LA VITA COMUNE. L`uomo è un essere sociale.

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novembre 2009 – invito alla lettura
TITOLO:
La vita comune. L’uomo è un essere sociale.
AUTORI:
Tzvetan Todorov
EDITRICE:
Pratiche, Parma 1998
Todorov è uno storico e un filosofo nato in Bulgaria nel 1939 e che vive a Parigi dal
1963: ha scritto numerosi saggi, che indagano la natura dell’essere umano analizzando le
esperienze individuali e collettive. La sua interpretazione della vita umana dipende da una
visione filosofica che si basa sulla decisione di riconoscere e attuare i valori della libertà,
dell’eguaglianza e della fraternità.
Todorov ci presenta qui un saggio di antropologia generale, che si situa a mezza strada
tra scienze umane e filosofia e consente loro di incontrarsi. Il campo dell’antropologia è
molto esteso e qui egli si propone di trattare l’importanza fondamentale della società per
ogni essere umano.
Da uno sguardo alle grandi correnti del pensiero filosofico europeo circa la
definizione di ciò che è umano, si impone una conclusione curiosa: la dimensione sociale
non è generalmente concepita come necessaria all’uomo. Molti pensatori, tra cui
Machiavelli, Montaigne, Pascal, Hobbes intendono l’uomo come un essere puramente
egoista, per il quale gli uomini sono solo rivali: società e morale andrebbero contro la natura
umana, perché impongono le regole della vita comune a un essere essenzialmente solitario.
Anche Kant sembra condividere tale concezione, quando sostiene che l’antagonismo
fondamentale della specie umana risiede nella sua “insocievole socievolezza”. Nietzsche
propone l’ideale del superuomo, cioè di un uomo che aspira alla solitudine e al dominio:
Sartre vede l’altro come colui che mi ruba il mondo, come il mio inferno.
Questa concezione asociale dell’uomo è certamente presente nella tradizione
psicologica dell’Occidente, ma non è la sola: l’autarchia resta l’ideale del saggio, ma i
filosofi greci credono anche che l’uomo è un animale sociale, che si sviluppa nella città.
Rousseau formula per primo una nuova concezione dell’uomo come di un essere che ha
bisogno degli altri: noi abbiamo un bisogno imperioso degli altri, perché, segnati da
un’incompiutezza originale, dobbiamo ad essi la nostra stessa esistenza.
Adamo Smith, nel suo saggio Teoria dei sentimenti morali, osserva che ciò cui tutti
aspiriamo è “che ci si osservi, che ci si occupi di noi, che ci si presti attenzione con
simpatia, soddisfazione approvazione”. Che ci si prenda in considerazione è il desiderio più
ardente della natura umana. Ora proprio qui sta l’origine dei sentimenti morali: noi ci
giudichiamo attraverso gli occhi degli altri: “tutti i mali esteriori sono facili da sopportare,
in confronto al disprezzo”. E se il giudizio degli altri ci sembra superficiale e falso, noi
ricorriamo allo sguardo di un giudice imparziale e ben informato che abita all’interno di
ciascuno e al quale diamo nome di coscienza.
Anche Hegel, come Rousseau, ci fornisce il romanzo dell’origine della società: si
tratta, in entrambi i casi, di miti, di ipotesi suggestive, che non possono essere né
confermate né smentite. Hegel affronta il problema della nostra costitutiva socievolezza
nelle celebri pagine della Fenomenologia dello spirito, consacrate alla dialettica del padrone
e del servo, dove appare chiaro come l’uomo aspira al riconoscimento del proprio valore che
gli può venire solo dallo sguardo altrui.
Todorov contesta molti elementi di questo mito della nascita dell’individuo: anzitutto
l’idea che questi due individui si trovano già adulti armati l’uno di fronte all’altro, come se
non fossero nati da una donna, come se non fossero mai stati bambini amati e curati dai loro
genitori. La descrizione della genesi dell’uomo da una lotta per la vita e per la morte non si
applica certamente alla relazione tra madre e figlio: l’uomo non nasce a causa di una lotta,
ma dall’amore. Il risultato della nascita non è la coppia pafrone-schiavo, bensì quella di
genitore-figlio. L’esistenza dell’indidivuo, in quanto essere specificamente umano, non
comincia su un campo di battaglia, bensì nella ricerca dello sguardo materno da parte del
bambino.
Freud ha ripreso l’idea di Hobbes Homo homini lupus nella sua opera Il disagio della
civiltà. Todorov ritiene che Freud sbaglia nel ridurre tutte le dimensioni della vita umana
alle due pulsioni di vita e di morte. Ci sono in noi pulsioni di vita che condividiamo con gli
altri organismi viventi, come la soddisfazione della fame e della sete: ma ci sono in noi
anche pulsioni specificamente umane, che si fondano sulla nostra incompletezza originaria e
sulla nostra natura sociale: è l’ambito delle nostre relazioni interpersonali. Molti scrittori,
filosofi e psicologi, sostengono che gli esseri umani ricercano non il piacere ma la relazione:
il riconoscimento segna l’ingresso dell’individuo nell’esistenza specificamente umana.
Ciascuno ha bisogno di essere riconosciuto nelle relazioni interpersonali, nell’amore,
nell’amicizia, sul piano professionale. Nelle persone è forte la soddisfazione che traggono
dalla conformità alle norme del gruppo e questo spiega la grande potenza dei sentimenti
comunitari, il bisogno di appartenere a un gruppo, un paese, una comunità religiosa. Il
riconoscimento del nostro essere e la conferma del nostro valore sono l’ossigeno
dell’esistenza: chi non riesce ad ottenerli costruendo relazioni positive, ricorre a diverse
strategie, alla seduzione o alla violenza, al fanatismo nazionalista o religioso. Il ricorso
all’alcool e alla droga può essere un modo per superare l’angoscia che proviene dal fatto di
non vedere riconosciuta la propria personalità.
Todorov conclude da questa fenomenologia dell’esperienza quotidiana che la vita in
società non deriva da una nostra scelta: noi siamo da sempre esseri sociali. L’esistenza
umana non è minacciata dall’isolamento, perché questo è impossibile: essa è minacciata da
certe forme di comunicazione, impoverenti e alienanti, e anche da certe rappresentazioni
individualiste di tale esistenza che ci fanno vivere come una tragedia ciò che è la condizione
umana stessa: la nostra incompletezza originale e il bisogno che abbiamo degli altri.
Ora la dipendenza non è alienante, la socialità non è maledetta, essa è liberatrice:
bisogna sbarazzarsi dalle illusioni individualiste. Non c’è pienezza di sé al di fuori delle
relazioni con gli altri: il riconoscimento, la cooperazione, l’imitazione, la competizione, la
comunione con gli altri possono essere vissuti nella felicità.
Dal punto di vista psicologico, egoismo e generosità non si oppongono come cura di sé
e cura degli altri: piuttosto l’egoismo consente di ricevere benefici immediati e limitati,
mentre l’altruismo e la generosità consentono di ottenere benefici psichici, indiretti ma
essenziali. Se riduco l’altro a fornitore di piaceri immediati, io mi privo di doni
infinitamente più grandi che egli potrebbe darmi. Si è felici perché si ama, e si ama perché
senza l’altro si è incompleti.
Don Renato Cortinovis
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