Storia – 6 Giulio Cesare e il primo triumvirato Siamo giunti a studiare

Storia – 6
Giulio Cesare e il primo triumvirato
Siamo giunti a studiare uno dei personaggi più affascinanti e controversi che la
storia occidentale abbia mai conosciuto: Caio Giulio Cesare. Per molti un dittatore, per
altri un paladino del popolo, non c'è dubbio che col suo operato egli abbia contribuito a
cambiare per sempre il volto della Repubblica.
Cesare era nato nel 100 a. C. e, oltre a discendere dalle nobile famiglia degli Iulii
(che si vantava di discendere addirittura da Enea), era nipote di Caio Mario (che
ricordiamo si era appunto sposato con una donna della gens Julia). Si era inoltre sposato
con Cornelia la figlia di Cinna, uno dei più importanti esponenti del partito dei popolari
legandosi sempre più agli interessi di questo partito. Durante le guerre civili Cesare aveva
sostenuto i populares, ma si era salvato dalle liste di proscrizione grazie alle numerose
amicizie col ceto aristocratico.
Cesare non era ricco e fu per questo che strinse un alleanza con Crasso, che
abbiamo detto essere l'uomo più facoltoso di Roma: in questo modo egli poté finanziare
le sue campagne politiche e pagare i suoi debitori.
Iniziò la sua carriera politica e militare prestando servizio nelle province dell'Asia
Minore tra l'81 e il 78, fu questore nel 70, edile nel 65, pontefice massimo nel 63,
pretore in Spagna nel 62. Senz'altro la carica più importante tra quelle elencate in
precedenza era quella di pontefice massimo. Questa carica, infatti, non solo lo
trasformava nel capo della religione di stato (si pensi solo che egli in tal modo poteva,
facendosi portavoce degli dei, decidere della bontà o meno di una campagna militare),
ma era anche una carica che durava a vita. Inoltre il pontefice massimo abitava
proprio nel centro del foro (la piazza fulcro della vita di Roma). Tutti questi fattori
fecero del giovane Cesare (aveva solo 27 anni) un protagonista della Repubblica.
Durante la congiura di Catilina Cesare era in Spagna, ma è noto come egli
simpatizzasse per il congiurante, riuscendo tuttavia a rimanere immacolato.
Nel 60 a. C. si creano le giuste condizione politiche per la sua definitiva ascesa
sul palcoscenico politico di Roma. Egli fu molto abile nello scegliersi alleati ricchi e
potenti. Il primo di questi fu Crasso che, come abbiamo detto, gli fornì il necessario
aiuto economico per ripianare le sue dispendiose campagne elettorali (si pensi che
quando ci fu l'elezione a pontefice massimo egli era così pieno di debiti che, uscendo di
casa, disse alla madre che o sarebbe tornato pontefice o sarebbe stato costretto all'esilio e
alla miseria). Ma Cesare ambiva a una carica ancora più alta: il consolato. Per giungervi si
servì di un altro personaggio di primo piano: Gneo Pompeo Magno.
Pompeo, infatti, dopo le vittorie e le conquiste in Oriente e dopo aver sciolto il
suo esercito aveva subito un importante smacco da parte del Senato: aveva chiesto come
sola ricompensa dei suoi meriti la ratifica dei provvedimenti presi in Asia e la
distribuzione delle terre ai suoi veterani. Tuttavia ricevette un netto rifiuto da parte del
Senato che si limitò ad accordargli solo un trionfo. Cogliendo il momento favorevole,
quindi, Cesare propose a Pompeo di allearsi con lui e con Crasso.
Questo accordo, stipulato nel 60 a. C., viene comunemente chiamato primo
triumvirato. Dobbiamo sottolineare come questo fosse un accordo privato e non
rappresentasse una magistratura.
a. C.
Il primo triumvirato stabiliva che:
a) Pompeo avrebbe appoggiato la candidatura di Cesare al consolato per l'anno 59
b) Cesare avrebbe sostenuto i provvedimenti di Pompeo, per farli approvare.
c) Crasso avrebbe raccolto proseliti verso la classe finanziaria, a favore della
distribuzione delle terre ai veterani di Pompeo.
Il consolato di Cesare.
Cesare rispettò gli impegni presi e durante il suo consolato del 59 a. C. fece
distribuire le terre ai veterani di Pompeo e ridusse i canoni che i publicani (gli esattori
delle tasse, della classe di Crasso cioè Cavalieri) orientali dovevano versare a Roma. Con
la stessa legge Cesare fece distribuire terre anche alla plebe. Per dare queste terre Cesare
le fece acquistare dallo Stato utilizando gli enormi proventi dell'Oriente. In questo modo
non creò malcontento perché non vi furono espropri.
Durante il suo consolato egli si assicurò dapprima il comando preconsolare per
cinque anni nella Gallia Cisalpina (l'Italia Settentrionale), nell'Illirico e nella Gallia
Narbonense (l'attuale Provenza). Facendo leva sul pericolo costituito dalle tribù dei Galli
egli si assicurò il comando di ben quattro legioni. Egli mirava ad estendere i confini della
Repubblica ben oltre i territori della Gallia, sempre più a occidente.
In pratica si creò la seguente divisione dell'impero: a Pompeo la penisola Iberica, a
Cesare la Gallia e a Crasso le terre orientali.
Prima di abbandonare il consolato e prendere il comando delle legioni si assicurò
che alcuni personaggi potenzialmente scomodi fossero allontanati da Roma. Uno di
questi fu Cicerone. Cesare riuscì, mediante l'aiuto di un compiacente tribuno della plebe
a far esiliare Cicerone con l'accusa di aver ucciso Catilina e tutti i congiurati senza prima
fargli un processo.
APPROFONDIMENTO
La religiosità a Roma
I PRIMORDI
Anzitutto occorre distinguere il concetto di religiosità antica da quella più
moderna e attuale. I Greci e i Romani non pensavano di doversi conquistare un
paradiso nell'aldilà, le pratiche religiose servivano solo a evitare eventi spiacevoli
nel quotidiano attraverso i riti. Gli Dei non chiedevano amore e timore, ma solo
offerte e riti o sacrifici di animali. Le leggi da rispettare equivalevano grosso modo a
quelle civili, per cui ci si rivolgeva agli Dei per questioni sociali o personali da risolvere. A
quelle sociali provvedeva lo stato, per una guerra da vincere, un'invasione da evitare, un
pericolo da sventare. Quelle personali erano un do ut des , ti do una cosa e tu me ne dai
un'altra, per cui un rito per una protezione, e a volte si chiedeva una grazia promettendo
qualcosa alla divinità. Ma il voto si scioglieva solo se la divinità aveva compiuto il
prodigio.
Anche nell'antichità si verificavano prodigi e miracoli, anzi erano più frequenti di
oggi. Se si chiedeva una guarigione si offriva poi l'ex voto, oppure se la divinità aveva
assistito per una vittoria in guerra o per un affare andato bene, o per qualsiasi cosa
richiesta, il devoto scioglieva il voto promesso.
Non c'era altro dovere nei confronti delle divinità se non rituali e sacrifici
a scadenze determinate e non troppo impegnative. A Roma erano mal visti i bigotti,
alle divinità si doveva tanto e non più. E gli Dei non chiedevano nulla di più. Lo stesso
Orazio si fa beffe dell'esagerazione religiosa, che non fa parte del vero uomo pio.
Peraltro esistevano gli oracoli, le predizioni e la magia, quest'ultima piuttosto
contrastata nelle sue forme più estese, mentre era tolleratissima nelle forme popolari.
Scrive Sabbatucci, uno storico: “ Sono le culture che non riconoscono un'unica e
inconfutabile fonte di sapere e potere non riconoscendo l’unico Dio dei monoteismi, il
quale non può lasciare fuori controllo il vasto campo della elaborazione di saperi
autonomi. Da ciò il rifiuto, nelle culture monoteistiche della divinazione, ma anche delle
pratiche magiche.” L'intolleranza religiosa nasce col monoteismo e la monoidea, cioè:
“Solo il mio Dio esiste e solo ciò che penso io è vero”.
La Grande Madre Mediterranea
Come in tutte le civiltà mediterranee il paleolitico e il neolitico furono dominate
dal culto della Grande Madre Terra.
Ne fanno riscontro numerose Dee, a cominciare dalla Dea Dia, da cui prese il
termine Dio, volto al maschile. Fu un'antichissima divinità romana protettrice della
fecondità della terra, venerata in particolare dal collegio degli Arvales col nome di Bona
Dea. Le cerimonie si svolgevano nel tempio della Dea sito al quinto miglio della Via
Campana. Come tutti i culti della Grande Madre avevano un aspetto misterico, segreto,
riservato ai soli iniziati e uno pubblico.
Ovunque poi regnò la Mater Matuta, detta in alcune zone Mamma Mammosa,
o Mammona, termine che dalla Chiesa Cristiana fu trasferito al demonio, interpretando
le parole del Cristo: “ Non puoi servire due padroni” tra Dio e il diavolo chiamato
appunto Mammona, il termine popolare per indicare la Mater Matuta. Nel museo
campano ve ne sono conservate numerosissime statue accumulate nei vari secoli.
Altra divinità primigenia fu Giunone, da Iuno Sospes Mater Regina, Giunone
Salvatrice Madre Regina, divinità proveniente da Lanuvio. Il culto venne importato a
Roma nel 338 a.C. quando venne concessa la cittadinanza ai Lanuvini. Il tempio a
Giunone sospita nel Forum Olitorium venne costruito nel 194 a.C.
Il Grande Padre Mediterraneo
Con l'avvento del patriarcato subentrò una triade tutta maschile: Giove, Marte e
Quirino. A Iupiter Feretrius, protettore dei giuramenti, fu intitolato il santuario più
antico della città, secondo Tito Livio fatto erigere da Romolo sul colle Capitolino. Sul
Capidoglio Giulio Cesare fece poi erigere lo stupendo tempio di Giove Capitolino
Ottimo Maximo, i cui resti fanno intuire la grandiosità dell'edificio.
Le divinità femminili non scomparvero perché la popolazione era ancora abituata
a rivolgersi a divinità femminili di protezione e clemenza, ma diventarono divinità di
secondo piano.
Così Giunone, da madre di Giove (ce n'è testimonianza in uno specchio etrusco
dove allatta Giove bambino) diventa sua moglie a lui asservita.
Anticamente era Dea di ogni inizio, madre di Giano, Dio della vegetazione che
ogni anno sorgeva e moriva, per cui rappresentava anche il primo e l'ultimo dell'anno ed
era "bifronte" per questo. All'inizio dell'anno infatti Giunone velata veniva festeggiata
accanto a Giano suo figlio. Non a caso il nome di Giunone era Iuno, da Ianua (la porta).
Altre Dee persisterono come Bellona, antica Dea della guerra per cui si apriva il
tempio a lei dedicato in tempo di guerra, e un suo sacerdote scagliava la lancia che si
conficcava in terra davanti al tempio che veniva poi chiuso a pace avvenuta. Usanza che
fu poi trasferita a Marte. Da lei il termine bellum, la guerra e anche il termine italiano
bello, perché la Dea era bellissima.
DODICI DEI
Dodici furono gli Dei principali di Roma: Apollo, Cerere, Diana, Giove, Giunone,
Marte, Mercurio, Minerva, Nettuno, Venere, Vesta e Vulcano.
• Apollo fu importato dalla religione greca senza alcun corrispondente romano.
Era Dio della musica, della poesia, della guarigione e della profezia. Fratello di
Diana, simboli di sole e luna. Spesso raffigurato con la cetra per cui era appellato il
citeredo. In parte corrispondente all'etrusco Apulo e al greco Febo, ma fu anche
assimilato ad Elios, il Dio sole.
• Cerere Dea delle messi, con una corona di spighe sul capo, una fiaccola in una
mano e un canestro di grano e di frutta nell'altra.
• Diana con un diadema a semiluna sulle chiome, Dea infatti della luna, ma pure
della caccia, con l'inseparabile cane cirneco, nonchè il cervo e la faretra sulle spalle.
Assimilata alla greca Artemide.
• Giove, re degli Dei e dell'Olimpo, Dio dei tuoni e dei fulmini, barbuto, marito di
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Giunone. Ha come attributo il fulmine. Corrispondente all'etrusco Tinia e al greco
Iuppiter.
Giunone, antica Dea italica, antica Giovia tra i Marsi, e Iuno, moglie e medre di
Iano. Per gli Etruschi Uni. Per i Romani ebbe come figlio Marte ma senza
concorso di Giove. Come attributi lo scettro, il cuculo e il pavone.
Marte Dio della guerra, amante di Venere, nella Roma arcaica, Dio del tuono,
della pioggia, della natura e della fertilità. Fu il protettore dei soldati, e in qualità di
padre di Romolo e Remo fu sentito come padre di tutti i Romani, quindi molto
più sentito di Ares, il Dio greco della battaglia a cui fu assimilato. Armato di
spada, con scudo ed elmo. Gli era sacro il picchio.
Mercurio, messaggero degli Dei, Dio dei commercianti, degli avvocati e dei ladri.
Ebbe come amante Venere da cui ebbe il figlio Eros, munito di ali ai piedi e del
petaso, cappello a punta a larghe falde. Anche psicopompo, cioè accompagnatore
delle anime dei morti. Il suo attributo era il caduceo: due serpenti attorcigliati
intorno a un bastone. Trasferito dalla chiesa su San Mercurio.
Minerva, o Mnerva per gli Etruschi e Athena per i Greci, Dea vergine della
guerra, ma anche degli artigiani, e della guarigione (Minerva medica) attributi: la
medusa sul petto, la lancia elmo e scudo, nonchè civetta e gufo. nacque da un mal
di testa di Giove, per cui Vulcano gli spaccò la testa facendo uscire la Dea già
armata.
Nettuno, fratello di Zeus, antico Dio latino del mare, dei cavalli e delle corse,
assimilabile al greco Poseidone, ma come moglie ebbe Salacia, la Dea salmastra del
mare agitato. Gli era sacro il delfino e come attributo il tridente.
Venere, antica Grande Madre e pertanto lussuriosa e bella, nata dal mare nuda ma
presto vestita e ingioiellata. Sposò Vulcano che tradì con Marte, Mercurio e
Anchise con cui generò Enea, progenitore di Giulio Cesare. Attributi: la
colomba,il passero, la lepre, la collana, lo specchio.
Vesta antica Dea del fuoco assimilabile a Estia greca, le sue sacerdotesse erano le
vestali che custodivano il fuoco e i cimeli sacri, Nel tempio l'area più sacra,
interdetta a chiunque tranne le Vestali, era il Penus Vestae, un sancta sanctorum
dove erano conservati oggetti risalenti alla fondazione di Roma, tra cui il Palladio,
il simulacro arcaico di Pallade Atena e che Enea aveva portato da Troia. Il Palladio
era il simulacro ligneo della dea Atena, che Zeus donò a Ilo, il fondatore di Troia,
facendolo cadere dal cielo davanti a lui. Era conservato in un grande tempio
appositamente costruito, perché vegliasse sulla città. Per i Troiani era il simbolo
del favore degli dei: “fin quando esso fosse rimasto al suo posto i Greci non
sarebbero riusciti ad espugnare Troia ”. Per questo motivo Ulisse e Diomede
riuscirono con l’ astuzia a rapirlo. Dopo la distruzione di Troia, Diomede
consegnò il Palladio ad Enea, che lo portò in Italia e lo tramandò alle generazioni
della sua stirpe fino a Roma. Qui fu conservato nel tempio di Vesta e venerato
anche dai Romani come simbolo della protezione degli Dei. Quando Teodosio nel
391 fece chiudere il tempio l'ultima sacerdotessa distrusse il Palladio perchè non
cadesse in mani profane.
Vulcano, Dio del fuoco e della forgia, è lui a costruire i fulmini per Giove, ma
pure a forgiare armature per gli eroi. Figlio di Giove e Giunone era brutto e
zoppo, ciononostante sposò Venere che però lo tradì con Marte. Sorpresili
insieme li catturò in una rete d'oro chiedendo vendetta agli altri Dei, ma questi si
limitarono a ridere, tanto sembrava assurdo che la bellissima Venere potesse essere
fedele a un Dio tanto brutto.
I SACERDOTI
Riferisce la tradizione che fu Numa Pompilio ad istituire i sacerdozi stabilendo riti
e cerimonie annuali. Infatti il nuovo calendario, della fine del VI secolo a.C. divideva
l'anno in giorni fasti e nefasti stabilendo feste e cerimonie. A capo della gerarchia
religiosa c'era il Rex Sacrorum, cui erano affidate le funzioni religiose compiute un
tempo dai re.
• Pontefici, erano 16 con a capo il Pontefice Massimo, addetti a presidiare il culto
religioso.
• Auguri, anche questi 16, interpreti degli auspici per ottenere il consenso degli Dei
ed evitarne le ire. Erano di derivazione etrusca. Si basavano sul volo degli uccelli,
tracciando linee nell'aria con un bastone ricurvo (il Lituo), delimitando una
porzione di cielo, per interpretare l'eventuale passaggio di uccelli. Oppure si
basavano su la lettura del fegato di un animale sacrificato, o su eventi straordinari,
i prodigi, come calamità naturali, animali a due teste, epidemie, eclissi ecc.per
interpretare l'umore degli Dei.
• Vestali, 6 sacerdotesse consacrate alla dea Vesta, con una Gran Sacerdotessa, le
uniche che avessero l'obbligo della castità pena la morte. Tenevano perennemente
acceso il fuoco della Dea che seppur declassata era la prima divinità cui si faceva il
rito annuale.
• I Sodalizi invece erano confraternite religiose, e a Roma ce n'erano quattro, ma ne
ricordiamo solo uno in questa sede:
• I Luperci, addetti ai Lupercalia, divisi in Quintiali e Fabiani. riti di purificazione in
nome del Dio Luperco, protettore del bestiame ovino e caprino dall'attacco dei
lupi. Per Dionisio di Alicarnasso i Lupercalia si rifacevano all'allattamento di
Romolo e Remo da parte di una lupa e venivano celebrati nella grotta chiamata
appunto Lupercale, sul colle romano del Palatino dove avvenne il fatto. Che un
Dio lupo protegga le pecore è poco credibile, mentre la Lupa era un'antica divinità
romana cui si dedicava la prostituzione sacra, tanto è vero che le prostitute a Rola
venivani chiamate "lupe" e il postribolo "lupanare". Per questo i Romani si
definirono "figli della lupa".
I TEMPLI
Lo spazio sacro per i Romani fu all'inizio un bosco sacro, un'ara, un luogo
consacrato, orientato secondo i punti cardinali, a seconda del carattere del Dio si
sceglieva l'orientamento. A Roma, nel II sec. a.C. si poteva tagliare legna da un bosco
sacro solo sacrificando un maiale. Nel De re rustica Catone cita la preghiera di
espiazione che deve fare il taglialegna alla divinità del bosco perchè non lo punicsa per la
sua necessità.
L'altare o ara era la struttura sacra dedicata alle cerimonie religiose, alle offerte ed
ai sacrifici, un tempo erette nei boschi o presso le sorgenti, poi in città negli incroci o nei
templi.
Le edicole sorgevano come oggi quelle cattoliche, agli incroci di strade, e c'erano
poi i sacelli, santuari in dimensioni ridotte. Le edicole erano piazzate in punti strategici,
anche agli angoli delle strade, coi loro lumini che servivano anche di riferimento ai
viandanti notturni.
Il tempio romano fu all'inizio molto simile all'etrusco, poi si rifece all'arte greca
ma senza notevoli varianti. Il tempio romano era soprelevato e accessibile da una lunga
scalinata, con una parte interna accessibile solo ai sacerdoti, e una esterna per il pubblico
che presenziava.
GLI ANIMALI NEI SACRIFICI
Solitamente venivano sacrificati buoi, pecore, maiali, capre, ma anche altri animali,
a seconda della natura del dio e delle circostanze del sacrificio. Gli animali destinati al
sacrificio non dovevano avere difetti fisici, e una volta prescelti venivano separati dal
resto del gregge. Il giorno del sacrificio la vittima veniva lavata e adornata con ghirlande
vegetali, e successivamente “immolata” cioè cosparsa di un miscuglio di farro e sale, la
mola salsa, preparata dalle vestali. Alcuni inservienti provvedevano a condurre l’animale
sul luogo del sacrificio, dove attendevano il sacrificante, un magistrato o il capo famiglia,
i vittimari, incaricati di uccidere la vittima, gli aruspici, che esaminavano le viscere della
vittima a scopo divinatorio, una lunga serie di attendenti e il pubblico. Dopo le preghiere
di rito la vittima veniva abbattuta. Il sangue colato veniva raccolto e cosparso sull’altare, e
l’animale squartato per estrarne le viscere. Le viscere, tagliate a pezzi e cosparse di olio e
sale venivano offerte alla divinità, mentre tutto il resto veniva consumato dagli astanti.
IL SACRIFICIO UMANO - LA DEVOTIO
La Devotio era un voto di immolazione di sè che un ufficale romano faceva
prima di una battaglia di esito pericoloso, per assicurare ai suoi la vittoria.
Pronunciato il suo voto l'ufficiale si gettava nella mischia per farsi colpire e
uccidere, dando enorme incoraggiamento ai romani, in quanto convinti che quel
sacrificio umano costringesse gli Dei a dar loro la vittoria.
Il primo caso di devotio presente nell'annalistica romana è quello riportato da
Livio durante la narrazione della guerra contro i Latini del 340 a.c. Provenne dalla gens
Decia, di origine sabina, per la quale il rito della devotio, era una istituzione sacra e
gentilizia.
L'esercito romano stava subendo pesanti perdite ad opera del nemico e Publio
Decio Mure, al comando delle proprie legioni, decise di sacrificare la propria vita
compiendo la Devotio:
“Il pontefice gli ordinò di indossare la toga pretesta, di coprirsi il capo e,
toccandosi il mento con una mano fatta uscire da sotto la toga, di pronunciare le
seguenti parole, ritto, con i piedi su un giavellotto:
- Giano, Giove, padre Marte, Quirino, Bellona, Lari,
Dei Novensili, Dei Indigeti,
Dei cui siamo affidati noi e i nostri nemici,
Dei Mani, vi invoco, vi imploro e chiedo umilmente la grazia:
concedete benigni ai Romani la vittoria e la forza necessaria
e gettate paura, terrore e morte tra i nemici del popolo romano e dei Quiriti.
Come ho dichiarato e nel senso che ho dato alle mie parole,
così io agli Dei Mani e alla Terra,
per la repubblica del popolo romano dei Quiriti,
per l'esercito, per le legioni e per le truppe ausiliarie
del popolo romano dei Quiriti,
offro in voto le legioni e le truppe ausiliarie del nemico
insieme con me stesso Cintasi poi la toga con il cinto gabino, saltò a cavallo con le armi in pugno e si
gettò in mezzo ai nemici, apparendo a entrambi gli eserciti con un aspetto ben più
maestoso di quello umano, come fosse stato inviato dal cielo per placare ogni ira degli
Dei”
Macrobio (Saturnali) - la Devotio contro Cartagine
Dunque un comandante romano, in situazioni di estrema gravità, poteva prima o
durante la battaglia decidere di votare la sua vita e l'esercito nemico agli Dèi Mani e alla
Terra. Indossata la toga praetexta, di cui un lembo doveva coprire il capo, saliva su una
cavalcatura impugnando un'arma da lancio e, tenendosi il mento con una mano,
pronunciava la formula rituale della devotio. Dopo averla pronunciata, indossata la toga
col cinctus Gabinus (cioè annodata in vita), si gettava tra le file nemiche trovando la
morte.
Il comandante poteva anche scegliere al posto suo un milite tra i cittadini arruolati
nella legione. Se l'uomo moriva, la scelta era ben fatta; se non moriva, si sotterrava una
statua alta sette piedi (circa due metri) e si faceva un sacrificio espiatorio. Era vietato ai
magistrati romani passare sopra il luogo di sepoltura di questa statua. Se era il
comandante a votarsi e a non morire, non avrebbe più dovuto compiere alcuna
cerimonia religiosa privata o pubblica senza contaminazione. Se il nemico si impadroniva
dell'arma sulla quale il comandante aveva pronunciato la formula della devotio,
occorreva compiere un sacrificio espiatorio a Marte di un maiale, una pecora e un toro.