli artt. 374 e 375 c.c., richieda per la validità degli atti dell’amministratore o dello stesso beneficiario l’autorizzazione preventiva al loro compimento (Trib. Pinerolo 4.11.04, in Nuova giur. civ. comm., 2005, 6) Inoltre, il giudice ha precisato che la capacità di agire del beneficiario rimaneva “piena”. Premesso che la sig.ra S mantiene la piena MAGGIO - AGOSTO 2006 capacità di agire per gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno e cioè il cui compimento in via autonoma non è espressamente escluso dal giudice tutelare ai sensi degli artt. 404 e ss. c.c. NOMINA Amministratore di sostegno della sig.ra S Maddalena, con le funzioni e i poteri qui di seguito specificati, il di lei nipote, signor Pierfranco T., nato a Pinerolo il 27-1-1956, res. Pinerolo, via Penarol de Montevideo 8. DISPONE che la durata dell’Amministrazione sia a tempo indeterminato DISPONE - che l’amministratore di Sostegno possa compiere autonomamente, senza necessità di previe specifiche autorizzazioni del Giudice Tutelare e salvo obbligo di rendiconto annuale, i seguenti atti, salva altresì la PIENA capacità della signora S anche in ordine a tali atti: 1) prelievo di somme dai conti della Beneficiaria entro l’importo massimo mensile di euro =1.500,00=; 2) riscossione della somma di euro =4.140,00= per pagare il funerale della sorella della Beneficiaria; 3) riscossione della somma di euro =1.178,00= anticipata dal signor T per la retta di ottobre della Casa dell’Anziano; 4) prelievo del denaro dai conti della Beneficiaria necessario al pagamento delle utenze e degli oneri fiscali dell’abitazione e degli altri immobili della medesima e al pagamento dell’IRPEF ed effettivo pagamento dei relativi importi; 5) riscossione degli affitti dei terreni e versamento su conto della Beneficiaria; 6) compimento degli atti di ordinaria amministrazione e manutenzione degli immobili di proprietà della signora S. (Trib. Pinerolo 4.11.04, in Nuova giur. civ. comm., 2005, 10) Si noti, infine, che la l. n. 6/04 ha modificato la disciplina dell’invalidità per incapacità con riguardo agli interdetti ed agli inabilitati, prevedendo all’art. 9, che ha modificato l’art. 417 c.c., che l’autorità giudiziaria possa stabilire nella pronuncia di interdizione e dell’inabilitazione, o in successivi provvedimenti, che taluni atti di ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall’interdetto senza l’intervento del tutore e che taluni atti eccedenti l’ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall’inabilitato senza l’assistenza del curatore. Tali atti saranno pienamente validi, e non saranno suscettibili di annullamento ai sensi dei co. 2 e 3 dell’art. 427 c.c. Si tratta, tuttavia, dei soli atti patrimoniali e non di quelli personali. 2. GLI ATTI DI DIRITTO DI FAMIGLIA li atti di diritto di famiglia, come il matrimonio e il riconoscimento di figlio naturale, sono stati tradizionalmente preclusi all’interdetto; né potevano essere compiuti dal tutore. G L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO Qualora siano compiuti sono annullabili. Anche l’intervento dell’amministratore di sostegno è del tutto escluso con riguardo a tali atti, in quanto essi non ammettono alcuna forma di sostituzione nella realizzazione, e sono, perciò reputati personalissimi. Come si è detto in precedenza, uno dei principi che regolano l’amministrazione di sostegno è quello per cui alla limitazione della capacità del Beneficiario corrisponde il conferimento di poteri all’Amministratore. In base a tale principio, l’impossibilità giuridica per l’Amministratore di compiere gli atti riservati, per la loro stessa natura, alla sola persona del Beneficiario (c.d. atti personalissimi: testamento, donazione, riconoscimento di figlio naturale, matrimonio ecc...) comporterebbe l’impossibilità di impedire al Beneficiario il compimento di tali atti. A questo proposito deve però considerarsi il disposto dell’art. 411, comma 4, secondo il quale “il Giudice Tutelare, nel provvedimento con il quale nomina l’Amministratore di sostegno, o successivamente, può disporre che determinati effetti, limitazioni o decadenze, previsti da disposizioni di legge per l’interdetto o l’inabilitato, si estendano al Beneficiario dell’amministrazione di sostegno, avuto riguardo all’interesse del medesimo e a quello tutelato dalle predette disposizioni”. L’art. 591 c.c. prevede che siano incapaci di testare le persone interdette per infermità di mente; l’art. 85 c.c. dispone che non possano contrarre matrimonio gli interdetti per infermità di mente; l’art. 774 c.c. prevede che non possano donare coloro che non hanno la piena capacità di disporre dei propri beni; l’art. 266 c.c. prevede che il riconoscimento di figlio naturale effettuato dall’interdetto possa essere, per ciò stesso, impugnato: tutte queste norme possono essere richiamate nel provvedimento di nomina dell’amministratore di sostegno: sicché, in via eccezionale, le limitazioni alla capacità legale di agire dell’amministrato possono non corrispondere all’attribuzione all’amministratore dei correlativi poteridoveri (Trib. Pinerolo 4.11.04, in Nuova giur. civ. comm., 2005, 10). L’art. 119 c.c. dispone che il matrimonio di chi è stato interdetto per infermità di mente possa essere impugnato dal tutore, dal pubblico ministero e da tutti coloro che abbiano un interesse legittimo se, al tempo del matrimonio, vi era già sentenza di interdizione passata in giudicato, ovvero se la interdizione è stata pronunziata posteriormente ma l’infermità esisteva al tempo del matrimonio. Può essere impugnato, dopo revocata l’interdizione, anche dalla persona che era interdetta. L’azione non può essere proposta se, dopo revocata l’interdizione, vi è stata coabitazione per un anno. Mentre l’art. 266 c.c. dispone che il riconoscimento può essere impugnato per l’incapacità che deriva da interdizione giudiziale dal rappresen39 L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO tante dell’interdetto e, dopo la revoca dell’interdizione, dall’autore del riconoscimento, entro un anno dalla data della revoca. L’inabilitato può dare il proprio personale consenso senza l’assistenza del curatore. Dubbio è se il beneficiario possa dare il proprio consenso al matrimonio, in assenza di previsioni legislative sul punto. Tuttavia, dalla previsione di cui all’art. 411 c.c., che attribuisce al giudice il potere di disporre che determinati effetti, limitazioni o decadenze - previsti da disposizioni di legge per l’interdetto o l’inabilitato - si estendano al beneficiario dell’amministrazione di sostegno, deve argomentarsi che il legislatore non ha limitato la capacità di agire del beneficiario con riguardo a tali atti una volta per tutte, ma ha demandato al giudice il potere di estendere al beneficiario le limitazioni in ordine alla capacità matrimoniale, o a quella di procedere al riconoscimento di figlio naturale. I giudici tutelari, nel predisporre i primi decreti di nomina di amministratori di sostegno, hanno espressamente stabilito che il beneficiario potesse compiere da solo gli atti personalissimi, oltre a quelli relativi alle esigenze di vita quotidiana. Visto gli artt. gli art. 405 e 407 c.c. Nomina la signora P. Crocifissa, nata a Riesi (CL) l’, residente in Genova, amministratore di sostegno, a tempo indeterminato, di Z. Crocifissa, nata a Butera (CL) il, residente in Genova; determina come segue l’oggetto dell’incarico: 1) assistenza personale per quanto di necessità della beneficiaria (anche per il tramite di terze persone) al fine di consentirle, per quanto possibile, il rientro presso la sua attuale abitazione; 2)stipula e cura dell’esecuzione del contratto di lavoro con una o più badanti (o con un’eventuale Cooperativa di servizi), assumendosi tutti i relativi incombenti (ivi compresa la posizione INPS); 3)riscossione, accredito e gestione (per quanto riguarda l’ordinaria amministrazione) della pensione, dell’eventuale indennità di accompagnamento di spettanza della beneficiaria, con facoltà di compiere in nome e per conto della predetta tutte le pratiche, amministrative e non, volte a migliorare la situazione previdenziale e dunque patrimoniale della stessa (ivi compresa la domanda per il conseguimento dell’indennità di accompagnamento ove non ancora proposta); 4) apertura se necessario o opportuno di un conto corrente intestato alla sola beneficiaria (ove non già esistente), con potere di firma in capo all’amministratore di sostegno che potrà liberamente movimentare il suddetto conto; 5)gestione e amministrazione ordinaria del bene immobile di proprietà della beneficiaria, con facoltà di partecipare - anche a mezzo delega intestata a persona di sua fiducia - alle assemblee condominiali; 6)conservazione e gestione di eventuali risparmi 40 AIAF RIVISTA 2/2006 di pertinenza del beneficiario; 7) gestione ed eventuale definizione dei rapporti di debito esistenti con l’Istituto V., già Istituto P., nel caso di trasferimento dell’amministrata presso la propria abitazione; 8) facoltà di richiedere agli altri congiunti le somme di denaro costituenti la quota parte su di essi gravante a titolo di mantenimento della madre (sia con riguardo alla retta dell’Istituto, ove essi già non vi abbiano provveduto, sia con riguardo alle spese relative all’assistenza domiciliare, comprensiva delle spese ordinarie e/o straordinarie riguardanti la salute della congiunta, e a quelle connesse alla gestione della casa, ove non siano sufficienti le risorse dell’amministrata); 9) presentazione annuale della dichiarazione dei redditi, ove richiesta ai sensi di legge, e pagamento delle tasse e delle utenze a carico della beneficiaria; atti che l’amministratore può compiere in nome e per conto della beneficiaria: tutti quelli necessari per far fronte all’oggetto dell’incarico come sopra precisato, con la precisazione che per gli atti di straordinaria amministrazione l’amministratore di sostegno dovrà essere autorizzato dal giudice tutelare; limiti delle spese sostenibili con le risorse della beneficiaria: importo della pensione e dell’eventuale indennità di accompagnamento, nonché eventuali ulteriori risparmi; atti che la beneficiaria può compiere da sola: tutti quelli attinenti alla vita quotidiana, nonché quelli inerenti ai diritti c.d. personalissimi; (Trib. Genova 1.3.05, in Altalex 23.4.05) La legge non prevede, invece, forme di assistenza o di controllo giudiziale che garantiscano al disabile l’esercizio di tali diritti fondamentali e la possibilità di sperimentare tali esperienze di vita, ma è rimesso al giudice il compito di trovare soluzioni a tale problemi, nel definire i compiti dell’amministratore ex art. 405 c.c. o nell’esercizio del potere di cui all’art. 44 disp. att. c.c. di dare in ogni momento istruzioni sulla cura degli interessi personali del disabile (FERRANDO). Vi sono degli atti che, pur non essendo di natura patrimoniale, possono essere valutati sotto il profilo della convenienza in relazione agli interessi del beneficiario, come le domande di divorzio o di separazione personale dei coniugi, per i quali non si può escludere l’ammissibilità dell’intervento dell’amministratore di sostegno. La giurisprudenza di merito si è espressa in passato sul punto con riguardo alla legittimazione del tutore ad agire in giudizio per la domanda di divorzio, escludendola in ragione della natura personalissima dell’azione. Il tutore dell’interdetto giudiziale non è legittimato ad agire in giudizio per la domanda di divorzio, attesa la natura “personalissima” di tale azione (Trib. Padova 9.2.94, in Foro pad., 1995, I, 106). MAGGIO - AGOSTO 2006 Più recentemente la Cassazione ha avuto modo di precisare che tale legittimazione, con riguardo all’interdetto infermo di mente, spetta ad un curatore speciale, la cui nomina può essere richiesta dal tutore. In mancanza di una specifica disposizione normativa che preveda il relativo potere, il tutore dell’interdetto per infermità di mente non può proporre domanda di divorzio per lo stesso; in applicazione analogica dell’art. 4 comma 5 l. n. 898 del 1970 - che regola l’ipotesi in cui l’interdetto infermo di mente sia convenuto in un giudizio di divorzio - in relazione agli art. 78 e 79 c.p.c., legittimato a proporre la domanda di divorzio per l’interdetto è un curatore speciale, la cui nomina può essere richiesta dal tutore (Cass. 21.7.00, n. 9582, in Giust. civ., 2000, I, 3145). Con particolare riferimento all’esercizio della potestà parentale, si ritiene che la nomina dell’amministratore di sostegno senza determinazione dell’incapacità legale non abbia alcuna ripercussione su tale esercizio (LISELLA). Diversamente, qualora il decreto di nomina dell’amministratore di sostegno determini un’attenuazione della capacità legale del beneficiario, deve ritenersi spettante al giudice tutelare il potere di stabilire, nel decreto di nomina, se sospendere o meno l’esercizio della potestà parentale: in particolare, il giudice disporrà se ex art. 411 c.c. si estendano al beneficiario gli effetti dell’interdizione o dell’inabilitazione. Ai nostri fini suscita particolare interesse la disciplina dell’inabilitazione relativa al problema in oggetto. La sentenza di inabilitazione non implica la sospensione della potestà del genitore, ma questi continua ad esercitarla negli aspetti di natura personale e con riguardo ai profili patrimoniali, limitatamente all’ordinaria amministrazione. Se l’inabilitato esercita la potestà congiuntamente all’altro genitore, potrà compiere da solo gli atti di ordinaria amministrazione, esclusi i contratti con cui si concedono o si acquistano diritti personali di godimento (ex art. 320, co. 1, c.c.). Per gli atti di straordinaria amministrazione, se la potestà è esercitata in via esclusiva dall’inabilitato, è dubbio se tali atti possano essere compiuti dall’inabilitato con l’assistenza del suo curatore e con le altre formalità integrative, oppure se al minore debba essere nominato un curatore speciale. 3. LE INVALIDITÀ NELL’AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO art. 412 prevede l’annullabilità quale sanzione di carattere generale in materia di amministrazione di sostegno, con riguardo a L’ L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO tutti gli atti compiuti in violazione del modello previsto dalla legge. L’annullabilità rappresenta la sanzione tipicamente prevista per i negozi compiuti dai soggetti legalmente incapaci, poiché l’ordinamento presume che essi non siano in grado di valutare la convenienza dell’atto da stipulare. Come è noto, il negozio annullabile produce effetti fino all’annullamento dello stesso, ed è rimesso all’iniziativa del soggetto cui l’ordinamento conferisce tale potere. La pronuncia con la quale è annullato il negozio ha efficacia retroattiva, e l’annullamento può essere domandato dal momento della conclusione del contratto. I vizi che determinano l’annullabilità attengono al processo formativo della volontà di uno dei soggetti del negozio. Si ritiene che per l’annullabilità degli atti compiuti in violazione della l. n. 6/04 e delle disposizioni del provvedimento di nomina dell’amministratore valgano le regole generali relative all’azione di annullamento: così, non si dubita che trovino applicazione in materia di amministrazione di sostegno la convalida del negozio ex art. 1444 e l’annullabilità del contratto plurilaterale (ROMOLI). Si nutrono dubbi invece in merito all’applicabilità dell’art. 1443 c.c. secondo cui il contraente incapace non è tenuto a restituire all’altro la prestazione ricevuta se non nei limiti in cui è stata rivolta a suo vantaggio. Analoghe perplessità sono espresse con riguardo alla previsioni di cui all’art. 1445 c.c., ai sensi del quale l’annullamento dipendente da incapacità legale ha effetto retroattivo anche nei confronti dei terzi; e con riguardo all’art. 2652, n. 6 c.c., in forza del quale si devono trascrivere, qualora si riferiscano ai diritti menzionati nell’articolo 2643, le domande dirette a far dichiarare la nullità, o a far pronunziare l’annullamento di atti soggetti a trascrizione, e le domande dirette a impugnare la validità della trascrizione. Convincenti ci sembrano le argomentazioni di chi sottolinea come detti articoli si riferiscano genericamente all’incapacità e l’incapacità legale, delineando delle categorie tendenzialmente aperte in cui possono ricomprendersi anche le nuove figure di soggetti cd. “deboli” come il beneficiario dell’amministrazione di sostegno (ROMOLI). Ovviamente, poiché il beneficiario dell’amministrazione di sostegno è un soggetto generalmente e tendenzialmente capace, le norme di cui sopra troveranno applicazione con riferimento a tale soggetto limitatamente al compimento di quegli atti che tale soggetto non può compiere ai sensi del decreto di nomina dell’amministratore di 41 L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO sostegno. L’art. 412 disciplina unitariamente l’invalidità e gli atti compiuti dall’amministratore di sostegno e dal beneficiario, stabilendone l’annullabilità. Sono annullabili sia gli atti compiuti dall’amministratore di sostegno rappresentante, sia quelli compiuti dall’amministratore di sostegno assistente; saranno invece nulli gli atti compiuti dall’amministratore di sostegno assistente qualora sia assente la manifestazione di consenso del beneficiario, poiché in questa ipotesi verrebbe a mancare uno degli elementi essenziali del negozio (RUSCELLO). Infine sarà nullo il negozio concluso in violazione di norme imperative (art. 1418 c.c.). La legge sull’amministrazione di sostegno, come è noto, non disciplina l’ipotesi del conflitto d’interessi fra amministratore e beneficiario, né prevede una figura generale di sostituto dell’amministratore di sostegno, o rinvia all’art. 360 c.c., disposizione che prevede la rappresentanza da parte del protutore, nell’ipotesi di conflitto d’interessi tra tutore e pupillo, e la nomina di un curatore speciale, nel caso in cui il conflitto d’interessi coinvolga anche il protutore. In dottrina si ritiene che il problema sia risolvibile in base al rilievo che il divieto per il legale rappresentante e per il curatore di un incapace legale di concludere atti in conflitto di interessi con quest’ultimo costituisca un principio generale del nostro ordinamento, per cui deve ritenersi applicabile all’amministrazione di sostegno, anche in assenza di un espresso richiamo (ROMOLI). In base a tali argomenti deve ritenersi sicuramente annullabile l’atto compiuto dall’amministratore in conflitto d’interessi con il beneficiario, indipendentemente dalla riconoscibilità del conflitto di interessi da parte del terzo, non trovando applicazione l’art. 1394 c.c. con riguardo alla rappresentanza degli incapaci (BONILINI).. In via preventiva, è dubbio, nel caso l’amministratore di sostegno si trovi in conflitto d’interessi con il beneficiario relativamente ad un atto da realizzare, se il giudice possa procedere alla nomina di un curatore speciale, la dove il compimento dell’atto sia indispensabile; o, qualora si aderisca alla tesi in base alla quale sarebbe inammissibile la nomina di un curatore speciale, se si debba procedere semplicemente alla sostituzione dell’amministratore con un altro soggetto (ROMOLI). 4. VIOLAZIONE DI DISPOSIZIONI DEL GIUDICE na prima categoria generale di invalidità nella disciplina dell’amministrazione di sostegno è costituita dalla violazione delle disposizioni del giudice. U 42 AIAF RIVISTA 2/2006 Come abbiamo accennato, infatti, il giudice tutelare nomina l’amministratore di sostegno e specifica gli atti che il beneficiario deve compiere con l’assistenza dell’amministratore di sostegno, e quelli che l’amministratore di sostegno deve compiere in nome e per conto del beneficiario; mentre ex art. 409 c.c. il beneficiario conserva la capacità di agire per tutti gli atti con riguardo ai quali il decreto non preveda restrizioni della capacità di agire dello stesso. L’annullabilità per violazione di disposizioni del giudice può essere determinata: a) dal compimento dell’atto da parte dell’amministratore di sostegno in eccesso rispetto all’oggetto dell’incarico o ai poteri conferitigli dal giudice; b) dal compimento di un atto da parte del beneficiario in violazione delle disposizione contenute nel decreto istitutivo dell’amministrazione di sostegno. La legge, nel prevedere l’ipotesi di annullabilità degli atti per eccesso di poteri, si riferisce quegli atti compiuti dall’amministratore di sostegno che risultino esorbitanti rispetto all’oggetto dell’incarico affidatogli, ma che rientrano nel novero di quelli in ordine ai quali il beneficiario sia stato privato della capacità di agire. Si ritiene, infatti, che siano totalmente privi di efficacia gli atti dell’amministratore di sostegno che non abbiano attinenza con l’oggetto dell’incarico (DELLE MONACHE; BONILINI). L’ipotesi di cui sub a) dovrebbe essere integrata anche allorché l’amministratore compia un atto autorizzato dal giudice tutelare, ma eccedente l’ambito delle facoltà accordate all’amministratore stesso dal decreto di nomina. In concreto, infatti, può accadere che vi sia discordanza tra autorizzazione del giudice e decreto di nomina, qualora il giudice tutelare autorizzi un atto non autorizzabile ai sensi del primo provvedimento, il quale può avere un contenuto programmatico e determinare astrattamente quali atti l’amministratore è autorizzato a compiere, delimitando la funzione di quest’ultimo. Conseguentemente, sarà poi necessario un apposito provvedimento del giudice tutelare, allorché l’amministratore debba procedere al compimento di un atto che necessiti di autorizzazione. L’atto posto in essere in violazione dell’originario provvedimento del giudice è annullabile ai sensi dell’art. 412 c.c., ai sensi del quale “gli atti compiuti dall’amministratore di sostegno in violazione di disposizioni di legge, od in eccesso rispetto all’oggetto dell’incarico o ai poteri conferitigli dal giudice, possono essere annullati su istanza dell’amministratore di sostegno, del pubblico ministero, del beneficiario o dei suoi eredi MAGGIO - AGOSTO 2006 ed aventi causa”. In dottrina si ritiene che il notaio incaricato della stipula di un atto cui partecipi l’amministratore di sostegno debba verificare che questi sia autorizzato al compimento dell’atto e che l’atto stesso rientri nell’ambito della tipologia di quegli atti con riferimento ai quali è avvenuta la nomina, in quanto l’art. 54 del regolamento notarile (10.9.14, n. 1326) impone l’accertamento che le persone intervenute alla stipula siano assistite o autorizzate nel modo espressamente stabilito dalla legge (ROMOLI). 5. VIOLAZIONE DI DISPOSIZIONI DI LEGGE art. 412 sancisce l’annullabilità degli atti compiuti dall’amministratore di sostegno o dal beneficiario in violazione di legge. Con riguardo agli atti compiuti dall’amministratore di sostegno, devono ritenersi annullabili quelli vietati al tutore dalle norme che l’art. 411 richiama riguardo all’amministrazione di sostegno; gli atti compiuti dall’amministratore in mancanza delle autorizzazioni richieste dagli artt. 374 e 375 c.c. per il compimento degli atti indicati in queste norme; e gli atti compiuti in difformità rispetto all’autorizzazione ottenuta. Nella prima categoria di atti vietati all’amministratore di sostegno rientrano gli atti vietati al tutore e al protutore ex art. 378 c.c., e la violazione del divieto di stipulare convenzioni con l’incapace prima dell’approvazione del conto ai sensi dell’art. 388 c.c.. La mancanza di autorizzazioni richiesta dagli art. 374 e 375 c.c. comporta sempre l’annullabilità degli atti compiuti dall’amministratore di sostegno rappresentante; mentre è dubbia nel caso l’atto sia compiuto dall’amministratore di sostegno assistente, in quanto la l. n. 6/04 non richiama l’art. 394 c.c., norma che stabilisce quali autorizzazioni siano richieste per il compimento di alcuni atti da parte del minore emancipato (e, quindi, dell’inabilitato) assistito dal curatore. Secondo alcuni autori il mancato richiamo è spiegabile in base al rilievo che anche gli atti, per i quali il decreto di nomina prevede che il beneficiario debba essere assistito dall’amministratore, sono assoggettati alle regole di cui agli art. 374 e 375 c.c. (ROMOLI). Per altri autori tale soluzione sarebbe ingenerosa, e l’assenza del richiamo all’art. 394 c.c. potrebbe, invece, portare a concludere che, per gli atti da compiersi con l’assistenza dell’amministratore di sostegno, non sia richiesta l’autorizzazione del giudice tutelare (ROPPO - DELLACASA). In applicazione dell’art. 374, n. 5 sarà nullo il giudizio promosso dall’amministratore di sostegno senza la prescritta autorizzazione. L’ L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO Nell’ipotesi in cui il tutore abbia promosso un giudizio nell’interesse dell’incapace senza l’autorizzazione prescritta dall’art. 374, n. 5, c.c., si determina un vizio di legittimazione processuale che determina la radicale nullità dell’intero giudizio, e non attenendo a materia disponibile, deve essere rilevato, anche d’ufficio, dal giudice. L’autorizzazione, infatti, è un presupposto necessario per la regolare costituzione del rapporto processuale, e pertanto colui che ha promosso il giudizio qualificandosi rappresentante legale dell’incapace ha l’onere della prova dell’autorizzazione, quale presupposto della propria legittimazione all’esercizio delle facoltà processuali. (Cass. 21.7.03, n. 11344, in Mass. Giust. civ., 2003, f. 7-8) L’art. 411 c.c. richiama altresì l’art. 376 c.c., che prevede che il Tribunale possa fissare particolari modalità per la vendita dei beni; e l’art. 378 che contempla a carico dell’amministratore di sostegno il divieto di compiere una serie di atti in relazione ai quali appare particolarmente elevato il rischio di un conflitto di interessi. L’autorizzazione deve necessariamente precedere il negozio che l’amministratore di sostegno dovrà compiere, e non sarà ammessa un autorizzazione tardiva, né una successiva approvazione od omologazione del negozio ad opera del giudice tutelare, tuttavia, non sarà rilevante la minima divergenza tra il provvedimento e l’atto autorizzatorio, ma esclusivamente una difformità nei caratteri essenziali del negozio (CALICE). Ex art. 411 c.c. la competenza a rilasciare l’autorizzazione al compimento di tutti gli atti spetta al giudice tutelare. La giurisprudenza della Cassazione ha precisato che i decreti di autorizzazione non acquistano efficacia di giudicato, ma si presentano come provvedimenti amministrativi. I decreti di autorizzazione emessi dal giudice tutelare ai sensi degli art. 374 c.c. e 737 c.p.c. non hanno le connotazioni formali e sostanziali delle decisioni giurisdizionali, ma si presentano come provvedimenti amministrativi. Essi, pertanto, se pure divengono efficaci con il decorso del termine per il reclamo ex art. 741 c.p.c., non hanno, tuttavia, attitudine ad acquistare efficacia di giudicato, né esplicito, in ordine alla decisione positiva o negativa sull’autorizzazione riportata nel dispositivo, né implicito, in ordine alle questioni valutate e decise quali presupposti logici necessari di quella. (Cass. 6.8.01, n. 10822, in Mass. Giust. civ., 2001, 1551). Dubbio è se siano annullabili gli atti compiuti dall’amministratore in violazione dell’obbligo di tenere conto delle aspirazioni e dei bisogni del 43 L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO beneficiario, ai sensi dell’art. 410, co. 1, c.c., e di fornirgli la tempestiva informazione (ex art. 410, co. 2, c.c.): secondo alcuni autori tale conclusione non sarebbe ammissibile, in quanto “devastante per la certezza dei traffici” (ROMOLI). Si ritiene infatti che la certezza dei traffici esiga che al momento del compimento dell’atto sia possibile accertare la sussistenza dei presupposti per il suo valido compimento, e che, in tale momento, non si possa imporre al notaio l’obbligo di accertare se effettivamente vi siano unità di vedute e scambio di informazioni fra amministratore di sostegno e beneficiario. Si argomenta, inoltre, che i doveri posti a carico dell’amministratore dall’410 c.c. abbiano la valenza di individuare in astratto la corretta modalità di svolgimento dell’ufficio, ragion per cui la loro violazione non avrebbe ripercussioni sul compimento dei singoli atti, e rileverebbe esclusivamente ai fini della responsabilità nei confronti del beneficiario per il danno cagionato in violazione dei doveri, ed a quelli della rimozione e della sospensione dell’amministratore di sostegno dal suo ufficio (ROMOLI; BONILINI). Secondo altri autori, invece, sarà annullabile anche l’atto che l’amministratore compia omettendo di perseguire le esigenze di cui e portatore il beneficiario, e quello che l’amministratore compia omettendo di informare preventivamente il beneficiario (ROPPO - DELLACASA; CAMPESE). Il testo normativo - ad avviso di tali autori - non lascerebbe spazio a dubbi, poiché il legislatore avrebbe imposto all’amministratore gli obblighi di informazione e di tener conto delle esigenze del beneficiario a garanzia della posizione di quest’ultimo. Sono da ritenersi nulle le obbligazioni che, eventualmente, l’amministratore rappresentante abbia assunto verso terzi, in virtù delle quali quest’ultimo si sia impegnato a proporre al giudice l’istanza relativa al compimento di atti negoziali in nome e per conto del beneficiario. È affetto da nullità radicale l’obbligazione convenzionale, assunta verso terzi dal rappresentante dell’incapace, alla proposizione della necessaria istanza al giudice (competente per la relativa autorizzazione) in relazione ad atti negoziali da compiere in nome e per conto del minore, tanto prima quanto dopo che l’atto stesso sia compiuto, contrastando siffatto obbligo con l’esigenza, di ordine pubblico, che l’amministrazione vincolata di un patrimonio sia sorretta dall’interesse del titolare nel momento in cui si propone l’istanza (e non in un momento diverso), senza l’interferenza derivante da impegni illegittimamente assunti verso terzi dal rappresentante legale dell’incapace (Cass. 10.2.98, n. 1345, in Mass. Giust. civ., 44 AIAF RIVISTA 2/2006 1998, 290). La legge stabilisce che sono annullabili anche gli atti compiuti dal beneficiario in violazione di legge (art. 412) Tuttavia, tale previsione non ha un vasto ambito di applicazione, poiché, come si è in più occasioni rilevato, le limitazioni della capacità di agire del beneficiario non sono astrattamente stabilite dalla legge, ma trovano la loro fonte nel provvedimento del giudice, tale essendo una delle più importanti caratteristiche innovative della disciplina dell’amministrazione di sostegno nel quadro degli strumenti di protezione dei soggetti non in grado di provvedere ai propri interessi. La dottrina più attenta ha individuato una sola limitazione della capacità di agire del beneficiario riconducibile alla legge, in assenza di previsioni normative sul punto: quella concernente la capacità di donare (ROPPO - DELLACASA).. Non vi è alcun richiamo nella l. n. 6/04 alle norme che prevedono limitazioni alla capacità di donare da parte degli incapaci legali, tuttavia il giudice tutelare può estendere al beneficiario dell’amministrazione di sostegno le limitazioni o decadenze previsti per l’interdetto o l’inabilitato: in tale caso il l’annullabilità dell’atto sarà riconducibile alla violazione di disposizioni del giudice. Ad analoghe conclusioni si deve pervenire allorché il decreto istitutivo preveda la nomina dell’amministratore di sostegno con riferimento a tutti gli atti di alienazione da parte del beneficiario, poiché il soggetto si troverà privo della piena capacità di disporre dei propri beni, e, dunque, deve considerarsi privo della capacità di donare ex art. 774 c.c. Diversamente, qualora la nomina dell’amministratore di sostegno avvenga con riferimento a determinati atti, il beneficiario non potrà essere ritenuto incapace di agire con riguardo ad atti diversi, e, dunque, in tali ipotesi l’incapacità di donare andrà ricondotta alla legge, ed in particolare all’art. 774 c.c. In particolare, si deve argomentare dalla lettera di tale articolo - il quale prevede che per donare occorre la piena capacità di disporre dei propri beni - che non possa donare colui il quale sia stato privato della capacità di agire anche con riguardo ad atti diversi dalla donazione. In dottrina si ritiene costituisca argomento a sostegno di una tale ricostruzione il fatto che l’art. 774 stabilisca che anche il minore emancipato è incapace di donare, sebbene autorizzato all’esercizio di un’impresa commerciale, ed al fatto che l’art. 776 c.c. sancisca l’annullabilità della donazione fatta dall’inabilitato a partire dai sei mesi anteriori all’inizio del giudizio d’inabilitazione MAGGIO - AGOSTO 2006 (ROMOLI). La piena capacità di donare è necessaria anche per le donazioni remuneratorie e modali. Rientrano fra i contratti a titolo gratuito, e non fra quelli commutativi, sia le donazioni remuneratorie, fatte per riconoscenza o in considerazione dei meriti del donatario, sia quelle modali, in cui il “modus”, che è limitazione del beneficio mediante un’obbligazione accessoria posta a carico del donatario, non può equipararsi alla controprestazione propria dei contratti a titolo oneroso, e non è perciò idoneo a mutare la causa del contratto, che resta a titolo gratuito. Di conseguenza, per l’annullamento delle donazioni remuneratorie e modali, come di ogni altra donazione fatta da persona incapace di intendere e di volere, non sono richiesti, à sensi dello specifico disposto dell’art. 775 c.c. né il pregiudizio del donante, né la malafede del donatario trovando riferimento tali condizioni, previste dagli art. 428 e 1425 c.c., in rapporti di corrispettività e di equivalenza tra le prestazioni che sono pertinenti ai soli contratti a titolo oneroso (Cass. 6.12.84, n. 6414, in Mass. Giust. civ., 1984, fasc. 12). L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO impeditiva della decadenza dal beneficio prevista dall’art. 489 c.c., ma la logica impone di dare una risposta positiva al quesito. Nell’ipotesi in cui il giudice estenda al beneficiario le norme sull’accettazione con beneficio d’inventario di cui agli artt. 471, 472 e 489 c.c., il beneficiario è soggetto alle regole che disciplinano il compimento di atti di alienazione di beni ereditari da parte dell’incapace sottoposto a tutela, e la competenza a concedere l’autorizzazione in relazione a tali atti spetterà al giudice delle successioni ex art. 747 c.p.c.. In mancanza di autorizzazione del giudice delle successioni l’atto di alienazione di beni ereditati sarà invalido, e di conseguenza annullabile. L’eredità devoluta ai minori può essere accettata solo con beneficio di inventario, mentre ogni altra forma di accettazione, espressa o tacita, è nulla ed improduttiva di effetti, non conferendo al minore la qualità di erede. Conseguentemente gli atti di conservazione del patrimonio eredi- 6. ACCETTAZIONE DI EREDITÀ E ALIENAZIONE DI BENI EREDITARI a legge non stabilisce se l’eredità devoluta al beneficiario dell’amministrazione di sostegno debba essere accettata col beneficio d’inventario, così come dispongono gli artt. 471 e 472 c.c. con riguardo ai minori, agli interdetti, ai minori emancipati e agli inabilitati. Ragion per cui è dubbio se debba ritenersi che anche al beneficiario dell’amministrazione di sostegno sia preclusa l’accettazione pura e semplice di un’eredità. Contro un’estensione di tale preclusione si pongono l’assenza del richiamo agli artt. 471 e 472 c.c.; il carattere eccezionale di queste due norme, indirizzate a categorie di soggetti legalmente incapaci; ed il fatto che il beneficiario non possa essere considerato incapace di agire con riguardo agli atti in relazione ai quali il decreto non preveda la rappresentanza esclusiva o l’assistenza dell’amministratore (in tal senso cfr. ROMOLI).. L’accettazione con beneficio d’inventario può essere imposta a carico del beneficiario da parte del giudice tutelare nel provvedimento di nomina dell’amministratore di sostegno, in virtù della facoltà - conferitagli dall’art. 411, ult. co., c.c. di estendere al beneficiario determinati effetti, limitazioni o decadenze previsti per l’interdetto o per l’inabilitato: in particolare, il giudice dovrebbe estendere il divieto di un’accettazione diversa da quella con il beneficio d’inventario, ai sensi degli artt. 471 e 472 c.c... È dubbio se il giudice possa estendere al beneficiario anche la causa L 45 L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO tario posti in essere dal rappresentante legale del minore chiamato all’eredità non possono dare luogo ad alcuna accettazione implicita dell’eredità medesima. (Cass. 13.7.99, n. 7417, in Mass. Giust. civ., 1999, 1630) Qualora, invece, il giudice tutelare, nel decreto di nomina, non estenda al beneficiario dell’amministrazione di sostegno la causa impeditiva della decadenza dal beneficio prevista dall’art. 489 c.c., e l’atto di alienazione di beni ereditari sia semplicemente autorizzato dal giudice tutelare ex art 375 c.c. e non dal giudice delle successioni, l’atto di alienazione sarà valido, ma il beneficiario perderà la limitazione di responsabilità caratteristica del beneficio d’inventario ex art. 493. L’atto sarà annullabile ai sensi dell’art. 412 c.c., qualora manchi l’autorizzazione del giudice tutelare richiesta dall’art. 375 c.c., in quanto compiuto in violazione di legge, qualora il decreto di nomina limiti la capacità di agire del beneficiario con riguardo agli atti di disposizione. Concretamente, nelle prime pronunzie in materia di amministrazione di sostegno, i giudici hanno previsto che l’amministratore di sostegno potesse accettare eredità esclusivamente con beneficio d’inventario, ma non hanno fatto riferimento all’applicabilità della causa impeditiva della decadenza di cui all’art. 489 c.c. Letto il ricorso depositato in data 16 febbraio 2005 da xxxxx Rosella, nata a Roma il 10 novembre 1965 ed ivi residente, in via L. xxxxx 14, con il quale la medesima ha chiesto la nomina di un Amministratore di sostegno a norma dell’articolo 405 c.c. - come modificato dalla legge 9 gennaio 2004 n. 6 - in favore di xxxx Mauro, nato a Milano il 17 febbraio 1968 e residente in Roma, piazza G. xxxx 5; ritenuto che da certificazione medica in atti il xxxxx risulta affetto da “insufficienza mentale grave” e “schizofrenia”; sentiti personalmente la ricorrente, che ha confermato la sua disponibilità ad assumere l’incarico di Amministratore di sostegno del fratello, nonché la madre del xxxxx e suoi parenti ed affini, i quali nulla hanno obiettato in ordine al ricorso ed alla nomina della ricorrente quale Amministratore di sostegno del fratello; sentito il xxxxx, il quale ha dato segni evidenti della patologia da cui è affetto; considerato che la patologia di cui sopra comporta l’impossibilità del xxxx di provvedere autonomamente ai suoi interessi, impossibilità che consente di applicare nella fattispecie l’amministrazione di sostegno, quale misura sufficiente a soddisfare le esigenze di tutela del predetto; rilevato che è opportuno, nel caso di specie, nominare, quale Amministratore di sostegno del xxxxx, la sorella ricorrente, la quale si è sempre occupata del fratello; 46 AIAF RIVISTA 2/2006 NOMINA xxxxx Rosella, sopra generalizzata, Amministratore di sostegno di xxxx Mauro, sopra generalizzato, e la autorizza a: 1. operare sul conto di cui al n. 1), prelevando l’importo necessario alla vita del beneficiario, che si quantifica, allo stato, nell’importo della pensione d’invalidità e dell’indennità di accompagnamento, mettendolo a disposizione del beneficiario o di sua madre con lui convivente; 2. accettare, per conto ed in nome di xxxxx Mauro, l’eredità del padre xxxxx Pasquale, con beneficio d’inventario; 3. curare l’amministrazione ordinaria del patrimonio immobiliare del beneficiario, e sottoporre all’autorizzazione di questo Giudice qualsiasi atto eccedente l’ordinaria amministrazione; 4. rappresentare il beneficiario, agendo in nome e per conto del medesimo, nel predisporre e sottoscrivere eventuali atti e/o istanze alla pubblica amministrazione o a soggetti privati diretti al conseguimento di sussidi o equipollenti, di documenti d’identità, di prestazioni di natura assistenziale a favore del beneficiario, ed alla presentazione della denuncia dei redditi dello stesso; 5. occuparsi delle questioni che riguardano la vita personale del beneficiario, curando che il medesimo sia adeguatamente curato ed assistito. (Trib. Roma 22.04.05, in Altalex, 13.5.05). Si noti che le autorizzazioni vengono concesse dal giudice in relazione all’accettazione di un’eredità specifica. visto l’art. 405 c.c., 1. nomina in favore di XXXXX ASSUNTA, nata a xxxxx il 15 agosto 1920, l’Amministratore di Sostegno nella persona del coniuge XXXXX GIOVANNI, nato a xxxxxxx il 16 febbraio 1921, con le funzioni ed i poteri qui di seguito specificati; 2. dispone che la durata dell’incarico sia a tempo indeterminato ed abbia ad oggetto la rappresentanza della Beneficiaria nonché l’amministrazione del patrimonio della medesima; 3. autorizza l’Amministratore di sostegno a compiere in nome e per conto di Xxxxx Assunta, senza necessità di ulteriore autorizzazione del Giudice Tutelare, con poteri di rappresentanza esclusiva e salvo obbligo di rendiconto annuale, tutti gli atti civili di ordinaria amministrazione; 4. autorizza l’Amministratore di sostegno a riscuotere nell’interesse della Beneficiaria gli emolumenti a lei dovuti a titolo pensionistico ed a curare tutte le pratiche a tal fine necessarie, previa apertura di un conto ovvero di un libretto, postale o bancario, intestato a Xxxxx Assunta con annotazione del nome dell’Amministratore quale legittimato ad operare, facendo in modo che su detto conto vengano ad essere accreditate tutte le entrate dell’amministrazione (pensioni, indennità, ecc.) e la somma di Euro 10.000,00 attualmente depositata su c/c bancario BNL cointestato a Xxxxx Giovanni e Xxxxx Assunta; 5. autorizza l’Amministratore di sostegno ad MAGGIO - AGOSTO 2006 impiegare la somma mensile di Euro 740,00,00 per il mantenimento della Beneficiaria; 6. autorizza l’Amministratore di sostegno ad accettare, in nome e per conto di Xxxxx Assunta, con beneficio d’inventario, l’eredità pervenutale da xxxx Linda, deceduta in xxxxx il xxxx ed a sottoscrivere in nome e per conto della Beneficiaria gli atti finalizzati alla riscossione di crediti sorti in seguito al decesso di xxxxx Linda; 7. dispone che ogni atto di straordinaria amministrazione debba essere previamente autorizzato dal giudice tutelare; 8. dispone che l’Amministratore di sostegno tenga conto dei bisogni e delle aspirazioni della Beneficiaria ed informi la Beneficiaria degli atti da compiere, ove ciò sia possibile; 9. dispone che l’Amministratore di sostegno informi periodicamente il Giudice Tutelare circa le condizioni di vita personali e sociali della Beneficiaria, della consistenza patrimoniale e reddituale della medesima, rendendo il conto dell’attività svolta mediante deposito in Cancelleria di una relazione-rendiconto entro il 31 dicembre di ogni anno, corredata dalla documentazione comprovante le principali voci di reddito e di spesa afferenti il periodo considerato. Nella relazione (o in qualsiasi momento mediante deposito in Cancelleria di un ricorso scritto o verbalmente al Giudice Tutelare previo appuntamento) l’Amministratore di sostegno potrà indicare eventuali diverse ed ulteriori esigenze da gestire nell’interesse della Beneficiaria; 10. fissa per il giuramento dell’Amministratore di sostegno l’udienza del xxxxxxxxx; 11. dispone l’efficacia immediata del presente decreto ai sensi dell’art.741 c.p.c. (Trib. Roma 10.2.05) 7. AZIONE DI ANNULLAMENTO art. 412 prevede che siano legittimati a proporre la domanda di annullamento degli atti compiuti dall’amministratore di sostegno i seguenti soggetti: a) l’amministratore di sostegno; b) il pubblico ministero; c) il beneficiario o i suoi eredi o aventi causa. Diversamente, per gli atti compiuti personalmente dal beneficiario, la legittimazione spetta all’amministratore di sostegno, al beneficiario, o ai suoi eredi aventi causa. Si tratta di legittimazione concorrente, salvo per gli aventi causa per i quali la legittimazione e successiva. In dottrina si è rilevato come, il fatto che la legge stabilisca la legittimazione del pubblico ministero esclusivamente con riguardo agli atti compiuti dall’amministratore di sostegno, implichi che l’intervento del pubblico ministero è diretto al controllo dell’operato dell’amministratore (ROMOLI); tuttavia vi è chi sostiene che la mancanza del pubblico ministero tra i soggetti legittimati a chiedere l’annullamento degli atti compiuti direttamente dal beneficiario sia dovuta a una semplice dimenticanza del legislatore (VOCATURO). L’ L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO Con riguardo alla legittimazione dell’amministratore di sostegno ad impugnare gli atti compiuti dall’amministratore stesso, la previsione acquista un senso se si consideri l’ipotesi in cui a proporre l’azione sia l’amministratore nominato successivamente a quello che ha compiuto l’atto invalido. Si ritiene, inoltre, suscettibile di applicazione all’amministratore di sostegno la norma di cui all’art. 378 c.c., là dove esclude la legittimazione del tutore o del protutore ad impugnare l’atto con cui questi si sia reso acquirente o locatario di beni del tutelato, o cessionario di crediti nei suoi confronti (BONILINI). Il beneficiario sarà legittimato a proporre l’azione di annullamento solo allorché conservi la capacità di agire con riguardo agli atti da impugnare, in caso contrario deve ritenersi che la promozione di tale azione debba essere autorizzata ex art. 374, n. 5, c.c. CALICE). Le categorie di soggetti legittimati indicate dell’art. 412 c.c. devono considerarsi tassative. Tali soggetti conservano la legittimazione ad impugnare gli atti compiuti durante l’amministrazione di sostegno anche qualora cessi tale istituto e subentrino l’interdizione o l’inabilitazione. Nell’ipotesi in cui all’amministrazione di sostegno subentri l’interdizione, sarà altresì legittimato il tutore, poiché allo stesso compete il potere generale di compiere tutti gli atti che rientrano nell’interesse dell’incapace, tra cui l’impugnazione di atti annullabili. Nell’ipotesi in cui all’amministrazione di sostegno subentri l’inabilitazione, la legittimazione spetterà all’inabilitato, ed il curatore dovrà prestare il consenso all’iniziativa del primo. L’art. 412 c.c. prevede che le azioni relative agli atti compiuti dall’amministratore di sostegno e dal beneficiario si prescrivano in cinque anni, e che tale termine decorra dalla cessazione dell’amministratore di sostegno. Tale norma richiama l’art. 1442 c.c., ai sensi del quale se l’annullabilità decorre dal giorno in cui è cessato lo stato di interdizione o di inabilitazione, ovvero il minore ha raggiunto la maggiore età, mentre negli altri casi il termine decorre dal giorno della conclusione del contratto. La previsione di cui all’art. 412 conferma l’interpretazione dell’art. 1442 c.c. fornita dalla Corte di Cassazione, secondo la quale, sia l’atto compiuto direttamente dall’incapace legale, sia quello compiuto dal suo legale rappresentante senza la necessaria autorizzazione, sono soggetti al termine di prescrizione quinquennale decorrente dalla cessazione della causa di incapacità legale (Cass. 6.3.93, n. 2725, in Arch. civ., 1993, 792 ss), interpretazione quest’ultima che assicura ampia protezione 47 L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO agli incapaci legali. La norma di cui all’art. 1442 comma 2 c.c., secondo la quale, qualora l’annullabilità di un contratto dipende da incapacità legale di uno dei contraenti, l’azione di annullamento si prescrive nel termine di cinque anni decorrente al giorno in cui è cessato lo stato d’interdizione (o d’inabilitazione) riguarda non soltanto il caso in cui il contratto sia stato stipulato direttamente dall’incapace, ma anche quello in cui il contratto sia stato concluso dal rappresentante legale senza le autorizzazioni degli organi tutelari prescritte dalla legge per il compimento, in nome del minore, di alcune categorie di atti giuridici, ricorrendo anche in questo caso, caratterizzato, come il primo, da un vizio dell’atto determinato dalla sua stipulazione senza le garanzie previste alla legge nell’interesse dell’incapace, l’esigenza di tutela di questo soggetto agli effetti negativi dell’inerzia del tutore (Cass. 6.3.93, n. 2725, in Vita not., 1993, 1394) In dottrina si è rilevato come l’ultimo comma dell’art. 412 costituisca una sorta d’interpretazione autentica dell’art. 1442 c.c. L’amministrazione di sostegno costituisce, dunque, causa di sospensione del decorso del termine di prescrizione per la proposizione dell’azione di annullamento. Dubbio è se il termine di prescrizione decorra dalla cessazione dell’amministrazione di sostegno, qualora essa cessi per il sopravvenire dell’interdizione o dell’inabilitazione ex art. 413 c.c. Si ritiene che, in tali ipotesi, l’esigenza di tutelare gli interessi dei soggetti deboli imponga di interpretare la norma di cui all’art. 412 c.c. nel senso che il decorso della prescrizione rimane sospeso fino alla revoca dell’interdizione e dell’inabilitazione, momento in cui il soggetto riacquista la piena capacità di agire (BONILINI; CAMPESE). Ai sensi dell’art. 1442 c.c. l’eccezione di annullabilità è imprescrittibile. In assenza di previsioni normative con riguardo al giudizio per l’annullamento, deve ritenersi che debba essere instaurato un procedimento di natura contenziosa avanti al giudice competente per territorio e valore secondo i criteri ordinari (BONILINI), e che il giudizio si concluda con una sentenza suscettibile di passare in cosa giudicata (CAMPESE). Per quanto riguarda gli effetti dell’annullamento degli atti che il beneficiario non è legittimato a compiere autonomamente, troverà applicazione l’art 1445 c.c., ai sensi del quale l’annullamento per incapacità legale di un contraente produce i suoi effetti anche in pregiudizio dei terzi acquistati dai terzi, ancorché a titolo oneroso e in buona fede. A tutela dell’affidamento dei terzi l’art. 47 disp. 48 AIAF RIVISTA 2/2006 att. e disp. trans. c.c. istituisce il registro delle amministrazioni di sostegno, e l’art. 405 c.c. prevede la pubblicizzazione del decreto d’apertura e di chiusura dell’amministrazione di sostegno, mediante comunicazione all’ufficiale dello stato civile per le annotazioni in margine all’atto di nascita del beneficiario. 8. LE NORME IN MATERIA DI PUBBLICITÀ DEGLI ATTI RELATIVI ALL’AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO a legge istitutiva dell’amministrazione di sostegno ha predisposto un apparato pubblicitario finalizzato a consentire ai terzi una adeguata conoscenza delle limitazioni della capacità di agire del beneficiario, imponendo che tutte le vicende che attengono all’amministrazione di sostegno siano pubblicizzate. In particolare, debbono essere pubblicizzati il provvedimento iniziale di apertura, i provvedimenti modificativi, il provvedimento di revoca, e la nomina di un amministratore di sostegno provvisorio. L’art. 405 c.c. prevede che il decreto ci apertura dell’amministrazione di sostegno, il decreto di chiusura ed ogni altro provvedimento assunto dal giudice tutelare nel corso dell’amministrazione di sostegno siano annotati a cura del cancelliere nell’apposito registro. Si tratta del registro istituito dall’art. 14 della legge n. 6/04 che ha modificato l’art. 44 disp. att. c.c., il quale attualmente prevede che presso l’ufficio del giudice tutelare siano tenuti un registro delle tutele dei minori e degli interdetti, un registro delle curatele dei minori emancipati e degli inabilitati ed un registro delle amministrazioni di sostegno. L’annotazione deve avvenire immediatamente, come per l’interdizione e per l’inabilitazione. Nel registro di cancelleria saranno annotate tutte le vicende processuali dell’amministrazione di sostegno, ad esclusione delle attività endoprocedimentali che non si traducano in un provvedimento. L’art. 15 della l. n.6/04 ha previsto un nuovo art. 49-bis disp. att. c.c., in cui si dispone che nel registro delle amministrazioni di sostegno, in un capitolo speciale per ciascuna di esse, si devono annotare a cura del cancelliere: a) la data e gli estremi essenziali del provvedimento che dispone l’amministrazione di sostegno, e di ogni altro provvedimento assunto dal giudice nel corso della stessa, compresi quelli emanati in via d’urgenza ai sensi dell’articolo 405 del codice; b) le complete generalità della persona beneficiaria; c) le complete generalità dell’amministratore di L MAGGIO - AGOSTO 2006 sostegno o del legale rappresentante del soggetto che svolge la relativa funzione, quando non si tratta di persona fisica; d) la data e gli estremi essenziali del provvedimento che dispone la revoca o la chiusura dell’amministrazione di sostegno.. Nei registri dello stato civile saranno pubblicizzate solo le informazioni essenziali relative all’amministrazione di sostegno. Si tratta di una forma di pubblicità di natura dichiarativa, poiché gli effetti del provvedimento si producono dal momento della pronuncia. L’art. 405 c.c. prevede che il decreto di apertura dell’amministrazione di sostegno e il decreto di chiusura debbano essere comunicati, entro dieci giorni, all’ufficiale dello stato civile per le annotazioni in margine all’atto di nascita del beneficiario. Essa non stabilisce entro quanti giorni l’annotazione debba essere eseguita. L’annotazione deve essere cancellata con la cessazione dell’amministrazione: in particolare la legge prevede che, se la durata dell’incarico è a tempo determinato, le annotazioni devono essere cancellate alla scadenza del termine indicato nel decreto di apertura o in quello eventuale di proroga. Gli atti relativi all’amministrazione di sostegno sono soggetti ad un’ulteriore accessoria forma di pubblicità: l’art. 18 della l. n. 6/04 incide sul regime del casellario giudiziario e modifica l’art. 3, co. 1, lett. p), del d.p.r. 14.11.02, n. 313, norma che individua le tipologie di provvedimenti che debbono essere iscritti per estratto nel casellario, e che, attualmente, prevede che siano iscritti anche i decreti che istituiscono, modificano, o revocano l’amministrazione di sostegno. Saranno iscritti esclusivamente i provvedimenti definitivi relativi all’amministrazione di sostegno e non quelli provvisori e interinali. Con riguardo alle iscrizioni successive, l’art. 24 del citato d.p.r. n. 31.3.02 dispone che tutte le iscrizioni esistenti nel casellario giudiziale siano riportate nel certificato generale, ad eccezione di quelle escluse specificatamente. Tra queste ultime vi sono i provvedimenti di interdizione, di inabilitazione e relativi all’amministrazione di sostegno, quando esse sono state revocate. L’art. 25 stabilisce che nel certificato penale siano riportate tutte le iscrizioni contenute nel casellario giudiziale ad esclusione di alcune, fra le quali figurano i decreti che istituiscono, modificano o revocano l’amministrazione di sostegno. Infine, l’art. 26 regola il contenuto del certificato civile e prevede che in esso siano riportate una serie di iscrizioni contenute nel casellario giudiziale: fra queste figurano attualmente i decreti che istituiscono o modificano l’amministrazione di sostegno, salvo che siano stati revocati. L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO Si noti, infine, che la disciplina delle iscrizioni nel casellario giudiziale esclude che siano prese iscrizioni relative a persone che abbiano superato gli ottanta anni di vita: per tali soggetti vengono, infatti, eliminate, le schede eventualmente preesistenti. Tale limitazione precluderà la forma di pubblicità in oggetto con riguardo a numerosi soggetti che necessiteranno dell’amministrazione di sostegno. * già Docente di Istituzioni di Diritto Privato nell’Università LUISS di Roma; titolare delle cattedre di Diritto Civile e Diritto dell’Internet nell’European School of Economics 49 L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO 1. AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO E NORME IN MATERIA DI INTERDIZIONE E DI INABILITAZIONE i sensi dell’art. 411, co. 1 c.c. si applicano all’amministrazione di sostegno, in quanto compatibili, le disposizioni di cui agli artt. da 349 a 353 e da 374 a 388 c.c. Non sono stati richiamati gli artt. 362 ss. c.c., concernenti l’inventario, e gli artt. 371 e 372 c.c. concernenti i provvedimenti circa l’educazione e l’amministrazione del patrimonio del minore, e le prescrizioni relative all’investimento dei capitali del minore. Il rinvio di cui all’art. 411 non distingue fra amministrazione sostitutiva e amministrazione di A II. NORME APPLICABICABILI ALL’AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO E DISCIPLINA PROCESSUALE GIUSEPPE CASSANO 50 mera assistenza, né sussiste nella disciplina in esame alcun rinvio alle norme che disciplinano la curatela. Le norme sulla tutela sono dichiarate applicabili, in quanto compatibili: occorrerà, dunque, verificare volta par volta se la ratio di ogni singola norma presente in tali articoli, sia compatibile con analoghi interessi perseguiti dalla disciplina dell’amministrazione di sostegno (BONILINI). In primo luogo vengono in rilievo gli artt. 374 e 375 c.c. concernenti le autorizzazioni che il tutore deve chiedere al Tribunale per il compimento di specifici atti. Non sembrano sussistere dubbi sul fatto che l’amministratore debba chiedere l’autorizzazione al giudice tutelare per quegli atti elencati negli artt. 374 e 375 c.c., previsti nel decreto istitutivo dell’amministrazione di sostegno, o successivamente, quali atti che devono essere compiuti dall’amministratore di sostegno o con la sua assistenza. Ai sensi dell’art. 411 c.c. co. 1, i provvedimenti autorizzatori di cui agli artt. 375 e 376 c.c. devono essere emessi dal giudice tutelare e non dal tribunale. Gli atti previsti dall’art. 374 c.c. sono: - l’acquisto di beni, eccettuati i mobili necessari per l’uso del beneficiario, per l’economia AIAF RIVISTA 2/2006 SOMMARIO 1. Amministrazione di sostegno e norme in materia di interdizione e di inabilitazione. 2. Estensione giudiziale di previsioni relative all’interdetto e all’inabilitato. 3. Amministrazione di sostegno: profili processuali. 4. Competenza e giurisdizione. 5. La proposizione del ricorso. 6. Il problema della difesa tecnica. 7. Le fasi successive del procedimento. 8. Cessazione dell’amministrazione di sostegno, revoca e modifica del decreto di apertura. 9. Impugnazioni domestica e per l’amministrazione del patrimonio; - la riscossione di capitali; - il consenso alla cancellazione di ipoteche o allo svincolo di pegni; - l’assunzione di obbligazioni, salvo che queste riguardino le spese necessarie per il mantenimento del minore e per l’ordinaria amministrazione del suo patrimonio; - l’accettazione di eredità o la rinuncia alle stesse; - l’accettazione di donazioni o legati soggetti a pesi o a condizioni; - la stipulazione di contratti di locazione d’immobili oltre il novennio; - la promozione di giudizi, salvo che si tratti di denunzie di nuova opera o di danno temuto, di azioni possessorie o di sfratto, e di azioni per riscuotere frutti o per ottenere provvedimenti conservativi. Ai sensi dell’art. 375 sarà necessaria l’autorizzazione del giudice tutelare: - per l’alienazione di beni, eccettuati i frutti e i mobili soggetti a facile deterioramento; - per la costituzione di pegni o ipoteche; - per procedere a divisioni o promuovere i relativi giudizi; - per fare compromessi e transazioni o accettare concordati. Il giudice dovrà aver riguardo agli interessi personali e patrimoniali del beneficiario e stabilire le modalità della vendita e le modalità di reimpiego del capitale (CALICE). Nessun dubbio che le autorizzazione in oggetto siano necessarie anche con riguardo all’amministrazione di assistenza. Non saranno invece necessarie allorché il decreto di nomina contempli nell’oggetto dell’incarico conferito all’amministratore il compimento di uno specifico atto, e non di una categoria di atti: in tale caso non vi è ragione per non ritenere che il giudice abbia autorizzato il compimento dell’atto nel decreto stesso (DELLE MONACHE). MAGGIO - AGOSTO 2006 All’amministrazione di sostegno sono dichiarate applicabili, in quanto compatibili, dall’art. 411, co. 2 c.c., le disposizioni degli artt. 596, 599 e 779, norme che stabiliscono l’incapacità del tutore o del protutore di ricevere per testamento del tutore, la nullità delle disposizioni testamentarie in favore di persona interposta, e la nullità della donazione disposta in favore del tutore e del protutore. Ex art. 388 c.c., inoltre, l’amministratore di sostegno non potrà stipulare alcuna convenzione con il beneficiario prima che sia decorso un anno dall’approvazione del conto. Le eventuali disposizioni testamentarie e donazioni sono colpite da nullità, a nulla rilevando che si tratta di atti per i quali il beneficiario non sia stato privato della capacità di agire. Il divieto non opera, ex art. 411, co. 3, qualora l’amministratore di sostegno sia parente entro il quarto grado del beneficiario, ovvero sia coniuge o persona che sia stata chiamata alla funzione in quanto con lui stabilmente convivente: si tratta di una previsione meno rigida rispetto all’art. 596 c.c., che esclude l’operatività del divieto allorché il tutore sia ascendente, discendente, fratello, coniuge del testatore. Si ritiene che tale previsione sancisca anche la validità della donazione fatta a favore del parente entro il quarto grado del beneficiario, ovvero che sia coniuge o persona che sia stata chiamata alla funzione in quanto con lui stabilmente convivente, a differenza dell’art. 596 che non consente le donazioni a favore del tutore o del protutore, ancorché stretti congiunti dell’incapace, né a persone interposte. Oltre alle donazioni sono esclusi dal divieto altri negozi che comportino un beneficio in capo all’amministratore, ed in generale i negozi a titolo gratuito. Si noti, infine, che si dubita circa la possibilità di applicare i divieti in esame anche nell’ipotesi di amministrazione di sostegno di mera assistenza (DELLE MONACHE; BONILINI). Analoghe perplessità si nutrono con riguardo all’ammissibilità di un’estensione analogica di alcune previsione in materia di interdetti e inabilitati all’amministrazione di sostegno: in particolare ha suscitato l’attenzione della dottrina la questione se possano trovare applicazione nei confronti del beneficiario le numerose norme che collegano alla sopravvenuta incapacità di una parte contrattuale lo scioglimento di rapporti patrimoniali pendenti. A titolo esemplificativo possiamo ricordare l’art. 1626 c.c., che stabilisce lo scioglimento dell’affitto in caso di interdizione o inabilitazione dell’affittuario; o l’art. 1722 c.c., ai sensi del quale il mandato si estingue in caso di interdizione o L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO inabilitazione di una delle parti. Convincenti ci appaiono le argomentazioni di chi ritiene che la decisione di estendere le norme che disciplinano gli effetti della sopravvenuta incapacità sui rapporti contrattuali di cui il beneficiario sia parte spetti al giudice tutelare, il quale deciderà caso per caso (BONILINI). Deve escludersi che siano applicabili al beneficiario le norme che si riferiscono, genericamente, agli incapaci, poiché questi - come si è più volte ribadito - non può essere considerato soggetto incapace di agire. Tuttavia, con riguardo agli atti relativamente ai quali il beneficiario deve essere assistito o rappresentato dall’amministratore, e che egli compia da solo, deve ritenersi applicabile l’art. 1445, ai sensi del quale l’annullamento che dipende da incapacità legale non fa salvi i diritti acquistati a titolo oneroso dai terzi di buona fede, o l’art. 1966 c.c., a norma del quale “Per transigere le parti devono avere la capacità di disporre dei diritti che formano oggetto della lite”. Infine, la legge nulla dispone con riguardo all’illecito civile commesso dal beneficiario: in particolare ci si chiede se l’amministratore di sostegno in tale ipotesi sia chiamato a rispondere, ex art. 2047 c.c., in quanto tenuto alla sorveglianza. Concordiamo con quella dottrina che ha rilevato come la responsabilità dell’amministratore andrà commisurata ai poteri che il giudice gli abbia attribuito nel decreto di nomina o in quelli successivi (CALÒ). 2. ESTENSIONE GIUDIZIALE DI PREVISIONI RELATIVE ALL’INTERDETTO E ALL’INABILITATO l giudice tutelare potrà disporre nel decreto con il quale nomina l’amministratore di sostegno o in un decreto successivo che determinati “effetti, limitazioni o decadenze, previsti da disposizioni di legge per l’interdetto o l’inabilitato, si estendano al beneficiario dell’amministrazione di sostegno (art. 411 c.c.). Nel fare ciò, il giudice dovrà avere riguardo all’interesse del beneficiario ed a quello tutelato dalle disposizioni oggetto di estensione. Il provvedimento è assunto con decreto motivato, a seguito di ricorso che può essere presentato anche dal beneficiario direttamente. Legittimati a proporre il ricorso devono ritenersi altresì i soggetti che, ex art. 406 c.c., sono legittimati a proporre il ricorso per l’apertura dell’amministrazione di sostegno. Si esclude che il giudice possa procedere d’ufficio all’estensione in oggetto, vista la gravità degli effetti della stessa per il beneficiario (BONILINI). La stessa lettera dell’art. 411 c.c. sembra confermare una tale interpretazione, là dove richiede che il decreto possa essere emesso a seguito di I 51 L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO ricorso. Senza dubbio l’estensione potrà riguardare atti ancora da compiere e non potrà incidere su quelli già compiuti (CAMPESE). Il giudice potrà espressamente richiamare le norme contenenti le limitazioni da estendere al beneficiario, o prevedere semplicemente che il beneficiario sia privato della capacità in ordine ad un determinato atto. Anche in tale ultimo caso troverà applicazione la norma in materia di interdizione o di inabilitazione che preveda analoga limitazione della capacità di agire per l’interdetto o l’inabilitato. La dottrina è divisa sul punto se l’estensione potrà riguardare tutte le previsioni previste dall’ordinamento giuridico riguardo all’interdetto giudiziale e l’inabilitato: riteniamo, in ciò confortati dalle prime pronunzie giurisprudenziali in materia di amministrazione di sostegno, che una estensione generalizzata priverebbe di senso la scelta del legislatore di mantenere in vigore gli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione. Nel raffronto d’altro canto di tale strumento di tutela con quella differente misura di protezione introdotta con la citata L.6/2004, consistente nella nomina di Amministratore di Sostegno (pronuncia che l’innovato art.418 c.3 c.c. consentirebbe anche in assenza di istanza di parte), ritiene il Collegio che quest’ultima possa rivelarsi insufficiente nel caso di specie. Trattandosi invero di nomina di soggetto legittimato ad assistere o rappresentare l’incapace nei soli atti (o tipologia di atti) che lo stesso non sia in grado di compiere, quali necessari ed esattamente indicati nel decreto di nomina, e derivandone solo per tali atti, ai sensi degli artt.409 e 412 c.c., l’incapacità dello stesso di procedere in via autonoma, con conseguente annullabilità dell’atto compiuto senza assistenza o rappresentanza dell’a.d.s., tale misura si reputa sufficiente per soggetti con specifiche incapacità (in grado di esplicitare adeguatamente valide capacità residue) ovvero anche per soggetti del tutto privi di capacità, quando siano nell’impossibilità materiale di relazionarsi autonomamente con l’esterno e quindi di porre in essere comportamenti idonei a produrre effetti giuridici e negoziali, mentre può rivelarsi tutela inadeguata ove sia necessario inibire al soggetto di esplicitare all’esterno capacità viziate che espongano sé od altri a possibili pregiudizi. In altre parole si potrebbe dire che l’intervento dell’A.d.S. sembra sufficiente per soggetti anche del tutto incapaci, ove sia necessario attribuire a un terzo quei soli specifici poteri, in sostituzione dell’incapace, che gli consentano di soddisfare le ricorrenti e ben individuabili esigenze personali o patrimoniali dell’incapace stesso, mentre sia inutile estenderne la sostituzione a restanti atti che comunque l’incapace non potrà mai compiere in quanto materialmente non in grado, e cui pertanto non è necessario estende52 AIAF RIVISTA 2/2006 re l’effetto di annullabilità ove compiuti in autonomia. L’intervento dell’A.d.S. può invece presentarsi insufficiente misura di protezione per quei soggetti la cui mantenuta capacità di relazionarsi con l’esterno, ma viziata sotto il profilo della consapevolezza o volontà, li espone a compiere atti in ogni direzione dai quali possano derivarne effetti giuridici dannosi, non immediatamente annullabili ove non compresi nell’elenco di poteri riconosciuti all’Amministratore. Nel caso di specie Z, per quanto sopra accertato, non solo presenta capacità intellettive e volitive fortemente compromesse, che le impediscono di rapportarsi alla realtà con consapevolezza e discernimento e di assumere le più opportune decisioni di gestione della sua persona e del suo patrimonio, ma, sempre come effetto della patologia, si pone in atteggiamento non collaborante, passivo od oppositivo, nei confronti di chi le indichi vie di cura, e si relaziona all’esterno con capacità viziate che la espongono ad atti di circonvenzione di chi ne voglia ottenere indebiti vantaggi personali o patrimoniali. Sintomatico è il difficile rapporto instaurato con il compagno, nei cui confronti non esplicita parole di affetto, descrivendone piuttosto le richieste economiche o il comportamento assente, nervoso e violento (da cui anche l’acuirsi delle sue crisi d’ansia), ma che non riesce ad allontanare da sé, o piuttosto non vuole, non comprendendo o sottovalutando che lo stesso possa mirare unicamente a vantaggi personali (del tutto verosimile è che la stessa richiesta di matrimonio, di cui da ultimo riferiscono i genitori, sia motivata da sole aspettative di cittadinanza o di arricchimento economico, non ravvisando i ricorrenti sincero trasporto affettivo nel suo comportamento sempre assente, ancorché sia persona senza lavoro, e traendosene conferma dalle stesse parole della Z quando lamenta al CTU che la esclude dalle proprie relazioni, è spesso nervoso o anche violento). Figlia unica di genitori abbienti, la comprensibile preoccupazione di questi ultimi è che la futura acquisizione di un consistente patrimonio possa accrescere il rischio che Z, non solo non lo sappia gestire, ma possa divenire sempre più oggetto di indebite circonvenzioni, ancorché mascherate da false attenzioni o interessamento affettivo, che la stessa non sia in grado di riconoscere o arginare (Trib. Milano 21.3.05, n. 3289, in Altalex, 20.7.05). Infine, il giudice afferma espressamente l’inutilità di aprire un’amministrazione di sostegno allorché la stessa, al fine di tutelare il soggetto, finisca per avere un contenuto analogo all’interdizione. Se pertanto, al fine di garantire la più completa protezione della persona incapace, i poteri dell’Amministratore di Sostegno devono estendersi, sia a decisioni personali inerenti la cura del soggetto, sia a qualunque tipologia negoziale, con il rischio di riportare un elenco incompleto di MAGGIO - AGOSTO 2006 atti, residuandone altri non previsti che sfuggano agli effetti di annullabilità di cui agli artt. 409 e 412 c.c. (rimarrebbe sempre l’impugnabilità ex art.428 c.c., ma subordinata alla prova di malafede dell’altro contraente), e se ci si trova a dover integrare detta misura richiamando, ex art.411 c.c. e sempre a fini di tutela, disposizioni previste per l’interdetto (quali l’incapacità di contrarre matrimonio -art.85 c.c., di testare art.591 c.c., di donare -art.774 c.c.), la sovrapposizione di contenuto dei due istituti di amministrazione di sostegno e di interdizione induce a privilegiare quest’ultimo, che annulla ogni possibilità di azione del soggetto a suo danno o ne consente un immediato annullamento, riconoscendo alla persona autonomia di azione solo per specifici atti che si palesino non nocivi. Si osserva d’altro canto che la modifica, sia dell’art.414 c.c., nella parte in cui mantiene l’interdizione per i soggetti che si trovano in condizioni di abituale infermità di mente… quando ciò è necessario per assicurare la loro adeguata protezione, sia dell’art.427 c.c., ove consente di stabilire che taluni atti di ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall’interdetto, depongono per una volontà legislativa di riconoscere all’interdizione una valenza di protezione necessaria, non già per soggetti che siano necessariamente del tutto privi di capacità intellettive e volitive (per i quali, come sopra osservato, potrebbe essere sufficiente una pronuncia di nomina di A.d.S., indifferentemente prevista dall’art.404 c.c. per chi si trovi nell’impossibilità anche parziale o temporanea -e quindi anche totale o permanente- di attendere ai propri interessi), bensì per soggetti che, ancorché in grado di esplicitare capacità residuali, possano ritenersi adeguatamente protetti, da loro stessi e dagli altri, solo se li si escluda da qualunque capacità (in ciò si concretizza l’interdizione), nel senso di impedire che si producano effetti giuridici quando si attivano con modalità non sorrette da valide capacità intellettive e volitive in tutti gli ambiti (anche non immediatamente prevedibili) da cui possano derivarne pregiudizi, riconoscendo loro quei soli ambiti di azione certamente non nocivi. Ritornando pertanto al caso di specie, si ribadisce, per le ragioni sopra esposte, la necessità di proteggere Z con una pronuncia d’interdizione che, garantendole la presenza costante di un tutore che la sostituisca in tutti gli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione, sotto il controllo dell’Autorità Giudiziaria, la tuteli nella gestione e conservazione del suo patrimonio e nell’assunzione di ogni decisione attinente la cura della sua persona, ponendola ulteriormente al riparo da possibili azioni di raggiro di terzi che mascherino dietro false attenzioni intenti di personale profitto, e che coesista, ex art.427 c.c., con la possibilità riconosciutale di spendere in autonomia importi periodici. Tali importi, in linea con la situazione di fatto rappresentata al CTU dalla stessa Politi, si reputano allo stato congrui, a fronte delle emerse disponibilità della stessa quali integrate dalla famiglia, ove rimangano nell’ambito massimo di Euro 800,00 mensili, sino a che possa accertarsi che siano L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO destinate ad effettive esigenze di spesa della stessa o di gestione della casa, mentre potranno essere ulteriormente ridotti ove il Giudice Tutelare, che sovrintende alla tutela ex art.344 c.c. e che si reputa l’autorità giudiziaria competente per i successivi provvedimenti di cui all’art.427 c.c., dovesse verificarne uno sconsiderato utilizzo per soli acquisti pregiudizievoli all’interessata (ad esempio per procurarsi droga o alcol). (Trib. Milano 21.3.05, n. 3289, in Altalex, 20.7.05). L’orientamento espresso dalla pronuncia del Tribunale di Milano ci induce a concordare con quegli autori che escludono l’opportunità di estendere al beneficiario dell’amministrazione di sostegno la limitazione relativa alla capacità di contrarre matrimonio, prevista dall’art. 85 c.c. con riguardo all’interdetto per infermità di mente (BONILINI). Anche un’eventuale limitazione in ordine alla capacità di testare ex art. 591 c.c. suscita perplessità, poiché non si vede come l’atto possa danneggiare il beneficiario dell’amministrazione di sostegno, potendo al più recare pregiudizio agli eredi legittimi, la tutela dei cui interessi non dovrebbe rilevare nell’ambito dell’istituto dell’amministrazione di sostegno. Tuttavia, non possiamo escludere che i giudici tutelari reputino opportuno applicare l’art. 591 c.c. anche al beneficiario dell’amministrazione di sostegno, anche se non ci risultano ad oggi decreti che dispongano in tal senso. Di difficile soluzione si presenta il problema concernente la sussistenza o meno della capacità di donare in capo al beneficiario, poiché l’art. 779 c.c., nel richiedere la piena capacità di disporre dei propri beni ai fini della validità di una donazione, sembrerebbe escludere il beneficiario dal novero dei soggetti capaci di donare. Tuttavia, secondo alcuni autori il problema della capacità di donare del beneficiario andrebbe risolto caso per caso (DELLE MONACHE). Spetterà dunque al giudice estendere o meno la previsione di cui all’art. 774 al beneficiario. Il giudice potrà prevedere che anche determinati effetti previsti in favore dell’interdetto o dell’inabilitato si estendano al beneficiario. Sicuramente il giudice potrà richiamare la previsione di cui all’art. 2941, nn. 3 e 4 c.c. relativa alla sospensione del termine prescrizionale (DELLE MONACHE ); l’art. 183 ult. cpv., c.c., ai sensi del quale il coniuge interdetto è escluso di diritto dall’amministrazione dei beni in comunione fino a quando permanga lo stato di interdizione (CALÒ); l’art. 192 c.c. ai sensi del quale “la separazione giudiziale dei beni può essere pronunziata in caso di interdizione o di inabilitazione di uno dei 53 L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO coniugi” (CALÒ). Con riguardo al diritto successorio, il giudice potrà estendere al beneficiario l’art. 471, ai sensi del quale “Non si possono accettare le eredità devolute ai minori e agli interdetti, se non col beneficio d’inventario, osservate le disposizioni degli articoli 321 e 374”, o l’art. 472, ai sensi del quale “ I minori emancipati e gli inabilitati non possono accettare le eredità, se non col beneficio d’inventario, osservate le disposizioni dell’articolo 394”. Il giudice potrà inoltre applicare al beneficiario le norme concernenti la sostituzione fidecommissoria di cui agli artt. 692 ss. c.c. (BONILINI). Infine, il decreto di apertura dell’amministrazione di sostegno o uno successivo potranno prevedere che determinate decadenze previste per l’interdetto o l’inabilitato si estendano al beneficiario dell’amministrazione di sostegno. Ad esempio potrebbe essere estesa al beneficiario la decadenza prevista dall’art. 2382 c.c., ai sensi del quale “Non può essere nominato amministratore, e se nominato decade dal suo ufficio, l’interdetto, l’inabilitato, il fallito, o chi è stato condannato ad una pena che importa l’interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici o l’incapacità ad esercitare uffici direttivi”. Il giudice potrà anche prevedere l’estensione al beneficiario delle norme che prevedono l’estinzione di rapporti contrattuali pendenti: così, con riguardo ad un contratto di mandato, potrà trovare applicazione l’art. 1722, co. 4, c.c. Fra le norme che sicuramente potranno trovare applicazione anche nei confronti del beneficiario dell’amministrazione di sostegno deve annoverarsi l’art. 425 c.c., ai sensi del quale l’inabilitato può essere ammesso a continuare l’esercizio di un’impresa commerciale. La relativa autorizzazione sarà di competenza del giudice tutelare. Con riguardo all’esercizio di un impresa commerciale, il giudice potrebbe anche estendere al beneficiario le norme dettate dagli artt. 371 e 324 per l’interdetto (art. 411, ult. co, c.c.) - il fine dell’Amministrazione di sostegno è quello di ‘tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente (art.1 legge 9.1.2004, n.6); - la legge istitutiva dell’amministrazione di sostegno non disciplina espressamente i casi nei quali l’incapacità sopravvenuta del maggiore di età comprometta la possibilità di continuare l’esercizio di un’impresa commerciale, mentre le norme del codice civile applicabili alla società in nome collettivo, e segnatamente l’art.2294 c.c., dispongono che la partecipazione dell’incapace 54 AIAF RIVISTA 2/2006 alla s.n.c. sia subordinata all’osservanza delle disposizioni di cui agli artt.320, 371, 397, 424 e 425 c.c.; - nell’ipotesi in cui il Giudice Tutelare verifichi, nell’istruire il procedimento per Amministrazione di sostegno, la sopravvenuta incapacità d’intendere e di volere dell’amministratore di una s.n.c., è tenuto a stabilire se la nomina di un amministratore di sostegno sia idonea o meno a regolamentare, in linea con le finalità della legge, il caso concreto; - soccorre, da un lato, l’applicazione analogica dell’art.2294 c.c., che prescrive l’autorizzazione del tribunale, su parere del giudice tutelare, per la continuazione dell’esercizio di un’impresa commerciale da parte dell’interdetto (artt.371 e 424 c.c.), salva l’autorizzazione del giudice tutelare all’esercizio provvisorio in pendenza della deliberazione del tribunale; - soccorre, dall’altro lato, il criterio dettato dalla nuova formulazione dell’art.414 c.c., che delimita il confine dell’istituto dell’amministrazione di sostegno rispetto all’interdizione stabilendo che ‘il maggiore di età e il minore emancipato, i quali si trovano in condizioni di abituale infermità di mente che li rende incapaci di provvedere ai propri interessi, sono interdetti quando ciò è necessario per assicurare la loro adeguata protezione’; - non può trascurarsi, inoltre, la possibilità (riconosciuta dall’art.411, ult. co., c.c.) che il giudice tutelare, su ricorso di parte, disponga che determinati effetti, limitazioni o decadenze previsti per l’interdetto si estendano al beneficiario dell’amministrazione di sostegno; - si potrebbe, in astratto, desumere che per la continuazione dell’esercizio di un’impresa commerciale, da parte di una persona che il giudice accerti essere incapace d’intendere e di volere, le norme del codice civile sopra indicate suggeriscano di preferire la misura dell’interdizione a quella dell’amministrazione di sostegno, posto che solo nel primo caso gli atti del tutore sarebbero assoggettati al doppio vaglio dell’organo collegiale del tribunale e del giudice tutelare: non appare, infatti, seriamente contestabile che dal combinato disposto degli artt. 2294, 371 e 424 c.c. sia desumibile il principio per cui il sindacato del collegio ed il parere del giudice tutelare rappresentino lo strumento ‘necessario per assicurare l’adeguata protezione’ dell’incapace nella gestione dell’impresa commerciale; - si potrebbe, però, anche ritenere che la stessa misura dell’amministrazione di sostegno, ‘modellata’ sul caso concreto con l’estensione al beneficiario delle norme dettate dagli artt.371 e 424 c.c. per l’interdetto (art.411, ult. co., c.c.) si riveli in realtà parimenti idonea ad assicurare l’adeguata protezione dell’incapace; - vi è, d’altro canto, da valutare l’eventualità che il socio, una volta interdetto, venga escluso dalla società a norma dell’art.2286 c.c., applicabile alla società in nome collettivo in virtù del disposto dell’art.2293 c.c.: tale evenienza potrebbe far dubitare del fatto che l’interdizione sia la misura più idonea ad assicurare adeguata protezione degli interessi dell’incapace; - in ogni caso, va qui evidenziato come il giu- MAGGIO - AGOSTO 2006 dice tutelare sia stato adito per la nomina di un amministratore di sostegno provvisorio, al fine di consentire la continuazione dell’esercizio dell’impresa, attualmente paralizzata dal fatto che l’amministratrice unica della società non è in grado di sottoscrivere alcun atto e tanto meno di partecipare alle deliberazioni societarie; - la lettera della Legge 9 gennaio 2004, n. 6 consente che sia nominato un amministratore di sostegno provvisorio nelle ipotesi in cui tale misura risulti necessaria per la conservazione e l’amministrazione in via d’urgenza del patrimonio dell’interessato (art.405, 4° co., c.c.) e non esclude che tale misura venga adottata anche con riferimento a soggetti e casi in relazione ai quali si ritengano necessari, ai sensi del citato art.414 c.c., la pronuncia d’interdizione ovvero, ai sensi dell’art.411, ult.co., c.c., il ricorso per l’estensione al beneficiario dell’amministrazione di sostegno di determinati effetti, limitazioni o decadenze previsti per l’interdetto; - l’evidente urgenza di consentire la continuazione dell’attività societaria, anche nell’interesse della stessa socia Tizia, impone di accogliere il ricorso per la nomina di un amministratore di sostegno provvisorio allo specifico fine di sostituire alla beneficiaria altro socio nella carica di amministratore societario, dunque al fine di sottoscrivere, in nome e per conto di Tizia, l’atto notarile di nomina della socia yyyyy Rosalba, indicata dalla ricorrente e dagli altri congiunti sentiti personalmente, quale amministratrice della Xxxxxx di Tizia & C. s.n.c., nonché di modificazione della denominazione e ragione sociale; - sentiti i soggetti di cui all’art.406 c.c., è stato indicato concordemente Xxxxxx Giorgio, figlio dell’interessata dichiaratosi disponibile, quale persona idonea ad assumere l’incarico di Amministratore di sostegno; - risulta, in ogni caso, opportuno trasmettere copia degli atti al Pubblico Ministero in sede anche per le sue determinazioni in merito all’eventuale esercizio dell’azione d’interdizione. (Trib. Roma 17.1.05, in Altalex 10.1.05) Infine, il giudice tutelare potrà estendere all’amministrazione di sostegno la previsione di cui all’art. 2048 c.c., in materia di responsabilità dell’amministratore per danni cagionati ai terzi dal beneficiario con lui convivente. 3. AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO: PROFILI PROCESSUALI a disciplina processuale dell’amministrazione di sostegno è contenuta nelle disposizioni del XII titolo del Libro I del Codice Civile, e nell’art. 720-bis c.p.c. In particolare, gli artt. 405-413 c.c. dettano specifiche disposizioni processuali concernenti la nomina dell’amministratore di sostegno, la modifica dei provvedimenti e la revoca. I procedimenti di apertura e di cessazione dell’amministrazione di sostegno sono modellati su quelli del giudizio di interdizione, poiché l’art. L L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO 720-bis c.p.c. dispone che ai procedimenti in materia di amministrazione di sostegno si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui agli artt. 712, 713, 716, 719 e 720 c.p.c., ma in realtà le norme richiamate sono perlopiù incompatibili con la disciplina processuale dettata dagli art. 405-413 c.c. (CHIZZINI). Non sono invece richiamate le norme relative ai procedimenti in camera di consiglio di cui agli artt. 737 ss. c.p.c., che definiscono i caratteri formali e strutturali dei procedimenti di volontaria giurisdizione. Le regole procedurali relative all’amministrazione di sostegno divergono da quelle del procedimento di interdizione nella forma del provvedimento conclusivo e nella disciplina dei gravami: il provvedimento conclusivo dell’interdizione è una sentenza appellabile; mentre l’amministrazione di sostegno viene aperta con decreto reclamabile. In entrambi i procedimenti, i provvedimenti di secondo grado sono ricorribili per cassazione. La ragione di una tale affinità è dovuta al fatto che anche il provvedimento per l’apertura dell’amministrazione di sostegno presenta le caratteristiche dei processi a contenuto oggettivo, nei quali oggetto dell’accertamento è il dovere del giudice di pronunciare in presenza di una determinata situazione di fatto (TOMMASEO). Vedremo in seguito quali siano i raccordi fra il procedimento di interdizione e quello relativo all’amministrazione di sostegno. Con riguardo alla legittimazione al ricorso, si rileva come l’art. 406 c.c. richiami espressamente il catalogo dei legittimati attivi a proporre la domanda di interdizione indicati all’art. 417 c.c. - ovvero: il pubblico ministero, il coniuge, i parenti e gli affini entro un determinato grado, la persona stabilmente convivente -; inoltre è legittimato lo stesso beneficiario anche se minore, interdetto o inabilitato. Si ritiene che il beneficiario sia titolare della legittimatio ad processum e che non sia richiesto l’agire dei rappresentanti legali, salvo le condizioni soggettive dell’interessato non siano tali da non consentire una idonea gestione della vicenda processuale, ad avviso del giudice tutelare, ipotesi in cui il giudice dovrebbe poter nominare una amministratore provvisorio per la conduzione della fase processuale (CHIZZINI). Particolarmente innovativa è la previsione di cui all’art. 406, co. 3, c.c., ai sensi del quale i sevizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e nell’assistenza del disabile sono tenuti a proporre ricorso per l’apertura dell’amministrazione di sostegno. Si ritiene che la legge abbia attribuito la legittimazione agli organi che hanno la rappresentan55 L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO za esterna del servizio sociale e non ai singoli operatori, sui quali graverebbe, invece, il dovere di informare il pubblico ministero dei fatti che rendono opportuna l’apertura del procedimento. La legittimazione dei soggetti in esame si fonda sul potere di chiedere l’attuazione del diritto obiettivo e non sull’affermazione di far valere un diritto soggettivo proprio o altrui. Conseguentemente l’azione proposta da un collegittimato impedisce ad altro collegittimato di proporre l’identica domanda, poiché si ha litispendenza; inoltre l’accoglimento della domanda proposta da un collegittimato impedisce ad altro soggetto dotato di pari legittimazione di riproporre la medesima azione. La domanda si propone con ricorso al giudice tutelare del luogo in cui il disabile ha la propria residenza o il domicilio. La proposizione del ricorso da un soggetto non legittimato comporterà l’inammissibilità dello stesso. La legge prevede che al procedimento in esame non si applichi la sospensione feriale dei termini (art. 92, r.d. 30.1.41, n. 12, come modificato dall’art. 19 della legge istitutiva dell’amministrazione). Gli atti relativi all’amministrazione di sostegno non sono soggetti all’obbligo di registrazione e sono esenti dal pagamento del contributo unificato previsto dall’art. 9 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia di cui al d.p.r. 30.5.02, n. 115 (art. 46-bis disp. att. c.c.). 4. COMPETENZA E GIURISDIZIONE a legge attribuisce la competenza per materia a conoscere le domande di ammissione all’amministrazione di sostegno al giudice tutelare. Il giudice tutelare è il giudice del tribunale al quale sono state affidate le relative funzioni ai sensi dell’art. 140 d.lgs. n. 51/98. Il giudice tutelare è competente, oltre che a nominare l’amministratore di sostegno, a rimuoverlo e sostituirlo, a convocarlo, ad impartire direttive e ad autorizzare gli atti dell’amministratore ex artt. 375, 376 c.c. Se il ricorso riguarda una persona interdetta o inabilitata, la domanda deve essere presentata congiuntamente all’istanza di revoca della sentenza di interdizione e di inabilitazione, la quale, ovviamente, deve essere proposta davanti al giudice competente. Il giudice tutelare non può, dunque, conoscere l’istanza proposta nell’interesse di un interdetto se non gli viene fornita la prova della pendenza del giudizio di revoca dell’interdizione. Dubbio è se la competenza del giudice tutelare sussista quando il ricorso sia presentato nell’inte- L 56 AIAF RIVISTA 2/2006 resse di un minore. Per alcuni, infatti, essa spetterebbe al Tribunale dei Minorenni, come impone l’art. 40 disp. att. c.c. con riferimento all’art. 416 c.c. (CHIZZINI) Il decreto di ammissione dell’interdetto all’amministrazione di sostegno acquista efficacia dal momento della pubblicazione della sentenza di revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione (art. 405, co.3, c.c.). La competenza territoriale appartiene al giudice del luogo in cui il disabile ha la propria residenza o il proprio domicilio. Se il disabile è un minore avrà domicilio nel luogo di residenza della famiglia; se questi è un interdetto si farà riferimento al domicilio del tutore. Trattasi di competenza per territorio inderogabile ex art. 28 c.p.c., ai sensi del quale la competenza per territorio non può essere derogata per accordo delle parti con riguardo alle cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone (CAMPESE). Si ritiene che l’opzione per una determinata competenza alternativa vincolerà le successive evoluzioni del procedimento (CHIZZINI). Qualora il soggetto interessato sia cittadino italiano ma non abbia la residenza o il domicilio in Italia, la competenza dovrà spettare al giudice tutelare del luogo di residenza o domicilio di colui che promuove l’azione ai sensi dell’art. 18, co. 2, c.p.c., o al capo dell’ufficio consolare di I categoria - se il beneficiario è residente nella sua circoscrizione ai sensi dell’art. 35 d.p.r. n. 200/1967. Tale norma recita, infatti: “Il capo dell’ufficio consolare di I categoria, anche al di fuori delle ipotesi previste dal presente decreto, può emanare nei confronti dei cittadini residenti nella circoscrizione, e quando particolari circostanze ciò consiglino, i provvedimenti di volontaria giurisdizione, in materia di diritto di famiglia e di successione, che per le leggi dello Stato sono di competenza del giudice tutelare, del pretore e del presidente di tribunale, ivi compreso quello per i minorenni” (CHIZZINI). Allorché un soggetto non sia cittadino italiano non può ritenersi applicabile la disciplina dell’amministrazione di sostegno: infatti l’art. 43 l. 31.5.1995, n. 218 dispone che i presupposti e gli effetti delle misure di protezione degli incapaci maggiori di età, ed i rapporti fra l’incapace e chi ne ha cura sono regolati dalla legge nazionale dell’incapace. Esclusivamente per proteggere in via provvisoria e urgente la persona e i beni dell’incapace, il giudice potrà adottare le misure previste dalla legge italiana. Tuttavia, là dove la legge nazionale rinvii indietro alla legge italiana (ex art. 13 l n. 218/1995), o allorché l’istituto straniero sia compatibile con MAGGIO - AGOSTO 2006 l’amministrazione di sostegno, tale istituto potrà essere applicato al disabile straniero. L’assetto normativo descritto muterà, allorché sarà in vigore la Convenzione de L’Aja del 13.1.00 sulla Protezione Internazionale degli Adulti, il cui art. 5 prevede che sono competenti a prendere provvedimenti relativi alla protezione della persona le autorità giudiziarie e amministrative dello Stato contraente nel quale il soggetto risieda, e che, in caso di cambio di residenza del soggetto, sono competenti le autorità dello Stato in cui questi abbia la nuova residenza. Ex art. 13 le Autorità applicheranno il diritto nazionale nell’esercizio della competenza loro attribuita dalle disposizioni del capitolo II. 5. LA PROPOSIZIONE DEL RICORSO a fase introduttiva del procedimento inizia con il deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale competente, adempimento che produce la costituzione del ricorrente ed implica la pendenza del processo. La norma di cui all’art. 407 deve essere integrata dall’art. 125 c.p.c., norma che disciplina il contenuto del ricorso, il quale dovrà, dunque, contenere l’indicazione del giudice adito; l’indicazione del ricorrente (nome, cognome e residenza); l’indicazione del beneficiario, specificandone anche la dimora abituale; la prova - se necessaria - della preventiva presentazione dell’istanza di revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione; l’indicazione del coniuge, dei discendenti, degli ascendenti, dei fratelli e dei conviventi del beneficiario, se conosciuti dal ricorrente, e, ove conosciuto, del loro domicilio; le ragioni per cui si richiede la nomina dell’amministratore. La legge non prevede che il ricorrente formuli le proprie conclusioni. Si ritiene che la previsione di cui all’art. 407 co.1, c.c. imponga al ricorrente di indicare, oltre ai presupposti per l’apertura dell’amministrazione di sostegno, anche gli atti per i quali si chiedono gli interventi di sostegno e l’indicazione della persona a cui affidare l’amministrazione (TOMMASEO). Eventuale è l’indicazione dell’amministratore da nominarsi mediante rinvio all’atto di designazione di cui all’art. 408 c.c. Inoltre, là dove il beneficiario sia in grado di intendere e di volere, tale indicazione può essere inserita nel ricorso stesso. La mancanza di uno o più di tali requisiti provoca la nullità dell’atto introduttivo, qualora impedisca a quest’ultimo di raggiungere lo scopo obiettivo a cui è preordinato. Altrimenti, eventuali vizi del ricorso relativi all’esposizione di fatti, potranno rendere necessaria un’integrazione, su istanza delle parti, o attraverso l’utilizzo dei L L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO poteri inquisitori da parte del giudice. Dubbio è se la domanda possa essere proposta verbalmente al giudice tutelare. Una tale possibilità è prevista, per i procedimenti di competenza del giudice tutelare, nei casi urgenti, dall’art. 43 disp. att. c.c., ai sensi del quale “I provvedimenti del giudice tutelare sono emessi con decreto. Nei casi urgenti la richiesta di un provvedimento può essere fatta al giudice anche verbalmente”. Tuttavia, si ritiene che tale regola possa trovare applicazione esclusivamente con riguardo alle domande che non esigono la difesa tecnica e quindi nella gestione dell’amministrazione di sostegno, ma non per la domanda di apertura dell’amministrazione di sostegno (TOMMASEO). In generale, con riguardo all’amministrazione di sostegno, la legge non specifica se le parti possano stare in giudizio personalmente o se sia necessario il ministero di un difensore. Con riguardo all’interdizione, la Cassazione ritiene pacifico che l’interdicendo possa costituirsi nel giudizio di interdizione esclusivamente col ministero di un difensore. La peculiarità del procedimento di interdizione ed inabilitazione - determinate dalla natura e non disponibilità degli interessi coinvolti, dagli ampi poteri inquisitori del giudice e dalla stessa revocabilità della sentenza che lo conclude non escludono il rispetto delle norme in tema di patrocinio delle parti in giudizio e segnatamente di quella che impone il patrocinio di un procuratore legale abilitato ad esercitare presso il tribunale adito, con conseguente nullità insanabile del ricorso sottoscritto da procuratore privo dello “ius postulandi”, perché iscritto all’albo di altro distretto. (Cass. 22.6.94, n. 5967, in Mass. Giust. civ., 1994, fasc. 6). In quest’ottica l’art. 716, c.p.c., ai sensi del quale “L’interdicendo e l’inabilitando possono stare in giudizio e compiere da soli tutti gli atti del procedimento, comprese le impugnazioni, anche quando è stato nominato il tutore o il curatore provvisorio previsto negli articoli 419 e 420 c.c.)”, deve essere interpretato nel senso che l’interdicendo e l’inabilitando mantengono piena capacità processuale. La “ratio” dell’art. 716 c.p.c., a norma del quale l’interdicendo non perde la capacità processuale di agire e contraddire nel giudizio di interdizione, pur dopo che gli è stato nominato un tutore provvisorio, è di consentirgli di difendere il diritto all’integrale conservazione della capacità di agire. Ne deriva da un lato che il predetto tutore non è parte necessaria di tale giudizio, non configurandosi un interesse della tutela all’esito del medesimo; dall’altro che il tutore 57 L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO provvisorio non assume la veste, nel giudizio di interdizione, di rappresentante processuale dell’interdicendo (Cass. 16.11.00, n. 14866, in Mass. Giust. civ., 2000, 2349) Anche la nomina del curatore provvisorio non priva l’inabilitando della capacità processuale con riguardo agli atti del procedimento di inabilitazione La nomina, ai sensi del comma 3 dell’art. 419 c.c., del curatore provvisorio all’inabilitando anticipa cautelarmente gli effetti della pronuncia definitiva e priva, quindi, l’inabilitando della capacità di stare in giudizio senza l’assistenza del curatore, tranne che per gli atti del procedimento di inabilitazione, nel quale, in virtù della specifica disposizione dell’art. 716 c.p.c., l’inabilitando può stare in giudizio e compiere da solo tutti gli atti del procedimento anche quando sia stato nominato il curatore provvisorio (Cass. 15.11.94, n. 9634, in Mass. Giust. civ., 1994, fasc. 11). In dottrina è dubbio se il procedimento di ammissione dell’amministrazione di sostegno costituisca un giudizio contenzioso che culmina con un provvedimento dichiarativo suscettibile di acquistare l’autorità di cosa giudicata, non riconducibile ai procedimenti camerali di giurisdizione volontaria. Secondo alcuni, infatti, il procedimento relativo all’apertura dell’amministrazione di sostegno si concluderebbe con un provvedimento non idoneo al giudicato, e si configurerebbe come un procedimento di volontaria giurisdizione non finalizzato all’accertamento di uno status ma funzionale alla gestione degli interessi del soggetto (CHIZZINI). Argomento posto a sostegno di tale tesi è la previsione di cui all’art. 407 c.c., ai sensi del quale il giudice tutelare può modificare o integrare in ogni tempo, anche d’ufficio, le decisioni assunte con il decreto di nomina dell’amministratore, potere ritenuto incompatibile con il sistema del giudicato (CHIZZINI). In tale ultima ottica, il giudice tutelare, ove lo ritenga necessario, nominerà per il procedimento un amministratore di sostegno provvisorio nella persona di un difensore tecnico, ma non è necessaria la difesa tecnica.. Tali argomentazioni ci sembrano apprezzabili, tuttavia, vedremo come la giurisprudenza in argomento sia divisa.. La legge notarile attribuisce al notaio la facultas postulandi negli affari di giurisdizione volontaria per i quali è richiesto il suo ufficio: di conseguenza il notaio potrà assistere sicuramente il beneficiario nei reclami contro gli atti dell’amministratore (art. 410 c.c.); nelle istanze per l’esten58 AIAF RIVISTA 2/2006 sione al beneficiario di regole dettate per l’interdetto (art. 411, co. 4, c.c.), per la sostituzione dell’amministratore inidoneo (art. 413, co. 1, c.c.). Deve trattarsi di istanze connesse con l’esigenza di compiere stipulazioni (ex art. 1, l. notarile). Si noti, infine, che il procedimento per l’apertura dell’amministrazione di sostegno può anche essere attivato se, nel corso del giudizio di interdizione o di interdizione, appaia opportuno applicare l’amministrazione di sostegno: infatti, in tali ipotesi, il giudice, d’ufficio o ad istanza di parte, disporrà la trasmissione del procedimento al giudice tutelare (art. 418 c.c.). Oggetto del processo: “interdizione”. (…) Conclusioni Per l’attrice:. “Addivenire alla pronuncia della sentenza di interdizione di C.M. ai sensi dell’art. 414 c.c. con contestuale nomina del suo tutore; (…) Nel corso della causa è mutato il quadro normativo. Ai fini della decisione dovrà pertanto tenersi conto delle innovazioni apportate con la legge 9 gennaio 2004, n. 6 recante “Introduzione nel libro primo, titolo XII, del codice civile del capo I, relativo all’istituzione dell’amministrazione di sostegno e modifica degli articoli 388, 414, 417, 418, 424, 426, 427 e 429 del codice civile in materia di interdizione e di inabilitazione, nonché relative norme di attuazione, di coordinamento e finali”. (…) Dopo la legge 9 gennaio 2004, n. 6 l’interdizione e l’inabilitazione si presentano quali misure aventi carattere residuale. A tali conclusioni si giunge sulla base dell’interpretazione letterale e sistematica del complesso di norme oggi racchiuse sotto il titolo XII del libro primo del codice civile (“Delle misure di protezione delle persone prive in tutto od in parte di autonomia”). In estrema sintesi, basti qui ricordare che: - il legislatore ha espressamente dichiarato di voler perseguire “la finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente” (art. 1, l. 9 gennaio 2004, n. 9); - a tale scopo è stato introdotto il nuovo istituto dell’amministrazione di sostegno (art. 404 c.c.: “La persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare del luogo in cui questa ha la residenza o il domicilio”) volto a fornire una protezione commisurata alle concrete esigenze di tutela della persona (cfr. gli artt. 405, 4° e 5° co., 407, 2° co., 408, 1o co., 410 c.c.) senza determinare in via automatica e generale una privazione o riduzione della capacità di agire (art. 409 c.c.: “Il beneficiario conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di MAGGIO - AGOSTO 2006 sostegno. Il beneficiario dell’amministrazione di sostegno può in ogni caso compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana”; v. anche l’art. 411, 4° co., c.c.); - l’art. 414 c.c. è stato riformulato in termini restrittivi, non solo perché è venuto meno (nella rubrica e nel testo) il riferimento alle persone che “devono” essere interdette, ma soprattutto perché non potrà pronunciarsi l’interdizione quando ciò non sia “necessario” ad assicurare alla persona una “adeguata protezione” e dunque quando sia possibile ricorrere ad una diversa e meno invasiva misura di tutela, da individuarsi in linea generale nell’amministrazione di sostegno (“Persone che possono essere interdette. - Il maggiore di età e il minore emancipato, i quali si trovano in condizioni di abituale infermità di mente che li rende incapaci di provvedere ai propri interessi, sono interdetti quando ciò è necessario per assicurare la loro adeguata protezione”). Ciò premesso nel caso di specie neppure risultano sussistenti i presupposti sostanziali richiesti dall’art. 414 c.c. (o dall’art. 415 c.c.). (…) In realtà, alla luce della nuova disciplina delle misure di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia, un’adeguata tutela della signora M.C. può essere realizzata applicando l’amministrazione di sostegno (cfr. l’art. 418, 3° co., c.c.), tanto più che, come sottolineato dallo stesso C.T.U., una diversa collocazione ambientale (ad es. in un gruppo appartamento) è idonea a risolvere o contenere gli stati patologici da cui la convenuta è occasionalmente affetta. La riduzione dell’autonomia della convenuta può essere adeguatamente fronteggiata dall’amministrazione di sostegno. L’art. 6 della l. 9 gennaio 2004, n. 6 ha aggiunto quale ultimo comma dell’art. 418 c.c. la seguente disposizione: “se nel corso del giudizio di interdizione o di inabilitazione appare opportuno applicare l’amministrazione di sostegno, il giudice, d’ufficio o ad istanza di parte, dispone la trasmissione del procedimento al giudice tutelare. In tal caso il giudice competente per l’interdizione o per l’inabilitazione può adottare i provvedimenti urgenti di cui al quarto comma dell’articolo 405”. La disciplina processuale così delineata non è di agevole interpretazione (e ha già dato origine a differenti letture) anche sotto il profilo del coordinamento con altre previsioni (ad es. l’art. 422 c.c., non toccato dalla riforma). L’ampia formula “nel corso del giudizio di interdizione o di inabilitazione” (ricorrente anche nel nuovo terzo comma dell’art. 429, 3° co., c.c., ma già presente nel secondo comma dello stesso art. 418 c.c., rimasto immutato) si riferisce ad ogni momento, cioè ogni stato o fase (trattazione, istruzione, decisione) del procedimento in occasione del quale “il giudice” possa ravvisare i presupposti per la nomina di un amministratore di sostegno. Il giudice di cui parla l’art. 418, 3° co., c.p.c. va identificato col tribunale in composizione collegiale (cfr. l’art. 429, 3° co., c.c.). Il giudice istruttore potrà limitarsi a segnalare il L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO caso al giudice tutelare per i provvedimenti urgenti, qualora non ritenga di rimettere la causa al collegio. L’espressione “trasmissione del procedimento al giudice tutelare” deve intendersi come trasmissione degli atti ai fini dell’attivazione del procedimento per la nomina di amministratore di sostegno (cfr. l’art. 429, 3° co., c.c.). Nell’attuale quadro normativo sono astrattamente ipotizzabili tre esiti del giudizio d’interdizione o d’inabilitazione: a) accoglimento dell’istanza (sia pure in via residuale); b) rigetto dell’istanza puro e semplice; c) rigetto dell’istanza con trasmissione degli atti al giudice tutelare per l’applicazione dell’amministrazione di sostegno. Ad avviso del collegio, mentre il provvedimento di trasmissione degli atti al giudice tutelare assume forma e contenuto di ordinanza, occorre pur sempre una sentenza che pronunci sull’istanza di interdizione. È vero che l’art. 418, 3° co., c.c. non ne parla espressamente ma tale soluzione, oltre che conforme alla regola secondo cui il procedimento in esame si conclude con sentenza che accoglie o rigetta la domanda (regolando se del caso le spese processuali), da un lato appare simmetrica a quella disciplinata dall’art. 429, 3° co., c.c. (“Se nel corso del giudizio per la revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione appare opportuno che, successivamente alla revoca, il soggetto sia assistito dall’amministratore di sostegno, il tribunale, d’ufficio o ad istanza di parte, dispone la trasmissione degli atti al giudice tutelare”), non essendo dubbio che il giudizio per la revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione debba concludersi con sentenza (artt. 430-431 c.c.); dall’altro garantisce al soccombente, o comunque al soggetto che ne abbia interesse e sia legittimato ex art. 718 c.p.c., la possibilità di chiedere il controllo da parte del giudice dell’impugnazione, tanto più che il giudice tutelare al quale vengono rimessi gli atti non è vincolato nella sua decisione dall’orientamento espresso nell’ordinanza collegiale. In conclusione, respinta l’istanza di interdizione, va disposta la trasmissione di copia degli atti al giudice tutelare. Non si ravvisa la necessità di adottare provvedimenti urgenti. Il costo della C.T.U. viene posto definitivamente a carico della ricorrente (Trib. Bologna 18.1.05, in Altalex, 23.4.05.) Il giudice tutelare deve provvedere alla nomina dell’amministratore di sostegno nel termine di sessanta giorni dalla data del deposito del ricorso (art. 405, co. 1). La fase introduttiva del procedimento è disciplinata dalle regole processuali concernenti i giudizi di interdizione e di inabilitazione: l’art. 720bis c.p.c., infatti, richiama, in quanto compatibili, le norme di cui all’art. 713 c.p.c., ai sensi del quale il presidente ordina la comunicazione del ricorso al pubblico ministero, e, quando questi gliene fa richiesta, può con decreto rigettare senz’altro la domanda. Altrimenti nomina il giu59 L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO dice istruttore e fissa l’udienza di comparizione davanti a lui del ricorrente, dell’interdicendo o dell’inabilitando, e delle altre persone indicate nel ricorso, le cui informazioni ritenga utili.. Tale norma prevede, altresì, che il ricorso e il decreto siano notificati a cura del ricorrente, entro il termine fissato nel decreto stesso, alle persone indicate nel comma precedente. Il decreto è comunicato, inoltre, al pubblico ministero. Si ritiene che un’applicazione compatibile dell’art. 713 c.p.c. implichi che non si possa affidare al presidente la valutazione preventiva della domanda di apertura dell’amministrazione di sostegno. Di conseguenza, i poteri che la norma attribuisce al presidente del tribunale nel giudizio di interdizione devono essere considerati spettanti al giudice tutelare (TOMMASEO). Seguendo una tale ricostruzione la fase introduttiva del procedimento di apertura dell’amministrazione di sostegno risulterà così strutturata: il giudice tutelare, ricevuto il ricorso, ordinerà la comunicazione al pubblico ministero; fisserà con decreto in calce al ricorso l’udienza di comparizione davanti a sé, ordinerà al cancelliere di comunicarlo al pubblico ministero; assegnerà un termine al ricorrente affinché questi provveda a notificare il ricorso e il decreto all’inabile e alle persone indicate nell’atto introduttivo, le cui informazioni ritenga utili. I soggetti indicati nel ricorso non sono parti necessarie del contraddittorio, ma il decreto viene notificato esclusivamente a coloro che possano fornire al giudice utili informazioni. I legittimati al ricorso possono intervenire volontariamente nel processo ed assumere la qualità di parte, anche qualora il giudice non abbia disposto la notificazione nei loro confronti. 60 AIAF RIVISTA 2/2006 Inoltre, essi possono impugnare con reclamo il decreto di apertura pronunciato dal giudice tutelare e chiederne la revoca, anche qualora non abbiano partecipato al giudizio di apertura dell’amministrazione di sostegno. 6. IL PROBLEMA DELLA DIFESA TECNICA bbiamo accennato nel paragrafo precedente ai dubbi suscitati dalla nuova normativa con riguardo alla necessità o meno della difesa tecnica, nell’ambito dei procedimenti relativi all’amministrazione di sostegno. La questione vede divisa in primo luogo la dottrina ma anche la giurisprudenza. In alcune pronunce si legge, infatti, che il procedimento di apertura dell’amministrazione di sostegno ha lo scopo di consentire al giudice tutelare di organizzare la più efficace gestione degli interessi di un inabile, e che si tratta di un procedimento di giurisdizione volontaria che non incide sui diritti o status dalla parte e non esige, pertanto, il ministero di un difensore. Esso si distinguerebbe, pertanto, dai giudizi di cognizione che incidano su diritti o status personali. A (a) L’analisi di natura e regolamento del procedimento introdotto dalla legge n. 6 del 2004 porta a ritenere la piena legittimazione ad agire in giudizio di parte ricorrente senza il patrocinio di un difensore tecnico; donde la piena ammissibilità del ricorso; ad avviso del giudicante il patrocinio non sarebbe comunque necessario ancorché il ricorrente non fosse il beneficiario e cioè in forza delle considerazioni qui di seguito esposte. (b) Secondo l’orientamento, da condividere, del giudice della legittimità, la natura del procedimento di interdizione e di inabilitazione è quella tipica camerale; tale natura deve essere riconosciuta, a maggiore ragione, al procedimento per l’istituzione dell’amministratore di sostegno che è destinato, tra l’altro, a concludersi con decreto dichiarato reclamabile dall’art. 739 c.p.c. (c) È noto al giudicante che la specifica natura del procedimento non rileva, peraltro, ai fini della qualificazione contenziosa o volontaria del giudizio così come gli è noto che costituisce orientamento dominante quello per cui il procedimento di interdizione e inabilitazione rientra nella prima categoria; il che appare, del resto, tecnicamente corretto per trattarsi di processo di cognizione, sia pur speciale, costitutivo di uno status della persona perchè destinato ad incidere, ablativamente e stabilmente, sulla sua capacità. (d) Da queste caratteristiche del procedimento interdittivo e inabilitativo si snoda la necessità del patrocinio ex art. 82 c.p.c. secondo una regola generale applicabile a tutti i giudizi che, pur strutturati secondo il rito camerale, incidano costitutivamente, su diritti soggettivi e status personale. (e) Sennonché è proprio quest’ultimo aspetto MAGGIO - AGOSTO 2006 che, a ben guardare, fa difetto nel modello introdotto dalla legge n. 6 del 2004 con la duplice e concatenata conseguenza della riconducibilità della fattispecie alla giurisdizione volontaria e dell’inoperatività dell’art. 82 cit. c.p.c. secondo una conclusione agevolmente enucleabile dalla disciplina, sia sostanziale che processuale, del nuovo istituto. (f) Rovesciando completamente presupposti e oggetto dell’interdizione e dell’inabilitazione, il legislatore del 2004 ha varato regole che, lungi dal tutelare patrimonio, traffici mercantili e terzi, sono rivolte alla protezione esclusiva della persona; un rovesciamento che si è espresso, e sono soltanto alcuni dei momenti significativi, nel fare assurgere a regola la capacità di agire, nel renderne possibili limitazioni caso per caso e, preferibilmente, parziali, nell’escludere ogni definitività alle ablazioni eventualmente e nominativamente disposte, nel porre come suggello giurisdizionale non una sentenza ma un decreto modificabile “in ogni tempo” (art. 407, ult. co., c.c.), un provvedimento, dunque, che, in quanto tale, è insuscettibile di dar corpo al giudicato. (g) Così stando le (nuove) cose è corretto riconoscere nell’amministrazione di sostegno uno strumento non confezionato per (né destinato ad) accertare uno status e, tantomeno, ad incidere costitutivamente sullo stesso ma, più propriamente, istituzionalmente rivolto a garantire la più efficace gestione degli interessi della persona tramite l’intervento del Giudice Tutelare con l’utilizzo di un provvedimento che va riconosciuto come classica espressione dell’esercizio della volontaria giurisdizione. (h) Porta conforto alla conclusione la riflessione sulle regole processuali degli “articoli 712, 713, 716, 719 e 720 “ in materia di interdizione e inabilitazione dichiarate applicabili, dall’art. 720 bis cpc introdotto dalla legge n. 6 del 2004, ai procedimenti di amministrazione di sostegno “in quanto compatibili”; un conforto che si trae dalla constatazione dello scarso significato di un richiamo che convalida il giudizio delle radicali differenze fra le due categorie di figure e, quindi, dell’esigenza per l’interprete di evitare l’errore di una trasposizione acritica alla seconda dei pilastri su cui, nel corso di quasi due secoli, venne edificata la prima; invero: - la forma della domanda (art. 712) è specificamente regolamentata dalla legge del 2004; - le prescrizioni rubricate “Provvedimenti del presidente” (art. 713 c.p.c.) non danno alcun serio apporto per la valutazione del procedimento; - poiché il novellato art. 406 cc regolamenta la capacità processuale del beneficiario, la specialità della norma vanifica il significato dell’art. 716 cpc; - l’art. 719 c.p.c. appare ragionevolmente sostituito dal richiamato art. 739 c.p.c. che disciplina il reclamo dei procedimenti in camera di consiglio; - l’art. 720 c.p.c. si occupa, infine, della revoca dell’interdizione e dell’inabilitazione, di un aspetto, cioè, specificamente regolamentato, quanto all’amministratore di sostegno, dal L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO novellato art. 413 c.c. (i) La concatenazione delle considerazioni che precedono porta quindi ad escludere che nel procedimento di amministrazione di sostegno si configuri la necessità di quella difesa tecnica la cui previsione venne del resto e non a caso espunta in sede di lavori preparatori parlamentari quando il relatore ritirò l’emendamento secondo cui “in ogni fase del procedimento l’interessato è assistito da un difensore” (Trib. Modena 22.2.05, in Fam. e dir., 2005, 180-182) Tale pronuncia è stata criticata da quella dottrina che ha rilevato come il carattere meramente facoltativo del ministero e dell’assistenza di un difensore nei procedimenti camerali di giurisdizione volontaria è affermazione non scontata alla luce della nuova disciplina del processo societario, là dove la difesa tecnica è richiesta per tutti i procedimenti camerali di giurisdizione volontaria bi - o plurilaterali, mentre è considerata facoltativa anche per i procedimenti unilaterali (cfr. art. 25 d.lgs. 17.1.03, n. 5) (TOMMASEO). Si noti tuttavia che la giurisprudenza maggioritaria si esprime nel senso del carattere facoltativo della difesa tecnica nei procedimenti di volontaria giurisdizione. Poiché nei procedimenti di volontaria giurisdizione non è necessario il patrocinio di un procuratore legalmente esercente, prescritto dall’art. 82 c.p.c. per il caso di partecipazione al giudizio, nella controversia per la designazione dell’erede più idoneo a subentrare nella posizione di assegnatario di terreno di riforma fondiaria, di cui all’art. 7 della l. 29 maggio 1967 n. 379 - che è soggetta al rito camerale - la parte può proporre personalmente il reclamo avverso il provvedimento del tribunale. (Cass. 3.7.87, n. 5814, in Mass. Giust. civ., 1987, fasc. 7) La Suprema Corte rileva come la regola di cui sopra non trovi applicazione nelle ipotesi in cui il procedimento sia previsto per la tutela di situazioni sostanziali di diritti o di status. Qualora il procedimento camerale tipico, disciplinato dagli art. 737 ss. c.p.c., sia previsto per la tutela di situazioni sostanziali di diritti o di status - come avviene, ex art. 5, comma 4, legge n. 117 del 1988 per il procedimento di ammissibilità della domanda di risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie - esso deve essere completato con le forme adeguate all’oggetto, tra le quali rientra il patrocinio di un procuratore legalmente esercente; con la conseguenza che il reclamo avverso provvedimento in camera di consiglio sottoscritto da procuratore esercente extra districtum e da altro abilitato nel distretto ma indicato solo come domiciliatario, se non è seguito dalla 61 L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO costituzione in giudizio di procuratore esercente nel distretto e menzionato nella procura, è affetto da nullità insanabile. (Cass. 30.7.96, n. 6900, in Mass. Giust. civ., 1996, 1083). Abbiamo visto come il procedimento di amministrazione di sostegno non rientri in tali categorie: esso infatti è finalizzato a proteggere e gestire gli interessi del beneficiario e non incide costitutivamente sullo status della persona, a differenza dei procedimenti relativi all’interdizione e all’inabilitazione, ragion per cui, a nostro avviso, non vi è motivo per ritenere necessaria la difesa tecnica nei procedimenti di amministrazione di sostegno. La profonda differenza esistente fra i procedimenti in questione e quelli di interdizione e di inabilitazione è stata, del resto, a più riprese rilevata dalla giurisprudenza di merito. (…) va, in primo luogo, dichiarata l’ammissibilità del ricorso presentato personalmente dall’Assistente Sociale Isabella Xxxxx, sia perché si tratta di responsabile del Servizio Sociale che ha in cura Xxxxx Francesco, sia perché la particolare posizione di taluni soggetti legittimati a proporre ricorso (con particolare riferimento, per l’appunto, ai responsabili dei Servizi Sociali, art.406, 3° co.,c.c.), la natura non contenziosa del procedimento (desumibile, tra l’altro, dall’attribuzione della competenza al giudice tutelare e dalla non idoneità al giudicato del provvedimento di nomina dell’Amministratore di sostegno in considerazione della mutevolezza della situazione sostanziale sulla quale viene ad incidere, artt.407, 4° co., e 413 c.c.), la finalità preminente del nuovo istituto di assicurare un sistema facilmente accessibile di adeguata gestione degli interessi del beneficiario, inducono ad escludere l’applicabilità al procedimento in esame del principio dell’onere del patrocinio previsto dall’art.82 c.p.c. (Trib. Roma 19.2.05) Si noti che quanto si è detto sopra non ha trovato accoglimento in parte della giurisprudenza di merito: in particolare, la Corte di appello di Milano ha accolto l’impostazione da noi criticata, ritenendo che il ricorso per l’apertura dell’amministrazione di sostegno debba essere sottoscritto, a pena di nullità, da un difensore e ciò per il rinvio, operato dalla legge, alla disciplina dei giudizi di interdizione, e per l’esigenza di assicurare alle parti la compiuta attuazione del diritto di difesa in procedimenti che incidono sulla capacità del soggetto di operare nel mondo giuridico e quindi su una situazione che rientra in quel ristretto nucleo di “diritti inviolabili dell’uomo” a cui fanno riferimento gli artt. 2 Cost. e 8 Cedu: un’esigenza che deve necessariamente essere attuata, vista la natura dei diritti coinvolti, in un giusto processo con 62 AIAF RIVISTA 2/2006 lo strumento della difesa tecnica. (…) letto il decreto impugnato, con cui il Giudice Tutelare presso il Tribunale di Milano, sezione distaccata di Legnano, in data 1-3 giugno 2004, ha rigettato il ricorso proposto da G.C. e M. D. diretto ad ottenere la nomina di un amministratore di sostegno ex lege n. 6/2004 nell’interesse del loro figlio A.C., nato a … il …, affetto da tetraparesi in esiti di encefalopatia perinatale con grave compromissione delle acquisizioni motorie e con conseguente totale ed assoluta invalidità; …Omissis… - considerato che il procedimento in esame è stato introdotto con ricorso non sottoscritto da un difensore tecnico, ma personalmente proposto dagli interessati e che quindi, in via preliminare, la Corte è tenuta ad esaminare d’ufficio la questione attinente alla regolarità del rapporto processuale, stante la nullità insanabile - e, quindi, l’inettitudine ad instaurare un processo valido - dell’atto introduttivo non sottoscritto dal difensore, ove ne sia richiesto il patrocinio (Cass. 16.3.99, n. 2316; Cass. 14.4.94, n. 3491; Cass. 30.10.84, n. 5543; Cass. 7.11.78, n. 5077; Cass. 12.9.77, n. 3939). - rilevato che l’art. 82 c.p.c., il quale stabilisce il principio per cui davanti al tribunale le parti possono stare in giudizio solo “col ministero di un procuratore legalmente esercente”, sancisce la regola generale dell’obbligatorietà della difesa tecnica, mentre la difesa personale delle parti è, come dispone il co. 3 dell’art. 82 c.p.c., eccezione limitata ai casi stabiliti dalla legge, di cui alcuni enunciati dallo stesso codice di rito (artt. 86, 462, 707 c.p.c.), altri previsti in leggi speciali (es. art. 736 bis c.p.c. introdotto dall’art. 5 l. n. 154/2001; art. 35, co. 10, l. n. 833/1978; art. 22 l. n. 689/1981; art. 82, co. 6, d.l. n. 570/1960); (…) - ritenuto inoltre che i continui raccordi tra gli istituti dell’interdizione, dell’inabilitazione e dell’amministrazione di sostegno quali sono disciplinati dagli artt. 418, 429, e 431, co. 4, c.c. sono stati previsti proprio per consentire l’utilizzazione dell’una o dell’altra forma di tutela ai fini di realizzare la migliore protezione degli interessi dell’inabile, con ciò evidenziando non solo la necessaria omogeneità degli istituti sotto il profilo processuale, di cui sopra si è detto, ma anche la loro omogeneità sotto molteplici profili sostanziali, peraltro sancita dall’art. 411 c.c., a norma del quale si applicano all’amministrazione di sostegno, in quanto compatibili con le peculiarità del nuovo istituto, le norme del codice civile che riguardano la scelta del tutore (artt. 349-353 c.c.) la gestione della tutela, la gratuità dell’ufficio, la responsabilità del titolare dello stesso (artt.374-378) (v. in tal senso Trib. Padova 21.5.04); rilevato peraltro che le peculiarità del procedimento in esame, peraltro comuni a quello di interdizione e di inabilitazione così come individuate dalla Suprema Corte proprio con riferimento a questi ultimi due procedimenti (v. Cass. 22.6.94, n. 5967), determinate dalla natura e MAGGIO - AGOSTO 2006 dalla non disponibilità degli interessi coinvolti, dagli ampi poteri in inquisitori del giudice, dalla posizione dei soggetti legittimati a presentare il ricorso e ad impugnare il provvedimento, dalla sua particolare pubblicità e dalla sua stessa revocabilità, non escludono che esso si configuri come un procedimento contenzioso speciale e resti disciplinato, con le forme del giudizio contenzioso; -ritenuto inoltre che non appare incompatibile con la tesi esposta neppure la legittimazione ad agire attribuita ai responsabili dei servizi sanitari e sociali in quanto l’indisponibilità del diritto e la natura e rilevanza degli interessi in gioco ben si concilia con il riconoscimento di tale legittimazione a soggetti in via legislativa considerati portatori adeguati dell’interesse generale, o più genericamente solidaristico, che giustifica la compressione o ablazione richiesta, ma sempre nel rispetto della pienezza della tutela giurisdizionale del diritto status inciso; - ritenuto d’altronde che il ricorso sempre più frequente alle forme camerali in virtù di un’abbondante legislazione speciale, anche laddove si verta in tema di diritti soggettivi o status, con il precipuo scopo di assicurare speditezza al procedimento grazie alle sue peculiarità strutturali di maggiore efficienza (…) impone comunque l’applicazione delle “forme necessarie per costituzionalizzare la cameralizzazione della procedura in materie in materie estranee al suo terreno di elezione, onde conformarla all’oggetto del giudizio e renderla, quindi, compatibile con i precetti costituzionali attraverso l’apporto di un coerente tasso di giurisdizionalizzazione (del modello originario) ricavabile dal sistema in via interpretativa, se non esplicato dal legislatore” (Cass. 27.2.89, n. 1066); rilevato che tale indirizzo è anche quello più volte suggerito dalla Corte Costituzionale che con le sue sentenze interpretative ha in qualche misura attenuato il congenito deficit di garanzie proprio del modello camerale nello sforzo di farne un vero e proprio modello alternativo, che viene preferito a quello ordinario di cognizione, a seconda delle differenziate esigenze di tutela delle situazioni sostanziali da proteggere, e che ha, da ultimo, sottolineato, con la sentenza 2630.1.02, n. 1, come le lacune processuali devono essere colmate con i consueti strumenti interpretativi, che impongono l’applicazione dei principi previsti per i procedimenti contenziosi utilizzando un criterio ermeneutica che si fonda sull’obbligo di dare alle norme interpretazioni conformi al dettato della Costituzione, soprattutto con riferimento al rispetto del diritto del contraddittorio, all’esercizio del diritto di difesa nei suoi diversificati profili ed alla partecipazione diretta al procedimento di tutti gli interessati, compreso lo stesso beneficiario, nonché sull’obbligo di applicare norme contenute nelle convenzioni internazionali, dotate di efficacia imperativa nell’ordinamento interno. (App. Milano 11.1.05, in Fam. e dir., 2005, 178-180). A questo punto la Corte procede alla disamina della natura e della funzione del procedimento L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO di amministrazione di sostegno, rilevandone l’idoneità ad incidere sulla capacità di agire della persona in maniera analoga all’interdizione. - ritenuto che le esposte considerazioni impongono di procedere alla disamina della natura e della funzione del procedimento di amministrazione di sostegno che indiscutibilmente appare volto a produrre effetti parzialmente ablativi o comunque limitativi della capacità d’agire, e pertanto, effetti che incidono sulla possibilità di un soggetto di operare nel mondo giuridico e che coinvolgono situazioni soggettive che fanno parte di quel nucleo ristretto di “diritti inviolabili dell’uomo” cui fa riferimento l’art. 2 Cost.; ritenuto che appare allora evidente come l’impatto dell’amministrazione di sostegno su questa essenziale dimensione della persona, anche se può interessare solo alcuni aspetti della vita civile nelle sue espressioni giuridicamente rilevanti, non differisce in qualità dagli effetti che scaturiscono dall’interdizione e verosimilmente può essere anche più incisivo di quello proprio dell’inabilitazione, con la conseguenza che situazioni soggettive di siffatta natura possono essere oggetto di compressione o di parziale ablazione solo tramite un processo che offra a chi ne è titolare il massimo delle garanzie e segnatamente quelle inerenti al diritto di difesa (art. 24 Cost.), il quale include l’applicazione dell’art. 82 c.p.c. e implica, perciò, che l’atto introduttivo del “giudizio” cameralizzato debba essere, irrinunciabilmente, sottoscritto dal difensore (art. 125 c.p.c.). (In tal senso v. Cass. n. 1066/89 cit.), anche se simile conclusione non comporta di necessità che le attività processuali di mera gestione dell’amministrazione di sostegno debbano essere ugualmente sorrette dalla difesa tecnica; ritenuto inoltre che l’esposta lettura del dato normativo che questa Corte è chiamata ad applicare non solo lo rende conforme al dettato costituzionale ma consente di evitare che lo stesso possa risolversi nella violazione dei fondamentali principi della persona, quali sono sanciti nella Convenzione europea dei diritti umani, firmata a Roma il 4 novembre 1950; - rilevato infatti che, con l’entrata in vigore nel nostro ordinamento della Convenzione europea, la funzione di garanzia che l’art. 2 Cost. assicurava ai diritti di libertà in essa espressamente previsti è stata arricchita dalle nuove e concrete garanzie, sia formali che sostanziali, che la Convenzione assicura, e che tra le posizioni soggettive che godono del duplice sistema di garanzia indubbiamente rientra il diritto al rispetto della vita privata riconosciuto dall’art. 8 della CEDU, che tende a proteggere la dignità dell’essere umano, sia sotto l’aspetto dell’integrità fisica che di quella morale (CE 26.3.85, X e Y c. Paesi Bassi, Sèrie A, n. 91, par. 22), comprendendo anche “il diritto per l’individuo di instaurare e sviluppare relazioni sociali” (CE 16.12.92, Niemietz c. Germania, Serie A, n. 251 B, par. 29) incluse quelle relative “all’ambito professionale e commerciale” (CE 7.8.96, C c. Belgio, Serie A, n. 915, par. 25); 63 L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO ritenuto peraltro che l’ingerenza nell’esercizio dei diritti e delle libertà individuali da parte dei pubblici poteri si uniforma al generale principio di equilibrio fra opposti interessi, ugualmente legittimati e degni di protezione, alla stregua del quale va effettuata la necessaria comparazione tra i singoli diritti individuali e tra questi e i diritti collettivi, e, per essere conforme alla CEDU, deve rispettare certi requisiti di forma e di sostanza e, primo fra tutti, il requisito della legalità, in forza del quale non è sufficiente che esista una base legale che autorizzi un’ingerenza nell’esercizio di un diritto, ma occorre che la legge assicuri una protezione sufficiente contro possibili ingerenze illegittime da parte delle pubbliche autorità, cioè occorre che “l’estensione e le modalità di esercizio di un simile potere siano definite con sufficiente chiarezza, tenuto conto dello scopo legittimo in gioco, al fine di fornire all’individuo una protezione adeguata contro l’arbitrio” (CE 27.3.96, Goodwin c. Regno Unito, Serie A, n. 483, par. 31); - rilevato, al riguardo, che secondo la costante giurisprudenza della Corte, “anche se l’art. 8 non contiene alcuna condizione esplicita di procedura, occorre che il processo decisionale che comporta provvedimenti di ingerenza sia equo e rispetti opportunamente gli interessi dell’individuo protetti dall’art. 8” (CE 25.9.96, Buckley c. Regno Unito, Recueil 1996, IV, par. 76; CE 24.2.95, Mc Michael c. Regno Unito, Serie A, n. 307 B, par. 87), e che ciò impone che il provvedimento giurisdizionale volto ad incidere sulla capacità di un soggetto di operare nel mondo giuridico e, quindi, ad influire sull’identità della persona, debba essere il risultato di un procedimento in cui operi il principio del contraddittorio in una struttura dialettica sia tra le parti, sia tra le parti e il giudice, così da evitare che la decisione possa essere frutto dell’ingerenza del pubblico potere, senza assicurare al destinatario degli effetti del provvedimento la possibilità di esporre le proprie ragioni e di espletare un controllo pieno sulla legalità degli atti del procedimento medesimo attraverso l’esercizio del diritto di difesa che non può che essere attuato, vista la natura dei diritti coinvolti, attraverso lo strumento della difesa tecnica; consiste nel proteggere diritti non già teorici ed illusori, ma concreti ed effettivi, realizzando, attraverso un equo processo, l’esigenza della parità delle armi nel senso di un giusto equilibrio tra le parti (ricorrente, beneficiario, pubblico ministero), dando a ciascuna di esse la possibilità ragionevole di presentare la causa, davanti ad un giudice indipendente ed imparziale, in condizioni che non lo pongano in una situazione di netto svantaggio rispetto alle altre (CE Raffineries grecques Stran e Stratis Andreadis c. Grecia 9.12.94, Sèrie A, n. 301 B, par. 46) (App. Milano 11.1.05, in Fam. e dir., 2005, 178-180). L’orientamento espresso dalla Corte di Appello di Milano si conforma a quanto gia affermato dal Tribunale di Padova, il quale ha affermato chiaramente che nel procedimento di apertura dell’amministrazione di sostegno le parti debbono 64 AIAF RIVISTA 2/2006 stare in giudizio con il ministero di un difensore, trattandosi di un giudizio che attiene allo status e ai diritti delle persone La legge 9.1.04, n. 6 non contiene alcuna disposizione che escluda la necessità della difesa tecnica per il procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno; dunque a detto procedimento, che attiene allo status delle persone, si applica la regola generale di cui al comma 3 dell’art. 82 c.p.c. Il rilievo normativo testuale di cui sopra è di per sé sufficiente per affermare la necessità della difesa tecnica nel procedimento in oggetto. (…) il procedimento per la nomina dell’amministratore di sostegno è finalizzato ad un provvedimento giurisdizionale che influisce sullo stato e sui diritti delle persone. (Trib. Padova 21.6.04, in Fam e dir., 2004, 607-609). Nell’auspicare un intervento della Corte di Cassazione sul punto, ci pare, comunque, opportuno sottolineare come il Tribunale di Parma abbia emesso due decreti di nomina di un amministratore di sostegno, su ricorso presentato direttamente dagli interessati (Trib. Parma 2.4.04, decr. n. 536 e decr. n. 537, in Notar., 4, 2004, 396398). In sede di commento a tali decreti si è rilevato come “ l’impostazione della legge n. 6/04 e talune sue chiare disposizioni, sembrerebbero tese, in modo sostanzialmente univoco, all’instaurazione di un rapporto diretto fra beneficiario (anche in fieri) e giudice tutelare, tale da dare ragione alle circolari varie, diffuse anche dai tribunali, secondo le quali “non è necessaria l’assistenza di un avvocato” (CALÒ). 7. LE FASI SUCCESSIVE DEL PROCEDIMENTO a seconda fase del procedimento è quella istruttoria. Ex art. 407, co. 3, c.c. il giudice tutelare deve provvedere comunque sul ricorso, non rilevando la mancata comparizione delle parti, le quali non possono rinunciare agli atti. La legge non offre indicazioni generali con riguardo all’istruzione probatoria nel procedimento di apertura dell’amministrazione di sostegno: non viene richiamato l’art. 738, co. 3, c.p.c. in materia di procedimenti camerali, né l’art. 714 c.p.c. che disciplina l’istruzione probatoria nel procedimento di interdizione. La disciplina di tale fase è contenuta nell’art. 407 c.c., che prevede l’audizione dell’interessato, la quale si svolge in un procedimento nel cui ambito il giudice deve tener conto dei bisogni e delle richieste dell’interessato, quando ciò sia compatibile con gli interessi e le aspirazioni di questi e con le esigenze di protezione della persona. Qualora sia necessario, il giudice dovrà anche L MAGGIO - AGOSTO 2006 recarsi nel luogo dove si trova l’interessato. Al giudice è riconosciuto un ampio margine di discrezionalità nel condurre tale mezzo di istruzione probatoria: è escluso che si applichi il sistema per capitolazione dei fatti (CHIZZINI) Dell’audizione deve essere redatto idoneo verbale. L’audizione dell’inabile non è considerata espressamente una condizione per la pronuncia nel merito, ma l’art. 407, co. 2, c.c. stabilisce che il giudice deve sentire personalmente la persona cui il procedimento si riferisce. Ragion per cui deve ritenersi che la mancata audizione, non obiettivamente giustificata, causa la nullità del procedimento (CAMPESE). Il giudice può procedere all’audizione dei soggetti cui è stato notificato il ricorso introduttivo, interrogandoli liberamente, allo scopo di acquisire ogni informazione utile per verificare i presupposti dell’apertura dell’amministrazione e determinare il contenuto del decreto; inoltre la legge gli attribuisce altri poteri inquisitori (art. 407, co. 3) ed in particolare quello di disporre d’ufficio di tutti i mezzi istruttori utili ai fini della decisione, e di ordinare accertamenti di natura medica, o di disporre una consulenza tecnica per verificare le condizioni fisiche e psichiche del soggetto disabile. Si ritiene che, in generale, il giudice possa fare ricorso anche ad altri mezzi di prova previsti dal codice di rito, come ordinare l’ispezione di persone o cose ai sensi dell’art. 118 c.p.c.; e che le parti possano richiedere una prova testimoniale, una consulenza tecnica (artt. 61 s e 191 s c.p.c.), una ispezione, ovvero possano produrre documenti. I poteri inquisitori del giudice sussistono per tutta la durata dell’amministrazione di sostegno (art. 44 disp. att. c.c.). Si noti che la legge non impone un’articolazione in udienze del procedimento in esame, articolazione prevista, invece, per il processo di interdizione: la questione vede divisa la dottrina fra coloro secondo i quali “mancano (…) nel procedimento in esame udienze in senso proprio, delineandosi solo l’audizione dei vari soggetti interessati e con finalità probatorie, per l’espletamento dell’eventuale contraddittorio, secondo la tipica struttura del procedimento camerale” (CHIZZINI); e coloro che sostengono che il procedimento possa essere articolato in udienze (TOMMASEO). La fase di decisione non è disciplinata dalla legge, e sono inapplicabili le regole di diritto processuale previste per il passaggio in decisione nei processi contenziosi a rito ordinario. Spetterà dunque al giudice regolare tale fase consentendo alle parti di precisare le proprie conclusioni, di illustrarle, discutendole davanti a lui o in memorie difensive. Ex art. 405 c.c., egli deve provvedere entro ses- L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO santa giorni dalla data di presentazione della richiesta di nomina dell’amministratore di sostegno, con decreto motivato immediatamente esecutivo. La motivazione può essere sintetica, ma deve essere adeguata, poiché è previsto il ricorso per cassazione. Il decreto deve contenere quanto prescrive l’art. 405, co. 5 c.c., e dunque: le generalità del beneficiario e dell’amministratore di sostegno, l’oggetto e la durata dell’incarico, gli atti che richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno, la periodicità delle relazioni che questi deve presentare al giudice tutelare sull’attività svolta e sulle condizioni del beneficiario, e l’entità delle somme - di cui il beneficiario ha o può avere la disponibilità - da prelevare, anche con cadenza periodica per far fronte alle necessità dell’amministrazione. In genere, il decreto autorizzerà l’amministratore a compiere gli atti di ordinaria amministrazione. visto l’art. 405 c.c.,. 1. nomina in favore di XXXXX FRANCESCO, nato a xxxxx il 16 dicembre 1986, l’Amministratore di Sostegno nella persona dell’ AVV. GRAZIANO XXXXX, con le funzioni ed i poteri qui di seguito specificati; 2. dispone che la durata dell’incarico sia a tempo indeterminato ed abbia ad oggetto la rappresentanza del Beneficiario nonché l’amministrazione del patrimonio del medesimo; 3. autorizza l’Amministratore di sostegno a compiere in nome e per conto di XXXXX FRANCESCO, senza necessità di ulteriore autorizzazione del Giudice Tutelare, con poteri di rappresentanza esclusiva e salvo obbligo di rendiconto annuale, tutti gli atti civili di ordinaria amministrazione; 4. autorizza l’Amministratore di sostegno a riscuotere nell’interesse del Beneficiario gli emolumenti a lui dovuti a titolo pensionistico ed a curare tutte le pratiche a tal fine necessarie, previa apertura di un conto ovvero di un libretto, postale o bancario, intestato a XXXXX FRANCESCO con annotazione del nome dell’Amministratore quale legittimato ad operare, facendo in modo che su detto conto vengano ad essere accreditate tutte le entrate dell’amministrazione (pensioni, indennità, ecc.); 5. autorizza l’Amministratore di sostegno a prestare il consenso agli accertamenti medici di routine che si rendano di volta in volta necessari per la cura della salute del Beneficiario; 6. dispone che ogni atto di straordinaria amministrazione, ivi incluso il consenso ad interventi chirurgici, debba essere previamente autorizzato dal giudice tutelare; 7. dispone che l’Amministratore di sostegno tenga conto dei bisogni e delle aspirazioni del Beneficiario ed informi il Beneficiario degli atti da compiere, ove ciò sia possibile; 8. dispone che l’Amministratore di sostegno informi periodicamente il Giudice Tutelare circa le condizioni di vita personali e sociali del 65 L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO Beneficiario, della consistenza patrimoniale e reddituale del medesimo, rendendo il conto dell’attività svolta mediante deposito in Cancelleria di una relazione-rendiconto entro i primi 90 giorni dal conferimento dell’incarico e, successivamente, entro il 31 dicembre di ogni anno, corredata dalla documentazione comprovante le principali voci di reddito e di spesa afferenti il periodo considerato. Nella relazione (o in qualsiasi momento mediante deposito in Cancelleria di un ricorso scritto o verbalmente al Giudice Tutelare previo appuntamento) l’Amministratore di sostegno potrà indicare eventuali diverse ed ulteriori esigenze da gestire nell’interesse del Beneficiario; 9. fissa per il giuramento dell’Amministratore di sostegno l’udienza del xxxxx; 10. dispone l’efficacia immediata del presente decreto ai sensi dell’art. 741 c.p.c. (Trib. Roma 19.2.05) mentre per quelli di straordinaria amministrazione sarà richiesta un’ulteriore autorizzazione, poiché l’art. 411 c.c. richiama gli artt. 375 e 376 c.c. Visto gli artt. gli art. 405 e 407 c.c. nomina la signora P. Crocifissa, nata a Riesi (CL) l’, residente in Genova, amministratore di sostegno, a tempo indeterminato, di Z. Crocifissa, nata a Butera (CL) il, residente in Genova; determina come segue l’oggetto dell’incarico: 1) assistenza personale per quanto di necessità della beneficiaria (anche per il tramite di terze persone) al fine di consentirle, per quanto possibile, il rientro presso la sua attuale abitazione; 2) stipula e cura dell’esecuzione del contratto di lavoro con una o più badanti (o con un’eventuale Cooperativa di servizi), assumendosi tutti i relativi incombenti (ivi compresa la posizione INPS); 3) riscossione, accredito e gestione (per quanto riguarda l’ordinaria amministrazione) della pensione, e dell’eventuale indennità di accompagnamento di spettanza della beneficiaria, con facoltà di compiere in nome e per conto della predetta tutte le pratiche, amministrative e non, volte a migliorare la situazione previdenziale e dunque patrimoniale della stessa (ivi compresa la domanda per il conseguimento dell’indennità di accompagnamento ove non ancora proposta); 4) apertura se necessario o opportuno di un conto corrente intestato alla sola beneficiaria (ove non già esistente), con potere di firma in capo all’amministratore di sostegno che potrà liberamente movimentare il suddetto conto; 5) gestione e amministrazione ordinaria del bene immobile di proprietà della beneficiaria, con facoltà di partecipare - anche a mezzo delega intestata a persona di sua fiducia - alle assemblee condominiali; 6)conservazione e gestione di eventuali risparmi di pertinenza del beneficiario; 7) gestione ed eventuale definizione dei rapporti di debito esistenti con l’Istituto V., già Istituto P., nel caso di trasferimento dell’amministrata presso la propria abitazione; 8) facoltà di richiedere agli altri congiunti le somme di denaro costituenti la quota parte su di 66 AIAF RIVISTA 2/2006 essi gravante a titolo di mantenimento della madre (sia con riguardo alla retta dell’Istituto, ove essi già non vi abbiano provveduto, sia con riguardo alle spese relative all’assistenza domiciliare, comprensiva delle spese ordinarie e/o straordinarie riguardanti la salute della congiunta, e a quelle connesse alla gestione della casa, ove non siano sufficienti le risorse dell’amministrata); 9) presentazione annuale della dichiarazione dei redditi, ove richiesta ai sensi di legge, e pagamento delle tasse e delle utenze a carico della beneficiaria; atti che l’amministratore può compiere in nome e per conto della beneficiaria: tutti quelli necessari per far fronte all’oggetto dell’incarico come sopra precisato, con la precisazione che per gli atti di straordinaria amministrazione l’amministratore di sostegno dovrà essere autorizzato dal giudice tutelare. (Trib. Genova 1.3.05, in Altalex 23.4.05) Tuttavia, nella prassi giurisprudenziale l’amministratore è stato spesso autorizzato nel decreto stesso al compimento di singoli atti di straordinaria amministrazione. Tanto premesso il Giudice:. nomina amministratore di sostegno di S. I. nata a Jesi il ____, generalizzata in atti, il ricorrente B. S. nato a ____ il _____, senza limitazioni particolari, con il limite di spesa mensile per tutti i bisogni dell’amministrato di euro 1.300 e salvo restando le norme che assicurano il controllo da parte del GT e degli altri soggetti a ciò legittimati. Lo autorizza a provvedere nella maniera più consona alla situazione nell’interesse di suo zia, con una prima relazione che farà pervenire al GT, con deposito in cancelleria, e comunque non oltre 40 gg. da oggi, non appena sarà in grado di avere a disposizione i dati necessari. Stante la precaria situazione di salute dell’amministrato, l’amministratore, d’intesa con il medico curante, provvederà anche a predisporre la migliore sistemazione possibile compatibilmente con l’idoneità e disponibilità delle strutture sanitarie e/o di assistenza, per sua zia provvedendo anche agli atti che si rendano opportuni o necessari per la migliore tutela della salute della parente (es. atti urgenti di consenso informato, ove l’amministrata non sia in grado di provvedere da solo ovvero esclusivamente da solo, in quest’ultimo caso controfirmando), consultandosi con i familiari ricompresi nel novero dei soggetti di cui all’art. 406 c.c.. L’amministratore di sostegno non avrà limiti particolari nel predisporre atti nell’interesse dell’amministrata, nei limiti delle disponibilità patrimoniali e reddituali dello stesso e previa autorizzazione del GT per gli atti di straordinaria amministrazione. Gli atti di ordinaria amministrazione non necessitano di autorizzazione. Autorizza specificamente i seguenti atti: - Riscossione della pensione mensile di euro 412,18 salvo aggiornamenti, con rilascio di quietanza; - Riscossione della pensione sociale di euro MAGGIO - AGOSTO 2006 294,93; - Presentazione di istanze ad uffici pubblici ai fini di assistenza, anche sanitaria, e di sussidi; - Presentazione della dichiarazione dei redditi ed altri obblighi formali e sostanziali di natura fiscale; - Gestione del conto corrente n.______ presso la _____ di Jesi (con specifica rendicontazione al GT) (Trib. Ancona 17.3.05) In diverse pronunce l’amministratore è stato autorizzato ad accettare eredità con beneficio d’inventario NOMINA xxxxx Rosella, sopra generalizzata, Amministratore di sostegno di xxxx Mauro, sopra generalizzato, e la autorizza a: 1. rappresentare xxxxxx Mauro, agendo in nome e per conto del medesimo, nella gestione patrimoniale che lo riguarda, provvedendo all’apertura di un conto corrente postale intestato unicamente al beneficiario, sottoponendolo al vincolo del giudice tutelare, su quale dovranno essere accreditati direttamente la pensione d’invalidità e l’indennità di accompagnamento, nonché tutti gli altri redditi e/o emolumenti a lui spettanti, provvedendo a chiudere altri conti correnti bancari intestati o cointestati al beneficiario; 2. operare sul conto di cui al n. 1), prelevando l’importo necessario alla vita del beneficiario, che si quantifica, allo stato, nell’importo della pensione d’invalidità e dell’indennità di accompagnamento, mettendolo a disposizione del beneficiario o di sua madre con lui convivente; 3. accettare, per conto ed in nome di xxxxx Mauro, l’eredità del padre xxxxx Pasquale, con beneficio d’inventario; 4. curare l’amministrazione ordinaria del patrimonio immobiliare del beneficiario, e sottoporre all’autorizzazione di questo Giudice qualsiasi atto eccedente l’ordinaria amministrazione; 5. rappresentare il beneficiario, agendo in nome e per conto del medesimo, nel predisporre e sottoscrivere eventuali atti e/o istanze alla pubblica amministrazione o a soggetti privati diretti al conseguimento di sussidi o equipollenti, di documenti d’identità, di prestazioni di natura assistenziale a favore del beneficiario, ed alla presentazione della denuncia dei redditi dello stesso; 6. occuparsi delle questioni che riguardano la vita personale del beneficiario, curando che il medesimo sia adeguatamente curato ed assistito. Dispone che il presente incarico abbia durata a tempo indeterminato e che l’Amministratore di sostegno depositi ogni anno, entro il 31 dicembre, una relazione sulle condizioni di vita personali e sociali del beneficiario ed il rendiconto relativo al patrimonio del medesimo, corredato da documentazione attestante le principali voci di reddito e di spesa relative al periodo considerato. (Trib. Roma 22.04.05, in Altalex 13.5.05) Si ritiene che il giudice non possa limitarsi ad aprire l’amministrazione di sostegno, riservando ad ulteriori e successivi decreti l’indicazione L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO degli atti per i quali sarà necessaria l’assistenza o la rappresentanza dell’amministratore, poiché “se questo fosse possibile - traendo debole argomento dall’art. 15 della legge in commento che fa oggetto della pubblicità gli estremi essenziali del provvedimento di apertura e non anche il suo specifico contenuto - il decreto collocherebbe il disabile in uno stato di incapacità legale, salvo che per gli atti necessari alle esigenze della vita quotidiana (art. 409, co. 2)” (TOMMASEO). Eventualmente, il giudice tutelare potrà prevedere, nel provvedimento con il quale nomina l’amministratore di sostegno, che alcuni effetti, limitazioni o decadenze, previsti da disposizioni di legge per l’interdetto o l’inabilitato, si estendano al beneficiario dell’amministrazione di sostegno. Tali provvedimenti accessori potranno essere modificati indipendentemente dal contenuto principale del decreto di apertura dell’amministrazione. Il decreto dovrebbe disporre anche sulle spese; in mancanza di una tale disposizione, si ritiene esse rimangano a carico di chi le ha sostenute (CHIZZINI). Ex art. 405, co. 1, c.c. il decreto di apertura è immediatamente esecutivo; mentre l’efficacia dei decreti riguardanti minori e interdetti o inabilitati decorre dal momento del raggiungimento dell’età maggiore o dalla pubblicazione della sentenza di revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione. Qualora sia proposto reclamo avverso i provvedimenti in esame, è dubbio se l’efficacia possa essere sospesa: in dottrina si è proposto di applicare per analogia la disciplina dell’inibitoria, in virtù della quale il ricorrente in reclamo dovrà ottenere dal giudice di appello la sospensione dell’efficacia del decreto d’apertura, ove sussistano i gravi motivi per concederla di cui all’art. 283 c.p.c.. La legge disciplina anche una forma di tutela cautelare che consente al giudice tutelare di provvedere in caso di urgenza, pronunciando gli opportuni provvedimenti urgenti per la cura della persona interessata e per la conservazione del suo patrimonio, e di nominare un amministratore di sostegno provvisorio che compia gli atti urgenti individuati dal giudice (art. 405, co. 4). Si tratta di provvedimenti soggetti al potere di revoca e modifica del giudice che li ha emessi e ai gravami di cui all’art. 720-bis c.p.c.. Anche l’art. 411 c.c. disciplina una forma di tutela urgente allorché nel corso del giudizio di interdizione emerga l’opportunità di optare per l’amministrazione di sostegno, e il giudice dell’interdizione debba procedere a trasmettere gli atti del procedimento al giudice tutelare: in queste ipotesi, infatti, il giudice dell’interdizione può adottare i provvedimenti urgenti di cui all’art. 405 c.c. Dubbia è la possibilità di applicare ai provvedi67 L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO menti di cui sopra gli artt. 669-bis c.p.c. ss., disposizioni che disciplinano i procedimenti cautelari: alcuni autori ritengono, infatti, che non si possa parlare di provvedimenti cautelari in senso proprio, ma di provvedimenti volontari interinali (CHIZZINI). 8. CESSAZIONE DELL’AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO, REVOCA E MODIFICA DEL DECRETO DI APERTURA amministrazione di sostegno cessa, ovviamente, in caso di morte del beneficiario; mentre nell’ipotesi di dichiarazione di morte presunta, di scomparsa e di assenza dello stesso è dubbio se l’ufficio cessi o rimanga in stato di quiescenza. Riteniamo che essa cessi anche allorché l’interessato venga interdetto o inabilitato. Ex art. 413 c.c. può essere proposta istanza di revoca dell’amministrazione di sostegno quando si siano determinati i presupposti per la cassazione dell’amministrazione di sostegno o per la sostituzione dell’amministratore. Il decreto di apertura dell’amministrazione di sostegno è suscettibile di essere revocato anche quando la stessa si riveli idonea a realizzare gli interessi del beneficiario. Si ritiene che l’istanza di revoca sia inammissibile finché sia pendente il giudizio di impugnazione o non sia spirato il relativo termine (CAMPESE). Legittimati ad esercitare l’azione di revoca dell’amministrazione di sostegno sono l’amministratore, il beneficiario, il pubblico ministero e gli altri legittimati a proporre il ricorso introduttivo ex art. 406 c.c. (art. 413 c.c.). Il procedimento ha le stesse caratteristiche di quello di apertura, in base a quanto stabilisce l’art. 720 c.p.c., ai sensi del quale “Per la revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione si osservano le norme stabilite per la pronuncia di esse”: in particolare l’istanza dovrà avere la forma del ricorso e dovrà contenere l’esposizione dei motivi per i quali si richiese la revoca. La legge stabilisce, onde garantire un adeguato contraddittorio, che l’istanza debba essere comunicata al beneficiario e all’amministratore di sostegno, qualora essa sia proposta da diversi soggetti da questi ultimi. Tali soggetti sono considerati parti necessarie nel procedimento di revoca. Eccezionalmente, il giudice tutelare può provvedere, anche d’ufficio, alla dichiarazione di cessazione dell’amministrazione di sostegno, quando questa si sia rivelata inidonea a realizzare la piena tutela del beneficiario, e - se ritiene che si debba promuovere giudizio di interdizione o di inabilitazione - ne informa il pubblico ministero, affin- L’ 68 AIAF RIVISTA 2/2006 ché provveda a iniziare tali giudizi (art. 413 c.c.). In questi casi l’amministrazione di sostegno cessa con la nomina del tutore o del curatore provvisorio, ai sensi dell’articolo 419 c.c., ovvero con la dichiarazione di interdizione o di inabilitazione. Si tratta di un’ulteriore ipotesi di concorso tra l’amministrazione di sostegno ed i procedimenti di interdizione e di inabilitazione. Si ritiene che, in tali ipotesi, nel caso si concluda prima il procedimento di revoca dell’amministrazione di sostegno, si avrà la pronuncia di un provvedimento la cui efficacia è condizionata sospensivamente alla pubblicazione della sentenza d’interdizione o inabilitazione o alla nomina almeno del tutore o curatore provvisorio (CHIZZINI). Conseguentemente, qualora venga rigettata l’azione di interdizione o di inabilitazione, non opererebbe un presupposto di efficacia per la dichiarazione di revoca, e permarrebbe l’amministrazione di sostegno. Il provvedimento di revoca dell’amministrazione di sostegno deve essere annotato nel registro delle amministrazioni di sostegno e nell’atto di nascita. Oltre ad essere revocato, il decreto di apertura può essere modificato o integrato: il giudice tutelare può infatti, anche d’ufficio, in ogni tempo, emettere un provvedimento modificativo o integrativo (art. 407 c.c.). Ai sensi dell’art. 408 cc., egli potrà esonerare e sostituire l’amministratore, mentre, ai sensi dell’art. 405, egli potrà prorogare l’incarico a tempo determinato. La legge non disciplina i procedimenti di gestione dell’amministrazione di sostegno, ma deve farsi riferimento alle disposizioni comuni ai procedimenti in camera di consiglio per integrare la disciplina processuale dell’istituto in esame. Competente a conoscere della revoca e della modifica del provvedimento sarà il giudice tutelare che ha emanato il provvedimento di nomina, là dove non si siano modificati la residenza o il domicilio; in caso di modifica della residenza o del domicilio, invece, l’istanza dovrà essere proposta al giudice competente territorialmente ai sensi della nuova residenza o domicilio. La legge non si esprime con riguardo agli effetti dei provvedimenti in esame nei confronti dei terzi, ma si ritiene che debbano essere fatti salvi i diritti acquistati dai terzi in buona fede con convenzioni antecedenti alla revoca o modifica, ai sensi dell’art. 742 c.p.c. (CHIZZINI). Strumentali a tali provvedimenti sono i poteri di controllo attribuiti al giudice tutelare: in particolare l’amministratore deve periodicamente riferire circa l’attività svolta (art. 405 c.c.); il giudice deve essere informato di eventuali contrasti fra amministratore e beneficiario (art. 410 c.c.), e MAGGIO - AGOSTO 2006 può convocare l’amministratore in ogni momento per avere informazione ed impartire istruzioni inerenti gli interessi del minore. Infine, il giudice si pronuncia con riguardo ai reclami contro gli atti dell’amministratore proposti dal beneficiario o dai soggetti legittimati all’azione di apertura ex art. 410, co. 2, adottando i provvedimenti opportuni con decreto motivato. 9. IMPUGNAZIONI on riguardo alla disciplina delle impugnazioni, il nuovo art. 720-bis c.p.c. stabilisce che contro i decreti del giudice tutelare è ammesso reclamo alla Corte d’appello a norma dell’art. 739 c.p.c., ai sensi del quale la Corte d’appello pronuncia anch’essa in camera di consiglio, e il reclamo deve essere proposto nel termine perentorio di dieci giorni dalla comunicazione del decreto, se è dato in confronto di una sola parte, o dalla notificazione, se è dato in confronto di più parti. La competenza a conoscere il reclamo avverso i decreti del giudice tutelare spetta, dunque, alla Corte di appello. Si tratta di una impugnazione di natura sostitutiva, a critica libera. La legittimazione ad impugnare in reclamo spetta a tutti coloro che hanno partecipato al giudizio. Dubbio è se essa spetti a soggetti che - pur essendo legittimati a proporre il ricorso - non siano stati parti del procedimento nella pregressa fase di giudizio: infatti l’art. 720-bis richiama l’art. 719 c.p.c. e non l’art. 718, norma che eccezionalmente attribuisce la legittimazione ad impugnare anche a tali soggetti. Riteniamo, tuttavia, che siano legittimati anche tali ultimi soggetti, argomentando dal richiamo agli artt. 719 e 720 c.p.c. effettuato dall’art.720-bis c.p.c. In particolare, l’art. 720 c.p.c. recita: “ Per la revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione si osservano le norme stabilite per la pronuncia di esse. Coloro che avevano diritto di promuovere l’interdizione e l’inabilitazione possono intervenire nel giudizio di revoca per opporsi alla domanda, e possono altresì impugnare la sentenza pronunciata nel giudizio di revoca, anche se non parteciparono al giudizio”. Ora, se la legittimazione ad impugnare la sentenza di revoca dell’amministrazione di sostegno spetta anche a coloro che non parteciparono al giudizio, non ci sembra logico argomentare che il legislatore, non richiamando l’art. 718 c.p.c., abbia voluto escludere la legittimazione di tali soggetti ad impugnare il decreto di apertura. Ex art. 719 c.p.c. il termine per impugnare decorre dalla notificazione della sentenza fatta nelle forme ordinarie a tutti coloro che parteciparono C L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO al giudizio, ovvero il ricorrente, il pubblico ministero, il beneficiario e i soggetti legittimati al ricorso intervenuti nel giudizio. L’impugnazione deve essere proposta nel termine di dieci giorni decorrenti dalla data della notificazione del decreto per coloro che hanno partecipato a giudizio. Per coloro che non hanno partecipato decorre dalla data dell’ultima notificazione. In difetto di notificazione, il reclamo non potrà essere proposto oltre il termine ordinario di un anno: la giurisprudenza di legittimità, infatti, applica tale termine anche ai decreti pronunciati nei procedimenti camerali.. Il ... si duole anzitutto della violazione degli artt. 323 - 325 c.p.c., assumendo che il decreto del tribunale per i minorenni ex art. 274 c.c., stante la sua natura decisoria, non soggiace al termine di cui all’art. 739 c.p.c., esclusivamente proprio dei procedimenti di “volontaria giurisdizione”, e che erroneamente, quindi, la Corte di Bari aveva dichiarato la inammissibilità dell’impugnazione; lamenta inoltre che i giudici del merito non abbiano tenuto conto della sentenza n. 341-1990 della Corte costituzionale, secondo cui, in caso di minore infrasedicenne, va accertato l’interesse del medesimo alla dichiarazione giudiziale di paternità. La prima doglianza è infondata e il rigetto della stessa, rendendo irretrattabile il decreto del Tribunale per i minorenni di Bari, preclude l’esame della seconda censura. Invero questa Corte ha stabilito che i provvedimenti del tribunale sull’ammissibilità dell’azione di dichiarazione di paternità o maternità naturali sono reclamabili, ai sensi dell’art. 739 c.p.c., entro dieci giorni dalla notificazione o, in difetto di questa, nel termine di cui all’art. 327 c.p.c. (sentenze 16 giugno 1983 n. 4130; 26 luglio 1989 n. 3505). A ciò non osta la natura decisoria che si voglia attribuire ai provvedimenti stessi né la esperibilità, contro il decreto pronunciato in sede di reclamo, del ricorso per cassazione ex art. 111, secondo comma, Cost.: il tipo camerale del procedimento, cui si collegano la forma del provvedimento (decreto) e la disciplina della sua impugnabilità (reclamo entro dieci giorni), non è di per sé incompatibile col carattere contenzioso del giudizio e col riferirsi di questo a diritti soggettivi o status, come è stato chiarito anche nella giurisprudenza costituzionale (sentenze 543 e 573 del 1989). Il peculiare rimedio di cui all’art. 739 c.p.c. e il breve termine suo proprio non trovano applicazione unicamente quando, pur trattandosi di procedimento camerale, il provvedimento conclusivo assume la forma della sentenza. In tale ipotesi, riferendosi l’art. 739 c.p.c. esclusivamente ai decreti, la sentenza, se notificata, è impugnabile nel termine di trenta giorni, ma il procedimento di secondo grado ricade ancora entro il modello camerale e l’impugnazione, pertanto, deve essere proposta con ricorso da depositarsi in cancelleria entro il predetto termi69 L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO ne (v., fra altre, sentenza 8567-1991, nonché la sentenza deliberata da questo stesso Collegio il 13 luglio 1993 sul ricorso n. 2492-91, in corso di pubblicazione). Nella specie, concludendosi con un decreto il procedimento di ammissibilità di cui all’art. 274 c.c., trova applicazione l’art. 739 c.p.c. e il termine di dieci giorni dalla notificazione dallo stesso previsto, per cui correttamente la Corte di Bari ha dichiarato la tardività dell’impugnativa davanti ad essa proposta. Il ricorso va dunque rigettato con la condanna del ricorrente alle spese. (Cass. 28.1.94, n. 869, in Mass. Giust. civ., 1994, 89) La Corte di appello esercita i poteri officiosi spettanti al giudice di primo grado: di conseguenza essa potrà disporre l’apertura dell’amministrazione di sostegno qualora oggetto dell’impugnazione sia un decreto di rigetto pronunciato dal giudice tutelare. Il procedimento di svolgerà con le stesse modalità che caratterizzano il procedimento di primo grado e con l’esercizio degli stessi poteri inquisitori (TOMMASEO), dovendosi intendere il richiamo all’art. 739 c.p.c. operato dall’art. 720-bis come assunzione di un modello di gravame e non come recepimento delle norme di cui agli artt. 737 c.p.c. ss., che disciplinano i procedimenti camerali La revoca o la modifica del provvedimento emesso in sede di reclamo spetta al giudice tutelare. Contro il decreto della Corte di appello, pronunciato in sede di reclamo, può essere proposto ricorso per Cassazione ex art. 720-bis c.p.c. La garanzia del ricorso per cassazione opera sicuramente nei confronti dei provvedimenti che decidono sull’apertura o sulla revoca dell’amministrazione di sostegno. Dubbia è l’ammissibilità del ricorso per Cassazione avverso i provvedimenti di gestione dell’amministrazione di sostegno e avverso quelli AIAF RIVISTA 2/2006 urgenti con funzione cautelare. Per alcuni essa deve escludersi (TOMMASEO ). Diversamente, coloro che configurano anche i procedimenti relativi all’apertura e la revoca dell’amministrazione di sostegno come di volontaria giurisdizione, affermano che tutti i provvedimenti relativi all’amministrazione di sostegno siano ricorribili per cassazione (CHIZZINI). Il ricorso è proponibile per tutti i motivi di cui all’art. 360 c.p.c.. Esso deve essere proposto nel termine di sessanta giorni decorrenti dalla notifica della decisione. Alla fase cassatoria seguirà un giudizio di rinvio dinanzi alla Corte di Appello, procedimento che avrà le forme del giudizio di reclamo (CHIZZINI). Le impugnazioni non avranno efficacia sospensiva con riguardo all’esecutività del decreto. GIUSEPPE CASSANO, L’amministrazione di sostegno. Questioni sostanziali e processuali nell’analisi della giurisprudenza Halley Editrice, Collana: Controversie & soluzioni 2006 Il volume mette in luce, evidenziando le posizioni di dottrina e giurisprudenza, gli aspetti sostanziali e processuali dell’istituto di protezione civilistica degli infermi di mente denominato “amministrazione di sostegno”. Particolare attenzione viene data agli strumenti giuridici che - con la minore limitazione possibile della capacità di agire, delle persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana - consentono interventi di sostegno temporaneo o permanente. 70 MAGGIO - AGOSTO 2006 L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO GIURISPRUDENZA circa due anni prima, era stato colpito da sari ad assicurare al congiunto la prose- PERSONE FISICHE - CAPACITÀ - neurobrucellosi con conseguente ence- cuzione domiciliare delle terapie. LIMITAZIONI - AMMINISTRAZIONE DI falite, patologia che lo aveva costretto, 2. Il giudice tutelare, dopo aver proceduSOSTEGNO - AMBITO APPLICATIVO. dopo una lunga degenza presso il repar- to alla ricognizione personale dell’avv. F., CASSAZIONE, SEZ. I CIV., sentenza 12 giugno 2006, n. 13584 Pronunciandosi per la prima volta sul tema, la Cassazione ha affermato che l’amministrazione di sostegno, introdotta nell’ordinamento dall’art. 3 della legge 9 gennaio 2004, n. 6, ha la finalità di offrire a chi si trovi nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la capacità di agire, distinguendosi, con tale specifica funzione, dagli altri istituti a tutela degli incapaci, quali la interdizione e la inabilitazione, non soppressi, ma solo modificati dalla stessa legge attraverso la novellazione degli artt. 414 e 417 del codice civile. Rispetto ai predetti istituti, l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno va individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore capacità di tale strumento di adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa. Appartiene all’ apprezzamento del giudice di merito la valutazione della conformità di tale misura alle suindicate esigenze, tenuto conto essenzialmente del tipo di attività che deve essere compiuta per conto del beneficiario, e considerate anche la gravità e la durata della malattia, ovvero la natura e la durata dell’impedimento, nonché tutte le altre circostanze caratterizzanti la fattispecie. (Testo della sentenza) - omissis 1. Con ricorso depositato in data in data 18 giugno 2004, C. F. e M. F., rispettivamente madre e sorella dell’avv. G. F., esposero al Giudice tutelare presso il Tribunale di Salerno che il loro congiunto, to di rianimazione degli Ospedali riuniti di Salerno, in stato di coma, al ricovero presso diversi istituti di cura e centri di riabilitazione. Nell’imminenza della dimissione dall’ultimo dei predetti istituti, e trovandosi il F. nella incapacità di provvedere ai propri bisogni ed interessi, le ricorrenti ritenevano la necessità di procedere alla istituzione di una amministrazione di sostegno in favore dello stesso, che consentisse alle ricorrenti medesime, che continuavano a prestargli assistenza, di provvedere a tutti i bisogni materiali e morali che la nuova condizione avrebbe determinato. Nel giudizio si costituì la consorte dell’avv. F., che si oppose alla procedura di amministrazione, rilevando la incapacità totale del coniuge di provvedere ai propri bisogni, sicché, a suo avviso, si sarebbe dovuto procedere alla interdizione; ed aggiunse che comunque non potevano assumere l’incarico le ricorrenti, le quali si sarebbero trovate in conflitto di interessi con il congiunto, consistente, quanto alla madre, nel fatto di aver proposto nei confronti della nuora un giudizio di cessazione di un comodato relativo alla casa coniugale, della quale l’avvocato era nudo proprietario, e la madre usufruttuaria, e, quanto alla sorella, nell’essere la moglie del legale che assisteva le istanti nel ricorso e rappresentava la suocera nel predetto giudizio di cessazione del comodato. Nel lasso di tempo intercorso tra il deposito del ricorso e la fissazione da parte del Giudice tutelare della ispezione diretta del F., questi fu dimesso dal Centro di riabilitazione nel quale era stato da ultimo ricoverato, e le ricorrenti, a seguito del riferito rifiuto della moglie dello stesso di consentirgli il ritorno nella abitazione coniugale -motivato dalle precarie condizioni di salute del figlio minore I., affetto da epilessia -, reperirono in locazione, sempre secondo quanto dalle stesse riferito, un appartamento nel quale allestirono i presidi riabilitativi ed assistenziali neces- ed esaminato documenti e memorie, con decreto in data 8 novembre 2004, rigettò il ricorso, disponendo la trasmissione degli atti al Pm perché venisse promosso il giudizio di interdizione nei confronti del F., rilevando che la infermità presentata dallo stesso comportava una incapacità totale, di natura abituale, di provvedere ai propri interessi, tale da non lasciare ipotizzare atti che questi potesse compiere senza l’assistenza dell’amministratore. 3. Avverso tale decreto le istanti, con ricorso depositato il 7 dicembre 2004, proposero reclamo innanzi alla Corte d’appello di Salerno, lamentando che il giudice tutelare non aveva considerato la portata delle innovazioni introdotte dalla legge 6/2004, con la istituzione della nuova figura dell’amministratore di sostegno e con le modifiche introdotte ai preesistenti istituti della interdizione e della inabilitazione; e, per altro verso, evidenziando i progressi compiuti dall’infermo, e depositando una perizia attestante che il decorso della patologia lasciava presumere una lenta, ma progressiva evoluzione verso l’ulteriore miglioramento delle funzioni cognitive, quali la memoria, la percezione e il linguaggio. 4. La Corte d’appello, con decreto depositato l’8 marzo 2005, rigettò il reclamo e dispose la trasmissione degli atti al p.m. per la proposizione del procedimento di interdizione. osservò la Corte che, alla stregua della legge 6/2004, il destinatario del provvedimento di amministrazione di sostegno deve mantenere, quanto meno in misura ridotta, una propria autonomia e capacità, dovendo il giudice tener conto anche delle richieste formulate dal beneficiario, e l’amministratore informare lo stesso dei diversi atti da compiere. Nella specie, secondo la corte di appello, non sussisteva una residua capacità dell’avv. F. tale da consentirgli un dialogo con il proprio amministratore e con il giudice. Dall’esame dello stesso da parte del giudice tutelare, risultava che questi 71 L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO era affetto da una grave infermità con incidenza sulle sue facoltà mentali, almeno quelle che riguardano la manifestazione della propria volontà, come avrebbe reso evidente il fatto che durante l’esame egli non avesse interloquito, limitandosi ad incomprensibili movimenti del viso. Detta infermità persisteva da tempo senza sicure previsioni sulla sua scomparsa o attenuazione, sicché poteva essere definita abituale. Ed anche la citata perizia che faceva presagire un miglioramento delle funzioni cognitive sottolineava che detto recupero era, allo stato, solo in itinere. In definitiva, solo l’interdizione, secondo la Corte d’appello, poteva adeguatamente tutelare il F., posto che, da una parte, l’amministrazione di sostegno non si estende a tutti gli atti di interesse del beneficiario, consentendo a quest’ultimo di provvedere autonomamente ad alcuni di essi, e che, dall’altra, il F. stesso, sulla base delle risultanze processuali, non era in grado di poter provvedere da solo ad alcun atto. 5. Avverso detto decreto, ricorrono per cassazione C.p. e M. F. sulla base di un unico motivo, illustrato anche da successiva memoria. Resiste con controricorso G. A., coniuge dell’avv. F., in proprio e quale rappresentante dei figli minori I. e M.. Motivi della decisione 1. Con l’unico, articolato motivo di ricorso si lamenta violazione e falsa applicazione dell’articolo 404 Cc, nel testo introdotto dalla legge 6/2004, e delle altre disposizioni della stessa legge. Si sottolineano la funzione del nuovo istituto dell’amministrazione di sostegno e le innovazioni apportate dalla legge 6/2004 agli istituti codicistici in materia di incapacità personale, rilevandosi che le nuove norme hanno posto al centro dell’attenzione non più la sola cura del patrimonio, ma piuttosto la persona e le sue esigenze, apprestando uno strumento di estrema semplicità procedurale ed elasticità di contenuti, modellato secondo la necessità e le circostanze, e tale da non incidere radicalmente e permanentemente sulla capacità di agire del beneficiario. In tale ottica, il criterio da adottare al fine di stabilire di volta in volta quale sia, in particolare tra l’amministrazione di sostegno 72 e la interdizione, la misura più idonea alla protezione del soggetto debole non potrebbe essere individuato con riguardo ad un elemento meramente “quantitativo”, e, cioè, tenendo conto del quantum della incapacità dalla quale il soggetto da proteggere è affetto, come sarebbe confermato anche dalla formulazione dell’articolo 404 Cc introdotto dalla legge 6/2004, che indica come beneficiario dell’amministrazione di sostegno chi si trovi nella impossibilità, anche parziale e temporanea, di provvedere ai propri interessi, cosi lasciando intendere che essa possa essere anche totale e permanente. Il discrimen consisterebbe piuttosto nella idoneità dell’uno o dell’altro istituto ad assicurare la protezione più adeguata del soggetto cui esso va applicato. L’amministrazione di sostegno sarebbe l’istituto di elezione e di primo e pronto impiego per l’apprestamento della tutela della persona inferma o menomata e dei suoi interessi, mentre solo qualora tale misura si riveli inadeguata alla concreta situazione, potrebbe farsi luogo a quella più radicale della interdizione. Ciò posto, la dedotta violazione di legge ad opera del decreto impugnato consisterebbe nell’avere ritenuto la inapplicabilità, nella specie, dell’istituto dell’amministrazione di sostegno in considerazione della incapacità totale del beneficiario a provvedere ai propri interessi. 2. Il ricorso, che, pure, muove da una corretta premessa in ordine alla valenza innovatrice della legge 6/2004, e si sviluppa intorno ad una serie di lucide considerazioni, complessivamente condivisibili, con riguardo all’ambito di applicabilità dell’istituto dell’amministrazione di sostegno, si appalesa, tuttavia, infondato, per le ragioni che saranno di seguito esposte. 3. La soluzione della questione sottoposta all’esame della Corte richiede una operazione di “perimetrazione” dell’istituto dell’amministrazione di sostegno, operazione non esplicitamente compiuta dal legislatore nel testo che ha introdotto detto istituto nell’ordinamento, la legge 6/2004: un testo germogliato da un vivace dibattito - peraltro a tutt’oggi non del tutto sopito, per le ragioni che saranno esaminate più avanti - che ha visto a lun- AIAF RIVISTA 2/2006 go impegnate la dottrina, la comunità scientifica, e, in genere, la società civile, in ordine alla efficacia e adeguatezza degli strumenti a tutela dei soggetti più deboli, e destinato ad innovare profondamente la disciplina codicistica della protezione degli incapaci, anche attraverso la modifica dei tradizionali istituti della interdizione e della inabilitazione, in una ottica meno custodialistica e maggiormente orientata al rispetto della dignità umana ed alla cura complessiva della persona e della sua personalità, e non già del solo suo patrimonio. La finalità della legge, enunciata nella sacrale formula dell’articolo 1 della stessa, è, infatti, quella di «tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente»: una finalità che, lungi dall’apparire attenuata per effetto del suo mancato recepimento nel codice civile, tra le disposizioni novellate dalla stessa legge in esame con una scelta in relazione alla quale il legislatore non è, peraltro, andato esente da critiche in dottrina - rappresenta la “stella polare” destinata ad orientare l’interprete nella esegesi della nuova disciplina, anche con riguardo ai rapporti tra la figura dell’amministrazione di sostegno e le altre forme di protezione degli incapaci, e, in particolare, a guidare il giudice nella impegnativa attività cui la normativa di cui si tratta, come sarà di seguito precisato, lo chiama. Dalla esplicitazione della finalità della legge emerge, in modo incontrovertibile, una linea di tendenza diretta alla massima salvaguardia possibile dell’autodeterminazione del soggetto in difficoltà, attraverso il superamento concettuale del momento autoritativo, consistente nel divieto, tradizionalmente imposto a suo carico, del compimento di una serie, più o meno ampia di attività, in correlazione al grado di incapacità, a favore di una effettiva protezione della sua persona, che si svolge prestando la massima attenzione alla sua sfera volitiva, alle sue esigenze, in conformità al principio costituzionale del rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo. Di tale linea di tendenza - emergente anche MAGGIO - AGOSTO 2006 dall’esame dei lavori preparatori della legge - appare permeato l’intero testo legislativo in esame, a cominciare dal suo articolo 2, che innova la rubrica del titolo XII del libro primo del codice civile, dedicato appunto agli istituti di protezione degli incapaci, sostituendo a quella originaria «Dell’infermità di mente, dell’interdizione e dell’inabilitazione» l’altra, più rispondente alle descritte finalità della legge 6/2004, che recita, in perfetta sintonia con il già richiamato articolo 1, « Delle misure di protezione delle persone prive in tutto od in parte di autonomia». La più significativa espressione della descritta funzione della legge n. 6 é, poi, costituita dal suo articolo 3, che, attraverso una serie di disposizioni, costituenti il nuovo capo I del titolo XII del libro primo del codice civile, intitolato «Dell’amministrazione di sostegno», e che danno nuovo contenuto agli articoli 404-413 del testo codicistico -rimasti privi di quello originario per effetto dell’abrogazione, intervenuta ad opera dell’articolo 77 della legge 184/83, dell’istituto dell’affiliazione, che essi disciplinavano -, disegna la nuova figura dell’amministrazione di sostegno, delineandone i presupposti e la portata, individuando i soggetti legittimati a richiederla, definendo il relativo procedimento, i criteri di scelta dell’ amministratore e i suoi doveri, le norme applicabili ed il regime degli atti compiuti dal beneficiario o dal 1 amministratore in violazione di norme di legge o di disposizioni del giudice. 4. Fondamentale rilievo acquista in particolare, in tale quadro, il nuovo articolo 404 Cc, concernente i presupposti per il ricorso all’ amministrazione di sostegno, a norma del quale «la persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere al propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare del luogo in cui questa ha la residenza o il domicilio». Formula, quella adottata dal legislatore, che colloca in primo piano la esigenza di fornire un aiuto a chi si trovi in difficoltà, piuttosto che quella di individuare un organo che si sostituisca allo stesso in tutte le scelte L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO relative agli atti in cui si estrinseca la sua personalità. Del pari, risulta ispirata al principio della generale capacità, con salvezza delle limitazioni rese necessarie dalla finalità di protezione del soggetto affetto da limitazioni più o meno gravi della propria autonomia, la disciplina dell’istituto, che si caratterizza per una particolare duttilità, a fronte del carattere tendenzialmente irreversibile e totalizzante della tradizionale regolamentazione della materia, dominata dalla opposta concezione di una generale condizione di incapacità del soggetto, riguardato essenzialmente come individuo potenzialmente portatore di pregiudizio dei propri interessi patrimoniali, e, massimamente, di quelli della propria famiglia, e, perciò, da assoggettare necessariamente a misure idonee ad impedirne ogni libertà di azione, sacrificandone ogni residua estrinsecazione della personalità. Nell’amministrazione di sostegno, come risulta dall’articolo 405 Cc nella formulazione introdotta dall’articolo 3 della legge 6/2004, è il giudice tutelare che, con il decreto di nomina dell’amministratore, il cui incarico ha una durata generalmente, anche se non necessariamente, determinata, indicata nello stesso decreto (articolo 405, comma 5, n. 2, Cc), individua, in relazione alla specificità della situazione e delle esigenze del soggetto amministrato, gli atti che l’amministratore medesimo ha il potere di compiere in nome e per conto di quest’ultimo il soggetto beneficiario, come significativamente viene definito dalla legge (articolo 405, comma 5, n. 3)-, e quelli che costui può compiere solo con l’assistenza dell’amministratore (articolo 405, comma 5, n. 4). E, dunque, al di fuori degli atti espressamente indicati nel decreto, che richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’ amministratore, il beneficiario conserva la capacità di agire, come chiarito in modo non equivoco dal comma i dell’articolo 409 Cc, che gli consente “in ogni caso”, al comma 2, di compiere gli atti necessari per il soddisfacimento delle esigenze della vita quotidiana. E, sempre nell’ottica della massima valorizzazione possibile della personalità e della volizione del soggetto debole, l’articolo 410 Cc impone all’am- ministratore l’obbligo di informare tempestivamente il beneficiario degli atti da compiere e, in caso di dissenso con lo stesso, il giudice tutelare. 5. - La richiamata finalità della legge n. 6 trova, del resto, compiuta estrinsecazione anche nelle modifiche che la stessa introduce, con gli articoli 4-10, recanti il nuovo testo degli articoli 414-432 Cc, alla disciplina «della interdizione, della inabilitazione e della incapacità naturale», come l’articolo 4, comma 1, della legge 6/ 2004 intitola il nuovo capo Il del titolo XII del libro primo del codice. Al riguardo, particolare significato è da attribuire al nuovo testo dell’articolo 414 Cc, introdotto dal comma 2 dell’articolo 4 della legge 6/2004 il quale, già nella intitolazione (“Persone che possono essere interdette”), sottintende la eliminazione del carattere di obbligatorietà della misura della interdizione (presente nel testo previgente dello stesso articolo), la quale si esprime nella nuova formulazione della citata disposizione codicistica, che subordina la interdizione del maggiore di età e del minore emancipato che si trovino in condizioni di abituale infermità di mente che li renda incapaci di provvedere ai propri interessi alla condizione che tale misura sia necessaria per assicurarne la «adeguata protezione». Né minore forza innovativa, ai fini che qui rilevano, va riconosciuta alla disposizione dell’articolo 427, comma 1, Cc, nel testo introdotto dall’articolo 9 della legge n. 6, secondo il quale «nella sentenza che pronuncia l’interdizione o l’inabilitazione, o i successivi provvedimenti dell’autorità giudiziaria, può stabilirsi che taluni atti di ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall’interdetto senza l’intervento ovvero con l’assistenza del tutore, o che taluni atti eccedenti l’ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall’inabilitato senza l’assistenza del curatore». In tal modo, anche le misure della interdizione e della inabilitazione risultano avere acquistato una maggiore flessibilità, venendo adattate alle concrete condizioni del soggetto protetto, in funzione di un possibile recupero di ogni residuo margine di autonomia dello stesso. La disposizione, peraltro, è speculare a quella, riferita alla ipotesi dell’ammini73 L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO strazione di sostegno, dell’articolo 411, comma 4, Cc, nel testo introdotto dal ricordato articolo 3 della legge n. 6, che attribuisce al giudice tutelare la facoltà di stabilire che determinati effetti, limitazioni o decadenze, previsti da disposizioni di legge per l’interdetto o l’inabilitato, si estendano al beneficiario dell’amministrazione, avuto riguardo all’interesse del medesimo ed a quello tutelato dalle predette disposizioni. 6. La descritta rivisitazione degli istituti di protezione, unita alla introduzione di quello dell’amministrazione di sostegno, ha determinato una giustapposizione di tale ultima figura agli altri, già noti, strumenti di tutela delle persone prive, in tutto o in parte, di autonomia, secondo un criterio (peraltro opinabile, ed invero oggetto di malcelate contestazioni degli operatori e di aperte critiche da parte della dottrina già all’indomani della entrata in vigore della legge 6/2004) che sembra lasciare in ombra la linea di demarcazione tra le diverse figure, la quale deve, invece, necessariamente trovare una sua identificazione al fine di evitare la confusione tra gli ambiti di operatività dei singoli strumenti di protezione. Ché, ove si generasse una siffatta confusione, dovrebbe concludersi nel senso che irragionevolmente il legislatore abbia operato una duplicazione di istituti sostanzialmente coincidenti: conclusione, invece, già esclusa dalla Corte costituzionale, la quale, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale, tra l’al- 74 tro, degli articoli 404, 405, numeri 3 e 4, e 409 Cc nel testo introdotto dalla legge 6/2004, sollevata proprio sotto il profilo della mancata indicazione di chiari criteri selettivi per la distinzione dell’amministrazione di sostegno dalla interdizione e dalla inabilitazione, ha sottolineato che la nuova disciplina affida al giudice il compito di individuare l’istituto che garantisca la tutela più adeguata, limitando la capacità del soggetto nella minore misura possibile, e di ricorrere alla interdizione solo se non ravvisi interventi di sostegno idonei ad assicurare tale protezione (sentenza 440/05). Per ciò che concerne, in particolare, il discrimen tra amministrazione di sostegno ed interdizione, rilevante ai fini della decisione cui è chiamata la Corte, esso è stato individuato dai primi commentatori della legge n. 6 in un criterio “quantitativo”, correlato, cioè, al diverso grado di incapacità manifestato dal soggetto di cui si tratta, ritenendosi corrispondere ad una minore gravità della patologia invalidante la meno invasiva misura dell’ amministrazione di sostegno, e, per converso, ad una maggiore gravità della infermità la interdizione. Soluzione, questa, a prima vista piana e ragionevole, ma che, a ben vedere, finisce con il mettere in ombra la specificità dell’istituto in esame, trascurando una serie di elementi di interpretazione offerti dalla lettera e dallo spirito della legge. Anzitutto, dall’esame testuale delle già richiamate disposizioni che rispettivamente fissano i presupposti dei due isti- AIAF RIVISTA 2/2006 tuti emerge quello che costituisce uno dei punti cardine della legge, e cioè la estensione del regime di protezione degli incapaci a soggetti che sono impossibilitati a provvedere ai propri interessi anche per cause diverse dalla infermità di mente, quali la infermità fisica e la menomazione fisica e psichica (soggetti tra i quali possono menzionarsi, a titolo esemplificativo, i portatori di handicap), i quali non sono in nessun caso assoggettabili ad interdizione. ma, per effetto della definizione contenuta nell’articolo 404 Cc, beneficiari dell’amministrazione di sostegno sono altresì i soggetti affetti da infermità psichica che li pone in una situazione di «impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere al propri interessi». ora, a prescindere dall’uso del termine «impossibilità» - che, pur diversificandosi sul piano lessicale dal concetto di incapacità cui è fatto riferimento nella disposizione dell’articolo 414 Cc in tema di interdizione, non sembra costituire un reale segnale di graduazione della disabilità -, la prevista possibilità di ricorso all’amministrazione di sostegno anche nei casi di infermità (o menomazione, fisica o psichica), determinante una impossibilità anche parziale o temporanea di attendere efficacemente ai propri interessi sicuramente non ne esclude l’ammissibilità ove questa sia invece totale o permanente. in questo secondo caso, non appare configurabile una sostanziale differenza tra i presupposti dei due strumenti di tutela sulla base della diversa gravità della impossibilità, o incapacità, di provvedere ai propri interessi. Del resto, la ricordata disposizione dell’articolo 427, comma 1, Cc, con il prevedere la possibilità di stabilire che taluni atti di ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall’interdetto senza l’intervento, o con la semplice assistenza, del tutore, ha ritenuto ammissibile l’adozione di un provvedimento di interdizione in presenza di un grado di incapacità non assoluta. 6. E, dunque, il criterio quantitativo non sembra, di per sé solo, offrire un utile strumento di distinzione tra i presupposti per l’amministrazione di sostegno e quelli per la interdizione. A tale scopo, occorre piuttosto valorizzare l’inciso contenuto nell’articolo 414 Cc, che MAGGIO - AGOSTO 2006 collega la interdizione alla necessità di assicurare l’adeguata protezione del soggetto maggiore di età che si trovi in condizioni di abituale infermità di mente che lo renda incapace di provvedere ai propri interessi, ciò che equivale ad affermare che l’ordito normativo esclude che si faccia luogo alla interdizione tutte le volte in cui la protezione del soggetto abitualmente infermo di mente, e perciò incapace di provvedere ai propri interessi, sia garantita dallo strumento della amministrazione di sostegno. Sicché, parte della dottrina, muovendo dal presupposto del carattere del tutto residuale della misura della interdizione, ormai destinata a collocarsi quale extrema ratio cui ricorrere in casi limite, è giunta a mettere in discussione la scelta legislativa di mantenere comunque in vigore l’istituto de quo, additando come esempio cui ispirarsi la esperienza di alcuni Paesi europei, che lo hanno definitivamente ripudiato, siccome una sorta di “marchio”, in favore di strumenti più moderni e rispettosi della dignità dell’individuo. Deve, allora, concludersi che il legislatore ha inteso configurare uno strumento elastico, modellato a misura delle esigenze del caso concreto, che si distingue dalla interdizione non sotto il profilo quantitativo, ma sotto quello funzionale: ciò induce a non escludere che, in linea generale, in presenza di patologie particolarmente gravi, possa farsi ricorso sia all’uno che all’altro strumento di tutela, e che soltanto la specificità delle singole fattispecie, e delle esigenze da soddisfare di volta in volta, possano determinare la scelta tra i diversi istituti, con l’avvertenza che quello della interdizione ha comunque carattere residuale, intendendo il legislatore riservarlo, in considerazione della gravità degli effetti che da esso derivano, a quelle ipotesi in cui nessuna efficacia protettiva sortirebbe una diversa misura. In via generale, può affermarsi che la scelta - che va effettuata dal giudice sulla base dei dati a sua conoscenza, e nell’esercizio della quale questi deve essere guidato da quella che è stata sopra (v. sub 3) individuata, alla stregua dell’articolo 1 della legge 6/2004, come la funzione della legge, quella, cioè, di provvedere, con interventi di L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO sostegno, e con il minor sacrificio possibile della rispettiva capacità di agire, alla cura delle persone prive di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana - non può non essere influenzata dal tipo di attività che deve essere compiuta in nome del beneficiario della protezione, Ad un’attività minima, estremamente semplice, e tale da non rischiare di pregiudicare gli interessi del soggetto - vuoi per la scarsa consistenza del patrimonio disponibile, vuoi per la semplicità delle operazioni da svolgere (attinenti, ad esempio, alla gestione ordinaria del reddito da pensione), e per l’attitudine del soggetto protetto a non porre in discussione i risultati dell’attività di sostegno nei suoi confronti -, e, in definitiva, ad una ipotesi in cui non risulti necessaria una limitazione generale della capacità del soggetto, corrisponderà l’amministrazione di sostegno, che si fa preferire non solo sul piano pratico, in considerazione dei costi meno elevati e delle procedure più snelle, ma altresì su quello etico-sociale, per il maggior rispetto della dignità dell’individuo che, come si è osservato, essa sottende, in contrapposizione alle più invasive misure dell’inabilitazione e della interdizione, che attribuiscono uno statue di incapacità, concernente, nel primo caso, i soli atti di straordinaria amministrazione, ed estesa, per l’interdizione, anche a quelli di amministrazione ordinaria. Detto status non è, invece, riconoscibile in capo al beneficiario dell’amministrazione di sostegno, al quale viene comunque assicurata la possibilità di compiere, ove ne sia in grado, quelle attività nelle quali si estrinseca la c.d. contrattualità minima, attraverso il riconoscimento allo stesso, a norma dell’articolo 409, comma 2, della legge n. 6, della possibilità di compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana. Per converso, ove si tratti - sempre, ovviamente, che il soggetto si trovi l’in condizioni di abituale indennità, che lo renda incapace di provvedere ai propri interessi - di gestire un’attività di una certa complessità, da svolgere in una molteplicità di direzioni, ovvero nei casi in cui appaia necessario impedire al soggetto da tutelare di compiere atti pregiudizievoli per sé, eventual- mente anche in considerazione della permanenza di un minimum di vita di relazione che porti detto soggetto ad avere contatti con l’esterno, ovvero in ogni altra ipotesi in cui il giudice di merito, con una valutazione che compete a lui solo e che è incensurabile in sede di legittimità, se logicamente e congruamente motivata, ritenga lo strumento di tutela apprestato dalla interdizione l’unico idoneo ad assicurare quella adeguata protezione degli interessi della persona che la legge richiede, è quest’ultimo, e non già l’amministrazione di sostegno, l’istituto che deve trovare applicazione. Né osta a siffatta impostazione il rilievo che l’amministrazione di sostegno postula un continuo confronto tra il beneficiario, l’amministratore e il giudice, attraverso la già esaminata previsione, ad opera dell’articolo 410 Cc, della informazione al primo (o al giudice in caso di dissenso)da parte del secondo degli atti da compiere, che sembra presupporre un certo grado di consapevolezza da parte del beneficiario. L’argomento non ha carattere decisivo, dovendosi ritenere detta previsione riferibile alle sole ipotesi in cui un dialogo sia concretamente possibile per le condizioni psico-fisiche del beneficiato, e non operativa in caso contrario. Del resto, la non imprescindibili del consenso del beneficiario risulta desumibile anche dalla considerazione che, in caso di dissenso con quest’ultimo, l’amministratore informa il giudice tutelare per l’adozione dei provvedimenti ritenuti necessari. L’evidenziato criterio del tipo di attività da compiersi in nome del beneficiario, quale elemento di valutazione ai fini della scelta dello strumento meglio rispondente alle esigenze di tutela dello stesso, non esclude, peraltro, la necessità della considerazione, in via concorrente, di quelli concernenti la gravità e la durata della malattia, ovvero la natura e la durata dell’impedimento. 7. Va, conclusivamente, alla stregua delle considerazioni fin qui svolte, affermato il seguente principio di diritto: «l’amministrazione di sostegno, introdotta nell’ordinamento dall’articolo 3 della legge 6/2004 - ha la finalità di offrire a chi si trovi nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri inte75 L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO ressi uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la capacità di agire, distinguendosi, con tale specifica funzione, dagli altri istituti a tutela degli incapaci, quali la interdizione e la inabilitazione, non soppressi, ma solo modificati dalla stessa legge attraverso la novellazione degli articoli 414 e 417 del Cc. Rispetto ai predetti istituti, l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno va individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore capacità di tale strumento di adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa. Appartiene all’ apprezzamento del giudice di merito la valutazione della conformità di tale misura alle suindicate esigenze, tenuto conto essenzialmente del tipo di attività che deve essere compiuta per conto del beneficiario, e considerate anche la gravità e la durata della malattia, ovvero la natura e la durata dell’impedimento, nonché tutte le altre circostanze caratterizzanti la fattispecie». 8. Nella specie, la valutazione operata dalla Corte d’appello di Salerno si snoda attraverso un percorso argomentativi che deve, ai sensi dell’articolo 384, comma 2, Cpc, essere corretto, siccome affetto dall’errore di diritto consistente nel ritenere che il discrimen tra il campo di applicazione della misura dell’amministrazione di sostegno e quello della interdizione vada ravvisato esclusivamente nella sussistenza o meno di una residua autonomia e capacità del beneficiario, tali da consentire allo stesso di formulare richieste in ordine alle decisioni che lo riguardano ed all’amministratore di informarlo dei diversi atti da compiere. Tuttavia, il dispositivo del decreto impugnato risulta conforme a diritto, avendo la Corte d’appello valorizzato, ai fini della propria decisione, non già la sola condizione fisica del soggetto di cui si tratta - peraltro descritta come totalmente, pur se non reversibilmente, invalidante, e tale da non consentirgli di provvedere autonomamente ad alcun atto della vita -, ma 76 altresì la complessità degli atti da compiere per suo conto, avuto anche riguardo alla pregressa attività professionale svolta dall’infermo sino al momento precedente l’insorgenza della patologia dalla quale lo stesso risulta affetto: si da indurre a ritenere che solo un provvedimento di interdizione possa, nella specie, tutelare adeguatamente gli interessi del F.. 9. Il ricorso va, pertanto, rigettato. Peraltro, in considerazione della particolarità della fattispecie, nonché della assoluta novità della questione di diritto che, con il ricorso, è stata sottoposta all’esame di questa Corte, si stima equo disporre la compensazione delle spese del giudizio di legittimità. PQM La Corte rigetta il ricorso. Compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità. PERSONE FISICHE - CAPACITÀ AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO INTERDIZIONE - AMBITO APPLICATIVO. TRIBUNALE DI MILANO - SEZIONE NONA CIVILE - UFFICIO TUTELE, sentenza 21 febbraio - 21 marzo 2005, n. 3289 Svolgimento del processo Con ricorso notificato il 22.1.2003, i coniugi X e Y chiedevano a questo Tribunale pronuncia di inabilitazione nei confronti della figlia Z, nata il _____, affetta dall’età adolescenziale da “grave disturbo borderline di personalità ed esotossicosi cronica”, patologie che ne avevano determinato diversi ricoveri in divisioni psichiatriche e che ne avevano comportato il riconoscimento, il 13.9.2000, di invalidità civile totale e permanente; facevano presente che la figlia, pur conducendo una vita per certi aspetti normale, aveva “limitata percezione delle situazioni, …frequentava persone indistintamente accettate nella sua sfera di conoscenze, …non sempre dimostrava di avere sufficiente consapevolezza del denaro e del suo corretto utilizzo, …situazione aggravata dall’eccessivo ricorso ai farmaci e a bevande alcoliche”. Indicavano nella cugina W la persona che, in qualità di curatore, potesse assistere Z ed aiu- AIAF RIVISTA 2/2006 tarla ad amministrare al meglio il suo attuale e soprattutto futuro patrimonio, quale unica figlia degli istanti. Il Giudice Istruttore designato per il giudizio, alla presenza del Pubblico Ministero, procedeva il 10.4.2003 ad un colloquio con Z, e all’esito, accogliendo l’istanza dei ricorrenti, e su parere conforme del P.M., nominava a Z quale curatore provvisorio la cugina W, decisione su cui conveniva la stessa Z (“…in questo momento posso essere d’accordo ad avere un curatore che mi controlli nelle spese più importanti anche se ciò non mi piace …sono d’accordo che possa essere curatore mia cugina W con cui ho un buon rapporto…”). Sulle conclusioni precisate dalle parti il 10.6.2003, il G.I. rimetteva la causa al Tribunale in composizione collegiale per la decisione, ma il Collegio, recependo le conclusioni del Pubblico Ministero, che ravvisava nell’inabilitazione una misura insufficiente di tutela per la Z chiedeva un approfondimento della sua condizione psichica, con ordinanza del 6.10.2003 disponeva l’espletamento di CTU medico-psichiatrica sulla persona della convenuta, incaricandone la dott.ssa xxxxx di Milano. Acquisito l’elaborato peritale il 19.1.2004 e nuovamente rimessa la causa al Collegio, concludeva il P.M. il 10.5.2004 per una pronuncia d’interdizione di Z, e il Collegio, con ordinanza del 17.5.2004, poneva a carico del P.M. l’onere di notifica alla convenuta della nuova domanda posta. Notificata a Z la domanda d’interdizione l’11.6.2004, alla successiva udienza del 5.10.2004 il legale dei ricorrenti rappresentava l’intenzione degli stessi di rinunciare alla domanda di inabilitazione e richiedere nomina di Amministratore di Sostegno, alla luce della L.9.1.2004 n.6 medio tempore entrata in vigore. Alla successiva udienza del 2.12.2004 fissata per la precisazione delle conclusioni, i ricorrenti, riferendo di ricoveri anche recenti della figlia (“l’ultimo dal 20 al 22 ottobre 2004… il precedente era del 9 ottobre…”), producendo documentazione medica aggiornata, rappresentando “fasi alterne e imprevedibili di compenso e scompenso… utilizzo spesso MAGGIO - AGOSTO 2006 incongruo di farmaci… non rispetto delle indicazioni terapeutiche”, ulteriormente preoccupati per la facile influenzabilità della figlia, per le sue continue richieste di denaro motivate da esigenze del compagno, e per la richiesta di matrimonio di quest’ultimo, che temevano unicamente interessato all’acquisto della cittadinanza italiana e alle aspettative economiche, formalizzavano domanda di interdizione di Z, in ciò aderendo alla domanda del P.M.. Sulle conclusioni precisate il 2.12.2004 come riportate in epigrafe, il G.I. rimetteva quindi la causa al Collegio per la decisione, dando termine di giorni 60 per il deposito di memoria conclusionale e di ulteriori giorni 20 per eventuale memoria di replica. In data 15.2.2005 venivano acquisite le conclusioni del Pubblico Ministero. Motivi della decisione Ritiene il Collegio sia fondata, e meriti pertanto accoglimento, la domanda d’interdizione di Z, quale da ultimo concordemente proposta dai ricorrenti e dal Pubblico Ministero. Grave è invero il disturbo mentale che affligge Z e che, esordito all’età di 15 anni con connotati di tipo depressivo, risulta essersi progressivamente stabilizzato e intensificato, associandosi all’uso incongruo di farmaci, alcol e sostanze cannabinoidi, venendo oggi inquadrato dalla CTU dott.ssa xxxx in un Disturbo di Personalità Borderline, Disturbo da Uso di Sostanze, Disturbo Depressivo Maggiore ricorrente. Le buone abilità cognitive, il valido giudizio di realtà, la capacità relazionale che il CTU nella parte conclusiva riconosce alla Z, la quale saprebbe condurre in autonomia la quotidiana gestione della sua vita, della sua casa e del denaro che riceve dai genitori (considerazioni che giustificherebbe ad avviso del CTU una pronuncia di sua inabilitazione), sembrano tuttavia contraddette dagli stessi rilievi del perito quando, proprio nel menzionare la buona capacità di giudizio (pag.12 CTU), osserva che “tuttavia il raggiungimento di una piena capacità di critica è talora invalidato dalla incompleta elaborazione della realtà, di modo che la Z, ad una più L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO approfondita valutazione psicopatologica, pur intensa e sintonica nello spiegare il proprio disagio, e anche bene informata su aspetti scientifici e medici, risulta non pienamente consapevole verso la malattia, la necessità di cure, la propria scarsa autonomia… banalizza la condotta di abuso, esitando a inquadrarla come sintomo importante del disturbo e sottolineandone piuttosto il valore compensatorio … esclude che l’abuso di sostanze possa porla in una condizione di vulnerabilità verso agiti incongrui (pag.13 CTU). Parimenti, quanto alla capacità relazionale, si legge nella CTU (pag.12) che la modalità relazionale appare instabile… incline a fasi di idealizzazione e svalutazione, orientata alla dipendenza così come pronta a distacchi bruschi e drammatici… l’unico legame affettivo importante è con i genitori, dai quali si sente amata, supportata, accudita… da circa un anno convive con un uomo di origine tunisina… descrive la relazione come preziosa ma difficile… il compagno non lavora, economicamente è da lei dipendente… la esclude dalle proprie relazioni, è spesso nervoso o anche violento. La stessa capacità gestionale è estremamente ridimensionata ove si consideri (pag.13 CTU) che la Z si limita a gestire la somma mensile di Euro 800,00 circa che le viene data su richiesta in quote dilazionate, mentre non si occupa del mantenimento della casa, integralmente delegato ai genitori, non sa quantificare quanto sia il valore dell’appartamento, né a quanto ammontino le spese necessarie per la cura e per le tasse di proprietà… dice di non essersi mai occupata della gestione del denaro, se non per le piccole spese quotidiane, di non aver mai fatto domande ai genitori, non è mai andata in posta a pagare una bolletta, non ha mai fatto un assegno o un bonifico bancario… lo dice con tristezza e rassegnazione, cogliendo l’inadeguatezza del comportamento, ma anche precisando il proprio disinteresse per le questioni economiche e più in generale il proprio desiderio di non occuparsi di qualunque cosa richieda una pianificazione. Il CTU infine, nel motivare come adeguata e sufficiente una pronuncia di inabilitazione, valorizza il fatto che la Z(pag.14), pur incostante nell’accettazione delle cure, negli ultimi giorni si è rivolta ai medici e ha ripreso i controlli, i farmaci, la psicoterapia (ciò nel gennaio 2004, mentre fino a dicembre 2003 diceva di aver interrotto sia il trattamento psichiatrico con medico del Policlinico sia la psicoterapia, di regolarsi da sé con gli psicofarmaci, di proseguire l’uso massiccio di hashish e alcol con il fine di tranquillizzarsi -pag.10), da ultimo osservando (pag.15) che in ogni caso la prognosi della malattia è legata all’accettazione delle cure, e che non può escludersi un aggravamento del disturbo mentale, in quanto il nucleo psicopatologico del disturbo borderline è la significativa instabilità psichica e l’associato abituale uso di sostanze è ulteriore situazione patologica in grado di ridurre l’abilità del soggetto di autodeterminarsi. Ecco pertanto che la più recente situazione clinica di Z, quale rappresentata con sofferenza dai genitori all’udienza del 2.12.2004, induce a rivedere criticamente le indicazioni conclusive del CTU, riemergendo l’oppositività della donna alle indicazioni terapeutiche, la persistente assunzione incongrua di farmaci e alcol come decisione autonoma in risposta alle frequenti e intense crisi d’ansia, i recenti ricoveri (due nello stesso mese di ottobre) o gli interventi medici accettati solo nella fase più acuta della sofferenza, la contrarietà ad un ricovero prolungato, nei termini proposti dai genitori e dalla cugina, per attuare una disintossicazione e avviare una terapia più stabile; tale quadro trova conferma anche nella documentazione medica da ultimo prodotta, Fogli di Pronto Soccorso rispettivamente del 9.10.2004, ove si certifica “abuso di Tavor senza sollievo per l’ansia che la prende nei problemi di rapporto col convivente” e si menziona un precedente ricovero in luglio in reparto psichiatrico con interruzione della frequenza dell’ambulatorio terapeutico, e del 31.10.2004 ove si legge “abuso di alcolici in attacco d’ansia… abuso di DBZ…”. Quanto sopra appare in netta antitesi con la valutazione di buone abilità cognitive o valido giudizio di realtà espressa dal CTU, e depone per una pronuncia che ponga al riparo la Z dal suo stesso agire, 77 L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO ovvero da quelle capacità valutative e volitive fortemente compromesse che in primo luogo le impediscono di comprendere la portata della malattia e le possibilità di cura, e secondariamente, ma in termini altrettanto pregiudizievoli, la espongono a situazioni relazionali di acritica delega o dipendenza senza comprenderne, o saperne arginare, possibili intenti altrui di indebito profitto sotto profili sia personali sia patrimoniali. In tale situazione si reputa che la richiesta pronuncia di interdizione di Z, escludendo sotto il profilo giuridico che la stessa possa azionare a proprio danno, in qualunque ambito sia personale sia patrimoniale, una capacità legale di agire non sorretta da valide capacità intellettive e volitive, sia la più adeguata misura di protezione, ove peraltro si accompagni, nei termini consentiti dal nuovo dettato normativo di cui all’art.427 c.1 c.c. come integrato con L.9.1.2004 n.6, alla possibilità di compiere in autonoma taluni atti di ordinaria amministrazione, che coincidano con quelli di fatto sino ad oggi posti in essere (ossia l’utilizzo di quote di denaro che le provengano periodicamente dai genitori o dal tutore). Nel raffronto d’altro canto di tale strumento di tutela con quella differente misura di protezione introdotta con la citata L.6/2004, consistente nella nomina di Amministratore di Sostegno (pronuncia che l’innovato art.418 c.3 c.c. consentirebbe anche in assenza di istanza di parte), ritiene il Collegio che quest’ultima possa rivelarsi insufficiente nel caso di specie. Trattandosi invero di nomina di soggetto legittimato ad assistere o rappresentare l’incapace nei soli atti (o tipologia di atti) che lo stesso non sia in grado di compiere, quali necessari ed esattamente indicati nel decreto di nomina, e derivandone solo per tali atti, ai sensi degli artt.409 e 412 c.c., l’incapacità dello stesso di procedere in via autonoma, con conseguente annullabilità dell’atto compiuto senza assistenza o rappresentanza dell’a.d.s., tale misura si reputa sufficiente per soggetti con specifiche incapacità (in grado di esplicitare adeguatamente valide capacità residue) ovvero anche per soggetti del tutto privi di capacità, quando siano nell’impossibilità 78 materiale di relazionarsi autonomamente con l’esterno e quindi di porre in essere comportamenti idonei a produrre effetti giuridici e negoziali, mentre può rivelarsi tutela inadeguata ove sia necessario inibire al soggetto di esplicitare all’esterno capacità viziate che espongano sé od altri a possibili pregiudizi. In altre parole si potrebbe dire che l’intervento dell’A.d.S. sembra sufficiente per soggetti anche del tutto incapaci, ove sia necessario attribuire a un terzo quei soli specifici poteri, in sostituzione dell’incapace, che gli consentano di soddisfare le ricorrenti e ben individuabili esigenze personali o patrimoniali dell’incapace stesso, mentre sia inutile estenderne la sostituzione a restanti atti che comunque l’incapace non potrà mai compiere in quanto materialmente non in grado, e cui pertanto non è necessario estendere l’effetto di annullabilità ove compiuti in autonomia. L’intervento dell’A.d.S. può invece presentarsi insufficiente misura di protezione per quei soggetti la cui mantenuta capacità di relazionarsi con l’esterno, ma viziata sotto il profilo della consapevolezza o volontà, li espone a compiere atti in ogni direzione dai quali possano derivarne effetti giuridici dannosi, non immediatamente annullabili ove non compresi nell’elenco di poteri riconosciuti all’Amministratore. Nel caso di specie Z, per quanto sopra accertato, non solo presenta capacità intellettive e volitive fortemente compromesse, che le impediscono di rapportarsi alla realtà con consapevolezza e discernimento e di assumere le più opportune decisioni di gestione della sua persona e del suo patrimonio, ma, sempre come effetto della patologia, si pone in atteggiamento non collaborante, passivo od oppositivo, nei confronti di chi le indichi vie di cura, e si relaziona all’esterno con capacità viziate che la espongono ad atti di circonvenzione di chi ne voglia ottenere indebiti vantaggi personali o patrimoniali. Sintomatico è il difficile rapporto instaurato con il compagno, nei cui confronti non esplicita parole di affetto, descrivendone piuttosto le richieste economiche o il comportamento assente, nervoso e violento (da cui anche l’acuirsi delle sue crisi d’ansia), AIAF RIVISTA 2/2006 ma che non riesce ad allontanare da sé, o piuttosto non vuole, non comprendendo o sottovalutando che lo stesso possa mirare unicamente a vantaggi personali (del tutto verosimile è che la stessa richiesta di matrimonio, di cui da ultimo riferiscono i genitori, sia motivata da sole aspettative di cittadinanza o di arricchimento econo mico, non ravvisando i ricorrenti sincero trasporto affettivo nel suo comportamento sempre assente, ancorchè sia persona senza lavoro, e traendosene conferma dalle stesse parole della Z quando lamenta al CTU che la esclude dalle proprie relazioni, è spesso nervoso o anche violento). Figlia unica di genitori abbienti, la comprensibile preoccupazione di questi ultimi è che la futura acquisizione di un consistente patrimonio possa accrescere il rischio che Z, non solo non lo sappia gestire, ma possa divenire sempre più oggetto di indebite circonvenzioni, ancorchè mascherate da false attenzioni o interessamento affettivo, che la stessa non sia in grado di riconoscere o arginare. Se pertanto, al fine di garantire la più completa protezione della persona incapace, i poteri dell’Amministratore di Sostegno devono estendersi, sia a decisioni personali inerenti la cura del soggetto, sia a qualunque tipologia negoziale, con il rischio di riportare un elenco incompleto di atti, residuandone altri non previsti che sfuggano agli effetti di annullabilità di cui agli artt.409 e 412 c.c. (rimarrebbe sempre l’impugnabilità ex art.428 c.c., ma subordinata alla prova di malafede dell’altro contraente), e se ci si trova a dover integrare detta misura richiamando, ex art.411 c.c. e sempre a fini di tutela, disposizioni previste per l’interdetto (quali l’incapacità di contrarre matrimonio art.85 c.c., di testare -art.591 c.c., di donare -art.774 c.c.), la sovrapposizione di contenuto dei due istituti di amministrazione di sostegno e di interdizione induce a privilegiare quest’ultimo, che annulla ogni possibilità di azione del soggetto a suo danno o ne consente un immediato annullamento, riconoscendo alla persona autonomia di azione solo per specifici atti che si palesino non nocivi. Si osserva d’altro canto che la modifica, sia dell’art.414 c.c., nella parte in cui MAGGIO - AGOSTO 2006 mantiene l’interdizione per i soggetti che si trovano in condizioni di abituale infermità di mente… quando ciò è necessario per assicurare la loro adeguata protezione, sia dell’art.427 c.c., ove consente di stabilire che taluni atti di ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall’interdetto, depongono per una volontà legislativa di riconoscere all’interdizione una valenza di protezione necessaria, non già per soggetti che siano necessariamente del tutto privi di capacità intellettive e volitive (per i quali, come sopra osservato, potrebbe essere sufficiente una pronuncia di nomina di A.d.S., indifferentemente prevista dall’art.404 c.c. per chi si trovi nell’impossibilità anche parziale o temporanea -e quindi anche totale o permanente- di attendere ai propri interessi), bensì per soggetti che, ancorchè in grado di esplicitare capacità residuali, possano ritenersi adeguatamente protetti, da loro stessi e dagli altri, solo se li si escluda da qualunque capacità (in ciò si concretizza l’interdizione), nel senso di impedire che si producano effetti giuridici quando si attivano con modalità non sorrette da valide capacità intellettive e volitive in tutti gli ambiti (anche non immediatamente prevedibili) da cui possano derivarne pregiudizi, riconoscendo loro quei soli ambiti di azione certamente non nocivi. Ritornando pertanto al caso di specie, si ribadisce, per le ragioni sopra esposte, la necessità di proteggere Z con una pronuncia d’interdizione che, garantendole la presenza costante di un tutore che la sostituisca in tutti gli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione, sotto il controllo dell’Autorità Giudiziaria, la tuteli nella gestione e conservazione del suo patrimonio e nell’assunzione di ogni decisione attinente la cura della sua persona, ponendola ulteriormente al riparo da possibili azioni di raggiro di terzi che mascherino dietro false attenzioni intenti di personale profitto, e che coesista, ex art.427 c.c., con la possibilità riconosciutale di spendere in autonomia importi periodici. Tali importi, in linea con la situazione di fatto rappresentata al CTU dalla stessa Z, si reputano allo stato congrui, a fronte delle emerse disponibilità della stessa quali integrate dalla famiglia, ove riman- L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO gano nell’ambito massimo di Euro 800,00 mensili, sino a che possa accertarsi che siano destinate ad effettive esigenze di spesa della stessa o di gestione della casa, mentre potranno essere ulteriormente ridotti ove il Giudice Tutelare, che sovrintende alla tutela ex art.344 c.c. e che si reputa l’autorità giudiziaria competente per i successivi provvedimenti di cui all’art.427 c.c., dovesse verificarne uno sconsiderato utilizzo per soli acquisti pregiudizievoli all’interessata (ad esempio per procurarsi droga o alcol). Si ritiene infine urgente già provvedere in questa sede a nominare ad Z un tutore provvisorio, in persona di quella stessa cugina W cui era stato riconosciuto l’incarico di curatore e che sembra godere dell’affetto e della stima di Z, pronuncia che si reputa consentita anche al Collegio, ancorché con valenza provvisoria, argomentandosi ai sensi degli artt.717 e 718 c.p.c.. Nessuna pronuncia viene emessa circa le spese di lite, avendo i ricorrenti espressamente rinunciato a chiederne la rifusione a carico della parte convenuta. Le spese di CTU, nei termini già liquidati in corso di causa, rimangono pertanto a carico dei ricorrenti come da provvedimento già emesso dal Giudice Istruttore all’udienza del 19.2.2004. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando in contumacia della parte convenuta: dichiara l’interdizione di Z, nata a Milano il ____ (atto iscritto nei Registri di nascita di detto Comune, al n.); nomina tutore provvisorio di Z la sig.ra W, nata a Milano il _____, ivi residente in, revocando la nomina della stessa quale curatore provvisorio; autorizza Z a spendere in autonomia importi mensili sino ad Euro 800,00, ripartiti in quote settimanali. Manda il Cancelliere ad annotare la presente sentenza nei registri in corso e a trasmetterne copia autentica all’Ufficiale di Stato Civile del Comune di Milano, per gli incombenti di cui al D.P.R. 3.11.2000 n.396, e al Giudice Tutelare per l’avvenuta nomina di tutore provvisorio. Cosi deciso in Milano, in data 21.2.2005. CIRCONVENZIONE DI INCAPACE CASSAZIONE, SEZ. I PEN., sentenza 31marzo 2005, n. 16575 In tema di circonvenzione di persone incapaci, ai fini della sussistenza dell’elemento dell’induzione debbono essere presi in considerazione non solo le condotte tenute dall’imputato al momento della commissione degli atti pregiudizievoli, ma anche tutto ciò che è accaduto successivamente in quanto indice rivelatore di una antecedente minorata capacità psichica della persona offesa, ed inoltre la valutazione della condotta non deve essere limitata all’attività positiva posta in essere dall’imputato ma deve essere rivolta anche alla valutazione dei risultati degli atti di disposizione patrimoniale compiuti che possono dimostrare indizi sul perpetramento di una induzione in termini di rafforzamento di una decisione in itinere. CASSAZIONE, SEZ. II PEN., sentenza 18 novembre 2004, n. 44869 In tema di circonvenzione di persone incapaci, ai fini della sussistenza dell’elemento dell’induzione, non è necessario che la proposta al compimento dell’atto provenga dal colpevole ma è sufficiente che questi abbia rafforzato, profittando delle menomate condizioni psichiche del soggetto passivo, una decisione pregiudizievole dal medesimo già adottata La prova dell’induzione non deve necessariamente essere desunta da episodi specifici di suggestione e pressione morale, ben potendo il convincimento sul punto esser fondato su elementi indiretti e indiziari o su prove logiche, tratta dal complessivo contesto dei rapporti tra le parti e dagli accadimenti più strettamente connessi al compimento dell’atto pregiudizievole. CASSAZIONE, SEZ. II PEN., sentenza 19 novembre 1999, n. 13308 Il concetto di induzione nella ipotesi criminosa ex art. 643 c.p. costituisce un requisito essenziale della condotta commissiva dell’agente, concretandosi in una apprezzabile attività di pressione psicologica alla quale non può essere nem79 L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO meno equiparata la mera richiesta, rivolta al soggetto passivo, di compiere l’atto giuridico pregiudizievole. In effetti, non appare rispondente al dato normativo la tesi che dilata il significato dell’induzione fino al punto da configurarne la sussistenza anche in una condotta semplicemente omissiva, cioè nel “non essersi attivato” al fine di impedire l’atto, sia pure a proprio vantaggio, poiché il detto elemento qualificante del comportamento materiale dell’agente, nella sua accezione letterale e giuridica, esige pur sempre un’attività apprezzabile di suggestione, pressione morale e persuasione per determinare la volontà minorata del soggetto passivo (ex plurimis, in tal senso, cfr. Cass., sez. II, n. 183144 del 1990). PROVVEDIMENTO DISCIPLINARE DEL CONSIGLIO NOTARILE DI MILANO Con comunicazione in data 24 ottobre 2005, protocollata presso il Consiglio Notarile al n. 2951 del 25 ottobre 2005, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale Civile di Milano, in persona del Sostituto …, ha trasmesso al Consiglio Notarile di Milano copia della sentenza penale N. …/05 (N…./2005 R.G.App.) in data 20.7-20.8.2005 della Corte d’Appello di Milano, resa nei confronti del notaio … e di altri soggetti, fra i quali un altro notaio. Il Pubblico Ministero segnalava che detta sentenza, nel confermare il proscioglimento di due notai dal reato di falso in atto pubblico, aveva rilevato - in motivazione - evidenti violazioni ai principi del comportamento professionale in relazione alla valutazione dello stato di capacità di una donna molto anziana. Più precisamente, il Pubblico Ministero riferiva che la Corte aveva osservato che i notai, pur essendo senza dubbio tenuti al compimento di doverose e precise verifiche, si erano, in realtà, assai scarsamente adoperati, avendo effettuato dette verifiche in modo del tutto inadeguato o con grossolana approssimazione, ai limiti della omissione. Detti notai non apparivano alla Corte tacciabili, con appagante certezza, di dolosa volizione di falsità, ma di colpevole, gravissima incuria, sia pur penalmente irrilevante. Su tali basi, il Pubblico Ministero sollecitava il Consiglio Notarile di Milano a prendere in esame la vicenda sul piano disciplinare… CASSAZIONE, SEZ. II PEN., sentenza 10 giugno 1998, n. 2532 In tema di circonvenzione di persone incapaci, la giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che se, da un lato, lo stato di infermità o deficienza psichica della persona non deve necessariamente consistere in una vera e propria malattia mentale, esso deve, d’altro canto, pur sempre provocare una incisiva menomazione delle facoltà di discernimento o di determinazione volitiva, tale da rendere possibile l’intervento suggestivo dell’agente. Deve essere esclusa, in altre parole, la capacità del circonvenuto di avere cura dei propri interessi economici. Questa condizione di incapacità del soggetto passivo costituisce un presupposto del reato, con la conseguenza che il giudizio di colpevolezza della persona che ne abbia abusato può fondarsi soltanto sull’assoluta certezza della sua sussistenza (cfr. Cass. Pen. Sez. II Sent. 9661 Il Consiglio Notarile, udita la relazione del Presidente, assume la seguente dell’11.6-8.10.1992). decisione. TRIBUNALE DI MILANO, SEZ. V PEN., 1) In primo luogo appare opportuno riordinare brevemente i fatti e le conclusioni sentenza 19 dicembre 2002, n. 11690 Non può essere desunta la piena prova raggiunte in sede penale, per poi apprezdella deficienza psichica della persona zarne la rilevanza sotto il diverso angolo offesa dal delitto di circonvenzione di di visuale proprio del procedimento incapace dalla “singolarità” del suo disciplinare. carattere e dall’apparente non giustifica- Il notaio … autenticò, in data 18 febbraio bilità, secondo le normali regole sociali, 2002, una dichiarazione sostitutiva di atto notorio sottoscritta da tale signora FF, dei suoi atti dispositivi. una donna, all’epoca dei fatti, novanta80 AIAF RIVISTA 2/2006 cinquenne; la dichiarazione sostitutiva era destinata ad essere utilizzata per il rientro di capitali illegalmente detenuti all’estero, fruendo della normativa detta “Scudo fiscale”. Quindi, in data 26 marzo 2002, riceveva un testamento pubblico della FF, col quale era istituito erede universale un certo signor DD, persona che da lungo tempo si prendeva cura della persona e dell’amministrazione della testatrice, libera di stato, senza figli e senza altri parenti che si facessero carico di lei. Una denuncia anonima trasmessa alla Procura della Repubblica da una nota associazione di volontariato, verosimilmente controinteressata alle disposizioni testamentarie adottate dalla signora FF, provocava un procedimento penale per circonvenzione d’incapace a carico del DD e un’incriminazione per falso ideologico in atto pubblico a carico del notaio …, di altro notaio, che aveva ricevuto qualche tempo prima due procure, nonché dei testimoni intervenuti agli atti medesimi. La Procura della Repubblica contestava al notaio … (e all’altro notaio) l’accusa di falso ideologico in atto pubblico, restando evidentemente e pacificamente escluso ogni coinvolgimento nei profili di circonvenzione. Il procedimento, per quanto attiene il presunto circonventore e i testimoni, risulta essere attualmente pendente in sede di gravame: le decisioni non definitive sin qui intercorse hanno però riconosciuto la sussistenza sia della circonvenzione sia della falsità degli atti. La posizione dei notai, invece, è stata definita con sentenza di non doversi procedere del GUP di Milano del 16 dicembre 2004; il proscioglimento, infatti, è stato confermato in termini - nonostante l’appello del Procuratore della Repubblica e l’appello incidentale dell’altro notaio - dalla Corte d’appello di Milano in data 20 luglio 2005, con sentenza ormai passata in giudicato. Le decisioni sono state precedute da un’approfondita indagine, nel corso della quale sono state espletate varie audizioni di medici, badanti, persone in grado di riferire circostanze utili; nel corso dell’istruttoria sono state eseguite, oltre alla MAGGIO - AGOSTO 2006 perizia grafologica trasmessa dal P.M. a questo Consiglio, altre due perizie di parte disposte dalla medesima Pubblica accusa (psichiatrica e oculistica) e due perizie psichiatriche di parte disposte dai difensori dei notai. Il risultato di tali indagini, effettivamente, non può dirsi univoco nel senso della dimostrazione della manifesta incapacità d’intendere e volere, dato che “in ordine alla valutazione sullo stato di capacità della FF (nei primi mesi del 2002) si è registrata una diversità di vedute tra i consulenti tecnici delle parti ed anche tra alcune dichiarazioni testimoniali e documentali di medici che hanno conosciuto e seguito la FF nei periodi precedenti, concomitanti e successivi agli atti per cui si procede.” (così la sentenza del GUP del 16 dicembre 2004). Il medesimo GUP, infatti, non ritenendo acquisita la prova della piena incapacità della FF, si risolveva ad argomentare la condanna per circonvenzione e la declaratoria di falsità degli atti su di un concetto più limitato e circoscritto di disturbo della capacità, una sorta di “incapacità relativa” ritenuta significativa, non in generale, ma in rapporto ai singoli atti che il soggetto andava a compiere. Per quanto riguarda i notai, sempre ad avviso del Giudice penale, tale tipo di patologia della capacità, implicando comprovati momenti di lucidità (che hanno potuto fare apparire la parte quale persona lucida), ha provocato un errore (di fatto) sulla condizione di incapacità, rilevabile ex art. 47 CP., tale da escludere che il comportamento posto in essere dai notai medesimi costituisse reato, per difetto di dolo. 2) Venendo ai profili disciplinari, occorre affrontare una questione preliminare. Dato che, nel confermare il proscioglimento, la sentenza d’appello qualifica severamente le procedure seguite dal notaio, distinguendosi sia dal primo giudice, sia - per alcuni aspetti - dallo stesso Procuratore Generale presso la Corte, occorre brevemente farsi carico del dubbio che tali affermazioni, contenute in un provvedimento passato in cosa giudicata, abbiano efficacia pregiudiziale o comunque vincolante nell’ambito del presente procedimento. L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO Il Consiglio ritiene che la risposta debba essere negativa. Infatti, a parte ogni considerazione di carattere generale sull’efficacia del giudicato penale in materia disciplinare, nel caso di specie pare proprio trattarsi di osservazioni non necessarie all’iter logico della motivazione; esse hanno, pertanto, il carattere di obiter dicta. Infatti, la decisione della Corte ha statuito sull’assenza di dolo e non sulla presenza e gradazione di una ipotizzata situazione di colpa, elemento estraneo alla ratio decidendi e, a ben vedere, nemmeno oggetto di accertamento (e di contraddittorio fra le parti) in sede di giudizio penale. Il Consiglio, pertanto, ritiene di poter valutare autonomamente i comportamenti tenuti dal notaio. 3) Sul piano sostanziale, non è in discussione se vi sia stata o meno una procedura di valutazione della capacità, ma se questa sia stata così inadeguata, omissiva e grossolana, come emergerebbe dagli apprezzamenti della Corte d’Appello, da esser meritevole di sanzione disciplinare alla luce dell’art. 147 L.N. Tale valutazione di adeguatezza della procedura seguita e di ragionevolezza della conclusione raggiunta dal notaio, andrà effettuata - la precisazione è fondamentale - nel quadro delle norme e della prassi proprie della funzione notarile. Come è noto, il notaio è il pubblico ufficiale istituito per ricevere gli atti tra vivi e di ultima volontà (Art. 1 L.N.) e che egli è obbligato a prestare il suo ministero ogni qualvolta ne è richiesto (Art. 27 L.N.). È chiaro che il notaio è tenuto al diligente accertamento della capacità della parte, che è presupposto logico della stessa possibilità di esercitare il dovere di indagine della volontà (art. 47 L.N.); peraltro, non va dimenticato che tale accertamento si inserisce in una realtà operativa e in un quadro normativo dominato dalla doverosità della funzione. Ciò significa che, nei casi dubbi in materia di capacità, nessuna norma impone al notaio (e, per la verità, nessuna norma gli consente) di astenersi per mera prudenza. Sarebbe illusorio e fuorviante (fatta forse eccezione per il poco edificante profilo della preoccupazione del notaio di esporsi in proprio alle sofferenze di un’in- dagine penale) invocare in questa materia un preteso “principio di precauzione”. Infatti, alla luce dell’ordinamento notarile, il negare indebitamente il proprio ministero può risultare illegittimo, prevaricante e socialmente dannoso tanto quanto il prestarlo indebitamente. Questo è un profilo tecnico-giuridico e, per certi aspetti, umano ed etico, davvero importante, che il Consiglio ritiene di sottolineare. Il notaio, dunque, nei casi dubbi in materia di capacità, si trova a dover scegliere - non di rado in situazioni delicate e dolorose - fra il prestare il proprio ufficio (col rischio di documentare una volontà apparente o viziata) e il ricusarlo (col rischio di conculcare una volontà che, pur nella malattia o nella debolezza dell’età, ancora sussiste e cerca di esprimersi). In pratica, è fra Scilla e Cariddi. In questa scelta, poi, egli è fondamentalmente solo, non avendo il potere di imporre accertamenti peritali; inoltre, non può dilazionare più di tanto il proprio operato, perché le esigenze pratiche dell’utenza, le scadenze, il rischio di morte connesso all’età avanzatissima, come nel caso di specie, non concedono di attendere che il notaio - ove mai ne avesse il potere effettui indagini e accertamenti particolarmente approfonditi, senta persone informate dei fatti e disponga perizie. Il notaio è il pubblico ufficiale istituito per ricevere gli atti: le sue scelte devono essere compiute in tempi non troppo diluiti, dedicando all’esame personale delle parti sedute attente, di durata congrua, ma inevitabilmente contenute entro limiti ragionevoli, nel corso delle quali eventuali accertamenti e domande collaterali a comprova della capacità, oltre a dover convivere con la normale attività di consulenza giuridica e fiscale, con i formalismi degli atti, non possono avere né il tecnicismo degli esami medico-scientifici, di cui il notaio non dispone, né un carattere troppo diretto, invasivo o rude, dovendosi pur sempre contenere entro limiti di garbo e discrezione, quali si confanno al ruolo sociale del notaio medesimo. Nel caso di ultime volontà precedute da captazione e circonvenzione, quale sembrerebbe essere - almeno stando alle 81 L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO sentenze non definitive sin qui maturate quello in oggetto, la posizione del notaio chiamato a ricevere il testamento del soggetto passivo del reato si fa ancor più difficile e vulnerabile. Come si è detto, nell’indagare le ragioni che inducono il testatore a disporre in un certo modo, il notaio non dispone né di particolari competenze medico-scientifiche, né dei particolari strumenti che invece sono a disposizione, ex post, del Giudice: consulenze tecniche, perizie mediche, testimonianze, acquisizione di cartelle cliniche o di altra documentazione utile. In questo frangente, il notaio dispone solo della sua sensibilità e dei dati di comune esperienza per mettersi in contatto con la dimensione culturale ed affettiva del testatore. Peraltro, il tentativo di stabilire questo contatto sarà falsato nella misura in cui il testatore stesso abbia assunto a base delle proprie determinazioni le false rappresentazioni dovute all’attività di circonvenzione. Quelle false rappresentazioni appariranno come autentiche anche al notaio, quantunque abbia fatto uso di tutte le sue doti umane e di tutti gli strumenti a sua disposizione: il delitto di circonvenzione di incapace si è, infatti, già consumato ampiamente prima del suo intervento. Fra l’altro, il delitto in questione, il più delle volte, si consuma ai danni di chi abbia una limitata capacità e non di chi ne sia privo del tutto; sicché le doti di diligenza, accortezza e prudenza, che pur devono connotare l’attività del notaio, ben difficilmente potranno svelare un retroscena di illecito penale, mascherato dall’apparenza di capacità, sul quale molto spesso si consumeranno tre gradi di giudizio per accertare la verità. Rimproverare, col senno di poi, al notaio di non aver messo in campo capacità diverse e superiori significherebbe attribuirgli compiti impossibili ovvero mortificare la sua stessa funzione, inducendolo a rinchiudersi in un costante rifiuto di ricevibilità tutte le volte che il testatore appaia soffrire di una qualche limitazione della capacità di intendere e volere. Il tutto, portato alle estreme conseguenze, significherebbe per il notaio rifiutare “prudenzialmente” il proprio ministero tutte le volte che si trovi di fronte ad una persona 82 anziana, il cui stato soggettivo, com’è noto, presenta molto spesso un indebolimento del potere di critica e di quello volitivo. Non sembra ragionevole che l’ordinamento, dopo aver chiaramente posto l’accento sul principio di doverosità della funzione notarile (art. 27 L.N.), ne legittimi poi la sistematica vanificazione. Il notaio può affidarsi solo al suo intuito e alle regole di comune esperienza e, tutte le volte che abbia acquisito la convinzione dell’esistenza di un accettabile livello di capacità, deve riconoscere dignità alla persona che ha di fronte e assicurarle il diritto alla documentazione e conservazione della volontà. Ad altri, in un’equilibrata distribuzione di poteri e funzioni, spetterà l’eventuale compito di verificare, al di là della situazione apparente, l’assenza di profili di incapacità nella formazione di quel volere. Infatti, è inevitabile che l’accertamento della capacità delle parti degli atti notarili, nelle sedi a ciò deputate e nei casi previsti dalla legge, possa essere ex post sottoposto a giudizio, anche severo, impietoso e approfondito, con gli strumenti, ben più potenti, di cui fruiscono la magistratura e, per qualche aspetto, le stesse parti private nell’ambito dei procedimenti giudiziari. Ciò non significa, peraltro, che a un successivo giudizio d’incapacità della parte debba necessariamente conseguire la sanzionabilità del notaio. È chiaro che il notaio deve industriarsi di individuare i casi di incapacità e, raggiunta in coscienza la piena convinzione di trovarsi di fronte a persona che non comprende e non vuole, astenersi dal prestare il proprio ufficio; le sue scelte e determinazioni, peraltro, andranno giudicate alla stregua del contesto pratico e normativo in cui si trova a operare, tenendo conto delle regole, dei mezzi e dei poteri propri della sua funzione. Al fine della sanzionabilità disciplinare occorre dunque la prova di un quid pluris, rispetto all’errore sulla capacità, ossia di una colpevole incuria nell’esame della parte o di una irragionevole disponibilità a prestare il proprio ufficio pur in presenza di una situazione di incapacità evidente. Alla luce di quanto precede, le risultanze AIAF RIVISTA 2/2006 dell’istruttoria disciplinare, sia derivanti dalla produzione documentale, sia emerse dalla personale audizione dell’interessata, non paiono al Consiglio sufficienti per ritenere raggiunta tale prova. Risulta dalle dichiarazioni rese nel presente procedimento, dalle conformi risultanze dell’interrogatorio avanti il PM e, in genere, dal complesso degli accertamenti processuali in sede penale, che il notaio ebbe presente il problema dello stato mentale della parte, se ne fece carico assumendo informazioni preventive, nel corso delle quali richiese anche certificazioni mediche sulla capacità della parte; in sede di esame diretto, cercò di farsi un’idea propria, interrogando la parte, accertandosi della sua capacità di riconoscere le persone e di comprendere il contenuto degli atti che si andavano a porre in essere. Infine, sul piano della ragionevolezza della decisione di ricevere gli atti, va considerato che, come si è sopra rilevato, le risultanze del procedimento penale hanno evidenziato diversità di vedute tra i consulenti tecnici delle parti ed anche tra alcune dichiarazioni testimoniali documentali sulla valutazione sullo stato di capacità della parte nei primi mesi del 2002. Risulta, insomma, dagli esiti del procedimento penale che la FF era soggetto capace perlomeno a sprazzi o per lucidi intervalli e manca la prova del fatto che essa, in occasione della sottoscrizione della dichiarazione sostitutiva e del testamento di cui è causa, si trovasse in un momento di evidente incapacità. Considerato tutto questo, il Consiglio Notarile di Milano non ritiene sufficientemente dimostrato il ricorso dei comportamenti grossolanamente inadeguati, omissivi o irragionevoli contestati al notaio, PQM all’unanimità delibera di assolvere il notaio … dall’incolpazione in oggetto. (http://www.federnotizie.org/2006) MAGGIO - AGOSTO 2006 L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO SENATO DELLA REPUBBLICA - XIV LEGISLATURA DOCUMENTO APPROVATO DALLA 12ª COMMISSIONE PERMANENTE (Igiene e sanità) nella seduta del 14 febbraio 2006 Relatrice BOLDI A CONCLUSIONE DELL’INDAGINE CONOSCITIVA proposta dalla Commissione stessa nella seduta del 22 novembre 2005; svolta nelle sedute del 14 dicembre 2005, 17 gennaio 2006, 18 gennaio 2006, 24 gennaio 2006, 31 gennaio 2006, 1º febbraio 2006, 7 febbraio 2006, 8 febbraio 2006 e conclusasi nella seduta del 14 febbraio 2006 SULLO STATO DELL’ASSISTENZA PSICHIATRICA IN ITALIA E SULL’ATTUAZIONE DEI PROGETTI OBIETTIVO PER LA TUTELA DELLA SALUTE MENTALE (articolo 48, comma 6, del Regolamento) Comunicato alla Presidenza il 9 marzo 2006 A distanza di trent’anni dall’entrata in vigore della legge 13 maggio 1978, n. 180, «Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori», la Commissione igiene e sanità del Senato, accogliendo le sollecitazioni provenienti dalle società scientifiche, dal mondo dell’associazionismo e dalle famiglie di malati psichiatrici, ha deciso di svolgere un’indagine conoscitiva sull’attuazione di tale legge, al fine di fotografare la situazione esistente, individuarne le criticità ed eventualmente proporre opportune modifiche. 1. IL LAVORO SVOLTO DALLA COMMISSIONE L’indagine conoscitiva, deliberata all’unanimità dalla 1 2ª Commissione nella seduta n. 300 del 22 novembre 2005 ed autorizzata dal Presidente del Senato in data 28 novembre 2005, ha portato allo svolgimento di audizioni di istituzioni centrali e regionali, associazioni, società scientifiche ed esperti della materia. In particolare, sono state svolte, nell’ordine, le seguenti audizioni: Marco MARCHETTI, professore di psicopatologia forense dell’Università Tor Vergata di Roma, in rappresentanza della Società Italiana di Criminologia; Eugenio AGUGLIA, presidente della Società Italiana di Psichiatria (SIP); Antonio PICANO, psichiatra presso l’Ambulatorio per la depressione dell’Ospedale San Camillo di Roma, in rappresentanza dell’Associazione Italiana Psichiatri e Psicologi Cattolici (AIPPC); Stefano RAMBELLI, psicologo, presidente della Cooperativa Sadurano Salus di Castrocaro Terme; Gisella TRINCAS, presidente dell’Unione Nazionale delle Associazioni per la Salute Mentale (UNASAM); Maria Luisa ZARDINI, presidente dell’Associazione per la Riforma dell’Assistenza Psichiatrica (ARAP); Luigi DE MARCHI, membro del Comitato scientifico dell’ARAP; Francesco STORACE Ministro della salute; Sebastiano ARDITA, direttore generale della Direzione generale dei detenuti e del trattamento, del Dipartimento Amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia; Anna Rosa ANDRETTA, presidente dell’Associazione per la Difesa degli Ammalati Psichici Gravi (DIAPSIGRA); Paolo CANEVELLI, Magistrato del Tribunale di sorveglianza di Roma; Luana GRILLI, vicepresidente della Cooperativa Sociale il Mandorlo di Cesena; Cosimo LO PRESTI, presidente della Federazione Italiana Salute Mentale (FISAM); Laura BUSSETTO, membro dell’Associazione per la Difesa degli Ammalati Psichici (DIAPSI-Piemonte); Augusto PILATO, segretario nazionale della FISAM; Liliana LORETTU, professoressa presso l’Università di Sassari, presidente della Società Italiana Psichiatria Forense; Vanni PECCHIOLI, psicologo, membro del comitato direttivo di Psichiatria Democratica. La Commissione si è inoltre avvalsa della documentazione sull’attuazione della normativa in materia di salute mentale inviata dalle regioni. A causa della limitatezza del tempo a disposizione e dell’imminente scadenza della legislatura, non sono stati svolti sopralluoghi. 2. LA COMPLESSITÀ DEL PROBLEMA La definizione di salute mentale è ancora lontana dall’essere universalmente condivisa; ciononostante, non si può negare che la logica basagliana - per cui la malattia mentale rappresenta una condizione sociale da accettare e non una vera e propria patologia da curare - si è rivelata intrinsecamente incompleta ed è stata parzialmente superata. La consapevolezza diffusa che il disagio mentale rappresenta una vera e propria malattia - pur nella perdurante incertezza circa la molteplicità delle cause di natura biologica, ereditaria, sociale, familiare e a volte anche iatrogena che ne determinano la comparsa - testimonia che le attuali carenze del sistema di salute mentale derivano non da resistenze ideologiche, ma da problemi strutturali, funzionali, finanziari, organizzativi ed informativi. Prima di analizzare le carenze «di sistema» che ancora oggi caratterizzano la salute mentale, è opportuno soffermarsi ad esaminare la reale entità del fenomeno in esame, per comprenderne la diffusione sul territorio e le possibili dinamiche di sviluppo. I dati statistici testimoniano infatti che i disturbi mentali, seppure diversi per qualità e durata, riguardano un adulto ogni cinque, 83 L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO AIAF RIVISTA 2/2006 coinvolgendo circa 450 milioni di persone a livello mondiale, 93 milioni in Europa e 2.200.000 persone in Italia. Circa il 50 per cento di tali disturbi si presenta in condizioni di comorbilità e l’esito della patologia è spesso nefasto, dal momento che il numero dei suicidi è di circa 873.000 persone all’anno. Per gran parte di queste persone, un trattamento tempestivo eviterebbe il pericolo di aggravamento, di cronicizzazione o di suicidio. A fronte della rilevante diffusione della patologia, i servizi disponibili sul territorio nazionale sono, nel complesso, inadeguati a fornire una risposta alla domanda di assistenza proveniente dai cittadini: si stima, infatti, che i servizi psichiatrici trattino solo il 10 per cento delle persone che in un anno presentano disturbi psichiatrici in parte per carenze strutturali, in parte per il timore di molti a dichiarare la propria malattia ed essere vittime dello stigma che colpisce, nella nostra società, chi ha problemi di salute mentale. Tale situazione sembra peraltro destinata a peggiorare, dal momento che numerosi aspetti epidemiologici contemporanei (quali l’aumento della popolazione anziana, l’incremento dell’immigrazione ed il conseguente aumento delle condizioni di disagio legate a sacche di povertà e disuguaglianza nell’accesso alle cure, la diffusione delle condizioni di stress legate ai frenetici ritmi di vita e di lavoro, il maggiore disagio urbano, i crescenti problemi dell’adolescenza e della gioventù) possono contribuire a favorire un ulteriore incremento dei disturbi mentali a partire dall’immediato futuro. Tale quadro sociale ed epidemiologico trova esplicita conferma nel Libro Verde Migliorare la salute mentale della popolazione. Verso una strategia sulla salute mentale per l’Unione europea - COM(2005) 484 definitivo -, approvato dalla Commissione europea il 14 ottobre 2005, che evidenzia come la patologia mentale comporti un disagio personale ad alta ripercussione, che tende ad incidere sul sistema familiare, sulla condizione lavorativa, sulla situazione economica, fiscale, giudiziaria e penale del malato. Proprio la richiamata peculiare complessità della malattia mentale rende improrogabili interventi sanitari e sociali armonici e coerenti. 3. IL QUADRO NORMATIVO ED ORGANIZZATIVO ATTUALE Nel tentativo di fornire una risposta ad alcune delle esigenze diffuse dei malati di mente e delle loro famiglie, la legge n. 180 del 1978, successivamente integrata dalla legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale (SSN), legge 23 dicembre 1978, n. 833, perseguiva tre obiettivi fondamentali: tutelare i diritti del paziente; favorirne il recupero sociale e promuovere un modello assistenziale allargato sul territorio, fondato sull’interazione interdisciplinare di più figure ed interventi professionali. Tali obiettivi sono rimasti sostanzialmente inattuati negli anni successivi alla riforma, a causa della debole azione di indirizzo e delle criticità riscontrate soprattutto nel settore dell’organizzazione dei servizi. A dispetto ditali problematicità diffuse, solo negli anni Novanta - con l’elaborazione dei due progetti-obiettivo per la «Tutela della salute mentale» rispettivamente del 1994 e del 1998 - sono state assunte concrete iniziative per l’integrazione di una legge che continuava a presentare persistenti lacune attuative. Alla luce ditali interventi, l’assetto organizzativo attuale risulta incentrato sui 211 Dipartimenti di salute mentale, istituiti in ciascuna azienda sanitaria locale e dotati di vari servizi (a diversa intensità e tipologia di assistenza), tra i quali, in particolare, i centri di salute mentale, i servizi psichiatrici di diagnosi e cura, i day hospital, le cliniche psichiatriche universitarie e le case di cura private. Nel complesso, i posti letto disponibili sono 9.289, ai quali si devono aggiungere i 612 centri diurni e i 17.101 posti letto delle 1.552 strutture residenziali presenti sul territorio. Le prestazioni erogate sono sia di tipo ospedaliero che di tipo ambulatoriale; in particolare, si stima che circa 34.000 sono i ricoveri ospedalieri annuali, mentre circa 48.000 sono i ricoveri nelle strutture residenziali e semiresidenziali pubbliche e private. Un letto ogni 10.000 abitanti presso gli ospedali generali, anche nelle rare regioni dove è raggiunto, è insufficiente. Bisognerebbe indicare almeno 1,5 posti letto per 10.000 abitanti. Ad integrazione ed interpretazione ditali dati statistici, è opportuno precisare che l’attuazione della legge n. 180 del 1978 e dei progetti-obiettivo del 1994 e del 1998 è stata assolutamente disomogenea a livello interregionale, non solo perché la legge n. 180 del 1978 ha avuto diverse intensità e velocità di applicazione nelle varie aree regionali, ma soprattutto perché alcune regioni hanno privilegiato la psichiatria ospedaliera, mentre in altre il fulcro delle attività è stato costituito dai dipartimenti di salute mentale. Rispetto a tale assetto normativo ed organizzativo, un radicale cambiamento, almeno sotto il profilo del riparto delle competenze, è stato introdotto nel settore in esame con la riforma del Titolo V della Costituzione, che ha di fatto determinato il trasferimento in capo alle regioni della gestione dell’assistenza per la salute mentale, da esercitarsi nel rispetto delle competenze statali di indirizzo e controllo. Nel prossimo futuro, saranno quindi le regioni le principali protagoniste del nuovo percorso di riorganizzazione del sistema di assistenza psichiatrica che si renderà necessario al fine di adeguare l’offerta di prestazioni alla variegata domanda proveniente dagli utenti. 4. GLI ELEMENTI DI CRITICITÀ DEL SISTEMA ASSISTENZIALE ED I POSSIBILI INTERVENTI CORRETTIVI Alla luce dei dati e dei rilievi emersi dalle audizioni svolte e dalla documentazione analizzata, è possibile identificare come segue le principali criticità del sistema di assistenza psichiatrica e gli eventuali interventi correttivi ad esso relativi. In primo luogo, l’attuale sistema di assistenza psichiatrica italiana sembra presentare numerose lacune e carenze: intorno al 90 per cento delle risorse disponibili è infatti assorbito da circa 40.000 pazienti gravi, che presentano costi assistenziali molto elevati, fino a soglie di 80.000 euro all’anno; tale dato testimonia che, finora, la psichiatria italiana si è concentrata prevalentemente sul malato grave, lasciando scoperte aree di grande importanza, come l’ansia o la depressione, che devono essere adeguatamente curate, per prevenire l’insorgenza di patologie più gravi, contribuendo così al miglioramento del livello di salute complessivo della popolazione. Particolare attenzione andrebbe inoltre riservata, perché sempre più frequente, alla depressione post-partum, troppo spesso sottovalutata e ai disturbi dell’alimentazione (anoressia e bulimia) che registrano un continuo aumento soprattutto negli adolescenti. Nel prossimo futuro, sarà conseguentemente necessario elaborare nuovi percorsi assistenziali, sia per la cura dei disagi mentali meno gravi (che, a differenza di quanto sostenuto da alcune parti, non devono essere delegati alla medicina di base), che per la prevenzione delle cronicità spesso associate alle patologie in esame. Nello specifico, si rende opportuno promuovere la diagnosi precoce delle patologie, l’adozione di interventi tempestivi ai primi segnali di sofferenza, l’implementazione di misure atte a 84 MAGGIO - AGOSTO 2006 L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO migliorare la cono scibilità e l’accessibilità dei servizi, la diffusione di campagne di sensibilizzazione ed informazione al problema e il potenziamento delle attività di intervento psichiatrico, in primo luogo diagnostico, in età infantile e sugli adolescenti. Se si considera che circa un milione di pazienti non vengono trattati per la depressione per mancanza di diagnosi, pare chiaro che anche l’ospedale generale deve diventare luogo strategico per intervenire su questo tipo di pazienti e deve essere dotato delle professionalità adatte a diagnosticare queste patologie, spesso assolutamente misconosciute presso i reparti di Pronto soccorso. Una seconda area di criticità è quella legata al carattere tendenzialmente episodico e discontinuo di programmi e trattamenti, che riescono a coprire solo una frazione della domanda dei pazienti; l’impossibilità di garantire un’assistenza sanitaria specifica nel medio-lungo periodo evidenzia infatti la condizione di sostanziale abbandono in cui ancora oggi sono lasciati tali pazienti, con tutti i problemi di gestione quotidiana che risultano così riversati sulle famiglie, gravate da enormi difficoltà e responsabilità. Per ovviare a tale situazione, è necessario intensificare e diversificare la rete assistenziale sia a livello ospedaliero, sia, soprattutto, a livello territoriale, al fine di offrire alle famiglie un reale supporto infermieristico, psichiatrico, sociale ed eventualmente anche economico (ad esempio favorendo l’accesso di questi pazienti alle pensioni di reversibilità). In particolare, si dovrebbe diversificare l’offerta su vari livelli assistenziali a progressiva intensità di cura, al fine di fornire risposte differenziate a seconda della tipologia e del grado di patologia del paziente, quali: l’erogazione di servizi di assistenza psichiatrica domiciliare prolungata nel medio-lungo periodo per i malati che possono essere curati in famiglia, l’attivazione estesa di strutture residenziali protette di medie dimensioni per la lungo-degenza dei malati cronici e l’introduzione di strutture di alta specializzazione deputate al trattamento e alla cura psichiatrica dei malati non ancora cronicizzati. Tali strutture di alta specializzazione dovrebbero essere focalizzate su specifiche problematiche di pertinenza psichiatrica, come ad esempio quelle concernenti la vittimologia. Inoltre, dovrebbe essere potenziata l’offerta di servizi e di strumenti di supporto a livello territoriale, tra cui l’istituzione di centri di ascolto nei dipartimenti di salute mentale, la creazione di una rete di assistenza domiciliare ad hoc in sinergia con il privato sociale e la medicina di famiglia, la realizzazione di centri crisi e centri diurni, nonché la partecipazione in un nucleo di valutazione del dipartimento di salute mentale di rappresentanti di associazioni di familiari. Per l’implementazione di tutti questi interventi, sarà importante monitorare le iniziative deliberate dalle aziende sanitarie locali per il reinvestimento in obiettivi di salute mentale delle risorse ricavate dalla dismissione degli ospedali psichiatrici. Un terzo ambito di criticità è quello legato all’assenza di protocolli unitari per l’attuazione del Trattamento sanitario obbligatorio (TSO), che conseguentemente rappresenta un vero e proprio momento di rischio, sia per il paziente (nel caso del mancato o ritardato ricovero ovvero, all’inverso, dell’abuso nel ricorso al ricovero) che per i professionisti del settore (data la possibilità di incorrere nella colpa professionale per abbandono di persona incapace ovvero, all’opposto, per sequestro di persona). La revisione della normativa sul TSO e anche sull’Accertamento sanitario obbligatorio (ASO) - procedura nella quale si riscontrano problemi analoghi a quelli del TSO - deve consentire ai professionisti la possibilità di effettuare nei confronti dei pazienti non collaborativi i dovuti accertamenti e trattamenti non solo nella fase acuta, ma per tutto il tempo necessario alla cura; è inoltre opportuno un sostanziale snellimento delle procedure. Ovviamente, il problema dei TSO e degli ASO è legato a doppio filo al tema del diritto di autodeterminazione del malato nel settore dell’assistenza psichiatrica. In tale ambito, ferma restando l’esigenza di garantire, per quanto possibile, il diritto alla libera scelta delle cure del malato psichiatrico, si ritiene necessario evidenziare il problema della scarsa percezione del disturbo psichiatrico (il 10 per cento dei malati non sa infatti di soffrire di una patologia mentale) e quindi segnalare l’opportunità di introdurre adeguati meccanismi, anche obbligatori, di responsabilizzazione dei malati alla cura. Connesso al problema dei TSO è anche il tema della contenzione, fisica e farmacologica, modalità attraverso la quale, in particolari situazioni, viene attuato un trattamento psichiatrico; trattandosi di una modalità di trattamento ormai in disuso, ma estremamente complessa e con rilevanti ripercussioni sul sistema di relazioni medico-paziente-familiari, è necessario promuovere anche nel settore in esame la predisposizione di protocolli unitari e specifici, che ne regolamentino l’uso e portino alla creazione del «registro epidemiologico della contenzione». Altrettanto urgente è, infine, l’introduzione di disposizioni comuni sul trattamento delle urgenze, tematica questa che, data la complessità dell’argomento, necessita della definizione di linee guida comuni al fine di orientare i medici sulle modalità e sul luogo del trattamento. Quarta area di criticità è quella legata alla chiusura degli ospedali psichiatrici (OP) che, pur rappresentando una grande conquista della legge n. 180 del 1978, non ha contribuito a risolvere del tutto i problemi assistenziali di fondo che avevano ispirato la riforma: parte dei pazienti dimessi dagli OP sono stati, infatti, accolti in comunità protette, che a volte rischiano di diventare dei «mini manicomi», in cui si sono ripetuti i tradizionali schemi custodialistici e di etichettamento. Alcuni ditali pazienti, ormai anziani e non più bisognosi di specifica assistenza psichiatrica, potrebbero trovare adeguata sistemazione nelle residenze sanitarie assistite (RSA), che sono da potenziare e che dovrebbero contemplare delle percentuali di accoglienza dedicate agli ex malati mentali, consentendo così di liberare posti nelle comunità protette a favore dei pazienti giovani che ancora oggi trovano una grande difficoltà logistica all’inserimento. In tutte le strutture residenziali o semiresidenziali, spesso gestite dai privati accreditati, deve comunque essere realizzata un’attenta valutazione della qualità dei servizi, al fine di evitare che tali strutture si trasformino in semplici «parcheggi», privi di interventi assistenziali o riabilitativi mirati. Un quinto livello di criticità si manifesta a livello della medicina psichiatrica penitenziaria, settore questo assolutamente trascurato dalla legge n. 180 del 1978. In particolare, si pone il problema della gestione della popolazione dei pazienti psichiatrici residenti negli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG), per i quali è iniziato da alcuni anni un processo di progressiva dimissione: è evidente, infatti, che né una dimissione «forzata», né il mancato invio in OPG risolvono il problema di fondo del trattamento di pazienti autori di reati (e spesso di reati violenti), che non sono sovrapponibili, per problematiche e percorso terapeutico, alla restante popolazione dei pazienti psichiatrici. L’impreparazione dei dipartimenti di salute mentale a gestire tali pazienti e l’impossibilità di gestire contestualmente le due tipologie di malati nelle comunità protette rende conseguentemente auspicabile un percorso di riflessione sulle riforme da attuare, al fine di garantire a tali pazienti - anche attraverso l’attivazione di convenzioni con i servizi di psichiatria territoriale opportunamente riorganizzati - trattamenti mirati e affidati a personale specializzato. Una sesta area di criticità riguarda la carenza di percorsi formativi specifici per gli operatori in ambito psichiatrico: scarseggiano, infatti, i percorsi formativi e di aggiornamento finalizzati a garantire un’adeguata e continuativa formazione specialistica al per- 85 L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO AIAF RIVISTA 2/2006 sonale addetto al trattamento di queste patologie. Conseguentemente, va garantita una maggiore integrazione della salute mentale nella didattica dell’assistenza sanitaria (inclusi i corsi ECM) e nelle strutture e va altresì prevista una riforma degli studi universitari, da anni inadeguati alle esigenze di sviluppo del settore. In ambito medico, ad esempio, il venir meno della specializzazione in criminologia e le problematiche operative che caratterizzano la specializzazione in psicopatologia forense (per la quale il Ministero della salute non ha indetto specifiche borse di studio) sono una testimonianza evidente delle difficoltà organizzative-formative che ostacolano la specializzazione nel settore. Le cliniche universitarie di psichiatria dovrebbero essere direttamente coinvolte nel SSN, ad esempio assumendo la responsabilità di almeno un modulo assistenziale, poiché non sarebbe possibile provvedere alla formazione del personale del SSN con insegnamento e tirocinio adeguati se carenti di diretta competenza. Infine, non si possono sottovalutare anche le criticità legate alla scarsità di percorsi mirati di inserimento/reinserimento sociale e lavorativo dei pazienti affetti da disturbi mentali. Se si considera, infatti, che il lavoro costituisce un valore fondamentale per la riabilitazione e l’inserimento sociale, si comprende l’importanza dell’introduzione di sistemi di lavoro protetti ed adeguatamente retribuiti per i malati psichici con prospettive d’inserimento graduale nel mondo del lavoro; altrettanto importante è la promozione di specifici momenti di formazione professionale, anche sul campo, da alternare ai momenti di lavoro vero e proprio. 5. CONCLUSIONI Una vera riforma dell’assistenza psichiatrica deve essere mossa dall’esigenza di superare l’accezione di «psichiatria» per arrivare ad una nuova nozione di «salute mentale», connotata sia in termini di prevenzione e diagnosi precoce che in termini di miglioramento della qualità di vita dei malati. In tale prospettiva, è necessario che l’attenzione non sia limitata alle malattie croniche o agli episodi acuti della patologia psichiatrica, bensì estesa a tutti i disturbi mentali delle diverse fasce di popolazione a rischio come l’infanzia e l’adolescenza, gli anziani, i tossicodipendenti e gli alcolisti. Perché questi obiettivi siano raggiunti, la strategia di intervento deve essere focalizzata sull’integrazione in rete di tutti i servizi che oggi operano in maniera disaggregata, nonché sulla riorganizzazione e differenziazione delle diverse forme di assistenza o presa in carico del malato oggi disponibili anche individuando una figura di coordinatore interdipartimentale e interservizi. Al raggiungimento ditali obiettivi deve collaborare anche l’Università, come ente formativo, in sinergia con le amministrazioni regionali e i dipartimenti territoriali. Tali processi di riforma dovranno essere implementati con il supporto diretto sia delle famiglie dei malati, che devono rimanere parte integrante del «cammino terapeutico» del paziente, sia delle associazioni di familiari e volontari, che rappresentano una risorsa fondamentale da valorizzare ulteriormente nella definizione sia teorica che operativa del progetto terapeutico. Solo attraverso lo sforzo comune di tutte le figure e le istituzioni coinvolte nel problema, sarà possibile combattere lo stigma di cui sono fatti oggetto, ancora oggi, e indipendentemente dal tipo e dalla gravità della patologia, coloro che presentano disturbi mentali. Sotto il profilo delle competenze normative e gestionali, infine, è importante che le regioni, in stretta collaborazione con gli enti locali e nel rispetto degli indirizzi generali nazionali, siano responsabilizzate sull’attuazione degli interventi di riorganizzazione dell’assistenza psichiatrica, proseguano e implementino i progetti obiettivo già in atto, rispondendo in prima persona dei risultati raggiunti nel perseguimento dell’obiettivo di destinazione del 5 per cento dei fondi sanitari regionali alle attività di salute mentale. 86 RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE 1. PREMESSA. doveri genitoriali trovano la loro fonte, oltre che a livello costituzionale, mediante la previsione dell’art. 30 Cost, anche nell’art. 147 c.c. L’attuale formulazione dell’art. 147 c.c. (Doveri verso i figli) prevede il dovere dei genitori di provvedere al mantenimento, all’istruzione e all’educazione dei figli, anche se nati al di fuori del matrimonio, assecondandone le inclinazioni, le capacità e le aspirazioni. La norma codicistica è chiaramente ispirata dal principio sancito all’art. 2 Cost. che tutela i diritti inviolabili della persona sia come singolo che “nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità”. Tra esse rientra in modo preminente la famiglia legittima o meno - intesa come “formazione sociale di cui la prole è parte avente dignità di grado uguale a quello di ogni altro componente” (FRACCON). I doveri dei genitori nei riguardi dei figli, dunque, nascono per il semplice fatto della procreazione, indipendentemente dallo status filiationis, ossia dalla circostanza se siano nati o meno in costanza di matrimonio. Prima di giungere alla riforma del 1975 la filiazione legittima, concepita in costanza di matrimonio, era nettamente contrapposta a quella “illegittima”. Soltanto la prima godeva di considerazione sociale e di una integrale tutela, e la ratio era quella di conferire dignità e rafforzare la sola famiglia legittima, intesa quale unica entità sociale e giuridica - vera e propria istituzione capace di assolvere ai compiti di mantenimento, istruzione ed educazione necessari per assicurare una ordinata vita sociale; ed altresì come struttura in grado di garantire la conservazione e la trasmissione del patrimonio (RESCIGNO). Il modello familiare accettato e ritenuto legittimo - in quanto conforme al diritto ed al costume - era quello fondato sul matrimonio, che rappresentava l’unico ambito in cui la filiazione trovava dignità e piena protezione; il presupposto implicito del sistema - ben avvertito nel costume sociale - era che la filiazione per essere lecita dovesse sempre originare da genitori uniti in matrimonio (SESTA). Oggi la prospettiva è radicalmente cambiata: in primis alla filiazione naturale non è più attribuita l’espressione “illegittima”; inoltre, in seguito alla riforma del diritto di famiglia del 1975, il legislatore ha provveduto ad una sostanziale equiparazione della filiazione naturale a quella legittima, sia nell’ambito dei rapporti di carattere personale - mediante la previsione dell’art. 261 c.c. (Diritti e doveri derivanti al genitore dal riconoscimento) - sia nell’ambito dei rapporti di tipo successorio, I SOMMARIO: 1. Premessa. 2. I doveri dei genitori. 3. Atti illeciti commessi dai genitori nei confronti dei figli e responsabilità civile. 4. La responsabilità del genitore non affidatario per mancato esercizio del diritto - dovere di visita. 5. La responsabilità del genitore affidatario che ostacola i rapporti con l’altro genitore. 6. Responsabilità da riconoscimento non veritiero di paternità. Il disconoscimento di paternità. 7. La responsabilità da procreazione. RAPPORTI TRA GENITORI E FIGLI, ILLECITO CIVILE E RESPONSABILITÀ. LA RIVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE DEGLI ULTIMI ANNI ALLA LUCE DEL DANNO ESISTENZIALE1 attraverso l’introduzione degli artt. 468, 536 e 537 c.c. Inoltre le norme che hanno rimosso il divieto dell’accertamento nei riguardi dei figli adulterini e quelle che hanno fissato i principi della libertà della prova (art.269 c.c.) e dell’imprescrittibilità dell’azione (270 c.c.) consentono al figlio natura- GIUSEPPE CASSANO * 1. Il presente saggio costituisce la trascrizione di parte dell’intervento al Convegno “Amore e Diritto” tenutosi a Ferrara il 19 giugno 2006. Per più compiute argomentazioni si rimanda a Giuseppe Cassano, Rapporti familiari responsabilità civile e danno esistenziale. Il risarcimento del danno non patrimoniale all’interno della famiglia, Cedam, 2006. 87 RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE le di conseguire agevolmente l’accertamento del proprio status giuridico (SESTA). L’individuazione codicistica dei doveri “mantenere, istruire ed educare” - ripresa in maniera puntuale - dalla formulazione dell’art. 30 Cost., si ritiene vada integrata con il dato normativo contenuto nell’art. 12 della L. n. 184/1983, in cui alla triade viene anteposta “l’assistenza morale”, locuzione significante una relazione rispettosa della persona del minore, ricca di interscambi di natura affettiva e del sostegno necessario per una crescita sana ed equilibrata (FRACCON). Quanto alla natura giuridica dei doveri dei genitori nei riguardi dei figli, si può senz’altro affermare che essi hanno contenuto giuridico, visto che l’ordinamento predispone strumenti specifici - in primis l’art. 330 e 333 c.c. - per soddisfare le esigenze filiali, violate in seguito a comportamenti inadempienti dei genitori. Infatti, ai sensi dell’art. 330 c.c., qualora i genitori violino o trascurino i doveri inerenti alla prole o abusino dei poteri ad essi relativi, con grave pregiudizio per i figli, il giudice (Tribunale per i minorenni) può pronunziare la decadenza dalla potestà genitoriale (che è venuta a sostituire la patria potestas consistente nel potere del capofamiglia nei confronti della prole generata da lui). Invece, nell’ipotesi in cui, ex art. 333 c.c., il comportamento del genitore non sia tanto grave da comportare la pronuncia della decadenza dalla potestà genitoriale, il giudice (Tribunale per i minorenni) potrà adottare i provvedimenti che riterrà convenienti e disporre eventualmente anche l’allontanamento del figlio dalla residenza familiare. Inoltre, sia nell’ipotesi contemplata dall’art. 330 che in quello dell’art. 333 c.c., - novità, questa, introdotta dall’art.37 della L. n. 149/01 con lo scopo di proteggere il minore senza comportare un suo sradicamento dal contesto familiare - è stata prevista anche la possibilità per il giudice di disporre l’allontanamento dalla casa familiare del genitore/convivente che maltratta o abusa del minore stesso. In passato gli istituti di cui agli artt. 330 e 333 c.c si riteneva avessero natura sanzionatoria rispetto alla condotta dei genitori, mentre attualmente hanno perso tale connotazione per assumere funzione preventiva: tali misure, infatti, mirano ad evitare il perpetuarsi di situazioni dannose e pregiudizievoli per il figlio o a prevenire probabili lesioni successive (VILLA, BUCCIANTE). 2. I DOVERI DEI GENITORI. doveri dei genitori nei confronti dei figli, elencati nell’art. 30 Cost. e richiamati pedissequamente dall’art. 147 c.c. sono quelli al I 88 AIAF RIVISTA 2/2006 mantenimento all’istruzione e all’educazione. Essi, tuttavia, non esauriscono l’ambito dei doveri genitoriali verso la prole. Esistono, infatti, una serie di precetti normativi destinati a soddisfare gli interessi del nucleo familiare che si riferiscono, anche se indirettamente, pure ai figli. Inoltre, come sopra accennato, l’art. 12 della L. n. 184/83 prevede un dovere di assistenza morale del minore che, anche se non espressamente enunciato nell’elencazione dell’art. 147 c.c., si ritiene applicabile non soltanto alla filiazione adottiva ma anche nell’ambito della famiglia d’origine (VILLA, TRABUCCHI). In linea generale può, dunque, affermarsi che i genitori hanno il dovere di provvedere alla cura dei figli, facendo tutto il possibile per soddisfare le loro esigenze e realizzare i loro interessi. Deve tenersi conto del fatto che, nell’ambito del dovere di curare la prole, gli obblighi di mantenimento, di istruzione e di educazione costituiscono delle manifestazioni tipiche, traducibili in specificazioni ulteriori, come il dovere di custodire il figlio, evitando che arrechi danno a sé o a terzi, oppure il dovere di correggerlo (VILLA). Il dovere di mantenimento deve essere commisurato ai redditi, alla consistenza del patrimonio ed alla idoneità lavorativa e professionale dei genitori; in particolare si ritiene che non possa esaurirsi nelle cure prestate al figlio nella normale convivenza, ma riguardi anche la sfera della vita di relazione e le esigenze di sviluppo della personalità (SESTA). L’obbligo di mantenimento, a differenza di quello alimentare, non è limitata al soddisfacimento dei bisogni elementari di vita, ma comprende anche ogni altra spesa necessaria per arricchire la personalità del beneficiario; non è subordinato allo stato di bisogno del beneficiario, ma discende automaticamente dalla posizione del singolo all’interno della famiglia, a prescindere da qualsiasi altro presupposto; inoltre l’onerato per essere esonerato deve dimostrare, oltre alla mancanza di mezzi, anche l’incolpevole impossibilità di procurarseli (DOGLIOTTI). Il mantenimento dei figli grava su ciascun genitore, il quale dovrà contribuirvi in proporzione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro, professionale o casalingo. Nell’eventualità in cui soltanto uno dei genitori abbia integralmente adempiuto l’obbligo di mantenimento dei figli, facendosi carico anche della quota gravante sull’altro, lo stesso sarà legittimato ad agire iure proprio nei confronti di quest’ultimo per il rimborso di detta quota, anche per il periodo anteriore alla domanda. Il genitore affidatario il quale continui a provve- MAGGIO - AGOSTO 2006 dere direttamente ed integralmente al mantenimento dei figli divenuti maggiorenni e non ancora economicamente autosufficienti resta legittimato non solo ad ottenere “iure proprio”, e non già “ capite filiorum”, il rimborso di quanto da lui anticipato a titolo di contributo dovuto dall’altro genitore, ma anche a pretendere detto contributo per il mantenimento futuro dei figli stessi (Cass. civ., sez. I, 16.2.01, n. 2289) Il coniuge che abbia integralmente adempiuto l’obbligo di mantenimento dei figli, pure per la quota facente carico all’altro coniuge, è legittimato ad agire “iure proprio” nei confronti di quest’ultimo per il rimborso di detta quota, anche per il periodo anteriore alla domanda, atteso che l’obbligo di mantenimento dei figli sorge per effetto della filiazione e che nell’indicato comportamento del genitore adempiente è ravvisabile un caso di gestione di affari, produttiva a carico dell’altro genitore degli effetti di cui all’art. 2031 cod. civ. (Cass. civ., sez. I, 4.9.99, n. 9386) Il coniuge che abbia integralmente adempiuto l’obbligo di mantenimento dei figli, pure per la quota facente carico all’altro coniuge, è legittimato ad agire “iure proprio” nei confronti di quest’ultimo per il rimborso di detta quota, anche per il periodo anteriore alla domanda, atteso che l’obbligo di mantenimento dei figli sorge per effetto della filiazione e che nell’indicato comportamento del genitore adempiente è ravvisabile un caso di gestione di affari, produttiva a carico dell’altro genitore degli effetti di cui all’art. 2031 cod. civ. (Cass. civ., sez. I, 5.12.96, n. 10849) Tale principio si ritiene applicabile anche con riferimento alla filiazione naturale qualora il genitore che abbia provveduto al mantenimento del figlio intenda agire nei confronti dell’altro, una volta che sia emersa la genitorialità, a seguito di riconoscimento o dichiarazione giudiziale. Il riconoscimento del figlio naturale comporta l’assunzione di tutti i diritti e doveri propri della procreazione legittima, ivi compreso l’obbligo di mantenimento, che, per il suo carattere essenzialmente patrimoniale, esula dallo stretto contenuto della potestà genitoriale, e in relazione al quale, pertanto, non rileva, come, invece, avviene con riguardo a quest’ultima, a norma dell’art. 317 bis cod. civ., la circostanza che i genitori siano o no conviventi, incombendo detto obbligo su entrambi, in quanto nascente dal fatto stesso della procreazione. Ne consegue che, nell’ipotesi in cui al mantenimento abbia provveduto, integralmente o comunque al di là delle proprie sostanze, uno soltanto dei genitori, a lui spetta il diritto di agire in regresso, per il recupero della quota del genitore inadempiente, secondo le regole generali del rapporto tra condebitori solidali, come si desume, in par- RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE ticolare, dall’art. 148 cod. civ., richiamato dall’art. 261 cod. civ., che prevede l’azione giudiziaria contro il genitore inadempiente, e senza, pertanto, che sia configurabile un caso di gestione di affari altrui. L’obbligo in esame, non avendo natura alimentare, e decorrendo dalla nascita, dalla stessa data deve essere rimborsato “pro quota” (Cass. civ., sez. I, 22.11.00, n. 15063). Il dovere di mantenimento non viene meno con il raggiungimento della maggiore età da parte del figlio, ma si protrae fino a quando il figlio stesso abbia raggiunto una propria indipendenza economica, ovvero versi in colpa per non essersi messo in condizione di conseguire un proprio reddito. L’obbligo dei genitori di concorrere tra loro al mantenimento dei figli secondo le regole dell’art. 148 cod. civ. non cessa, “ipso facto”, con il raggiungimento della maggiore età da parte di questi ultimi, ma perdura, immutato, finché il genitore interessato alla declaratoria della cessazione dell’obbligo stesso non dia la prova che il figlio ha raggiunto l’indipendenza economica, ovvero che il mancato svolgimento di un’attività economica dipende da un atteggiamento di inerzia ovvero di rifiuto ingiustificato dello stesso, il cui accertamento non può che ispirarsi a criteri di relatività, in quanto necessariamente ancorato alle aspirazioni, al percorso scolastico, universitario e post - universitario del soggetto ed alla situazione attuale del mercato del lavoro, con specifico riguardo al settore nel quale il soggetto abbia indirizzato la propria formazione e la propria specializzazione. Deve, pertanto, in via generale escludersi che siano ravvisabili profili di colpa nella condotta del figlio che rifiuti una sistemazione lavorativa non adeguata rispetto a quella cui la sua specifica preparazione, le sue attitudini ed i suoi effettivi interessi siano rivolti, quanto meno nei limiti temporali in cui dette aspirazioni abbiano una ragionevole possibilità di essere realizzate, e sempre che tale atteggiamento di rifiuto sia compatibile con le condizioni economiche della famiglia (Cass. civ., sez. I, 3.4.02, n. 4765) L’obbligo dei genitori di concorrere tra loro al mantenimento dei figli secondo le regole dell’art. 148 cod. civ. non cessa, “ipso facto”, con il raggiungimento della maggiore età da parte di questi ultimi, ma perdura, immutato, finché il genitore interessato alla declaratoria della cessazione dell’obbligo stesso non dia la prova che il figlio ha raggiunto l’indipendenza economica, ovvero è stato posto nelle concrete condizioni per poter essere economicamente autosufficiente, senza trarne utilmente profitto per sua colpa o per sua (discutibile) scelta. (Nella specie, è stato escluso la persistenza dell’obbligo di mantenimento di un figlio trentacinquenne - e convivente con la madre - a carico del padre separato per essere il figlio stesso ben lontano dal conseguimento della laurea in medicina nonostante risultasse iscritto presso tale facoltà da 89 RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE quindici anni, e senza che il suo comportamento potesse in qualche modo derivare o risentire della presenza paterna, essendo trascorso un periodo pressoché equivalente a quello necessario per l’utile completamento dell’intero corso di studi da quando il padre aveva cessato di convivere con moglie e figli) (Cass. civ., sez. I, 30.8.99, n. 9109) L’obbligo di mantenere il figlio non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età, ma si protrae, qualora questi, senza sua colpa, divenuto maggiorenne, sia tuttavia ancora dipendente dai genitori. Ne consegue che, in tale ipotesi, il coniuge separato o divorziato, già affidatario è legittimato, iure proprio (ed in via concorrente con la diversa legittimazione del figlio, che trova fondamento nella titolarità, in capo a quest’ultimo, del diritto al mantenimento), ad ottenere dall’altro coniuge un contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne (Cass. civ., sez. I, 18.2.99, n. 1353) Anche in caso di separazione personale tra coniugi, l’obbligo dei genitori di concorrere tra loro, secondo le regole di cui all’art. 148 cod. civ., al mantenimento dei figli non cessa automaticamente con il raggiungimento, da parte di questi, della maggiore età, ma persiste finché il figlio stesso non abbia raggiunto l’indipendenza economica (o sia stato avviato ad attività lavorativa con concreta prospettiva di indipendenza economica), ovvero finché non sia provato che, posto nelle concrete condizioni per poter addivenire alla autosufficienza economica, egli non ne abbia, poi, tratto profitto per sua colpa. Non può ritenersi, peraltro, idonea ad esonerare il genitore non convivente dall’obbligo di mantenimento la profferta di una qualsiasi occasione di lavoro eventualmente rifiutata dal figlio, dovendo essa risultare, per converso, del tutto idonea rispetto alle concrete e ragionevoli aspettative del giovane, sì da far ritenere il suo eventuale rifiuto privo di qualsivoglia, accettabile giustificazione (principio affermato dalla S.C. in relazione al rifiuto - ritenuto, nella specie, legittimo, contrariamente a quanto stabilito dal giudice di merito - opposto dal figlio ventenne di genitori separati ad una offerta di ingaggio per un anno, e per la somma di ottocentomila lire mensili più vitto ed alloggio, ricevuto da una società di pallacanestro. La corte di legittimità, nel cassare la sentenza, ha, ancora, osservato che, in essa, mancava ogni valutazione tanto in ordine alla precarietà dell’offerta quanto alla ragionevolezza delle aspirazioni del giovane, che vi aveva rinunciato per non sacrificare l’anno scolastico - V liceo scientifico - da lui frequentato) (Cass. civ., sez. I, 7. 5.98, n. 4616) Poiché l’obbligo di mantenimento a carico dei genitori permane fino al momento in cui il figlio maggiorenne abbia raggiunto una propria indipendenza economica, sussiste la legittimazione processuale del genitore (in via alternativa con quella del figlio maggiorenne) ad ottenere 90 AIAF RIVISTA 2/2006 “iure proprio” - dall’altro coniuge, nel giudizio di separazione personale, un contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne con esso convivente il quale non sia ancora in grado di procurarsi autonomi mezzi di sostentamento (Trib. Cagliari, 11.3.97) In caso di inadempimento dell’obbligo di mantenimento, il comma 2, dell’art. 148 c.c., prevede che il Presidente del Tribunale possa ordinare, con decreto, che una quota dei redditi dell’obbligato venga versata direttamente all’altro coniuge o a chi (ascendenti legittimi o naturali, in ordine di prossimità) sopporta le spese per il mantenimento, l’istruzione e l’educazione dei figli. Potranno trovare, inoltre, applicazione, le limitazioni della potestà previste negli artt. 330 e 333 c.c., e potrà anche giungersi alla dichiarazione dello stato di adottabilità se dovesse emergere la condizione di abbandono- morale e materiale- del minore, da parte di entrambi i genitori.. Inoltre la condotta omissiva del genitore, che non provvede al dovere di mantenimento dei figli, su lui incombente, può integrare gli estremi del delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare, di cui all’art. 570 c.p., anche qualora i figli non vengano a trovarsi in stato di bisogno, perché ad essi provvede l’altro genitore o altri parenti (Cass. pen., sez. VI, 12.11.02, n. 57; Cass.pen.,sez. VI, 21.3.96; Trib. Genova, 9.10.03; contra in dottrina VILLA) Nell’elencazione contenuta nell’art. 147 c.c., al dovere di mantenimento seguono i doveri di istruzione e di educazione della prole. La Costituzione riconosce e tutela un diritto all’istruzione non soltanto in relazione al rapporto tra genitori e figli (art. 30, comma 1, Cost.), ma anche con riguardo a quello tra minore e istituzioni esterne alla famiglia (art. 34 Cost.). In particolare, per quanto attiene ai genitori, si evidenzia come la responsabilità per l’istruzione dei figli fino ai quattordici anni venga sanzionata dall’art. 731 c.p., che punisce chiunque, rivestito di autorità o incaricato della vigilanza sopra un minore, ometta senza giusto motivo di impartirgli o di fargli impartire l’istruzione elementare (da estendersi anche a quella media alla luce dell’art. 34 Cost.) (MORO). Più complessa, invece, risulta essere l’analisi relativa al dovere di educazione, poiché trattasi di un concetto difficilmente definibile, il cui contenuto è strettamente connesso con l’evoluzione sociale. Una conferma di tale evoluzione è rappresentata dal confronto con il previgente testo dell’art. 147 c.c., in base al quale l’educazione doveva essere conforme “ai principi della morale”, concetto alquanto indeterminato. Attualmente l’art. 147 MAGGIO - AGOSTO 2006 c.c. è incentrato sul soggetto nei confronti del quale va realizzata la funzione educativa, in quanto è fatto obbligo ai genitori di tenere conto “delle capacità, dell’ inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli”. Il riferimento ai principi morali è stato soppresso, ma ciò non significa che nell’educare il figlio non si debba fare ricorso ai valori etici che disciplinano una vita corretta e regolare (FINOCCHIARO). La giurisprudenza di merito ha riconosciuto, già da tempo, un dovere dei genitori di rispettare le scelte dei figli, soprattutto con riferimento allo studio, alla formazione professionale, all’impegno politico-sociale, alla fede religiosa (Trib. Min. Genova, 9.2.59; Trib. Min. Bologna, 13.5.72; trib. Min. Bologna, 26.10.73). Si ritiene comunemente che debbano essere considerati leciti soltanto quei mezzi correttivi e disciplinari che, nel più profondo e sacro rispetto dell’incolumità fisica e della personalità psichica e morale, risultino necessari al raggiungimento del fine che il rapporto disciplinare si propone, purché vengano usati nella misura e nella entità richiesta. Non può assolutamente ritenersi lecito - e quindi è bandito dalla jus corrigendi - l’uso della violenza finalizzato a scopi educativi. Ciò sia per il primato che l’ordinamento attribuisce alla dignità della persona, anche del “minore”- oramai considerato un soggetto titolare di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione (se non addirittura di disposizione) da parte degli adulti-, sia perché, usando mezzi violenti, non potrebbe perseguirsi l’obiettivo di realizzare un armonico sviluppo della personalità sensibile ai valori di pace, di tolleranza, di convivenza (BONAMORE, FINOCCHIARO). Con riguardo ai bambini il termine “correzione” va assunto come sinonimo di educazione, con riferimento ai connotati intrinsecamente conformativi di ogni processo educativo. In ogni caso non può ritenersi tale l’uso della violenza finalizzato a scopi educativi: ciò sia per il primato che l’ordinamento attribuisce alla dignità della persona, anche del minore, ormai soggetto titolare di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione (se non addirittura di disposizione) da parte degli adulti; sia perché non può perseguirsi,quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo di personalità, sensibile ai valori di pace, di tolleranza, di connivenza utilizzando un mezzo violento che tali fini contraddice. Ne consegue che l’eccesso di mezzi di correzione violenti non rientra nella fattispecie dell’art. 571 cod. pen. (abuso di mezzi di correzione) giacché intanto è ipotizzabile un abuso (puni- RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE bile in maniera attenuata) in quanto sia lecito l’uso (Cass. pen., sez.VI, 16.5.96). 3. ATTI ILLECITI COMMESSI DAI GENITORI NEI CONFRONTI DEI FIGLI E RESPONSABILITÀ CIVILE. n ordine alle relazioni intercorrenti tra genitori e figli, prima della riforma del diritto di famiglia del 1975, esisteva, nell’area privatistica, una normativa relativamente immunitaria, considerata una logica conseguenza della concezione della patria potestas accolta nel codice del 1942 e dei poteri ad essa connessi. In sostanza la legge consentiva al genitore l’uso dei mezzi correzionali adeguati alle diverse situazioni concrete. Ad una cattiva condotta del figlio, qualora fosse necessario, poteva seguire una violenta reazione del padre, che rappresentava esercizio legittimo della potestà e come tale non poteva determinare alcun tipo di responsabilità (PATTI). L’immunità anche nei rapporti tra genitori e figli non dipendeva da principi di diritto, ma era ancorata a regole del costume che esprimevano una concezione della famiglia come gruppo chiuso, che non lasciava trapelare le crisi che avvenivano al suo interno ma le risolveva in base a regole proprie (PATTI). I figli venivano trattati non alla stregua di soggetti di diritto, bensì come componenti di un gruppo che si autodisciplinava e, in definitiva, soggetti all’autorità paterna (FRACCON). Con la riforma del diritto di famiglia si è ridefinito il ruolo genitoriale in funzione dell’interesse morale e materiale della prole, anche se ci si è astenuti- in applicazione del principio di libertà e di autonomia della famiglia - dal proporre modelli, limitandosi, pertanto, a fornire la direttiva contenuta nell’art. 147 c.c. che impone di tenere conto, nell’adempimento dei doveri verso i figli, delle loro capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni (FRACCON). Dunque, anche nei rapporti tra genitori e figli, la mutata concezione della famiglia impone che il danneggiato non venga privato della tutela garantita dalla legge, solamente perché un vincolo di parentela lo lega a chi ha causato il danno. Un limite al potere discrezionale dei genitori nell’educazione della prole è, dunque, rappresentato dal divieto di abusare delle proprie funzioni: la condotta vietata, cioè, deve consistere nell’abuso, ovvero nell’eccesso, nel superamento dei limiti consentiti e tale abuso deve provocare la trasformazione della modalità lecita di correzione e disciplina in mezzo illecito (INGRASCÌ). L’abuso, infatti, oltre che dar luogo ai provvedimenti di cui agli artt. 330 e 333 c.c. può integra- I 91 RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE re gli estremi del reato di cui all’art. 571 c.p. che punisce proprio l’abuso dei mezzi di correzione. Se, dunque, oggi può ancora parlarsi di jus corrigendi dei genitori, certamente questo presenta connotazioni diverse rispetto al passato e, inoltre, ad esso, sono connessi poteri coercitivi molto sfumati (PATTI). Integra il reato di cui all’art. 571 cod. pen. l’uso della violenza nei rapporti educativi come mezzo di correzione e disciplina, comunque non consentito, qualora dal fatto derivi il pericolo di una malattia del corpo e della mente o una lesione o la morte (Cass. pen., sez. VI, 29.11.90) Lo jus corrigendi attribuito ai genitori non può mai giustificare condotte che sovente provocano anche gravi lesioni ai malcapitati ragazzi e che, comunque, non hanno una positiva valenza educativa (Cass. pen., sez. V, 7224/2000) L’abuso dei mezzi di correzione può commettersi trasmodando nell’impiego di un mezzo lecito. Perciò anche un solo schiaffo, quando sia vibrato con tale violenza da cagionare pericolo di malattia è sufficiente a far avverare l’ipotesi criminosa dall’art. 571 c.p. (Cass. pen., sez. I, n. 11935/1966) Dunque manifestazioni brutali, eccessi o violenze dei genitori- comportamenti ancora oggi parecchio diffusi- non possono ricevere alcuna forma di tutela, né lasciano sopravvivere l’armonia domestica che non si vorrebbe turbare ammettendo l’azione in giudizio per il risarcimento dei danni subiti. Infatti si ritiene (FRACCON) che la rinuncia a far valere in giudizio il diritto al risarcimento non è una soluzione normalmente “sana” di un conflitto- spesso profondo e grave- che incide sul vissuto della vittima e pregiudica la possibilità di recuperare una relazione equilibrata con il familiare responsabile di un illecito ai suoi danni. Dunque, dalla violazione dei doveri che ciascun genitore ha nei confronti dei propri figli possono derivare non soltanto i provvedimenti di cui agli artt. 330 e ss. c.c., ma anche l’obbligo di risarcire i danni che sono stati causati alla prole. In modo particolare suscita interesse una pronuncia della Suprema Corte (7.6.00, n. 7713), la quale ha confermato la decisione dei giudici di merito, di condanna al risarcimento del danno non patrimoniale di un genitore il quale, per lunghi periodi di tempo, aveva sistematicamente e ostinatamente rifiutato di corrispondere i mezzi di sussistenza al figlio giudizialmente dichiarato. Nel caso di specie, non viene risarcito il danno morale da reato, in quanto il padre era stato assolto, in sede penale, dal reato di cui all’art. 570 92 AIAF RIVISTA 2/2006 c.p., essendosi accertato che aveva corrisposto, anche se in ritardo, tutto quanto da lui dovuto a titolo di mantenimento o di concorso nel mantenimento nei confronti del minore. I giudici civili, invece, riconoscono che la condotta del padre abbia determinato la lesione di fondamentali diritti della persona, inerenti, in particolare, alla qualità di figlio e di minore. In particolare la Suprema Corte nella pronuncia citata, precisa che il pagamento effettuato a molti anni di distanza non avrebbe escluso comunque il risarcimento della lesione in sé, che dal comportamento del ricorrente è scaturita, di fondamentali diritti della persona, in particolare di quelli inerenti alla qualità di figlio e di minore. La Cassazione ricollega, quindi, l’art. 2043 c.c. agli artt. 2ss Cost., estendendo così l’area operativa del primo, fino a ricomprendere il risarcimento di tutti i danni ostacolanti le attività realizzatrici della persona umana. Poiché l’articolo 2043 c.c., correlato agli articoli 2 ss. Costituzione, va necessariamente esteso fino a ricomprendere il risarcimento non solo dei danni in senso stretto patrimoniali ma di tutti i danni che almeno potenzialmente ostacolano le attività realizzatrici della persona umana, la lesione di diritti di rilevanza costituzionale va incontro alla sanzione risarcitoria per il fatto in sé della lesione (danno evento) indipendentemente dalle eventuali ricadute patrimoniali che la stessa possa comportare (danno conseguenza). (Nella specie, in applicazione di tale principio la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva riconosciuto il diritto al risarcimento del danno, liquidato in via equitativa, del figlio naturale in conseguenza della condotta del genitore, tale riconosciuto a seguito di dichiarazione giudiziale, che per anni aveva ostinatamente rifiutato di corrispondere al figlio i mezzi di sussistenza con conseguente “lesione in sé” di fondamentali diritti della persona inerenti alla qualità di figlio e di minore) (Cass. civ., sez. I, 7.6.00, n. 7713) La sentenza su citata è ritenuta di enorme rilievo proprio per l’importanza del principio che si può trarre da essa, secondo il quale la violazione dei doveri genitoriali è idonea a determinare un danno ingiusto, allorché tale condotta leda interessi costituzionalmente rilevanti della prole. Di conseguenza non è la semplice violazione del dovere genitoriale a rappresentare il danno ingiusto, quanto piuttosto la lesione di un interesse ulteriore, ravvisato, nel caso di specie, nella violazione di doveri fondamentali della persona, inerenti in particolare alla qualità di figlio e di minore (FACCI). Di estremo rilievo è anche una pronuncia del Tribunale di Venezia (30.6.04) che ha in sostanza sancito il principio secondo il quale la figlia che, abbandonata dal padre, abbia vissuto nella totale MAGGIO - AGOSTO 2006 RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE assenza del ruolo paterno, ha diritto al risarcimento del danno in ragione della lesione del suo diritto all’assistenza morale e materiale da parte di ciascun genitore. A tutt’oggi, dunque, quand’anche si assuma che raggiunta la maggiore età F. goda o possa godere di relativa autonomia patrimoniale, in effetti secondo l’esito della istruttoria abbandonata l’università lavora come cameriera, il L. continua, malgrado il detto esistente titolo giudiziale, a consumare il reato, non avendo, in fatto, adempiuto all’adempimento dell’obbligo per circa vent’anni (Trib. Venezia, 30.6.2004). Costituisce un fatto illecito che obbliga al risarcimento dei danni, il comportamento del padre che si rifiuta di riconoscere il figlio e si rende inadempiente agli obblighi alimentari imposti dal tribunale. Pertanto, il figlio ha diritto al risarcimento del danno morale subito quale conseguenza del reato di violazione degli obblighi familiari; ed ha altresì diritto al risarcimento del danno legato alla totale assenza della figura paterna, considerato l’obbligo, di rango costituzionale, che incombe sul genitore di occuparsi, non solo economicamente, della prole e di educarla (Trib. Venezia 30.6.04) A differenza della pronuncia della S.C. n. 7713\2000, tuttavia, il danno non è ravvisato in re ipsa, coincidente, cioè, con la lesione dell’interesse di rilievo costituzionale. Il Tribunale di Venezia, infatti, mette in evidenza i pregiudizi causati dal comportamento omissivo del genitore, sottolineando come la mancanza della figura paterna si sia manifestata, in modo negativo, “nello sviluppo della personalità” della figlia e nel “coacervo delle scelte esistenziali della crescita” della stessa. Viene evidenziato, poi, che la condotta illecita del padre ha provocato ulteriore pregiudiziomeritevole di una riparazione riequilibratoria -, rappresentato dalla consapevolezza raggiunta dalla figlia di essere stata rifiutata ed abbandonata dal padre e di “essere stata trattata come il figlio di un mammifero di specie diversa da quella umana”. Viene dunque riconosciuto dal Tribunale di Venezia il risarcimento del danno esistenziale, qualificato anche come “danno non patrimoniale non coincidente con il mero danno morale” (FACCI). Il convenuto, pervicace nel disinteresse verso la figlia naturale anche in questo procedimento, è il padre di F.V.; non se ne è mai interessato da alcun punto di vista; ignorandone, sin dalla gravidanza dell’allora compagna, la nascita, le sorti, la vita, le esigenze economiche, maturando, per così dire, un debito per omessi contributi alimentari, certo non oggetto del presente procedimento, di cospicua entità. Ciò premesso in fatto la domanda risarcitoria come svolta va qualificata e riferita dal Tribunale adito al danno morale conseguente alla consumazione del reato p.e.p. dall’art. 570 c.p., certo quivi astrattamente valutabile, nonché alle ulteriori conseguenze lesive che le predette condotte, illecite ex art. 2043 c.c., avrebbero determinato nella sfera psico-fisica e in ogni caso esistenziale dell’attrice F. (…) In ordine alla liquidazione dei danni la sentenza ha previsto che: Ciò premesso, tenuto conto della durata dell’inadempimento, della assenza di ragionevole motivazione alcuna, della detta intensità del dolo, il Tribunale, anche in via equitativa, liquida il danno morale in commento nella somma, espressa in valori attualizzati e comprensiva degli interessi compensativi maturati, di Euro 80.000,00. Nessuna conseguenza direttamente apprezzabile dal punto di vista del danno patrimoniale è in effetti allegata in causa. È vero che la domanda, nella sua genericità, consente il riferimento al coacervo di ogni astratta possibile voce risarcitoria. È vero tuttavia che S.V. possiede relativo titolo esecutivo per l’omessa contribuzione alimentare. Quanto ad ulteriori voci di danno patrimoniale astrattamente correlabili all’inadempimento descritto, riguardanti anche F., come riferibili, in sostanza, alle possibili occasioni perdute, dal punto di vista della scolarizzazione e dell’inserimento concorrenziale nella vita, ebbene nulla viene di fatto allegato (aut richiesto). L’interessata, per sua fortuna, ha in effetti goduto dell’aiuto ed apporto economico della madre, di cui s’è detto, e di terzi, estranei al presente giudizio. La mancata prosecuzione negli studi universitari non è seriamente correlata, in punto allegazioni e offerta di prova, alla condotta del convenuto. Si venga dunque, come anticipato, alle ulteriori implicazione lesive della condotta del convenuto. L’espletata consulenza esclude, piuttosto categoricamente che F.V. a tutt’oggi presenti un quadro psico-fisico apprezzabile dal punto di vista della esistenza di un danno biologico. Si tratta di valutazioni complete ed accurate che il Tribunale ritiene senz’altro di fare proprie. Quasi paradossalmente, d’altra parte, proprio l’esistenza di congrue figure sostitutive, i nonni e l’attuale marito della attrice, poi, e naturalmente l’impegno ed il coraggio della stessa madre, hanno posto l’interessata nella condizione di crescere secondo un percorso sostanzialmente regolare, con una regolare evoluzione. (Trib. Venezia, 30.6.2004). Sostanzialmente si afferma che la mancanza di un padre, del vero padre, non rende la condizione della figlia assimilabile alla posizione di chi abbia goduto della presenza fattiva, costruttiva ed affettuosa del genitore naturale. 93 RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE Si tratta di una valutazione tanto ovvia quanto irrilevante ai fini di causa dal punto di vista del lamentato danno biologico: e tanto poiché non esistono elementi apprezzabili dal punto di vista di un danno permanente quale lesione eclatante all’integrità psico-fisica della interessata. Dette considerazioni aprono la strada al tema ragionevolmente più delicato della controversia. Liquidato il danno morale da reato, accertata l’esistenza di un titolo esecutivo che copre il danno patrimoniale sofferto dalla madre che, da sola, e comunque con l’aiuto di terzi, ha sopperito all’obbligo alimentare e di mantenimento, esclusi ulteriori profili di danni patrimoniali apprezzabili dal punto di vista delle chances perdute dalla figlia, perché non allegate aut non provate; escluso, ulteriormente, un danno biologico in senso stretto, per l’accertata capacità di F. di correlazionarsi con la vita e con i rapporti sociali e sentimentali senza presentare profili apprezzabili in punto disagi clinicamente manifesti, resta da accertare se la condotta palesemente illecita del L. abbia arrecato un danno ulteriore, non apprezzabile in senso strettamente patrimoniale alla figlia, danno non coincidente con le mere conseguenze risarcitorie del consumato reato ovvero con il liquidato danno morale. Va premesso, quanto alla fonte dell’illecito le cui ulteriori conseguenze lesive sono in discussione, che diritti soggettivi assoluti di rango costituzionale appaiono pacificamente violati: perché il concepimento, che piaccia o meno, non si riduca a fatto meramente materiale, come accade invece in buona parte del regno animale; la nostra carta costituzionale obbliga i genitori, anche naturali e senza distinzione alcuna sulla natura del vincolo che li lega, ad assistere materialmente e moralmente la prole, dunque un obbligo non meramente patrimoniale ma esteso, come è ovvio, alla assistenza educativa. Solo in assenza aut incapacità di costoro la stessa fonte costituzionale prevede forme sostitutive di assistenza. Inutile ricordare che si tratta di una scelta assai chiara ed univoca, non essendo estranea alla esperienza di ordinamenti pur vigenti nel ventesimo secolo l’individuazione di un ruolo non solo meramente sostitutivo ovvero vicario e necessitato dello Stato nell’assistenza ed educazione dei minori e della prole. Non assolvere tale obbligo, anzi omettere ogni condotta assimilabile all’assolvimento in questione, come nel caso di specie, ove non si controverte di una non corretta gestione del ruolo paterno ma della assoluta obliterazione del medesimo, è dunque un fatto illecito. La sanzione penale che lo tipicizza e punisce ne è ulteriore riprova (Trib. Venezia, 30.6.2004). Interessante anche il successivo passo della sentenza: Il danno non patrimoniale sofferto da F. è interamente assorbito ovvero coincide con il liqui94 AIAF RIVISTA 2/2006 dato danno morale? O v’è piuttosto un ambito di ulteriori conseguenze lesive che, se ed in quanto provate, anche per presunzioni semplici, meritano tutela risarcitoria? I noti recenti approdi della S.C. e della stessa Corte Costituzionale, in una lettura congiunta, tendono, certamente riproponendo chiavi di lettura non del tutto innovative, a proporre all’interprete, anche con riferimento al c.d. danno esistenziale (ma non solo e non perspicuamente) le seguenti linee guida: riconoscere un danno non strettamente patrimoniale ulteriore e diverso dal danno morale, quale tradizionalmente inteso; individuare, ben oltre le ipotesi previste dalla legge (sostanzialmente quelle di cui all’art. 185 c.p.), situazioni giuridiche suscettibili di una lesione-danno conseguenza appunto monetizzabile ma non patrimoniale; restringere all’ambito dei diritti soggettivi costituzionalmente tutelati e come tali riconosciuti detta tutela. I detti recenti approdi, come accennato, si inseriscono in un tema la cui soluzione è periodicamente oscillante nella giurisprudenza delle corti superiori e, anche in alternativa, di merito: ora l’utilizzazione dell’art. 2059 c.c. in termini elastici; ora l’interpretazione costituzionalmente orientata del disposto dell’art. 2043 c.c. (come fu nel rapporto con l’art. 32 della Costituzione; ovvero, in altri meno noti approdi, come fu nel rapporto con l’art. 29 della stessa), tanto al fine di estendere l’ambito delle situazioni giuridiche soggettive tutelabili dal punto di vista del danno non strettamente patrimoniale. Quale che sia il percorso da scegliere, rileva, piuttosto, in tema, un altro decisivo e non più confutabile approdo della stessa giurisprudenza di legittimità: quello per il quale l’ingiustizia del danno, salvo il criterio di imputazione della condotta, sia esso schiettamente colposo o meno, giammai va strettamente riferito alla natura della situazione legittimante (e che si assume illecitamente compressa aut violata). Ecco allora gli estremi per una ennesima pericolosa involuzione (da altro punto di vista argomentativo, ecco i presupposti per un passo indietro rispetto all’approdo predetto) (Trib. Venezia, 30.6.2004). Secondo il Tribunale il fine degli autorevoli precedenti citati è quello di ampliare l’ambito della tutela, ancorandola, tuttavia, in senso che può apparire limitativo (salvo assumere che la detta rilevanza costituzionale legittimante la risarcibilità del danno non patrimoniale vada riferita appunto al danno in quanto tale, rectius al diritto costituzionale alla tutela risarcitoria), a situazioni giuridiche degne della medesima ovvero i soli diritti fondamentali. Altro, in realtà, è il tema dell’ambito delle situazioni giuridicamente apprezzabili e meritevoli di tutela (tutte tranne le aspettative di mero fatto), rispetto al tema, più accademico che altro, MAGGIO - AGOSTO 2006 della giusta collocazione del danno non patrimoniale, ulteriore e diverso dal danno morale strettamente inteso. Chi scrive, dunque, non ritiene che i citati recenti approdi della giurisprudenza della S.C. e della Corte Costituzionale tolgano o aggiungano alcunché ad un dibattito che la giurisprudenza di merito da molti anni ha pienamente scevrato e colto nei suoi termini essenziali. In ogni caso, anche alla luce dei detti citati pronunciamenti, non v’è dubbio che anche astrattamente il caso di specie rientri a pieno titolo nelle ipotesi descritte: si tratta in tesi di un danno non strettamente morale; fa capo ad un diritto soggettivo assoluto certamente di valenza costituzionale, appunto il diritto di ogni figlio all’assistenza morale e materiale di ciascun genitore. Che nella specie detta assistenza non vi sia stata, non ve ne sia stata parvenza, è fuor di dubbio. Non rileva in questa sede tentarne di dedurne le ragioni. Invero tale impostazione può essere utile ai soli fini, non certamente etici, di individuare l’ambito di una lesione, salva la relativa qualificazione, e tentare, assumendone provati i fatti costitutivi, una quantificazione possibile, anche in via ineludibilmente equitativa. In effetti l’attrice allega detta voce di danno: il danno, che lo si definisca pure esistenziale (le parole e le definizioni servono alla dottrina più che agli uomini e alle donne che agiscono per la tutela dei propri diritti), derivante dalla totale ed immotivata privazione dell’apporto paterno, qualsiasi ne fosse stato, se esercitato, il contenuto e il precipitato. Non lamenta, per così dire, il cattivo esercizio di un obbligo: lamenta la totale assenza dell’adempimento dell’obbligo medesimo. Lamenta, dunque, la privazione assoluta di un padre, quello vero, reiterata e consumatasi negli anni, sino alla maggiore età e, a ben vedere, perdurante (Trib. Venezia, 30.6.2004). La domanda che il Tribunale si pone è se l’assenza di un padre comporti di per sé un danno? La risposta non può essere univoca, ferma l’azionabilità, per quanto osservato, della pretesa. In tesi la presenza di un padre oppressivo o particolarmente ignorante, ovvero culturalmente violento, ovvero ancora palesemente immaturo rispetto alla funzione che la natura gli ha dato (se non imposto, perché no?), può costituire presenza ben più alienante di una mera assenza: tanto più nel caso, come nella specie, in cui altri abbiano preso sostanzialmente cura della interessata. Se l’art. 30 della Costituzione fosse eticamente interpretato nessun genitore, ragionevolmente, andrebbe, astrattamente, esente da censure. Il rischio, palese per chi scrive, è, allora, la lettura distorta delle norme citate. L’art. 30 II comma non si limita ad imporre allo Stato una funzione assistenziale sostitutiva. Dice, cosa ben più importante, che i figli non RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE appartengono, come sarebbe argomentando nazionalsocialisticamente, allo Stato medesimo; che ad esso e alle sue diramazioni autoritative, anche alla giurisdizione, certo non è dato un potere di valutazione, in chiave di dover essere, per così dire eticheggiante, delle modalità dell’esercizio delle funzioni genitoriali. In sostanza è del mondo che sono i figli: ai genitori l’obbligo, forse meglio dire il compito, di contribuire, per quanto possibile, alla loro educazione, con progressivo prudente inserimento di dati, utili, per quanto di ragione, ad uno sviluppo sereno del bambino. Non si esige una costante qualificata presenza (quali i parametri di valutazione?); non si esige l’appropriazione di un ruolo (come valutarne l’apporto concreto in termini di contributo fattivo; forse alla mera luce delle ore trascorse insieme senza alcuna valutazione qualitativa?); non si esige un risultato. Più semplicemente, ex art. 30 Costituzione, si esige lo spiegamento di forze, qualunque ne sia l’esito: in altri termini tutto, o quasi tutto, salvi i maltrattamenti, purché al fatto naturale del concepimento, proprio ad ogni specie animale, non consegua il mero disinteresse, la morte presunta, per così dire, della figura genitoriale. Ed ecco allora, poiché detta morte presunta, nella specie, si è consumata per certo con tutto quanto ne consegue in termini schiettamente privativi, che il tema si sposta sul piano probatorio e ancor prima eziologico. Date le predette coordinate (il dovere genitoriale di essere in qualche modo presente; nella specie la totale immotivata reiterata e perdurante assenza del padre quivi convenuto), ebbene F.V. ha sofferto conseguenze lesive, manifeste e apprezzabili, nel suo percorso di maturazione e crescita evolutiva, fossero anche esse, come è ovvio nella specie, fortemente legate alle stesse valutazioni soggettive dell’interessata? Soccorre, in primo luogo, il dato tanto ovvio quanto empirico per il quale la circostanza, comprovata, di una totale assenza di contributo assistenziale, oltre l’ambito strettamente patrimoniale, sia, ragionevolmente, foriera di conseguenze lesive. F. ebbe negli anni, ma solo progressivamente, l’apporto, anche affettivo, dei nonni e del marito della madre: ma appunto solo progressivamente. Come riferito al c.t.u., e non v’è ragione di non credere alla interessata, (d’altra parte il convenuto contumace nulla ci dice in merito), la bambina conosceva sin dall’età di tre anni l’esistenza di un padre naturale che non viveva con la famiglia; a tutt’oggi, su domanda del perito, indica nella madre la persona di riferimento, con la quale sostituì, in sostanza, il padre; nega di avere maturato, ma sarebbe strano il contrario, sentimenti affettivi negativi verso la figura assente; ricorda, con senso critico, osserva il c.t.u. sufficientemente elaborato, un senso di diversità rispetto ai compagni ai tempi della frequentazione delle scuole elementari, un qual certo disagio ovvero disorientamento nel dover riferire il cognome della madre; l’attrice, F., è, a tutt’oggi, a conoscenza del tentativo del padre 95 RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE AIAF RIVISTA 2/2006 naturale di inviare, senza successo, la madre ad una interruzione della gravidanza; ricorda di avere sostanzialmente fantasticato sulla figura paterna, non avendo altri dati a disposizione, sino, tuttavia, alla maturata e determinata decisione di rintracciarlo; descrive, e si tratta di fatti interessanti ai fini di causa, l’ansia che ha accompagnato la ricerca, la brevità del colloquio infine ottenuto; la maturazione di aspettative per altri incontri costruttivi, sino allo scambio dei rispettivi numeri di telefono; l’esito sostanzialmente negativo di tale tentato contatto, sino all’abbandono del relativo disegno; la delusione provata nella constatazione, affatto scontata, a ben vedere, del detto esito così deludente. Quanto al resto, ma per ogni altra valutazione per così dire storica, si fa espresso rinvio alla c.t.u. e alla relativa anamnesi aut colloquio, la perizianda vive con serenità, oggi, un proprio autonomo rapporto affettivo (Trib. Venezia, 30.6.2004). morale ed assistenziale chiaramente mancato. Trattasi di un coacervo di situazioni e fatti, apporti concreti, i quali, a prescindere dalla qualità del di loro contenuto, certo non giudicabile dallo scrivente, non sono stati forniti, malgrado l’obbligo di legge relativo. L’effetto privativo, tanto premesso, è eclatante: nello sviluppo della propria personalità, nel coacervo delle scelte esistenziali della crescita di cui l’attrice avrebbe potuto godere, con un contributo, con le modalità, i tempi ed i criteri, sostanzialmente non sindacabili, offribili dal convenuto, F. non ha in sostanza ricevuto alcunché. La violazione del detto diritto fondamentale - il diritto alla educazione, alla assistenza non solo economica, comunque mancata - è stato in effetti reiteratamente violato: in effetti ne perdura, senza nessuna giustificazione, la violazione. La percezione di quanto sopra da parte della interessata, che in tutti questi anni non ha ricevuto alcun segnale da chi aveva, volente o nolente, che importa, contribuito alla di lei generazione, ne è la prima prova, in uno con elementi presuntivi di intuibile comprensione. La consapevolezza, infine raggiunta, dalla attrice di essere stata trattata come il figlio di un mammifero di specie diversa da quella umana (sebbene molti mammiferi, a ben vedere, pongono a lungo cura alla prole), è in sé una conseguenza lesiva della altrui condotta illecita e merita un risarcimento riequilibratorio. La relativa domanda va dunque accolta. Quanto alla non semplice quantificazione del danno soccorre, nell’economia di liquidazione equitativa, il coacervo degli elementi di fatto ricordati, anche con riferimento all’intensità del dolo, riflesse nella percezione della danneggiata. Il convenuto, a quanto è dato di conoscere in causa, una volta rifiutata la paternità, per ragioni che, si ribadisce, non hanno rilievo, si è creato una famiglia e una professionalità: la circostanza aggrava, per così dire, la valutazione della di lui condotta dal punto di vista della percezione negativa che della stessa ha avuto l’attrice, con quanto ne consegue in punto intensità dell’immotivata dolorosa privazione di un apporto che la Costituzione le garantiva (le avrebbe dovuto garantire) (Trib. Venezia, 30.6.2004). Come spesso accade in questi casi non si discute di un danno biologico, non rilevandosi alcuna apprezzabile patologia (non emergendo elemento alcuno dal punto di vista di alterazione psicopatologicamente apprezzabile, data l’assenza, appunto, di sintomi di disturbi comportamentali), ma di danno esistenziale. Ma non è di questo, di un danno biologico chiaramente da escludersi, che si va ora discorrendo. Dunque, anche alla luce delle dichiarazioni della interessata, ma si legga anche l’esito dell’indagine istruttoria testimoniale, il convenuto non ha mai contattato né tentato di contattare la figlia; una volta trovato, sembra proprio la parola giusta, con ogni ragionevolezza, non ha messo la giovane nelle condizioni di maturare un seppur tardivo contatto. F. è consapevolmente cresciuta nella consapevolezza di avere un padre (quello vero) completamente assente; il marito della madre ha avuto un ruolo certo positivo, peraltro mai vissuto come sostitutivo. Non si è verificato, e questo appare ragionevole, come osservato dal c.t.u., un improvviso distacco: bensì, più realisticamente, una totale assenza, tuttavia nota, consapevolmente nota, all’attrice. Con specifico riferimento a tale descritto ultimo deludente esito della annosa vicenda, non trascurando certo il lungo tempo trascorso, ritiene dunque provato il Tribunale che la totale assenza della figura paterna sia stata avvertita e sofferta, seppur con la fortunata esistenza di strumenti compensativi che hanno consentito alla giovane di sviluppare con sostanziale equilibrio la propria personalità. Ciò detto, malgrado l’assenza di esiti apprezzabili sul piano psicopatologico, nonché valutato, anche sulla base della c.t.u., il relativo predetto equilibrio complessivo e l’assenza di turbe comportamentali, vi è stata e v’è lesione del diritto fondamentale dell’attrice all’apporto anche 96 In conclusione possiamo, quindi affermare che il genitore sarà tenuto al risarcimento del danno non per la violazione in sé dei doveri genitoriali, ma piuttosto qualora, violando i propri obblighi nei confronti dei figli, abbia inciso negativamente sul corretto sviluppo della loro personalità. 4. LA RESPONSABILITÀ DEL GENITORE NON AFFIDATARIO PER MANCATO ESERCIZIO DEL DIRITTO - DOVERE DI VISITA. na particolare ipotesi di responsabilità a carico del genitore può ravvisarsi nell’ipotesi in cui questi, non essendo affidatario della prole, ometta di esercitare il c.d. diritto di visi- U MAGGIO - AGOSTO 2006 ta, che costituisce lo strumento giuridico attraverso il quale garantire la sussistenza del rapporto tra i figli e il genitori non affidatario. Tale diritto non è espressamente previsto dal legislatore, ma va desunto dalle espressioni contenute nell’art. 155, comma 2, c.c., e nell’art. 6, comma 3, della L. n. 898/70 che attribuiscono al giudice il compito di stabilire le modalità di esercizio dei diritti del genitore non affidatario nei rapporti con i figli. In materia di affidamento dei figli minori il giudice della separazione e del divorzio deve attenersi al criterio fondamentale - posto, per la separazione, dal legislatore della riforma del diritto di famiglia, nell’art. 155 comma primo cod. civ. (che ha esplicitamente codificato un principio costantemente adottato in precedenza dalla giurisprudenza e dalla dottrina), e, per il divorzio, dall’art. 6 della legge n. 898/70 - rappresentato dall’esclusivo interesse morale e materiale della prole, privilegiando quel genitore che appaia il più idoneo a ridurre al massimo - nei limiti consentiti da una situazione comunque traumatizzante - i danni derivati dalla disgregazione del nucleo familiare e ad assicurare il migliore sviluppo possibile della personalità del minore. In tale prospettiva consegue, da un lato, che la stessa posizione del genitore affidatario si configuri piuttosto che come un “diritto”, come un “munus”, e che la stessa regolamentazione del c.d. “diritto di visita” del genitore non affidatario debba far conto del profilo per cui un tal “diritto” si configuri esso stesso come uno strumento in forma affievolita o ridotta per l’esercizio del fondamentale “diritto dovere” di entrambi i genitori, di mantenere, istruire ed educare i figli, il quale trova riconoscimento costituzionale nell’art. 30, comma primo della Costituzione, e viene posto, dall’art. 147 cod. civ., fra gli effetti del matrimonio (Cass. civ., sez. I, 19.4.02, n. 5714) In tema di separazione personale dei coniugi, il diritto del genitore non affidatario a mantenere vivo il rapporto affettivo con i figli, interessandosi anche della loro educazione e istruzione, essendo sempre finalizzato e subordinato al perseguimento dell’interesse dei minori, può essere legittimamente disciplinato dal giudice della separazione in modo da non recare pregiudizio alla salute psicofisica dei minori medesimi, anche prevedendo particolari cautele e restrizioni agli incontri, ovvero arrivando perfino a sospenderli del tutto se necessario (Cass. civ, sez. I, 17.1.96, n. 364) Il coniuge separato ha, quindi, diritto di vedersi assicurata una sufficiente possibilità di rapporti con il figlio affidato all’altro coniuge, al fine di essere in grado di guadagnarsi l’affetto ed il rispetto del figlio stesso. Trattasi, però, di un diritto che, sia in dottrina (DE FILIPPIS) che in giurisprudenza (Cass. n. 6446/80) è ritenuto non RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE illimitato, in quanto il giudice può disconoscerlo e, quindi, escluderlo, qualora ricorrano gravi e comprovate ragioni di incompatibilità del suo esercizio con la salute psico-fisica del minore. Il diritto del coniuge separato di vedersi assicurata una sufficiente possibilità di rapporti con il figlio minore affidato all’altro coniuge… ed anche al fine di essere in grado di guadagnarsi l’affetto ed il rispetto del figlio stesso, ha carattere non assoluto, atteso che resta subordinato ai preminenti interessi morali e materiali del minore, sicché può essere limitato od anche disconosciuto dal giudice, ove ricorrano gravi e comprovate ragioni d’incompatibilità del suo esercizio con la salute psico-fisica del minore stesso (Cass. civ., sez. I, 13.12.80, n. 6446; Cass. civ., sez. I, 9.7.89, n. 3249) Il diritto di visita del genitore non affidatario, dunque, resta subordinato sempre al principio basilare in tema di affidamento che è l’interesse morale e materiale della prole. La Suprema Corte, in passato, ha individuato nella esasperata conflittualità dei coniugi, emersa in sede di separazione, la causa di una possibile esclusione e/o limitazione del diritto di visita da parte del genitore non affidatario, poiché gli incontri ripetuti e frequenti del minore con quest’ultimo potrebbero pregiudicare il suo sano sviluppo fisico e mentale. In tema di provvedimenti riguardanti la prole di genitori separati, il diritto del coniuge non affidatario di vedersi assicurata una sufficiente possibilità di rapporti con il figlio (cosiddetto diritto di visita), in correlazione della sua potestà di controllarne l’educazione ed istruzione, se non può essere negato per considerazioni di tipo sanzionatorio attinenti alla responsabilità della separazione, né per mere valutazioni di opportunità relative al coniuge affidatario, è suscettibile di esclusione o limitazione alla stregua dei preminenti interessi del minore, alla cui tutela i suddetti provvedimenti devono essere essenzialmente rivolti, come nel caso nel quale i frequenti incontri del minore stesso con il genitore non affidatario, indipendentemente da un comportamento censurabile di quest’ultimo, possano implicare pregiudizio al suo sviluppo fisico e psichico (nella specie, in considerazione di una esasperata conflittualità esistente fra i coniugi) (Cass. civ., sez. I, 9.5.85, n. 2882) La giurisprudenza ha inoltre avuto modo di affermare che il diritto di visita, anche se deve essere necessariamente subordinato al criterio guida del preminente interesse del minore, non può, tuttavia, essere escluso, se non in presenza di gravi e comprovati motivi: 97 RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE In tema di separazione personale dei coniugi, il diritto del genitore non affidatario dei figli a vedersi assicurata una sufficiente possibilità di rapporti con i minori affidati all’altro coniuge, per quanto non abbia carattere assoluto, essendo subordinato ai preminenti interessi dei minori, nondimeno non può essere del tutto escluso per un periodo più o meno lungo di tempo se non in presenza di gravi motivi, che non possano essere ricondotti unicamente alla pregressa condotta del genitore, occorrendo invece a tal fine aver riguardo anche e soprattutto all’impatto psicologico sui minori delle vicende dalle quali si fa derivare la sospensione del diritto di visita ed al conseguente pregiudizio psico-fisico per questi ultimi (Cass. civ., sez.I, 12.7.94, n. 6548) In tema di separazione personale dei coniugi, il diritto del genitore non affidatario a mantenere vivo il rapporto affettivo con i figli, interessandosi anche della loro educazione e istruzione, essendo sempre finalizzato e subordinato al perseguimento dell’interesse dei minori, può essere legittimamente disciplinato dal giudice della separazione in modo da non recare pregiudizio alla salute psicofisica dei minori medesimi, anche prevedendo particolari cautele e restrizioni agli incontri, ovvero arrivando perfino a sospenderli del tutto se necessario (Cass. civ., sez.I, 17.1.96, n. 364) La visita del genitore affidatario, inoltre, non deve essere inteso soltanto alla stregua di un diritto, ma deve configurarsi anche come un dovere, il cui mancato esercizio può essere comportare la decadenza dalla potestà parentale,ai sensi dell’art. 330 c.c., e integrare gli estremi del reato di cui all’art. 570 c.p.(violazione degli obblighi di assistenza familiare). L’esercizio della c.d. visita del non affidatario non è solo facoltà ma anche dovere, da inquadrare tra le posizioni dei componenti la famiglia e nella solidarietà che deve legarli nel gruppo, anche se i genitori siano separati o divorziati….il dovere dell’affidatario verso il figlio è un obbligo verso l’altro genitore, espressione della solidarietà negli oneri per i figli (Cass.civ., sez. I, 8.2.00, n. 1365) Nell’ipotesi di separazione personale dei coniugi (o di divorzio), il genitore non affidatario della prole, oltre che il diritto, ha, al tempo stesso, il dovere/obbligo, categorico e primario, di visitare i figli e permanere con essi anche nei periodi, di regola coincidenti con le vacanze e con le festività, nei quali i figli stessi hanno il diritto di permanere con il genitore non affidatario per un, più o meno lungo, lasso continuativo di tempo (Trib. Catania, 2.7.91) Tutto ciò, però, non implica che si dia luogo ad un obbligo coercibile, sia perché nessun rimedio giudiziario è previsto per il caso di non attuazio98 AIAF RIVISTA 2/2006 ne (il genitore affidatario non può rivolgersi al giudice, come invece il medesimo art. 155 c.c. prevede, al terzo comma, che possa fare il non affidatario), sia perché non appare percorribile, data la natura dell’obbligo e del provvedimento che lo prevede, la via del ricorso all’ art. 612 c.p.c. (esecuzione forzata di obblighi di fare) (DE FILIPPIS). Partendo, dunque, dalla considerazione che il c. d. diritto di visita è configurato anche come dovere per il genitore non affidatario, da svolgere nell’interesse della prole, il mancato adempimento dello stesso può comportare, in primis, una responsabilità nei confronti dei figli, e poi dare luogo anche ad una responsabilità nei confronti del coniuge affidatario, in quanto “espressione della solidarietà negli oneri per i figli” (Cass. civ., n. 1365/00). È stato infatti riconosciuto un risarcimento del danno patrimoniale a favore del genitore affidatario di una figlia disabile, a titolo di rimborso per le spese sostenute per l’assistenza della stessa nei giorni in cui il genitore non affidatario avrebbe dovuto tenerla presso di sé (Cass. n. 1365/00). Per quanto attiene, invece, alla responsabilità del genitore non affidatario, assenteista, nei confronti del figlio, è necessario che questi abbia subito un danno consistente per esempio nella lesione della sua serenità personale, o in un pregiudizio allo sviluppo della sua personalità ecc. Insomma si dovrà verificare che tale comportamento abbia inciso in maniera negativa sul corretto sviluppo della personalità del figlio (FACCI). Ovviamente non sarà possibile imputare al genitore non affidatario nessuna responsabilità qualora esista un rifiuto insuperabile da parte del figlio, ad intrattenere rapporti col genitore stesso. In tale ipotesi si potrà giungere anche ad una sospensione del diritto-dovere di visita a tempo indeterminato, proprio per salvaguardare l’interesse del minore ad una crescita serena ed equilibrata. In tema di provvedimenti relativi alla prole, conseguenti alla dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio, ed anche in base ai principi sanciti dalla Convenzione di New York del 20 novembre 1989, ratificata con legge n. 176 del 1991, la circostanza che un figlio minore, divenuto ormai adolescente e perfettamente consapevole dei propri sentimenti e delle loro motivazioni, provi nei confronti del genitore non affidatario sentimenti di avversione o, addirittura, di ripulsa - a tal punto radicati da doversi escludere che possano essere rapidamente e facilmente rimossi, nonostante il supporto di strutture sociali e psicopedagogiche costituisce fatto idoneo a giustificare anche la totale sospensione degli incontri tra il minore MAGGIO - AGOSTO 2006 RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE stesso ed il coniuge non affidatario. Tale sospensione può essere disposta indipendentemente dalle eventuali responsabilità di ciascuno dei genitori rispetto all’atteggiamento del figlio ed indipendentemente anche dalla fondatezza delle motivazioni addotte da quest’ultimo per giustificare detti sentimenti, dei quali vanno solo valutate la profondità e l’intensità, al fine di prevedere se disporre il prosieguo degli incontri con il genitore avversato potrebbe portare ad un superamento senza gravi traumi psichici della sua animosità iniziale ovvero ad una dannosa radicalizzazione della stessa (Cass. civ., sez. I, 15.1.98, n. 317). Nel decidere in ordine alle modalità di esercizio del diritto di visita del genitore, non affidatario, il giudice della separazione deve tenere conto della volontà della prole adolescente (nella specie, di quindici e tredici anni), per cui, qualora essa abbia manifestato il rifiuto di incontrare il padre in giorni ed in orari prestabiliti, allegando di non voler subire l’ossessionante, continuo recriminare paterno contro la madre, il giudice non deve coartare la volontà della prole, ma deve disporre che gli incontri con il genitore non affidatario avvengano una volta al mese, ma nel giorno liberamente scelto dalla prole stessa (Trib. Catania 17.4.96) La sentenza su citata, si è visto, non esclude il ricorso al supporto di strutture sociali e psicopedagogiche, per superare la situazione di ostilità del minore, ma conclude affermando che, se essa non è facilmente rimuovibile, deve portare alla sospensione della facoltà di visita, a prescindere dal fatto che l’animosità sia stata determinata da comportamenti negativi del genitore. Parte della dottrina (DE FILIPPIS, CASABURI), ritiene che la conclusione raggiunta dalla sentenza non possa essere elevata a principio generale, ma possa eventualmente essere valida soltanto per singoli casi. Resta, infatti nella convinzione che il rapporto tra figlio e genitore sia di fondamentale importanza per lo sviluppo psichico dell’adolescente e che assecondare la volontà del ragazzo di non frequentare il genitore può solo formalmente realizzare l’interesse dello stesso, ma lo nega invece da un punto di vista sostanziale. Ciò a maggior ragione se il coniuge non affidatario non abbia avuto comportamenti negativi e non sia una persona la cui personalità o stile di vita possano esercitare conseguenze negative sul minore. Nello stesso periodo anche la Corte Europea dei diritti dell’uomo affermava: Qualora in un procedimento di separazione personale tra coniugi ravvisata l’opportunità di affidare al padre la figlia minore, ormai adolescente, sia necessario regolare il diritto di visita della madre, il giudice non può prescindere dalla particolare situazione psicologica della minore, il cui rapporto con la genitrice sia talmente difficile e conflittuale, fino all’esasperazione, da indurre la minore a rifiutare gli incontri con la madre secondo modalità preordinate dal giudice e controllate dagli operatori sociali; allo scopo, pertanto, di evitare la radicalizzazione, forse irreversibile, di tale stato d’animo e di favorire, anzi, il recupero del rapporto parentale, nel rispetto della volontà della minore, va disposto che i suoi incontri con la madre avvengano, ma con le modalità prescelte solo dalla stessa minore (Trib. Catania 6.12.95) Anche se il genitore separato, divorziato, o, comunque, non convivente più con il partner e non affidatario della prole ha il diritto/dovere di visitarla, di permanere con essa e di mantenere costanti rapporti parentali, l’esercizio di tale diritto/dovere può essere, anche a tempo indeterminato, sospeso qualora la prole, a prescindere dai meriti o dai demeriti del genitore non affidatario, manifesti, nei confronti di quest’ultimo, anche in virtù dell’influenza esercitata da persone che la circondano, radicati, costanti sentimenti di rifiuto e di ripulsa, dovendosi riconoscere al diritto del minore alla serenità personale e familiare ed all’integrale suo benessere psicologico priorità assoluta (Corte eur. dir. uomo, 21.10.98) Risultano ispirate al principio del rispetto della personalità del minore anche due pronunce del Tribunale catanese: 5. LA RESPONSABILITÀ DEL GENITORE AFFIDATARIO CHE OSTACOLA I RAPPORTI CON L’ALTRO GENITORE. a responsabilità di un genitore nei confronti del figlio può sussistere anche nell’ipotesi in cui impedisca, ostacoli o comunque non agevoli i rapporti dello stesso con l’altro genitore, perpetrando il più delle volte la fattispecie di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, prevista e punita dall’art. 388, comma 2, c.p. L … integra il reato di cui all’art. 388 c.p. il comportamento del coniuge che non osservi i provvedimenti dati dal giudice di primo grado in tema di affidamento dei figli minori. (Cass. pen., sez. V, 16.3.00, n. 4730) Pur dovendosi ritenere che, di regola, la semplice inattività non possa costituire la condotta “elusiva” dei provvedimenti del giudice in materia di affidamento di minori, prevista come reato dall’art. 388 comma 2 c.p., deve tuttavia riconoscersi la configurabilità di tale reato quando, richiedendosi da parte del soggetto tenuto all’osservanza degli obblighi ingiunti con taluno dei suddetti provvedimenti una certa attività collaborativa, questa venga ingiustificatamente negata. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la S.C. dopo aver posto in luce il 99 RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE “ruolo centrale che assume il genitore affidatario nel favorire gli incontri dei figli minori con l’altro genitore”, ha affermato che: “Il rifiuto di fatto opposto dal genitore affidatario alla richiesta - verbale o scritta - dell’altro genitore di esercitare il diritto di visita dei figli concreta l’elusione del provvedimento giurisdizionale che regolamenta tale rapporto, proprio perché l’atteggiamento omissivo dell’obbligato finisce con il riflettersi negativamente sulla psicologia dei minori, indotti così a contrastare essi stessi gli incontri col genitore non affidatario perché non sensibilizzati ed educati al rapporto con costui dall’altro genitore”) (Cass. pen., sez. VI, 18.11.99, n. 2925) Ai fini della sussistenza del delitto di dolosa mancata esecuzione di un provvedimento del giudice che concerna l’affidamento di minori, la condotta cosiddetta “elusiva” deve essere intesa come comprensiva di qualsiasi comportamento positivo o negativo, che non esige né scaltrezza di sorta o subdole modalità né richiede che la pretesa di attuazione dell’ordine del giudice debba essere avanzata nei modi e nelle forme della minacciata esecuzione degli ordini di fare, secondo il rito processuale civile, bastando anche il semplice rifiuto del soggetto obbligato alla istanza verbale o scritta del privato interessato (Cass. pen., sez. VI, 8.5.96, n. 6042) Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 388 cpv. c.p. il termine “elude” va inteso in senso lato, comprensivo di qualsiasi comportamento - positivo o negativo - ad evitare l’esecuzione del provvedimento del giudice civile. (Nella specie, si è ritenuta sussistente la condotta tipica nel fatto del genitore che abbia portato i figli minori, da affidare alla madre per tre mesi, nell’abitazione del proprio fratello anziché in quella di lei, ed abbia subordinato la consegna alla volontà dei figli e al trasferimento della moglie nella propria abitazione) (Cass. pen. sez. VI, 4.6.90) In tema di mancata esecuzione di un provvedimento del giudice civile concernente l’affidamento di un figlio minore, qualora il genitore affidatario, pur obbligato a consentire l’esercizio del diritto di visita da parte dell’altro genitore secondo le prescrizioni stabilite dal giudice, viene a trovarsi in una concreta situazione di difficoltà determinata dalla resistenza del minore, ed essendo egli nello stesso tempo tenuto a garantire la crescita serena ed equilibrata del minore a norma dell’art. 155 comma 3 c.c., ha in ogni momento il diritto-dovere di assicurare massima tutela all’interesse preminente del minore, ove tale interesse, per la naturale fluidità di ogni situazione umana, non sia potuto essere tempestivamente stato portato alla valutazione del giudice civile. Ne consegue che, ai fini della sussistenza del dolo, occorre stabilire da parte del giudice penale se il genitore affidatario, nell’impedire al genitore non affidatario il diritto di visita ricusato dal minore, sia stato eventualmente mosso dalla necessità di tutelare l’interesse morale e materiale del minore mede100 AIAF RIVISTA 2/2006 simo, soggetto di diritti e non mero oggetto di finalità esecutive perseguite da altri (Cass. pen., sez. VI, 16.3.99, n. 7077) In un caso di qualche anno fa il Tribunale di Roma si è trovato ad esaminare il caso di una madre divorziata, cui era stata affidato il figlio, che sistematicamente e senza giustificate ragioni impediva all’altro genitore di intrattenere rapporti con il minore, contravvenendo, quindi alle specifiche disposizioni dettate dal giudice e in sede di separazione e in sede di divorzio. Il genitore non affidatario, quindi, vista la situazione, si rivolgeva al Tribunale romano chiedendo la condanna della ex moglie al risarcimento del danno biologico e morale sia suo che del figlio minore, poiché il comportamento della donna aveva inciso “sulle loro proiezioni di vita, sul loro inserimento sociale, sulla tutela e conservazione della famiglia, sui loro rapporti affettivi, sui rapporti socio-culturali, sulle loro condizioni fisio-psichiche”. Il giudice investito ha ravvisato, pertanto, nel comportamento della moglie gli estremi del reato di “Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice”, previsto all’art. 388 c.p., e ha riconosciuto al padre, ostacolato nel rapporto col figlio, il diritto al risarcimento del danno morale e del danno alla salute fisio-psichica (in realtà più che di danno biologico si tratta di danno esistenziale): …laddove egli non possa, incolpevolmente assolvere i predetti suoi importanti doveri verso il proprio figlio, né soddisfare il suo diritto di conoscerlo, di frequentarlo e di educarlo, in ragione e in proporzione anche del proprio senso di responsabilità e del proprio prolungato, ma vano, impegno posto in essere per il soddisfacimento di setto diritto-dovere: circostanze tutte, queste, accertate nel caso di specie. Sicché nella fattispecie è certamente ravvisabile e risarcibile - a mente degli artt. 2043, 2057 e 2059 c.c, in relazione all’art. 32 Cost. - il danno permanete biologico, oltre che morale, cagionato dalla P.R. alla persona del B.A., la cui esistenza ontologica, in termini di subito pregiudizio alle sue preesistenti condizioni fisiopsichiche, è provata in re ipsa e va comunque presunta ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c., trattandosi di danno emergente che deriva dai prolungati turbamenti neuro-psichici, dal dolore, dalle ansie e dalla logorante angoscia in lui prodottisi per non aver potuto assolvere, non per la sua volontà, agli stringenti doveri verso il figlio, né soddisfare i suoi legittimi diritti di padre, con pregiudizievoli riflessi anche sulla propria vita di relazione (nei rapporti parentali, speciali, ricreativi ecc.),menomazioni tutte fortemente incidenti sulla salute fisio-psichica d un individuo anche in proiezione futura e, perciò, di concreta e permanente rilevanza biologica, per le quali, quindi, può MAGGIO - AGOSTO 2006 essere fatta valere l’aspettativa riparatrice (Trib. Roma, 13.6.00) Il risarcimento nei confronti del figlio, invece, riconosciuto in astratto, veniva negato in concreto, per difetto di legitimatio ad processum (Trib. Roma, 13.6.00). Più recente, invece, è una pronuncia del Tribunale di Monza la quale ha evidenziato come la compromissione sofferta dalla madre, nella sfera dei rapporti affettivi con il figlio minore (affidato al padre), attraverso l’interruzione di ogni apprezzabile relazione per un periodo di dieci anni dovuto al comportamento del padre che non ha mai dato un reale contributo positivo all’evoluzione della relazione del figlio con la madre-, integri una lesione di un diritto personale costituzionalmente garantito, e rappresenti quindi un fatto costitutivo del diritto al risarcimento dei danni non patrimoniali, sotto l’aspetto sia del danno morale soggettivo (patema d’animo), sia dell’ulteriore pregiudizio derivante dalla privazione delle positività derivanti dal rapporto parentale. Il genitore non affidatario che venga meno al fondamentale dovere, morale e giuridico, di non ostacolare, ma anzi di favorire la partecipazione dell’altro genitore alla crescita ed alla vita affettiva del figlio, è responsabile per il grave pregiudizio arrecato al diritto personale del genitore non affidatario alla piena realizzazione del rapporto parentale (nel caso di specie, l’organo giudicante ha condannato il genitore ostacolante a risarcire, a titolo di danno morale ed esistenziale, al genitore non affidatario la somma di E. 50.000,00) (Trib. Monza, 5.11.04) Ha diritto al risarcimento del danno il genitore non affidatario che non aveva potuto esercitare per lungo tempo il diritto di visita al figlio per effetto, oltre che di problemi personali dello stesso non affidatario, delle condotta ostruzionistica del genitore affidatario (Trib. Monza, 5.11.04) In particolare, dunque, il Tribunale di Monza, con tale pronuncia- che costituisce una delle prime decisioni che riconoscono la risarcibilità del danno non patrimoniale sofferto dal genitore non affidatario per gli ostacoli frapposti all’esercizio del diritto di visita da parte dell’altro genitore- ha riconosciuto in capo alla madre il diritto ad essere risarcita in relazione ai turbamenti prolungati, al dolore, alle ansie prodottisi in lei per non avere potuto assolvere - non per sua volontà - agli stringenti doveri verso il figlio, né soddisfare i suoi legittimi diritti di madre a partecipare alla crescita ed alla vita affettiva del figlio (RAMACCIONI). RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE 6. RESPONSABILITÀ DA RICONOSCIMENTO NON VERITIERO DI PATERNITÀ. IL DISCONOSCIMENTO DELLA PATERNITÀ. uò sussistere responsabilità extracontrattuale, ex art. 2043 c.c., del genitore nei confronti della prole, anche nell’ipotesi in cui venga accertato che sia stato fatto un riconoscimento non veritiero di figlio naturale. Tale fatto, oltre che integrare gli estremi del reato contemplato all’art. 483 c.p (Falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico), può comportare anche una lesione, un pregiudizio al figlio che, credendo- fino a quel momento di essere realmente figlio di quel genitore, scopra all’improvviso che c’è una discrasia tra la situazione reale e quella legale. Un caso di tal specie è stato analizzato dal Tribunale di Torino nel 1992, il quale, dopo aver accertato la nullità del riconoscimento della figlia naturale, per difetto di veridicità, e aver riscontrato l’esistenza degli estremi del reato di cui all’art. 483 c.p., aveva condannato il padre, autore del falso riconoscimento, al risarcimento del danno in favore della figlia allora dodicenne, per i pregiudizi alla stessa arrecati. P Nel giudizio promosso dal preteso padre per la declaratoria di nullità, per difetto di veridicità, del riconoscimento di figlio naturale, deve considerarsi ammissibile e può nel merito essere accolta la domanda, del curatore speciale del minore, diretta ad ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale causato al minore dal riconoscimento falso, danno psicofisico e di carattere anche sociale inevitabilmente inferto; il danno non patrimoniale è risarcibile perché il falso riconoscimento integra il reato di falso ideologico (Trib. Torino, 31.3.92) Il Tribunale evidenziava come, dalla situazione prospettata, la minore avrebbe subito un notevole pregiudizio psico-fisico, consistente nella difficoltà a reinserirsi col nuovo cognome nell’ambiente sociale e scolastico, nelle notevoli sofferenze che le sarebbero derivate dai commenti dei terzi sul suo conto e sulla sua vicenda e nel grave dolore nello scoprire all’improvviso la nuova realtà. Maggiore è, infatti l’età della persona interessata, e più gravi saranno i danni da lei subiti, in quanto persona in grado di rendersi pienamente conto della situazione circostante e di quanto accaduto alla sua vita. Nel caso in esame l’impugnazione del riconoscimento da parte del falso padre era avvenuto a distanza di molti anni sia dal riconoscimento stesso che dalla rottura dei rapporti affettivi con la madre della bambina. Senza dubbio, secondo 101 RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE l’opinione del giudice torinese, questo ha contribuito ad aumentare le ripercussioni negative della vicenda sulla sfera personale della bambina. Anche il disconoscimento di paternità, che provoca la perdita dello status di figlio legittimo, può essere causa di grave pregiudizio- soprattutto di carattere non patrimoniale- sia per il minore che per il figlio ormai adulto. Comunque, in ogni caso, il termine abbastanza ristretto per la proposizione della domanda (ad eccezione dell’ipotesi in cui la stessa venga proposta dal figlio stesso entro un anno dal raggiungimento della maggiore età o dal momento in cui venga a conoscenza dei fatti che rendono ammissibile il disconoscimento), dovrebbe comportare una riduzione dei pregiudizi subiti. 7. LA RESPONSABILITÀ DA PROCREAZIONE. l dibattito su questa problematica si è sviluppato nel nostro paese nei primi anni ‘50, sulla scia di una pronuncia del Tribunale di Piacenza che riconobbe ad una donna, venuta al mondo con lue congenita, il diritto al risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. nei confronti dei genitori (Trib. Piacenza 31.7.1950). La questione, poi, non è stata riaffrontata nel merito dalla Corte d’Appello di Bologna poiché, avendo il Tribunale di Piacenza dichiarato solidalmente responsabili entrambi i genitori, è stata negata alla madre la legittimazione ad agire per i danni quale rappresentante legale della figlia, ritenendosi necessaria la nomina di un curatore speciale (App. Bologna, 7.6.1951). In ogni caso numerose sono state le voci di critica che si sono sollevate in merito alla pronuncia (CARNELUTTI, RESCIGNO). Si riteneva essenzialmente che esistessero degli ostacoli a ravvisare l’esistenza di una responsabilità: in primis si dubitava dell’esistenza di un danno, data la possibilità di curare la malattia e la non apprezzabile diminuzione di rendimento lavorativo del leutico, ma la difficoltà maggiore per la configurabilità dell’esistenza di una responsabilità è stata individuata nell’impossibilità di configurare una lesione alla salute, ossia un bene della vita, costituzionalmente tutelato, in capo ad un soggetto non ancora vivente, essendo stata l’infezione, nella fattispecie, contestuale al concepimento (PATTI). Altra parte della dottrina, pur se minoritaria (RESCIGNO), osservava, invece, che “se l’illecito e la conseguenza dannosa possono essere separati nel tempo, non è necessario che il soggetto passivo già esista nel momento in cui l’atto è compiuto, così come non si richiede che tuttora esista l’autore dell’illecito nel momento in cui il danno si produce. Una conferma viene tratta dalla risar- I 102 AIAF RIVISTA 2/2006 cibilità del danno morale per un’ingiuria subita prima del nascere. Si pensi al caso del nascituro che venga ingiuriato come bastardo: si potrebbe dire che, mancando il soggetto manca l’opinione della propria onorabilità e la volontà di tutelarla. Ma la nozione oggettiva di onore consente di risarcire il danno che il soggetto subisce affacciandosi alla vita ed entrando nella società. * già Docente di Istituzioni di Diritto Privato nell'Università LUISS di Roma; Titolare delle cattedre di Diritto Civile e Diritto dell'Internet nell'European School of Economics. MAGGIO - AGOSTO 2006 RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE GIUSEPPE CASSANO Rapporti familiari, responsabilità civile e danno esistenziale. Il risarcimento del danno non patrimoniale all’interno della famiglia CEDAM È stato pubblicato con la CEDAM e presentato, in occasione di un Convegno sul tema organizzato dall’AIAF Abruzzo presso il Tribunale di Pescara, il libro del Prof. Avv. Giuseppe Cassano:”Rapporti familiari, responsabilità civile e danno esistenziale”. Con il suo libro, Giuseppe Cassano si cala appieno nel tema “caldo” della responsabilità civile e del risarcimento del danno all’interno dei rapporti familiari, che sostanzialmente costituisce la fattispecie più nuova che, da trent’anni a questa parte, si è affacciata nel panorama giuridico del pianeta famiglia: fattispecie che ha in qualche modo recepito e portato a sintesi, in una configurazione con valenza giuridica, tutte le trasformazioni di non poco momento avvenute in questi anni dentro i rapporti familiari, avviate dai mutamenti del costume sociale, accolte e nello stesso tempo sollecitate dalla riforma del diritto di famiglia del 1975. Fattispecie che a sua volta, da una parte recepisce e dall’altra dà impulso ad un nuovo e più definito concetto di responsabilità dei soggetti e dei loro comportamenti nel rapporto familiare, che era andato progressivamente sbiadendo con un’interpretazione ed un progressivo svuotamento dell’istituto dell’addebito, (di natura peraltro del tutto diversa), i cui confini indefiniti e fumosi hanno rivelato tutti i loro limiti nell’applicazione giurisprudenziale. L’autore si propone di ricostruire, a partire da una analisi completa ed esauriente della categoria del danno, di così grande attualità nel nostro ordinamento, il passaggio giustamente definito “epocale” da molti studiosi, dalla concezione della famiglia come istituzione preordinata ad uno scopo esterno a sé, la conservazione dell’ordine sociale, alla famiglia sentita come comunità di soggetti autonomi, ciascuno dei quali è portatore di diritti che meritano tutela giuridica. E ciò fa attraverso una sistematica indagine, che intreccia i profili dottrinari con una accurata ricerca delle decisioni giurisprudenziali e dei principi che le hanno ispirate nel corso degli anni, conducendo il lettore a poco a poco dalla conoscenza e dall’esame delle diverse fattispecie di danno così come affermatesi in questi anni alla più specifica categoria del danno endofamiliare, che ha, da non molto tempo, trovato ampio spazio nel dibattito e qualche, ancora timida, applicazione, in particolare nella giurisprudenza di merito, fino ad arrivare alla ormai nota sentenza della Suprema Corte 10/5/05, n. 9801. Il testo, insomma, porta il lettore a focalizzare per tappe successive, insieme alla giurisprudenza sul punto, il passaggio da una idea consolidata nel mondo giuridico dell’esistenza di una disciplina chiusa e completa in se stessa del diritto familiare al progressivo ampliamento dei suoi confini, alla possibilità, anzi alla necessità che i rapporti familiari attingano risorse per la loro regolamentazione anche da altri significativi principi dell’ordinamento. Ne viene fuori un quadro sistematico del problema affrontato: partendo dalle riflessioni di una dottrina attenta a quanto maturava nei rapporti familiari sul piano sociologico ed alle conseguenze giuridiche da ciò prodotte sugli istituti tradizionali, l’autore opera una risistemazione dei principi, che hanno in qualche modo sollecitato la nascita del danno esistenziale per poi passare ad una trattazione più specifica dello stesso nelle singole fattispecie, badando a connotare e differenziare i vari tipi di danno, sia sul piano definitorio sia con il supporto delle sentenze di riferimento, adeguatamente riportate nei loro passaggi più significativi. Di particolare interesse per le novità che introduce il tema dei profili risarcitori in relazione alla violazione dei doveri coniugali: né vengono tralasciati sotto il profilo del danno, istituti nuovi, quali gli ordini di protezione, di cui alla legge n. 154/01, o quelli introdotti con la legge n. 40/04 sulle inseminazioni artificiali eterologhe, che configurano forme particolari di responsabilità, figure comunque emerse all’attenzione del legislatore a seguito del processo in corso di trasformazione della famiglia. I formulari finali, evidentemente diretti agli studenti, evidenziano la volontà dell’autore di fornire anche uno strumento pratico di lavoro a chi si avvicina per la prima volta alla materia e può così verificare la traduzione concreta delle riflessioni dottrinarie e degli orientamenti giurisprudenziali così efficacemente descritti. In definitiva, non solo uno strumento completo di studio, ma nel contempo una ricostruzione, che può offrirci spunti di domanda e di ulteriori riflessioni sul ruolo del risarcimento del danno all’interno della famiglia: certo una possibilità nuova per la tutela del coniuge nei confronti del comportamento dell’altro, quando questo viola e lede i valori fondamentali della persona, una possibilità tuttavia da maneggiare con delicatezza, ed attenzione, come sottolinea l’autore stesso, laddove il comportamento del familiare sia di gravità tale da violare diritti ritenuti inviolabili dall’ordinamento e pertanto meritevoli di tutela specifica, che fuoriesce dai tradizionali strumenti riservati al diritto familiare. Il discorso è aperto, ci suggerisce l’Autore: vedremo dove ci porterà. AVV. MARIACARLA SERAFINI 103 RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE I. IL SISTEMA DI RISARCIMENTO DEL DANNO ALLA PERSONA ur se a tutti Voi ben noto, appare opportuno, prima di trattare specificamente del rilievo del danno psichico, ricordare brevemente gli importanti mutamenti che sono intervenuti nel sistema di risarcimento del danno alla persona. Il sistema tradizionale così detto “tripolare” prevedeva il riconoscimento, in sostanza, di tre voci di danno alla persona: P a) il danno alla salute, o danno biologico, dannoevento del fatto lesivo della salute, pregiudizio primario, immancabile e sempre risarcibile ex IL RILIEVO CIVILISTICO DEL DANNO PSICHICO ALESSANDRO SARTORI* art. 2043 del C.C. e 32 della Cost.; b) il danno morale, caratterizzato dal turbamento psicologico del soggetto leso, danno-conseguenza, riconosciuto solo nel caso in cui venissero accertate la sussistenza e le condizioni di risarcibilità con una restrittiva valutazione dell’art. 2059 C.C. c) il danno patrimoniale, anch’esso danno-conseguenza, che per essere risarcito, esigeva la dimostrazione della sua esistenza. A fianco di queste tre voci di danno, nel corso degli ultimi anni (in particolare dal 1999) parte della dottrina e dalla giurisprudenza 1 hanno aggiunto una quarta voce di danno e, cioè, il così detto danno esistenziale. Una voce di danno differente dal danno patrimoniale, da quello biologico e da quello morale che veniva definita come quel danno derivato dalla forzosa rinuncia allo svolgimento di attività non remunerative, fonte di compiacimento o benessere per il danneggiato, ma non causata da una compromissione della integrità psicofisica. 1 AIAF RIVISTA 2/2006 Il sistema risarcitorio “tripolare” o “quadripolare” è stato finalmente rivisitato a metà del 2003 dalle fondamentali decisioni numero 8827 e 8828 del 31.5.2003 della Suprema Corte. Secondo la nuova interpretazione della Corte di Cassazione, condivisa poi anche dalla Corte Costituzionale con la sentenza 233/2003, nel quadro di un sistema risarcitorio del danno alla persona “bipolare”, contraddistinto da danno patrimoniale e dal danno non patrimoniale, l’art. 2059 C.C. ricomprende nell’astratta previsione della norma ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona tra cui: a) il danno morale soggettivo, inteso come transeunte turbamento dello stato d’animo della vittima; b) il danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell’interesse, costituzionalmente garantito all’integrità psico-fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico; c) il danno derivante dalla lesione di altri interessi di rango costituzionale inerenti alla persona. L’altra grande novità strettamente collegata al nuovo sistema “bipolare nell’ambito di questa interpretazione “costituzionalmente orientata” dell’art. 2059 C.C., è data dalla affermazione della risarcibilità del danno non patrimoniale senza che più vi sia di ostacolo il mancato positivo accertamento della colpa dell’autore del danno se tale colpa, come nei casi di cui agli art. 2051 e 2054 C.C. “debba ritenersi sussistente in base ad una presunzione di legge e se, ricorrendo la colpa, il fatto sarebbe qualificabile come reato”. Pertanto l’art. 2059 C.C. “deve essere interpretato nel senso che il danno non patrimoniale, in quanto riferito alla astratta fattispecie di reato, è risarcibile anche nell’ipotesi in cui, in sede civile, la colpa dell’autore del fatto risulti da una presunzione di legge”. Tale novità è stata affermata da Cass. 7281, 7282 e 7283 del 12.5.2003 e dalla stessa Corte Costituzionale su ricordata in totale contrasto con la giurisprudenza che si era consolidata negli anni e che può essere, ad esempio, verificata in Cass. 9598/98 e 12741/99. Il “revirement” della Suprema Corte è stato soltanto fugacemente, per dir così, contrastato dalla sentenza n. 10987 del 14.7.2003, peraltro subito smentita dalle decisioni più recenti che hanno ribadito come “alla risarcibilità del danno non patrimoniale, ai sensi degli art. 2059 C.C. e 185 C.P., non osta il mancato positivo accertamento Ricordiamo Cass. 911/99 - Cass. 7713/2000 - Cass. 4881/2001 - Corte dei Conti, Sezioni Riunite 23.4.2003 n. 10/Q, mentre, per la giurisprudenza di merito: Trib. Milano n. 9417/99 - Trib. Venezia 14.1.2003 in Resp. Civ. e Prev. 2003, 198, Trib. Monza 13.5.2003 in Giurisp. di Merito 2003, Fasc. 6 104 MAGGIO - AGOSTO 2006 della colpa dell’autore del danno se essa, come nel caso dell’art. 2054 C.C., debba ritenersi sussistente in base ad una presunzione di colpa e se, ricorrendo la colpa, il fatto sarebbe qualificato come reato” (Cass. 26.2.2004 n. 3871). II. IL DANNO BIOLOGICO atta questa opportuna e doverosa ricognizione del sistema risarcitorio “bipolare” che appare il più coerente nell’interpretare, dopo tanti dibattiti e tante interpretazioni, la normativa vigente in materia di risarcimento per responsabilità aquiliana, per giungere ad una più precisa identificazione del danno psichico, dobbiamo ripetere a noi stessi il significato ormai consolidato di “danno biologico”, che può essere definito come “la temporanea o definitiva compromissione della complessiva integrità psico-fisica dell’individuo, suscettibile di essere positivamente accertata sotto il profilo medico legale, dalla quale compromissione sia derivato un peggioramento concreto dell’esistenza del soggetto leso2. È assolutamente pacifico, poi, che nella nozione di danno biologico rientri tutta quella serie di “danni” che erano stati creati dalla dottrina e, soprattutto, dalla giurisprudenza per consentire il risarcimento di determinate fattispecie. Il nuovo sistema risarcitorio non ha influito sui criteri liquidativi già in uso per la liquidazione del danno biologico che continuano ad essere considerati del tutto validi, come, ad esempio, precisato nella sentenza n. 19057 del 12.12.2003 della Suprema Corte in cui si precisa che “Ai fini del risarcimento del danno biologico, anche a seguito del nuovo inquadramento della tutela del diritto all’integrità psico-fisica della persona....., i criteri di liquidazione del danno non mutano e, in particolare, rimane ferma la necessità di far riferimento al criterio equitativo che va esercitato tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto e specificamente della gravità delle lesioni, degli eventuali postumi permanenti, dell’età, dell’attività espletata e delle condizioni familiari e sociali del danneggiato” tant’è che la sentenza citata precisa come nell’ambito indicato poteva essere adottato come parametro di riferimento il valore medico del punto di invalidità purché adeguato alle peculiarità del caso concreto. Ne è derivata, quindi, la conferma della legittimità e applicabilità dei criteri liquidativi predisposti dalla giurisprudenza, sia quello del così detto calcolo “a punto” (o metodo pisano) sia F RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE quello, utilizzato in misura prevalente, del così detto punto tabellare, indicato anche come “metodo milanese”, il tutto purché il giudicante effettui la necessaria personalizzazione del criterio adottato al caso specifico3. Per cui, in definitiva, i criteri tabellari non devono mai essere applicati automaticamente perchè “in tema di liquidazione equitativa del danno biologico il ricorso ai criteri standardizzati e predefiniti delle “tabelle” deve essere accompagnato da una corretta opera di adeguamento delle stesse al caso concreto, tenendo conto della gravità della lesione che abbia inciso anche sulla capacità recuperatoria o stabilizzatrice della salute, procedendo ad adeguate e prudenti maggiorazioni” (Cass. 4.11.2003 n. 16525) III. IL DANNO PSICHICO u questo tipo di danno si è fatta e si fa talvolta parecchia confusione confondendolo con il danno psicologico, quello esistenziale, quello neurologico o quello alla vita di relazione etc.. Appare necessario fare alcune distinzioni chiare. La premessa da cui non si può decampare, naturalmente è l’inquadramento, per quanto abbiamo poc’anzi riferito, di tutti questi tipi di danno nel danno non patrimoniale e, in particolare, nel vasto genus del danno biologico. Ad esempio il danno psichico non è un danno neurologico, perchè quest’ultimo colpisce il sistema nervoso, ossia l’apparato costituito da encefalo, midollo spinale, organi di senso e nervi periferici, entità anatomiche tutte ben individuabili, ciascuna, su un atlante di anatomia. Il danno neurologico si accerta con l’esame obiettivo neurologico, mercè l’ausilio di strumenti vari (martelletto, diapason, provetta calda e fredda, oftalmoscopia, etc.) e di esami strumentali più complessi (elettroencefalogramma, angiografia, scintigrafica, TAC, risonanza magnetica). La maggior parte dei casi di danno neurologico non pone, quindi, problemi anche se talvolta questo tipo di danno si esprime con una sintomatologia di tipo psichico e non si esprime con sindromi riconducibili a precisi centri encefalici. “Si tratta, perlopiù, di difficoltà di concentrazione, di dismnesie, di deterioramenti modesti, di alterazioni di carattere, soventi riscontrabili anche in casi di danno psichico, senza pregresse lesioni cranio encefaliche” (RAFFAELE CASTIGLIONI , Danno psichico: Diagnosi, nesso causa- S 2 Per tutte: Cass. 9.12.94 n. 10539 e Cass. 28.11.98 n. 12083 3 Vedansi: Cass. 31.7.2002 n. 11376 - Cass. 5.3.2003 n. 3285 e Cass. 18.3.2003 n. 3997 105 RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE le, transitorietà e permanenza, quantificazione). In tali casi molto spesso i dubbi possono essere fugati con test psicometrici e neuropsicologici Il danno psichico non è neppure un danno psicologico, in quanto il danno psicologico, quale danno a sintomatologia soggettiva e relativo alla modifica della personalità dell’individuo, può comportare la lesione della dignità offesa, il mero turbamento dell’animo, il peggioramento della qualità della vita, senza far conseguire al danneggiato una patologia permanente. Va ricordato che la psicologia è la scienza che studia l’attività psichica, il comportamento e la personalità dell’uomo psicosomaticamente sano, mentre la psichiatria è la scienza che studia la psicopatologia, per cui il danno psicologico attiene alla sintomatologia soggettiva dell’individuo, di ardua analisi da parte dell’esaminatore, sfuggendo a raffronti e a parametri oggettivi comuni ed è per sua natura un patema d’animo o uno stato d’angoscia tendenzialmente transeunte e si manifesta, appunto, in sintomatologie soggettive, in rinunce ad attività quotidiane di qualsiasi genere, in compromissione delle proprie sfere di esplicazione personali, in lesione della dignità offesa, in mero turbamento dell’animo, insomma in quel non facere che costituisce il presupposto della perdita di utilità quotidiana. Il danno psichico, invece, presuppone una patologia; non solo il manifestarsi di una sintomatologia soggettiva, ma anche di una oggettiva rilevabile con parametri comuni (ad esempio: la patologia dissociativa, quella fobica, quella isterica, quella paranoica, etc.). Il danno psichico colpisce la psiche o mente costituita, secondo i canoni classici di psicopatologia, da tre fondamentali facoltà o sfere: conoscitiva, affettivo-istintiva, volitiva. Il danno psichico è “un danno che è sia puramente morale e, cioè, riconducibile soltanto alla sofferenza soggettiva ed al dolore che possono conseguire ad un trauma fisico o psichico e che non sia neppure un danno organico e, cioè, consistente in una menomazione derivante dalla lesione oggettiva di una parte dell’organismo, essendo un danno che va inteso come una compromissione durevole ed obiettiva che riguardi la personalità individuale nella sua efficienza, nel suo adattamento, nel suo equilibrio, come un danno consistente, non effimero, né puramente soggettivo e che.... riduce in qualche misura le capacità, le potenzialità, le qualità della vita della persona con una compromissione permanente attinente al settore psichico dell’individuo”. (PAOLO VINCI, Riflessioni sul danno psichico). Fino a qualche anno fa la valutazione dei danni di carattere psichico si poneva quale questione per106 AIAF RIVISTA 2/2006 lopiù aggiuntiva nell’ambito di una più ampia valutazione di danni fisici cagionati soprattutto da incidenti del traffico. La crescente sensibilità per il problema dell’integrità psichica, oltre che per quella fisica e le conseguenti maggiori esigenze di tutela hanno condotto a valutare anche quadri psichici dipendenti da cause lesive assai diverse, come, ad esempio, le traversie lavorative cagionate da illeciti comportamenti in ambito lavorativo posti in essere da organi gerarchicamente superiori o da colleghi di lavoro (mobbing), lo stress da inquinamento acustico, i maltrattamenti in famiglia o scorrette cure mediche fino a giungere ai casi di danno psichico da morte di congiunti. È senz’altro possibile affermare che “il danno psichico è una species del genus “danno alla salute” e che, quindi, normalmente debba essere liquidato in via equitativa, ma, soprattutto, in questo tipo di danno, appare impossibile prescindere dalla personalizzazione della fattispecie di lesione presa in esame, per cui la quantificazione del danno psichico andrà inevitabilmente determinata attraverso la considerazione e l’attenta valorizzazione delle innate specifiche prerogative che differenziano e caratterizzano ciascun essere umano” (F RANCESCA TOPPETTI , Il danno psichico), perchè occorre sempre considerare il fatto che “il disturbo psichico non è la mera somma di tanti fattori, ma il l’irripetibile modo secondo cui in quel soggetto i singoli fattori si sono integrati” (PONTI, Danno psichico ed attuale percezione psichiatrica del disturbo mentale). IV. NESSO DI CAUSALITÀ ralasciando l’indicazione della tipologia delle menomazioni psichiche che ci ha già indicato il Prof. Andreoli e che competono alla scienza psichiatrica, un qualche interesse per l’operatore del diritto ha il “nesso di causa” nel danno psichico, in quanto la questione della causalità nell’accertamento medico legale del danno psichico è tra le più controverse. Per individuare, non tanto la “causa” del “trauma psichico” (Corte Cost. Sent. n. 372/94) si fa riferimento ad una interazione tra molteplici fattori con una variabilità di proporzioni pressoché infinita da individuo ad individuo per giungere alla identificazione di “concause” del trauma e, quindi, del danno psichico. Come nella valutazione di tale tipo di danno bisogna procedere ad una “personalizzazione della fattispecie di lesione presa in esame” (TOPPETTI, op. cit.), così nella individuazione delle concause bisogna, anzitutto, ricordare che “il trauma si inserisce su un preesistente substrato psichico e c’è la concorrenza in varia e pressoché indeter- T MAGGIO - AGOSTO 2006 minabile proporzione, di influenze biologiche, psicologiche, familiari e ambientali”. (R. CASTIGLIONI , op. cit.). Il problema del nesso di causa tra un trauma e il danno psichico (ossia il “disturbo” che viene allegato come danno), è stato a livello medico legale risolto in due modi opposti. Il primo modo valorizzava la preesistenza, talora dimostrata e talora genericamente presunta, per concludere che la stessa prevaleva sul “trauma” e per supportare questo metodo si ricorreva molto spesso al concetto di “causa occasionale” o “occasione” che rappresentavano il complesso delle circostanze che avevano favorito l’entra in azione delle cause, talché l’”occasione” compartecipava a promuovere il “trauma” (PALMIERI e ZANGANI, Medicina Legale delle Assicurazioni). Il secondo modo di risoluzione del problema del nesso causale, che appare assai più attendibile, considera, sì, anche il substrato “preesistente” ma rifiuta, “concetti ambigui come quello di causa occasionale, che frequentemente ha portato ad escludere il risarcimento, quando i fattori preesistenti e favorenti si ritenevano avere una prevalenza nella psicopatogenesi” (G. PONTI, op. cit.). Il concetto di “causa occasionale” appare una mostruosità sul piano giuridico, in quanto non ha senso parlare di occasione che “favorisce” lo scompenso, ma che non è causa o concausa. “Se un trauma “favorisce” anche in minima parte.... un evento, significa che è concausa. Non ha senso parlare di causa che è “poco causa”, tanto poco da non avere, in fin dei conti, alcuna dignità causale” (R. CASTIGLIONI, op. cit. e in Eventi traumatici modesti e sequele psichiche: il problema del nesso di causalità materiale). Va, infatti, ricordato che la normativa sul nesso causale (art. 40 e 41 C.P.) è ispirata alla concezione condizionalistica, per cui ogni condizione, sia pur minima, che contribuisce a determinare l’evento, assume ruolo causale. Non va sottaciuto, poi, che “ciascuno ha diritto all’integrità della propria salute fisio-psichica così com’è, sia che goda della proverbiale salute “di ferro”, sia che soffra di più fragile equilibrio psichico” (R. CASTIGLIONI, op. cit.). Pertanto ogni evento traumatico, ancorché modesto o naturale, è potenzialmente idoneo ad innescare dinamiche intrapsichiche atte a dare poi corpo ad un quadro psicopatologico. Dovrà, quindi, il medico legale supportato da un consulente psichiatrico, valutare attraverso strumenti diagnostici appropriati, soprattutto in uso nella pratica psichiatrica, tener conto degli eventi psicosociali stressanti “che si siano verificati quantomeno nell’anno che precede la valutazione del caso e che possano aver contribuito ad RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE una delle seguenti situazioni: 1) insorgenza di un nuovo disturbo mentale; 2) ricaduta di un disturbo mentale precedente; 3) esacerbazione di un disturbo mentale già esistente” (R. CASTIGLIONI, op. cit.), per cui la valutazione della gravità degli eventi traumatici sarà basata sulla valutazione dello stress che una persona media in condizioni simili e di simile contesto socio colturale potrebbe subire dal particolare evento stressante. Abbiamo ritenuto di richiamare il problema del nesso causale e delle concause, perchè la consulenza medico legale, da supportare, come detto, con una consulenza specialistica psichiatrica, deve offrire all’operatore del diritto una valutazione del caso tenendo conto, come già più volte si è detto, della personalizzazione della fattispecie e ciò per evitare contestazioni e consentire, quindi, al legale e al giudicante una più adeguata valutazione del valore del danno psichico, anche se, in un particolare caso che riferirò tra poco, la considerazione dello stato di salute concretamente attribuibile al soggetto leso prima del verificarsi dell’evento lesivo potrebbe avere poca rilevanza. V. QUANTIFICAZIONE DEL DANNO PSICHICO l problema della quantificazione del danno puramente psichico appare di assai ardua soluzione, in quanto non esistono né tabelle, né esperienze sufficientemente consolidate. Taluno propone di far riferimento alle tabelle usate per l’accertamento degli stati di invalidità civile pur facendosi carico delle diverse finalità tra la valutazione dello stato di invalidità civile e quello dei postumi risarcibili in conseguenza di fatto illecito. Tale criterio ha un grave limite, in quanto le tabelle per l’invalidità civile, oltre ad essere sommarie, si attengono ad un criterio nosologico indicando sindromi ben definite, per cui rimane in ombra la sterminata area dei “disturbi psichici” che non sono vere e proprie “infermità”. Altro grave problema è dato proprio da quanto abbiamo poco fa ricordato circa la “preesistenza”, cioè lo stato anteriore che rende il soggetto più vulnerabile e lo predispone, per dir così, al disturbo psichico. Qualche altro propone una specie di “tara” forfettaria sulle tabelle del 10% e una quantificazione del danno sul restante 90%, ma anche tale criterio pone un interrogativo di fondo. È, infatti, necessario tener conto della preesistente menomazione, per esempio, di un organo o di un arto già compromessi per un pregresso infortunio o malattia, ma è forse lecito considerare la I 107 RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE “psiche” alle stregua di un “organo”?. La mente è “espressione peculiare dell’individuo e l’eventuale maggior vulnerabilità non è effetto di un precedente infortunio, bensì risultato della naturale interazione di molteplici e multiformi fattori. Ogni assetto psichico, ogni personalità, ogni equilibrio, sia pure precario è, a ben riflettere, uno degli infinti “modi d’essere” dell’individuo” (R. CASTIGLIONI, op. cit.). Pertanto non si vede perchè non si debba considerare la validità di ogni stato psichico preesistente al trauma pari al 100% come per ogni organo sano. “In realtà, tutto ciò che è psichico sfugge, per sua natura, a qualsiasi tentativo di quantificazione numerica” (R. CASTIGLIONI, già citato) e, d’altronde, proprio l’art. 1226 C.C. prevede la liquidazione equitativa del danno quando lo stesso non possa essere provato nel suo preciso ammontare. Ecco perchè è fondamentale, come detto, che le indagini in tema di danno psichico siano affidate o a medici legali con formazione anche psichiatrica o a psichiatri anche con formazione medico legale, oppure, come appare più agevole, ad un collegio di consulenti e i CC.TT.UU. dovranno ben rendere edotto il Giudice dei problemi insiti nell’indagine su questo particolare tipo di danno, particolarmente chiarendo l’impossibilità di fornire pseudo-quantificazioni con cervellotiche cifre percentuali. Nell’adempiere al loro compito di ausiliari del Giudice i consulenti dovranno anche fornire indicazioni precise sulla reversibilità o meno del danno psichico, sulle terapie che dovranno essere seguite dal danneggiato per favorire l’eventuale reversibilità e quanto anche tali terapie potranno influire sulla qualità della vita del danneggiato stesso. Dovranno, insomma, fornire tutti quegli elementi che possano essere utilizzati dagli operatori del diritto per monetizzare il danno psichico subito. È pur vero che gli operatori del diritto vorrebbero avere una indicazione chiara e facilmente quantificabile, ma vi sono casi in cui i Giudici debbono esprimere giudizi di valore, supportati dall’impegno dei legali delle parti che devono contribuire a promuovere una giurisprudenza che costruisca un sistema di accertamento e di risarcimento del danno psichico sapendo opportunamente scegliere tra le indicazioni proposte dai tecnici consulenti che, proprio in questo tipo di danno, dovrebbero limitarsi a dare una compiuta informazione del tipo di lesione subito dalla psiche, lasciando alla sensibilità degli operatori del diritto quantificare, con adeguate riflessioni, il danno stesso. 108 AIAF RIVISTA 2/2006 VI. ALCUNE IPOTESI E FATTISPECIE APPLICATIVE enendo conto della limitatezza del tempo, vorrei subito introdurre una ipotesi di danno in cui, appunto, appare arduo considerare lo stato di salute del soggetto leso prima del verificarsi dell’evento e provocare, come già preannunciato, una riflessione da parte del Prof. Andreoli. Trattasi del danno da “SINDROME DI ALIENAZIONE GENITORIALE” o “P.A.S. - Parental Alienation Syndrome”. È un danno-disturbo che insorge quasi esclusivamente nel contesto delle controversie per la custodia dei figli. “In questo disturbo, un genitore (alienatore) attiva un programma di denigrazione contro l’altro genitore (genitore alienato)” (FULVIO SCAPARRO, PAS La sindrome di alienazione genitoriale). In questa fattispecie si verifica una programmazione al fine “di instillare, “una realtà virtuale” nel sistema cognitivo del bambino, tesa ad impedire una relazione piena e soddisfacente tra figlio e genitore non affidatario, spingendo il bambino a rifiutare quest’ultimo” (F. SCAPARRO, op. cit.). “L’ispirazione della PAS nel bambino comporta una programmazione di paura, diffidenza e odio nei figli determinando l’isolamento degli stessi dalla “realtà reale familiare” e creando le condizioni che generano il rilascio di espressioni di astio, disprezzo e denigrazione nei confronti del genitore alienato; tale “realtà virtuale familiare” attraversa l’ambiente sociale creando una “realtà virtuale sociale” che agisce sul genitore alienato per mezzo delle dinamiche biologiche di difesa del gruppo dal deviante e conduce all’isolamento del genitore alienato dal proprio contesto sociale, deprivandolo di diritti e di doveri, relegandolo, così, nel ruolo di soggetto debole disconosciuto”. (Sindrome del Genitore Deprivato di Diritti)” (F. SCAPARRO). La Sindrome di Alienazione Genitoriale non è una patologia del genitore alienante, ma una patologia instillata nel bambino che, come qualunque altra patologia, può presentarsi con differenti livelli di gravità. Quel che qui interessa è rilevare come, una volta instillata la patologia nel bambino, si è certamente prodotto nello stesso un danno psichico. In questo caso credo sia relativo (data la giovanissima età) indagare sulle situazioni preesistenti. Il danno che consegue al minore dovrà essere attentamente valutato da un neuropsichiatra infantile che potrà fare delle prognosi di reversibilità attuando, ad esempio, quello che la dottrina in materia chiama il TRANSITIONAL SITE PROGRAM, ma non v’è dubbio che un danno è T MAGGIO - AGOSTO 2006 stato provocato e che il minore ha diritto ad un risarcimento che sarà tanto più elevato quanto più grave sarà la sindrome di alienazione genitoriale in cui versa4. VI-A. MOBBING E DANNO PSICHICO Il termine “mobbing” (che in inglese significa “assalto - attacco”) è stato utilizzato per la prima volta da Konrad Lorenz nel descrivere gli attacchi di piccoli gruppi di animali contro un’altro più grande e isolato, per allontanarlo dal gruppo (o dal nido). Nel 1984 lo psicologo svedese Heinz Leymann esposte in un libro un particolare fenomeno riscontrato in ambito lavorativo consistente in una forma di violenza psicologica messa in atto da un superiore (mobbing verticale) o da più colleghi di lavoro (mobbing orizzontale) nei confronti di una “vittima” soggetta a continui attacchi e ingiustizie che, a lungo andare, portano l’individuo ad una condizione di estremo disagio psicologico, quando non anche ad un crollo del suo equilibrio psicofisico. Va rilevato, per inciso, che il termine mobbing non è utilizzato nei paesi anglosassoni in quanto in Inghilterra il fenomeno è chiamato “bullying at workplace”, non sottacendo che negli Stati Uniti il fenomeno ha riguardato soprattutto la così detta violenza morale sul lavoro con forte connotazione di tutela della donna con l’esplosione, in particolare, del fenomeno denominato “harrassmen”, mentre in Francia sono avviate (con molto ritardo rispetto anche al nostro paese) ricerche su quello che lì viene chiamato “harcelement morale”. Nel mondo del lavoro il “mobbing” è, per usare la definizione di Leymann5 “quella forma di comunicazione ostile ed immorale diretta in maniera sistematica da uno o più individui (mobber o gruppo di mobber) verso un altro individuo (mobbizzato) che si viene a trovare in una posizione di mancata difesa”, un fenomeno in cui, usando la definizione dello studioso Harald Ege6, “la persona attaccata è messa in una posizione di debolezza e mancanza di difese, aggredita direttamente e indirettamente da una o più persone con aggressioni sistematiche, frequenti e pro- RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE tratte nel tempo il cui fine consiste nell’estromissione, reale o virtuale, della vittima dal luogo di lavoro”. Questa attività mobbizzante conduce ad una vera e propria lesione alla saluta psichica del mobbizzato e la proliferazione di pronunce giurisprudenziali in tema di mobbing ha consentito l’approfondimento delle problematiche legate al danno psichico nel mondo del lavoro, un danno cui è stato riconosciuto il rango di malattia professionale, tant’è che nella tabella delle tecnopatie INAIL si fa riferimento anche a questo genere di patologie. Giuridicamente il referente normativo cui è stata ancorata la risarcibilità dei danni di tipo psichico patiti dal lavoratore si è rinvenuto nell’art. 2087 C.C., che impone all’imprenditore di adottare nell’esercizio della impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro. Sulla base di tale norma “si è trasferito in ambito contrattuale il più generale principio del “neminem laedere” con quanto ne consegue sul piano della ripartizione dell’onere della prova, talché grava sul datore di lavoro l’onere di provare di aver ottemperato all’obbligo di protezione dell’integrità psico-fisica del lavoratore, mentre grava su quest’ultimo il solo onere di provare la lesione dell’integrità psico-fisica ed il nesso di causalità tra tale evento dannoso e l’espletamento della prestazione lavorativa” (F. TOPPETTI)7. La prima sentenza italiana che ha dato ingresso al “mobbing” nella giurisprudenza del lavoro è stata emessa dal Tribunale di Torino il 16.11.1999, cui ha fatto seguito un continuo riconoscimento da parte di tutti gli altri Giudici di merito e, più recentemente, Cass. Civ. Sez. Lav. 15.1.2004 n. 515, con un’ampia varietà di casi particolari che hanno riconosciuto, appunto, il diritto al danno psichico con ripetuti riconoscimenti in capo al lavoratore di essere affetto da “sindrome ansiosodepressiva”. Ma, oltre al “mobbing” più conosciuto vi è anche quello coniugale, o altrimenti detto “mobbing familiare” e, laddove ne sussistano i presupposti 4 Vedasi in merito alla PAS: RICHARD GARDNER: Introduzione e commenti sulla PAS - Traduzione di Rosa Polizzi, L’acquisizione di potere del bambino nello sviluppo della Sindrome di Alienazione Genitoriale - Traduzione di Guido Parodi, Dalla disputa all’avversione - riflessioni critiche in ambito forense e clinico sulla Sindrome di Alienazione Genitoriale a cura di ROBERTO GIORGI G. GULOTTA, La Sindrome di Alienazione Genitoriale W. FISCHER, Un modello di intervento per tribunali minorili, periti e servizi sociali minorili - Traduzione di Arnaldo Tesi 5 H. LEYMANN, Mobbing and psicologycal terror at workplaces. Violence and wictims 6 H. EGE, Mobbing. Che cos’è il terrore psicologico sul posto di lavoro. Il Mobbing in Italia. Introduzione al mobbing culturale. Il Mobbing estremo 7 Vedasi anche Cass. 12763/98 109 RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE clinici, il conseguente “danno psichico”. La sentenza 21.2.200 della Corte D’Appello di Torino ha ritenuto causa giustificante la addebitabilità della responsabilità della separazione in capo ad un coniuge che teneva comportamenti assimilabili al “mobbing”, elencando tutta una serie di comportamenti irriguardosi e di non riconoscimento della partner (“additava ai parenti ed amici la moglie come persona rifiutata e non riconosciuta, sia come compagna che sul piano della gradevolezza estetica, esternando anche valutazioni negative sulle modeste condizioni economiche della sua famiglia d’origine, offendendola non solo in privato ma anche davanti agli amici, affermando pubblicamente che avrebbe voluto una donna diversa e assumendo nei suoi confronti atteggiamenti sprezzanti ed espulsivi... curando il marito sempre solo il rapporto di avere, trascurando quello dell’essere... talché ferì la moglie nell’autostima, nell’identità personale e nel significato che lei aveva della propria vita”). Trattasi di un “mobbing” che è ormai divenuto diffuso, talché si auspicherebbe che venga considerato reato per legge e severamente sanzionato al di là della modesta previsione dell’art. 570 c.p. e ricordiamo con piacere che il Procuratore della Repubblica di Verona ha invocato una normativa più pregnante per la tutela di certe violenze familiari e non v’è dubbio che il tipo di “mobbing” di cui stiamo parlando rappresenta una vera e propria violenza, se pensiamo che vale anche qui quanto vale per tutte le altre forme di “mobbing” umano: “il meccanismo della persecuzione è implacabile e può avvalersi di mille piccoli o grandi gesti quotidiani che conducono irrimediabilmente verso l’isolamento, come precisa H. Ege in “Stress e Mobbing”. Tutto ciò può portare,come già detto, ad un danno psichico rilevante. VI-B. DANNO PSICHICO DA NASCITA INDESIDERATA L’ipotesi del risarcimento del danno psichico da nascita indesiderata si verifica allorquando la nascita di un figlio avvenga contro la volontà del genitore (come nell’ipotesi di insuccesso di un intervento abortivo o di un intervento di sterilizzazione), oppure al di là della volontà del genitore AIAF RIVISTA 2/2006 (come nell’ipotesi di omessa informazione circa le malformazioni del feto, con conseguente perdita della possibilità di interrompere la gravidanza). È, in particolare, in relazione a questa seconda patologia di fattispecie che l’elaborazione giurisprudenziale si è sviluppata. Da un lato è stato posto il problema relativo alla determinazione della responsabilità del sanitario, dall’altro il problema della delimitazione del danno risarcibile in considerazione della molteplicità di situazioni pregiudizievoli che possono avere rilievo. Vi è, infatti, il pregiudizio patito dai genitori per non essersi potuti preparare psicologicamente ad affrontare un evento così traumatico quale la nascita di un figlio affetto da malformazioni, ma vi è anche il pregiudizio consistente nella lesione del diritto della madre all’autodeterminazione in relazione alla propria gravidanza con conseguente lesione del diritto alla procreazione cosciente e responsabile. Infatti la gestante dopo il 90° giorno di gravidanza in base alla L. 194/78 può esercitare il diritto all’aborto solo in presenza di due condizioni positive che riguardano la salute del feto e la propria salute e di una condizione negativa consistente nella mancanza di possibilità di vita autonoma del nascituro.8 Le decisioni giurisprudenziali richiamano in casi del genere il danno psicofisico derivante dal maggior sacrificio incombente ai genitori dalla nascita di un figlio con malformazioni rispetto all’ordinario dovere di accudire e crescere il minore con affetto e partecipazione, ma riconoscono anche il diritto al risarcimento per lo shock emotivo e la conseguente lesione psichica derivante ai genitori stessi.9 VI-C. DANNO PSICHICO E COMPROMISSIONE DELL’AMBIENTE Trattasi del danno psichico derivante da intollerabili immissioni di rumore, problema che è stato oggetto di rilevante interesse agli inizi della scoperta della risarcibilità del danno psichico. Gli effetti del rumore, variabili a seconda dell’intensità e della natura, vanno dal fastidio all’affaticamento, fino a raggiungere il livello del distur- 8 La legge 198/74 stabilisce che dopo i primi 90 giorni l’interruzione volontaria della gravidanza può essere praticata: 1) quando la gravidanza e il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna (art. 6 lettera a); solo in questo caso, l’interruzione può essere praticata anche se sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, ma il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardarla (art. 7 terzo comma) 2) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del feto, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna; in questo caso l’interruzione può essere praticata se per il feto non sussiste la possibilità di vita autonoma. F. TOPPETTI - già citato 9 Vedansi: Cass. Civ. Sez. III 29.7.2004 n. 14488; Cass. Civ. Sez. III 1.12.1998 n. 1219; Cass. Civ. 10.5.2002 n. 6735, Tribunale Roma 8.10.203 n. 32010; Tribunale Roma 15.3.2004 n. 8454 110 MAGGIO - AGOSTO 2006 bo psichico patologico. Le immissioni sonore intollerabili assumono rilievo nel nostro caso non tanto per le lesioni organiche che il rumore possa provocare per l’organismo umano, ma proprio per la oggettiva capacità del rumore stesso di travolgere l’equilibrio della persona e, in particolare, il suo equilibrio psichico. Il danno psichico da immissioni intollerabili può anche configurarsi, oltre anche per immissioni acustiche, ipoteticamente, anche come conseguenza di immissioni elettromagnetiche.10 Anche la giurisprudenza ha messo in rilievo l’”alterazione del benessere psicofisico e lo stato di malessere psichico diffuso” che possono derivare dalla compromissione dell’ambiente, anche se le non molte decisioni sembrano più riferirsi ad un danno che si riflette sull’alterazione delle normali attività dell’individuo come il riposo, l’attività lavorativa domiciliare, il danno alla serenità personale etc., ma non si può negare che una costante e continua compromissione ambientale possa portare ad un vero e proprio stato patologico psichico.11 VI-D. DANNO PSICHICO DA ERRORE GIUDIZIARIO È il caso trattato dalla famosa sentenza della Cassazione Penale Sez. IV 22.1.2004 n. 2050 che ha riconosciuto il danno psichico subito da chi aveva scontato una pena prima cautelare e poi in espiazione di anni 7 mesi 5 e giorni 10 con una detenzione rivelatasi ingiusta essendo stato assolto in appello “per non aver commesso il fatto” dalla accusa di traffico di ingenti quantitativi di sostanze stupefacenti. È il famoso caso Barillà in cui la Suprema Corte riconosce la presenza di un danno psichico rilevante, essendo il soggetto che lo ha patito affetto da “una grave sintomatologia depressiva con idee di rovina e soppressive, accompagnate da una sorta di ottusità emotiva, tendenza all’isolamento sociale con la presenza di una sindrome ansiosa con sintomatologia cefalalgica sovrapposta e la presenza, altresì, di un’ideazione persecutoria ben delineata determinata dallo sviluppo di tematiche di sospettività e diffidenza”, danno tutto che, nel rispetto del nuovo orientamento in corso dal 2003, è stato inserito in quello non patrimoniale come sofferenza psicologica non certo transitoria. RAPPORTI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ CIVILE Ometto deliberatamente di soffermarmi sul danno psichico causato dalla perdita di un congiunto per un evento illecito di varia natura che è stato ormai ampiamente riconosciuto come parte del danno biologico da far valere iure proprio, ammesso sin dalla celebre sentenza della Corte Cost. 27.10.1994 n. 372 e poi più recentemente focalizzato nelle note sentenze ricordate in esordio. Naturalmente è stata affermata la risarcibilità astratta, ma, perchè vi sia effettivo danno psichico, dovrà la parte che lo richiede assolvere l’onere della prova. Interessante, infine, in relazione a quanto abbiamo riferito in merito alla accertabilità del danno psichico stesso, è una sentenza del Tribunale di Messina 14.7.2002 laddove si fa espresso riferimento ad accertamenti diagnostici significativi in quanto il Tribunale osserva che, pur essendo innegabile l’esistenza di uno stato di grave prostrazione psicologica in una madre privata della vita di un figlio, “non emergono oggettivi elementi clinici significativi che consentano di farla assurgere a livello di una vera e propria malattia”, infatti dall’analisi della paziente ai sensi del DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) emerge il concetto di situazione di “lutto non complicato” e viene esclusa la riconducibilità ai due più vicini raggruppamenti di disturbi mentali: ossia al “Disturbo Post-Traumatico da Stress (DPTS)” o ai “Disturbi dell’Adattamento”. Il che ci riporta a quanto precedentemente riferito in merito alla necessità di una accurata indagine sulla effettiva consistenza del danno di cui abbiamo forse troppo lungamente parlato. * avvocato in Verona 10 Vedansi: MAZZOLA, TAIOLI, Inquinamento elettromagnetico; BARBAGALLO, Il danno biologico ed esistenziale da immissioni di onde elettromagnetiche nell’ambiente 11 Vedansi Tribunale di Milano 21.10.1999; Tribunale Modena 11.11.2003 n. 42; Corte d’Appello Milano 14.2.2003 e Cass. Civ. Sez. Unite 21.2.2002 n. 2515 (il caso Seveso) citate in F. TOPPETTI op. cit. 111 AIAF RIVISTA 2/2006 AIAF AIAF - ORGANI STATUTARI Consiglio di Presidenza Marino Marina (rappresentante legale) Fanni Luisella Dionisio Antonio Comitato Direttivo Centrale Presidenti delle sezioni regionali: Serafini Maria Carla Mendicino Stefania Campania - Napoli: Delcogliano Erminia Campania - Salerno: Gassani Gian Ettore Emilia Romagna: Fabj Ada Valeria Friuli Venezia Giulia: Montemurro Maria Lazio: Marino Marina Figone Alberto Liguria: Lombardia: Pini Milena Marche: Pelamatti Cagnoni Anna Piemonte: Scolaro Antonina Puglia: Marseglia Ada Fanni Luisella Sardegna: Sicilia: D’Agata Remigia Toscana: Cecchi Manuela Umbria: Tiburzi Maria Rita Sartori Alessandro Veneto: Abruzzo: viale Leopoldo Muzii 100, 65123, Pescara; tel 085.4214275, fax 085.4229715; [email protected] Calabria: via del mare, 88040, Lamezia Terme (CZ); tel. 0968.51003; [email protected] via Scipione Capece 3/c, 80121, Napoli; tel. 081.640726 - 0824.312909 corso Vittorio Emanuele 203, 84122 Salerno; tel. e fax 089.220254; [email protected] via Garibaldi 5, 40124, Bologna; tel 051.581706, fax 051.581329; [email protected] via Nazario Sauro 3, 33100, Udine; [email protected] viale Mazzini 9 -11, 00195, Roma; tel 06.3202351, fax 06.3202345; [email protected] piazza Leonardo da Vinci, 2/3, 16146 Genova; tel 010.367908, fax 010.367908 Galleria Buenos Aires 1, 20124, Milano; tel 02.29525195, fax 02.29531352; [email protected] via Calatafimi 2, 60121, Ancona; tel 071.202108, fax 071.200972; [email protected] corso Re Umberto 28, 10128, Torino; tel 011.5617102, fax 011.5617188; [email protected] via Tasso 12, 72019, S.Vito dei Normanni (BR); tel 0831.951611, fax 0831.952872; [email protected] via Deledda 39, 09127, Cagliari; tel.070.663904, fax 070.663904; [email protected] via G.Almirante 15/17, 95030, Tremestieri Etnero (CT); tel 095.505305, fax 095.508660; [email protected] via Bonifacio Lupi 14, 50129, Firenze; tel 055.494284, fax 055.486912; [email protected] viale Indipendenza, 06124, Perugia; tel 075.5726151, fax 075.5726151; [email protected] via Dominutti 20, 37135, Verona; tel 045.8011711, fax 045.8002752; [email protected] Componenti eletti: Abram Daniela Alessio Franca Bet Enrico Bond Lorenza Cacco Maria Paola Dama Rosanna De Strobel Gabriella Dionisio Antonio Geraci Diego Macis Valentina Maggiano Liana Marcucci Carla Marinucci Anna Mirto Caterina Montano Maria Gigliola Morandi Nicoletta Pacciarini Anna Maria Pomarici Costanza Quattrone Mirella via Barberia 14, 40100 Bologna; tel. 051.583338 via Roma 45, 22053, Lecco; tel 0341.282181, fax 0341.286164; [email protected] p.zza della Vittoria 11/16, 16121, Genova; tel 010.5959159-010.580117, fax 010.5760014; [email protected] via D’Azeglio 27, 40123, Bologna; tel 051.6486123, fax 051.6565579 via Longhin 121, 35129, Padova; tel 049.774276, fax 049.776909; [email protected] viale Costituzione Is.G/1, 80143, Napoli; tel 081.7879271, fax 081.7879274 via Santa Chiara 15, 37129, Verona; tel 045.594301, fax 045.8011023 c.so Vittorio Emanuele 92, 10121 Torino; tel. 011.5613742, fax 011.5613982; [email protected] via D’Annunzio 62, 95129 Catania; tel. 095.552183, fax 095.445011; [email protected] via Rossini 61, 09128, Cagliari; tel.070.41082, fax 070.485101; [email protected] via Assarotti 10/18, 16122 Genova; tel. 010.8313041, fax 010.816805; [email protected] via Francesco Carrara 28, 55100 Lucca; tel. 0583.495616, fax 0583.490484; [email protected] piazza Duomo 11 / B, 07100, Sassari; tel e fax 079.235548; [email protected] via Agrigento 61, 90141, Palermo; [email protected] piazza Benamozegh 17, 57123, Livorno; tel 0586.891084, fax 0586.899857; [email protected] viale Carso 51, 00195, Roma; tel. 06.3720292, fax 06.37352806; [email protected] via Marconi 3, 06012 Città di Castello (PG); tel. 075.8554434, fax 075.8554434; [email protected] via Lucrezio Caro 38, 00193, Roma; tel 06.3244839, fax 06.32609700 via Varese 67, 22100, Como; tel 031.272461, fax 031.271647; [email protected] Collegio dei probiviri Ferraris Giovanna Lupo Marina Pozzi Angela 112 via Manzoni 3, 21100, Varese; tel 0332.234601, fax 0332.835255; email [email protected] corso Italia 29, 50123 Firenze; tel. 055.286207, fax 055.2645821; [email protected] via Rubbiani 1, 40124, Bologna;tel 051.580096, fax 051.580759