SULL'ORIGINE
di Umberto Eco
(da L. Preta (a cura di), La narrazione delle origini, Laterza)
II problema dell'origine è interessante per il filosofo. Lo sarebbe in ogni caso nel senso che il
filosofo deve chiedersi perché l'uomo sia un animale così passionalmente legato al problema della
propria origine e delle origini del cosmo. In questo libro una risposta viene tentata anche dagli
psicoanalisti, e giustamente, perché uno dei primi miti filosofici di cui la psicoanalisi si è occupata è
quello di Edipo, che si poneva la domanda sulle proprie origini e solo rispondendo a quella ha capito
quale fosse il proprio presente e il proprio destino.
Ma il filosofo è interessato al problema dell'origine in sé. Lo è stato nel passato quando cosmologia
mitica, scienza e teologia facevano tutt'uno. Lo è stato anche quando ha demandato la risposta alle
teologie delle grandi religioni monoteistiche, riservando alla filosofia il compito di approntare gli
strumenti per conferire plausibilità razionale a questo Garante dell'origine. Ma la mossa dal punto di
vista filosofico rappresenta soltanto un escamotage, perché un Dio trascendente e rivelato risolve solo
nominalisticamente il problema dell'origine.
Infatti, per risolvere il problema del Male, la Gnosi o la tradizione Cabbalistica si chiedono se basti
pensare un Dio trascendente per giustificare l'origine del mondo senza dover presupporre anche nella
Divinità una crisi, una sorta di Big Bang fatale, una mutazione o scissione interna che ne affetta
l'imperturbabilità. E pertanto il problema di un Cominciamento Cosmogonico, che Dio doveva
garantire, si ripropone all'interno della stessa originale ed eterna immobilità divina.
D'altra parte anche le teologie positive si trovano di fronte al problema della libertà di Dio rispetto
alle scelte da fare all'origine. Da San Pier Damiani sino ai dibattiti della tarda scolastica sulla potentia
absoluta Dei, la domanda si riapre: se pur Dio è all'origine del creato, poteva Dio fare scelte diverse da
quelle che ha fatto? E se sì, che cosa era quell'altro che non ha scelto e in che rapporti stava con lui?
Oppure: ha forse scelto tutti i compossibili (o potrebbe, con un atto di volontà, sceglierne ad ogni
istante uno diverso), e quello che conosciamo come creazione è solo uno dei tanti, mentre Dio
conosce, e ci cela, la coesistenza e la compossibilità di infiniti mondi? E via, da Cusano a Bruno e a
Fontenelle ma persino sino ad alcuni studiosi attuali di logica modale, il problema rimane aperto.
È la scienza moderna che ha dato l'impressione, forse superficiale, di sfuggire al problema
dell'origine ponendosi il compito di descrivere il mondo qual è, nei caratteri matematici in cui è scritto,
chiunque lo abbia scritto. Le scienze umane hanno seguito almeno in questo secolo questa via: per
esempio la linguistica si è proibita ogni ricerca sulle origini del linguaggio perché, avendo a che fare
con materia sonora, che volat, non poteva disporre di reperti archeologici su cui lavorare e ogni ipotesi
sarebbe stata puramente speculativa. La filosofia, con le correnti neopositivistiche, imponendosi di
parlare solo di ciò di cui si poteva dare protocollo, è parsa egualmente sottrarsi al problema dell'origine,
anche se non è riuscita a esorcizzare il fantasma di quel qualcosa di cui, teste Wittgenstein, non
potendosi parlare, si doveva tacere (e senza nascondersi che «non che cosa il mondo è, è Mistico, ma
che è»)1.
Oggi credo che siano state proprio le scienze naturali ed esatte, non appena hanno acquisito la
possibilità di interrogare i messaggi che venivano da anni luce di distanza e di estrapolare dai codici
della vita la dinamica della loro costituzione, a riproporre il problema dell'origine. E la filosofia è
apparsa da varie parti rispondere all'appello, pronta a tentare nuovamente i Grandi Racconti che
parlano dell'inizio.
D'altra parte pensiero dell'origine è quello che si chiede, e si è sempre chiesto, perché ci sia
dell'essere piuttosto che nulla. Le due risposte migliori che conosco sono quella di Aristotele (l'essere è
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ciò che si dice in molti modi), e che fa del problema dell'essere, dall'affermazione di esistenza alla copula, un effetto di linguaggio. L'altra è quella che riassumerei nella risposta «perché sì», che non è una
battuta, ma la sintesi di quanto pensava la scolastica tomista (quod prius intellectus concipit quasi
notissimum est ens), e in definitiva non è molto diversa dalla precedente: alla questione su cosa sia
l'essere si risponde affermando che è ciò di cui l'uomo per definizione si rende conto. Non è l'essere che
fonda l'uomo ma l'uomo che fonda l'essere, ovvero l'essere è l'orizzonte in cui siamo capaci di
muoverci e non può essere definito se non per circoli virtuosi. Non è a partire da qualcosa d'altro che
possiamo fondare l'essere, ma è a partire dal fatto che qualcosa c'è che si definisce anche il resto.
Però il fatto che ci sia dell'essere perché sì, non elimina la domanda su quale sia la necessità che ha
portato alla contingenza di questo perché sì.
Il problema dell'origine è interessante sia per il filosofo che crede in un Dio trascendente garante
delle origini dell'universo, sia per chi in questo Dio non crede, oppure non lo ritiene sufficientemente
garantito da qualsiasi discorso filosofico. Se il Dio trascendente c'è, occorre poter pensare la sua
necessità e pensarne la necessità — se evita di pensare l'origine — non semplifica peraltro il problema.
Se invece questo Dio trascendente non c'è, allora o c'è la materia o c'è il Dio panteistico che si
identifica con la sostanza e il divenire stesso del mondo. In realtà tra Materialismo e Panpsichismo o
Panteismo non ci sono molte differenze, almeno per quanto riguarda il problema dell'origine (anche se
le visioni possono in qualche modo divergere per quanto riguarda il problema del Destino e della
sopravvivenza, sia pure non individuale, dopo la morte).
Il problema in entrambi i casi è perché Materia o Dio-Mondo, anche ammettendo — se pure
ripugna alla nostra ragione — che esistano ab aeterno, si siano a un certo momento mossi in una
piuttosto che in un'altra direzione. Chiamiamo questa decisione di muoversi Big Bang o sostituiamovi
ogni altra ipotesi cosmologica che ci piaccia concepire. La questione rimane: perché c'è stato un primo
passo e perché la direzione assunta dallo sviluppo del mondo è stata questa piuttosto che un'altra. Se si
definiscono le ragioni di questa direzione si ricade sul pensiero di una Legge, e questa Legge sarà Dio,
anche se non il Dio d'Israele.
Hawking2 ha riproposto il problema: «perché l'universo si da la pena di esistere? La teoria
unificata è così cogente da determinare la sua propria esistenza? Oppure ha bisogno di un creatore e, in
tal caso, questi ha un qualche altro effetto sull'universo? E chi ha creato il creatore?». Si noti che qui
Hawking ha una lucida intuizione che lascia per così dire cadere nel vuoto. Se esistesse una teoria
unificata così cogente da determinare la sua propria esistenza non avremmo più bisogno di un creatore.
Essa sarebbe Dio, come Legge. E lo sarebbe nel senso dell'argomento ontologico di sant'Anselmo, o
almeno di un argomento ontologico sviluppato al di fuori di una nozione di intelligenza soggettiva.
Infatti dell'argomento ontologico si possono dare due letture. Una sembra corrispondere alla
formulazione originaria: se siamo capaci di pensare un essere cujus nihil majus cogitari possit e dunque
dotato di tutte le perfezioni possibili, dobbiamo ammettere che tra tutte le perfezioni debba esserci
l'esistenza reale. Così formulato l'argomento si presta a tutte le obiezioni che gli sono state mosse da
Gaunilone a Kant. Ma Hawking si domanda se la teoria unificata descriva qualcosa la cui natura sia
tale da determinare la sua propria esistenza, anche se noi non siamo capaci di pensarlo o se il fatto di
essere capaci di pensarlo non dimostra necessariamente che esista, o non dimostra che esista
necessariamente.
Si noti che l'argomento ontologico può essere distrutto da una sola domanda: «chi ha mai detto che
l'esistenza sia una perfezione?». A questo sant'Anselmo non potrebbe rispondere se non con un atto di
fede, trovando ripugnante l'idea di Valéry che l'universo altro non sia che un difetto nella purezza del
non essere. Ma se la domanda metterebbe in imbarazzo sant'Anselmo non metterebbe in imbarazzo né
Hawking né un pensatore della Gnosi: d'accordo, l'essere, e il mondo con esso, sono il frutto di un
errore, un accidente, una sventura, una imperfezione. Ma perché si è dato un sistema di regole ed
equazioni così cogente da rendere autodeterminante quell'errore? Non basta rispondere che l'errore na2
sce per caso (ovvero per errore) ed è puro disordine, salvo che noi lo riteniamo sistema di leggi ed
equazioni solo perché, nati con esso e in esso, ad esso ci siamo adattati, e troviamo logico ciò che
logica non ha (ovvero, fisica e matematica sarebbero le spiegazioni assurde che ci fanno credere
coerente l'assoluta incoerenza). Ma incoerente o no, questo qualcosa è, e quindi è nato, e se è nato si è
dato un concorso di circostanze tali per cui un certo errore ha ottenuto il privilegio di nascere (oppure
per cui tra la purezza del non essere e l'impurità dell'errore ha vinto l'errore).
Di solito quando il materialista afferma che l'universo è solo il risultato, né bello né brutto, di una
serie indefinita di tentativi ed errori che alla fine hanno dato luogo a questa configurazione, il credente
risponde esibendo l'assurdità dell'ipotesi secondo la quale una scimmia batta per millenni su una
macchina da scrivere, a caso, sino a che, per caso, non le venga fuori la Divina Commedia. Questa
parabola, usata per spingere paradossalmente alle corde il materialismo, non è affatto paradossale e non
mette il materialismo alle corde, perché basta una scimmia abbastanza longeva, una macchina
abbastanza robusta e un numero di prove sufficiente (e la materia avrebbe avuto tutto il tempo per
provarle tutte in pochi miliardi di anni) e l'evento non sarebbe così improbabile.
Ma la questione è: perché una volta scritta la Divina Commedia la scimmia si è fermata e ha atteso
che iniziasse la serie delle infinite letture del testo? Perché ha buttato via le altre prove e ha conservato
questa? Come si vede siamo di fronte di nuovo al problema di Dio come teoria così cogente non solo
da determinare se stessa, ma da determinare il riposo del settimo giorno, e cioè la rinuncia ad altre
prove.
Naturalmente si può pensare che la scimmia, o la materia, non si acquieti di fronte a una soluzione
più buona delle altre, perché il giudizio di bontà deriva dall'illusione ottica di chi vive in quella
soluzione. La scimmia non ha scritto la Divina Commedia: ha tracciato segni assurdi e noi, condannati
a leggerli, li abbiamo trovati legali, ci siamo puerilmente inventati una teoria che li giustifichi, ma agli
occhi di un'altra intelligenza la nostra teoria esplicativa non sarebbe meno assurda degli scarabocchi
che spiega. Però a questo punto la domanda si sposta solo un poco più in là: come ha potuto accadere
che tra tutti i disordini possibili ne sia nato uno che ospita degli esseri così adattati ad esso da essere
capaci di esprimere teorie capaci di giustificarlo? Anche questa, se pur illusoria, sarebbe una soluzione
abbastanza «buona», ovvero migliore di altre.
C'è un'altra risposta possibile. La scimmia non ha mai cessato di battere a macchina. Ogni
scartafaccio che la scimmia ha prodotto è un mondo possibile con le proprie leggi di sussistenza
capace di ospitare esseri adattati ad esso. Fallimento ed errore sono illusioni ottiche che noi,
dall'interno del nostro universo, proviamo quando appare un disadattamento tra le nostre capacità di
descrizione delle cose e il modo in cui ci pare che le cose vadano. Ogni mondo è buono ed esiste,
esistono infiniti mondi possibili, anche mondi in cui due più due fa tre, dove i circoli sono quadrati, e
persino mondi in cui l'essere coincide con il non essere e la necessità con la contingenza, e tutti questi
mondi coesistono e sono altrettanto reali del nostro. Questa è l'ipotesi, apparentemente fantascientifica,
ma logicamente, se non sostenibile, sostenuta, di David C. Lewis3.
Ma se questa ipotesi elimina i giudizi di valore sul mondo in cui viviamo, e concetti come teoria e
legge buona o migliore di altre, non elimina il problema dell'origine ne il problema di come si sia dato
un meta-stato di cose per cui qualsiasi stato di cose non può che coincidere con una legge così cogente
da determinare la propria autorealizzazione. E neppure la risposta che l'essere, che è perché sì, è quello
stato di cose per cui esistono infiniti stati di cose, tutti accettabili da coloro che ci vivono dentro,
elimina la domanda del perché tutto questo si sia dato la pena di essere, e di quando abbia cominciato
ad essere così. La domanda rimarrebbe accesa anche se fosse impossibile rispondervi, anche se tutta la
nostra cosmologia riuscisse a rispondere descrivendo soltanto una teoria unificata che da ragione del
perché il mondo in cui viviamo è così come è, senza pretendere di spiegare altri mondi possibili.
Questo mio breve intervento, che naturalmente ha posto molte domande e non ha dato nessuna
risposta, voleva solo indicare come, al di là delle risposte che la cosmologia scientifica moderna può
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dare, il problema delle origini rimanga come problema filosofico aperto, anche e specialmente quando
si decida che, essendo problema che non ha risposta, è scorretto tentare di rispondervi — ed è scorretto
non per ragioni contingenti, ma per necessità.
La frustrazione che inevitabilmente deriverebbe da questa conclusione — per cui l'uomo sarebbe
per definizione e necessariamente l'essere che non può e non deve porsi il problema dell'origine —
rimarrebbe in ogni caso come una ferita, mai rimarginata e irrimarginabile, di cui la filosofia non
potrebbe evitare di preoccuparsi.
NOTE
1) Cfr. i paragrafi 6.44 e 7 del Tractatus logico-philosophicus di L. Wittgenstein, Einaudi, Torino
1989 [1921].
3
2) Nella conclusione del suo Dal Big Bang ai buchi neri. Breve storia del tempo, Rizzoli, Milano
1990 [1988]: pp. 196 sgg.
2
3) Nel suo On the Plurality of Worlds, Blackwell, London 1986.
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