Il lifting categoriale dalla topologia alla logica

Il lifting categoriale
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Il lifting categoriale dalla topologia alla logica*
ALBERTO PERUZZI
The main motivation of the paper lies in an argument which shows
the relevance of the topological notion of lifting for semantic
theory. After a brief examination of aspects of knowledge which
are described by means of concepts of algebraic geometry, the
development of a functorial connection between topology and
group theory is related to aspects of logical analysis. In categorical
terms, lifting is, with extension, a form of division. As such it is
investigated here, starting from simple examples in general
topology up to fiber spaces and topoi, in order to appreciate the
recurrent pattern, which is finally used to explain the
understanding of sentences about abstract domains.
Keywords: fiber spaces, lifting, algebraic geometry, homotopy,
categorical logic, metaphor, semantics.
1. Premessa
L’esperienza umana è mediata da varietà bidimensionali (superfici). La completa classificazione di tali varietà ha dunque un notevole
rilievo epistemico, benché raramente lo si riconosca. Pure fra chi, negli
ultimi due secoli, si è impegnato in un qualche progetto di “filosofia
scientifica”, l’impiego sistematico di metodi geometrici nell’analisi delle
strutture della sensibilità e dell’intelletto – per usare la classica dicotomia
– ha coinvolto una minoranza.
Nella tradizione matematica italiana un posto di spicco va riconosciuto alla scuola di geometria algebrica, che elaborò la classificazione
delle superfici algebriche complesse. A questa classificazione Federigo
Enriques dette importanti contributi. La sua intensa attività di riflessione storica e filosofica sulla matematica testimoniò sempre il rilievo
*
Testo della relazione presentata al Troisiéme Colloque Internationale sur les Philosophies
Scientifiques du Vingtième Siècle, Géométrie, Experience et Intuition, Castiglioncello,
1/2 dicembre 2000.
Annali del Dipartimento di Filosofia 2005, ISBN 978-88-8453-408-8
© 2006, Firenze University Press
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Alberto Peruzzi
epistemico dell’esperienza geometrica, al contrario di quanto suggerivano impostazioni di stampo platonizzante e un sempre più diffuso formalismo. Anzi, non è azzardato ipotizzare che, nel pensiero di Enriques, il
legame tra geometria e intuizione si articolasse trasponendo sul piano
della legittimazione epistemologica alcuni tratti tipici del suo modus
operandi. Per quanto sotto-determinati restassero i caratteri di tale
trasposizione, l’esperienza matematica che si realizzava nei lavori della
scuola italiana di geometria algebrica può essere considerata un buon
punto di riferimento per sondare il nesso tra spazialità e logicità.
Viceversa, la sistematica algebrizzazione della geometria, nella linea di
Emmy Noether, non significò semplicemente una tappa ulteriore nella
rigorizzazione, perché fu ben presto sovra-determinata, lasciandosi assorbire entro una tendenza fondazionale che metteva da parte le preoccupazioni epistemologiche di filosofi-scienziati come Enriques. Mi riferisco a
quella tendenza che, facendosi forte della presunta linea di continuità PeanoHilbert e concependo rigore formale e intuizione geometrica come antitetici,
interpretò l’algebrizzazione come un momento dell’aritmetizzazione.
Chiunque avesse osato metter in dubbio che le costruzioni del pensiero matematico non si esauriscono nell’attività di formalizzare, assiomatizzare e infine manipolare simboli secondo le regole della logica sarebbe stato tacciato di oscurantismo. I successivi risultati di incompletezza, indecidibilità, non-categoricità servirono a ricordare l’esistenza di
una lacuna tra sintassi e semantica, ma le pur diverse morali che ne furono tratte concordavano nel lasciare come unica finestra semantica quella
concessa dalla teoria degli insiemi. Nessuna meraviglia che, sulla base di
un simile assunto, concezioni tra loro tanto diverse come quelle di
Enriques, Husserl e Weyl, che continuavano ad attribuire un posto privilegiato alla spazialità nell’indagine fondazionale, si prestassero a essere
relegate nel limbo dei vaghi propositi o accusate di contaminazioni indebite fra epistemologia e ontologia.
Sul versante della filosofia della scienza, l’ancoraggio della geometria
all’esperienza era recuperato dai neopositivisti solo attraverso una versione
logicizzante del convenzionalismo à la Poincaré, unita a un privilegio
pressoché esclusivo accordato alle questioni concernenti la metrica dello
spazio-tempo – dunque, dimenticando un altro Poincaré: il padre della
topologia. Nella metodologia delle scienze esatte, il ruolo centrale che
per due millenni era toccato alla geometria veniva ora ricoperto dalla
logica; ogni rimando all’intuizione era visto come un’ulteriore, non meno
indebita, contaminazione di epistemologia e psicologia. Frege dixit. Chi
nel primo Novecento, e in maniera ancor più radicale di Enriques e
Poincaré, ebbe il coraggio di ribellarsi all’esilio della soggettività dalle
questioni fondazionali e mostrò che il suo ritorno non era indolore fu
Brouwer. Ma il suo “soggetto creativo” era più in linea con un idealismo
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solipsistico che con un’epistemologia neokantiana centrata sul recupero
del sintetico a priori.
Progressiva algebrizzazione della geometria, enfasi sulla sottodeterminazione empirica delle basilari proprietà metriche dello spazio e del tempo,
correlata affermazione del convenzionalismo geocronometrico, spinta verso
la purezza della forma logica, progetto di fondare tutta la matematica su
una teoria assiomatica degli insiemi: tutti elementi che sembravano convergere in un assetto definitivo dei rapporti tra matematica ed esperienza. Il secondo Novecento ha attestato sviluppi che non collimano con tale assetto.
Ci sono state le prime applicazioni della matematica allo studio della cognizione umana; e i sempre più sofisticati modelli informatici dell’interfaccia
tra percezione e linguaggio hanno rivelato l’importanza decisiva della intelligenza spaziale, che però chiama in causa una topologia e una geometria
difficilmente inquadrabili nel sistema fondazionale “standard”.
Ora, non appena tematizziamo i fenomeni cognitivi coinvolti in ciò
che tradizionalmente è indicato come “intuizione”, ci rendiamo conto che
aspetti relativi all’intelligenza spaziale sono tanto primari per l’elaborazione
di qualunque edificio di pensiero quanto sono carichi di contenuto logico.
È possibile descrivere matematicamente questa “primarietà” e precisare i
legami tra geometria e logica senza riproporre la tradizionale riduzione
della geometria al sistema dei reali e alla teoria classica degli insiemi?
Dalle esigenze di precisazione sistematica dei rapporti “funtoriali”
fra proprietà di spazi (con funzioni continue tra essi) e proprietà di strutture algebriche (con relativi omomorfismi), innanzitutto gruppi di
omotopia e di (co-)omologia, scaturì una delle principali motivazioni
che nel 1945 portarono Samuel Eilenberg e Saunders Mac Lane alla teoria delle categorie. Infatti, un funtore è un’applicazione (mappa) che conserva le composizioni e le identità, ma ciò esige che siano specificati dominio e codominio di ogni dato funtore e da questa esigenza Eilenberg e
Mac Lane furono direttamente condotti alla definizione di categoria.
Una categoria è una collezione di oggetti collegati tra loro da
morfismi, ove la composizione di morfismi è associativa e per ciascun
oggetto c’è un morfismo identità, ma la composizione gf di due morfismi
è parziale, perché definita solo se dom(g)=cod(f). Per esempio: la categoria Set ha per oggetti gli insiemi e come morfismi le usuali funzioni, la
categoria Top ha per oggetti gli spazi e come morfismi le funzioni continue, la categoria Grp ha per oggetti i gruppi e come morfismi gli
omomorfismi tra gruppi. Così, il funtore “omotopia” va da Top a Grp,
mentre il funtore “gruppo libero” va da Set a Grp. Per una precisa definizione dei concetti di categoria e di funtore, oltre che per numerosi
esempi concreti, cfr. [MC]. Come già per la nozione di gruppo, è stupefacente che a partire da una nozione così semplice come quella di categoria si sia sviluppata una teoria tanto flessibile e potente.
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L’impiego di tecniche categoriali per risolvere una serie di difficili problemi inerenti alla geometria algebrica fu valorizzato da un gruppo di matematici francesi. Tra essi in primo luogo Alexandre Grothendieck, che si
servì del concetto di topos (come categoria di fasci su un sito), quale generalizzazione dell’usuale nozione di spazio. Negli anni Sessanta, Bill Lawvere
riuscì a mostrare come, a partire da questo nuovo quadro, si poteva individuare una nozione più generale di topos e avviare una geometrizzazione
della logica. Per conseguire questo scopo Lawvere sfruttava la ricchezza
del concetto di aggiunzione tra funtori: un funtore F dalla categoria C alla
categoria D, in simboli F: C → D, si dice aggiunto sinistro di G: D → C (e
G aggiunto destro di F) se, per ogni oggetto A di C e B di D, c’è una
biiezione tra mappe FA → B e mappe A → GB che si estende lungo qualsiasi A’ → A e B → B’; cosicché la biiezione è un isomorfismo “naturale”.
Un topos, nel senso generale di Lawvere, si definisce come una categoria cartesiana chiusa che ha un classificatore di sottoggetti. La chiusura cartesiana significa che, oltre ad avere prodotti fibrati (pullback) e
l’oggetto terminale (cioè un oggetto 1 verso il quale c’è un unico morfismo
da ogni altro oggetto), c’è un isomorfismo naturale tra le mappe A×B →
C e le mappe A → CB (aggiunzione esponenziale); mentre l’esistenza di
un classificatore di sottoggetti significa che c’è un oggetto Ω che rappresenta nella categoria la nozione di sottoggetto, nel senso che per ogni
oggetto A esiste la funzione caratteristica χυ : A → Ω di un qualsiasi
sottoggetto u:U A e χυ ⋅ u si fattorizza univocamente attraverso l’oggetto terminale 1; per i dettagli, cfr. [CL]. Ω si comporta dunque come
“oggetto-valori-di-verità”. Si noti che non si può usare il classico oggetto-valori-di-verità 2 = {vero, falso} entro la categoria degli spazi, perché
se X è uno spazio connesso e U è un sottoggetto (cioè, un aperto) di X,
χυdeve essere costante e quindi può classificare solo ∅ e X; ma ovviamente X può non essere affatto indiscréto.
In una serie di lavori pubblicati negli ultimi dieci anni ho cominciato
a mettere alla prova le possibilità offerte dall’impiego della teoria delle
categorie (e, in particolare, dei topoi) in relazione a questioni classiche
della semantica e della filosofia del linguaggio. Non si trattava soltanto di
introdurre costruzioni più flessibili rispetto ai metodi consueti della teoria dei modelli e di fornire un inquadramento unitario e rigoroso a quella
vasta gamma di ricerche che sono orientate verso una grammatica cognitiva,
perché un’impostazione categoriale, come quella che ho proposto (in termini di fibrazioni – vedi oltre) si pone un compito ben più specifico ... e
selettivo. Quando, infatti, in [CU] ho asserito che le radici ‘topo-logiche’
della cognizione risultano capaci di propagare il significato in ogni ambito logico-linguistico, ho fatto un’asserzione tutt’altro che condivisa dagli
scienziati cognitivi e sicuramente aborrita dai filosofi del linguaggio. Nondimeno, una simile impostazione categoriale è tutt’altro che isolata: anzi,
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le convergenze riscontrabili con altre linee di ricerca, alcune delle quali
sono testimoniate nei contributi di Giuseppe Longo e Jean Petitot a questo stesso convegno, sono la spia di una ben più estesa unità, imperniata
sulla geometrizzazione del pensiero.
Nell’occasione, vorrei riassumere alcuni aspetti della teoria alla quale sto lavorando da anni ed evidenziare come questi aspetti siano direttamente collegati all’ambito topologico, lasciando sullo sfondo sia le considerazioni filosofiche che l’hanno motivata sia le conseguenze che ne
derivano per l’epistemologia e la filosofia del linguaggio, nella convinzione-speranza che i caratteri fondamentali del collegamento che qui
opero tra topologia algebrica e semantica siano già sufficienti a individuare la cornice filosofica entro la quale si è mossa la mia ricerca.
2. Il problema e la soluzione
Il pensiero potrà anche non essere manifestato pienamente e fedelmente nel linguaggio, ma il modo in cui il linguaggio umano è strutturato costituisce una spia estremamente ricca di informazioni su com’è strutturato il pensiero. Per questo motivo, la precisabilità di sintassi e semantica
in termini logici è stata una delle più grandi acquisizioni del Novecento.
La logica odierna è, però, alquanto diversa da quella di trent’anni fa e,
anche se l’assetto raggiunto non è definitivo, i passi compiuti ci hanno
ormai fatto uscire dall’alternativa fra una logica assolutamente primaria
e una molteplicità di logiche “non standard”, tutte allo stesso pari.
Accanto agli aspetti costruttivi, che hanno acquistato un peso che
prima non rientrava nel mainstream, la maggior differenza rispetto al
passato consiste nel presentare la logica come definita (fibrata) su una
teoria dei tipi. Ma le recenti teorie dei tipi sono a loro volta molto diverse
da quelle inizialmente elaborate, a partire da Russell e Cwistek, fino agli
anni Sessanta. L’attenzione è ormai puntata su due specie di teorie. Ci
sono le teorie dei tipi dipendenti, in quanto un termine t che “abita” un
tipo τ – si scrive t:τ – può dipendere da variabili per termini che abitano
altri tipi, come per esempio t(x):τ ove x:σ. E poi ci sono le teorie dei tipi
polimorfi, nelle quali l’espressione per un tipo τ(α) può a sua volta essere
specificata mediante una variabile α per tipi.
Ebbene, la semantica per simili teorie e, più specificamente, la costruzione che definisce una logica su una teoria dei tipi si servono in
maniera essenziale di nozioni e metodi della teoria delle categorie. Questo dato non può più essere trascurato da logici e filosofi, vista l’importanza che tipi dipendenti e polimorfismo hanno per l’informatica teorica, con la quale si fanno i vari modelli della mente, almeno se continuiamo a pensare che la razionalità dipenda da quali processi inferenziali si
attivano. Sarebbe, a dir poco, curioso che un linguaggio naturale, sicura-
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mente non meno complesso di un qualunque linguaggio di programmazione oggi noto, fosse analizzabile con strumenti meno fini e meno potenti! Tuttavia, questo richiamo non va letto come se le cose fossero ancora più complicate di quanto già non si temesse. Il livello di maggior
generalità e unitarietà acquisito a partire dalla proporzione termini:tipi
= morfismi:oggetti ha infatti prodotto un notevole guadagno di semplicità.
(Per farsi un’idea del significato matematico di questa proporzione, si
veda [AL].)
Il punto è che le costruzioni “universali” in ciò coinvolte hanno la
stessa forma di quelle che permettono di rapportare la logica alla
geometria e, più latamente, la concettualizzazione a pattern basilari della
cognizione topologica. Col termine “cognizione topologica” intendo l’insieme di risorse che permettono a un sistema intelligente di elaborare
un’immagine dello spazio circostante sulla base del modo in cui il proprio corpo si pone, si muove e agisce su altri corpi in funzione della loro
posizione, del loro movimento e di ogni loro specifica affordance; inoltre,
per “geometria” intendo qui la disciplina che abbraccia la struttura
topologica (algebrica e differenziale), proiettiva e metrica dello spazio e
dei corpi che in esso si possono trovare. È in questo senso ampio che
userò il termine “geometria” anche nel seguito.
Abbiamo allora due evidenti mappe rappresentazionali, rispettivamente dal pensiero-linguaggio e dalla cognizione topologica, verso l’esperienza concreta percettivo-attiva – quella di un sistema intelligente, e
vivente, immerso nel mondo fisico – così come essa si è finemente rivelata,
nei suoi molteplici componenti, attraverso le indagini delle scienze
cognitive. A queste due mappe corrispondono rispettivamente, sul piano teorico, la mappa f dalla geometria e la mappa h dalla logica verso la
fenomenologia della percezione-azione.
La domanda è se esista un sollevamento (lifting) g della geometria
alla logica che consenta di riottenere la prima mappa a partire dalla seconda (di concettualizzazione e schemi inferenziali). La difficoltà è che
in gioco non sono soltanto mappe che àncorano oggetti astratti e in particolare forme geometriche a oggetti concreti, ma mappe che trasportano
operazioni topologiche in operazioni astratte, in maniera coerente con la
base delle esperienze di riferimento. Dualmente, supponendo dati sia
l’ancoraggio della geometria all’esperienza sia il trasporto di struttura
geometrica alla logica, possiamo chiederci: è possibile, sfruttando questo
trasporto, estendere l’ancoraggio alla stessa logica?
Dal punto di vista matematico si tratta di due problemi di “divisione”: nel caso del sollevamento cerchiamo una g tale che f = hg, nel caso
dell’estensione cerchiamo una h tale che f = hg.
Studiando i vari aspetti di f e risolvendo ora l’uno ora l’altro problema di divisione, possiamo riuscire a determinare sempre meglio una se-
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rie di proprietà che contraddistinguono la nostra comprensione del significato di qualunque proposizione. L’idea di fondo è che la soluzione
dei due problemi esprima il carattere essenzialmente spaziale del pensiero “astratto”. Ho infatti indicato in [GRS] il lifting come un universale
che consiste nella trasposizione meta-forica di strutture già presenti nella capacità di organizzare la spazialità (figura, posizione, movimento,
equilibrio ecc.). Insomma, la struttura logica del linguaggio viene a essere
fibrata sulla struttura dello spazio. In quest’occasione mi propongo di
chiarire cosa ciò significhi.
Dato che l’espressione “struttura dello spazio” può risultare oltremodo vaga, è bene dire subito che un simile progetto teorico si precisa
soltanto se disponiamo di tre ulteriori specie di universali, relativi a SCHEMI,
TEMI e PROTOTIPI.
Infatti, se il lifting consistesse nel trasportare una qualunque componente già pienamente codificata nella base da cui il lifting ha origine,
non ci sarebbe stato alcun vantaggio nell’effettuare il lifting. Inoltre,
questo agisce sempre in maniera, per così dire, circoscritta, così come in
ambito topologico il lifting dell’omotopia è appunto circoscritto a cammini nello spazio base. Dunque, si trattava di individuare quelle cellule
gestaltiche di informazione, a carattere topologico, che fossero sufficienti a trasportare il significato e che al contempo fossero autonome le une
dalle altre, in modo che la loro ricombinazione astratta supportasse un
bricolage sufficientemente espressivo – più specificamente, il bricolage di
concetti che contraddistingue la generatività combinatoria del pensiero.
Per fissare le idee, facciamo un esempio concreto. Il brano seguente
è inventato di sana pianta ma potrebbe benissimo capitarci di leggerlo in
qualche testo di storia della matematica.
Wright entrò nello spinoso problema dell’eliminazione delle cesure per
teorie d’ordine superiore puntando l’attenzione sull’evidenza che già suffragava
il conferimento di una posizione centrale alle proprietà degli anelli intrecciati.
Tenendo duro di fronte alle reazioni di chi operava da lungo tempo sul problema, abbandonò l’approccio basato su sequenze scoprendo l’ostacolo che ne
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impediva la soluzione. Quel che sembrava un vicolo cieco lo condusse a trovare
la chiave di un nuovo edificio teorico. I suoi sforzi si concentrarono sulla definizione del concetto di precompattezza e, liberatosi di presupposti prima accettati come insostituibili, riuscì a raggiungere lo scopo. Da quegli sforzi sono scaturite
applicazioni di grande portata, accanto a una nuova immagine dei fondamenti.
Ebbene, com’è che possiamo capire un brano simile, che all’apparenza suona terribilmente astratto? Nel brano ci sono poche occorrenze
significative di operatori logici, eppure vi trova espressione una struttura di pensiero tanto ricca da indurre il lettore a calarsi in un vero e proprio paesaggio concettuale. Ci sono numerosi termini per azioni essenzialmente correlate al cammino (entrò, condusse, riuscì a raggiungere,
...), ci sono localizzatori spazio-temporali che marcano ruoli posizionali
(d’ordine superiore, di fronte a, ...) ci sono configurazioni statico-dinamiche e relative sinestesìe (spinoso, duro, scaturite, ...). L’informazione
‘narrativa’ è veicolata dai verbi e dalla sequenza in cui si combinano,
riempiendo gli slot per sintagmi nominali con termini che sono astratti
di azioni fisiche (conferimento, approccio, soluzione, ...), ma essenziali
sono le preposizioni (nello, su, in, da, a) corrispondenti a diversi pattern
di natura topologica. Capire il brano è simulare, nell’immaginazione, un
film in cui il protagonista fa cose a noi ben note, ma in un luogo e con
oggetti che non ci sono altrettanto familiari; potremmo addirittura
mimare, col nostro corpo, i gesti corrispondenti allo svolgersi del brano.
In realtà, più un discorso si fa “astratto” più si riavvicina a componenti basilari del pensiero (localizzare, trasferire, comporre/dividere, ...)
che sono radicati nella corporeità e sono oggetto dell’intuizione matematica. La libertà associata all’astrazione è, così, la spia della varietà di
combinazioni cui si prestano concetti primari estremamente determinati,
che poi sono quelli ancorati alla spazialità.
Ecco perché è risultato opportuno porre, accanto al LIFTING, una
collezione finitamente generata di SCHEMI d’interazione e un insieme finito di TEMI, o ruoli posizionali nel senso della “grammatica dei casi”.
Ma ciò non basterebbe ancora a sviluppare una semantica cognitivamente
adeguata. Per questo, data la categoria I degli individui e la categoria K
delle specie in cui gli individui sono classificati, ho postulato una precisa
relazione tra I e una particolare sottocategoria di K: questa relazione si
esprime in un’aggiunzione tra funtori che permette di rendere conto
dell’esistenza di PROTOTIPI. E ciò risulta in maniera tanto diretta che mi
ha indotto a parlare di AGGIUNZIONE AUREA in [GRS]. (Anche se più sopra trovate una stringata definizione del concetto di “funtore aggiunto”,
ulteriori precisazioni, nonché esempi paradigmatici, sono ricavabili da
[CL].)
Ma perché “schemi d’interazione”? Il punto è che gli schemi di cui
parlo non sono limitati soltanto a pattern statici di oggetti e di configu-
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razioni relazionali tra oggetti fissi, ma sono anche relativi a pattern dinamici: ci sono infatti schemi d’azione, stabili sia rispetto a cambiamenti
nel tipo degli oggetti considerati sia rispetto ad un’ampia gamma di variazioni nei rapporti tra gli oggetti: per esempio, perturbazioni della traiettoria lungo la quale l’azione si propaga, e riparametrizzazioni della
scansione temporale (in relazione al tempo “interno” al sistema considerato). Gli schemi presentano un emblematico carattere polimorfo e la
loro stabilità è una manifestazione della loro universalità, che scaturisce
dalla soluzione data al duplice problema di divisione su formulato.
Poiché lo schema del CAMMINO è uno di quelli più pervasivi, conviene illustrarne brevemente alcuni aspetti nell’ambito della topologia
algebrica (cfr. [AT] e, per una prima introduzione in lingua italiana, [T]).
Questi aspetti forniscono, d’altra parte, la chiave per comprendere, nella sua generalità, la portata delle procedure di lifting e di estensione.
Tralascerò invece le applicazioni “meta-foriche” dello schema del cammino, avendone trattato in [ONS].
3. Estensioni, lifting, rivestimenti e fibrazioni
In linea di massima, i problemi topologici consistono nel classificare
mappe continue tra due spazi, nel trovare estensioni e nell’eseguire lifting (sollevamenti). L’idea di fondo della topologia algebrica è quella di
affrontare problemi topologici associando oggetti algebrici a spazi e risolvendo i problemi mediante le proprietà di tali oggetti algebrici.
In topologia generale, un classico punto di riferimento per il problema dell’estensione è il Lemma di Urisohn, il quale esprime una condizione affinché, dati due chiusi disgiunti A e B di uno spazio X, esista
una funzione f: X → [0,1] con f(A)=0 e f(B)=1. La condizione in questione è che esistano due aperti U ⊇ A e V ⊇ B con U ∩ V = ∅. Tale condizione (soddisfatta per spazi compatti di Hausdorff) implica che il problema dell’estensione di una funzione da A a [0,1] lungo l’inclusione del
chiuso A in X è risolvibile.
Tuttavia, il problema dell’estensione non sempre è risolvibile. Quello che segue è un controesempio che serve a illustrare come strutture
algebriche associate a uno spazio più grande possano essere più semplici. Prendiamo il cerchio unitario S1 e una qualsiasi immersione continua
g di S1 nel disco unitario D1 (per esempio, g(S1) = il perimetro del disco).
Data f = idS1, è possibile trovare una h tale che hg = f? Poiché c’è una
corrispondenza funtoriale tra la categoria degli spazi e quella dei gruppi
(d’omotopia) π: Top → Grp, se il problema non è risolvibile in Grp, non
lo è neppure in Top. Mi limito a ricordare che un cammino in uno spazio
X è (l’immagine di) una mappa continua f dall’intervallo unitario I =
[0,1] a X; la composizione di due cammini f’∗f è definita quando
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f(1)=f’(0); due cammini che vadano da x a y in X sono omotopi se sono
deformabili con continuità l’uno nell’altro. Un cappio è un cammino
chiuso, cioè un f tale che f(0)=f(1). L’insieme dei cammini (chiusi, in
particolare), distinti a meno di omotopia, in uno spazio forma un gruppo rispetto a ∗, che si indica come “gruppo fondamentale”.
Ora, il gruppo fondamentale di S1 è Z: possiamo infatti avvolgere
un cappio, cioè un cammino chiuso, attorno a S1 un numero intero di
volte in senso orario o in senso antiorario e non c’è modo di deformare
con continuità, uno z-cappio in uno z’-cappio, per z ≠ z’ ∈ Z, intorno a
S1. Ma il gruppo corrispondente a D1 è 0, cioè il gruppo banale {e}
contenente il solo elemento neutro perché il disco è semplicemente
connesso (cioè, ogni cappio tracciato sul disco è deformabile con continuità fino a ridursi a un solo punto). Ebbene, l’unico omomorfismo da
0 a Z ha come immagine {e} e dunque non potrà servire allo scopo di
estendere g.
D1
h?
g
Top
S1
S1
f = id
0
!
Grp
Z
Z
id
Naturalmente, sia per risolvere problemi più complessi di divisione
sia per sviluppare la classificazione di spazi più complessi, occorre ricorrere a strutture algebriche più complesse (gruppi di omologia di dimensione >1, moduli, gruppi di co-omologia).
Nel caso degli spazi di rivestimento il lifting dell’omotopia è garantito e vale la pena illustrare brevemente questo fatto, già di per sé importante, perché la costruzione relativa è un buon punto di partenza per
farsi un’idea di che cos’è una fibrazione di categorie. Consideriamo due
spazi E e B con una mappa p continua e suriettiva da E a B, e supponiamo
che per ogni punto x di B ci sia un intorno aperto U di x, U ⊆ B, e p-1(U)
sia formato da un’unione disgiunta di regioni omeomorfe a U, ovverosia
(a meno di omeomorfismi) dal prodotto cartesiano ∏DU, ove D è uno
spazio discreto.
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DU
Quando queste condizioni sono soddisfatte, si indica B come spazio
base, p come rivestimento di B, ed E come spazio totale (di rivestimento) su
B. In particolare, l’insieme p-1({x}) è la fibra su x. Una sezione di p è una
qualunque funzione continua s: B → E tale che ps =idB. Per quanto appena
detto, uno spazio di rivestimento è localmente il prodotto della base e di
uno spazio discreto, cosicché le fibre di un rivestimento sono tutte discrete. Per esempio, un fibrato vettoriale su una varietà M è un rivestimento: a
ogni punto x resta associata una fibra di vettori e le sezioni di un fibrato
tangente TM sono i campi vettoriali tangenti alla varietà. Se p: E → B è un
rivestimento, con E semplicemente connesso, allora per ogni x0 ∈ X c’è
una biiezione tra il gruppo principale di omotopia π(X,x0) e p-1({x0}).
Sfruttando il lemma secondo cui, se il sollevamento f˜ a E di f : X → B
esiste, allora è unico, il problema del lifting dell’omotopia è sempre risolvibile
nel caso in cui E sia uno spazio di rivestimento di B. Infatti, in tal caso, dato
un cammino che inizia in x ∈X e data una mappa continua f : X → B, si
ottiene il sollevamento del cammino associando a x uno dei punti, diciamo
(fx)˜, di E che appartengono alla fibra su fx, dopodiché si considera la fimmagine del cammino dato, che passerà poniamo per fz, ove z ∈ X. In vista
dell’unicità del punto (fz)˜ garantita dal lemma, possiamo porre f˜(z)= (fz)˜.
Se p: E → B ha la “proprietà di lifting dell’omotopia”, cioè: per ogni X e
F: X × I → B, esiste un lifting F˜ di F a E, p si dice una fibrazione (di spazi). Si
noti che, quando B è connesso per cammini, nessuna fibra su un qualche b ∈
B può essere vuota, altrimenti tutto E sarebbe vuoto. La proiezione di rivestimento risulta essere un caso particolare di fibrazione. In lavori precedenti,
ho proposto di trattare come G-spazi gli interi coesivi che si manifestano come
“corpi” nell’esperienza fenomenologica. A questo riguardo è rilevante che,
nel caso di G-spazi, se l’azione di G è propriamente discontinua allora la proiezione naturale di X sullo spazio delle orbite X/G è un rivestimento.
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Ecco un semplice esempio di lifting dell’omotopia: la funzione
d’avvolgimento e(t) = e2nit da R a S1 riveste la circonferenza e così ogni
funzione continua f : I → S1 ammette un lifting f˜: I →R, con ef˜ = f.
e
f~
0
I
1
f
f(0)
f(1)
S1
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Come si vede chiaramente, al sollevamento è associata una famiglia
di possibili sezioni locali – “locali” perché ciascuna è definita su un intorno aperto U di un punto x ∈ S1. Abbiamo cioè una famiglia di funzioni continue s: U → R, U ⊂ S1, tali che ps = idU. In questo, come nel caso
“generico” in cui f =idS1, le sezioni possono soltanto essere locali. I rivestimenti sono casi particolari di una nozione più generale: quella di spazio étale, che si ha quando E → B è un omeomorfismo locale.
h
Y
Z
f
g
B
Nella categoria degli insiemi, il fatto che ogni epi(morfismo) E B
abbia una sezione equivale all’assioma di scelta (Lawvere-Diaconescu).
L’esempio precedente con p: R → S1 mostra che questo assioma non vale
nella categoria degli spazi étale su uno spazio B.
Questa stessa categoria, avente come oggetti gli omeomorfismi locali su B e come morfismi (Y,f) →(Z,g) le mappe continue h tali che gh = f,
è anche indicata come Sh(X) – da “sheaf” che in inglese significa fascio.
Si noti che due spazi Y e Z non omeomorfi possono diventare tali in
quanto spazi étale su X. Essendo idB l’oggetto terminale di questa categoria, se esiste un x: (B,idB) → (Y,f), allora x è una sezione globale di f.
Nel caso particolare in cui B è ridotto a un punto ∗, l’esistenza di una
sezione globale di E → B corrisponde al fatto che E è non vuoto. Poiché
un oggetto X si dice proiettivo se, dato un epi p: E → X, ogni morfismo f
di codominio X ammette un lifting a E, ne risulta che l’assioma di scelta
vale quando tutti gli oggetti sono proiettivi. La categoria degli insiemi
equivale in effetti a Sh({∗}).
Ora, ogni funzione X → I tra insiemi arbitrari può essere pensata
come fibrazione. Da essa è immediato ottenere l’insieme indiciato corrispondente {Xi}i∈I. Ma il processo inverso, per quanto non meno semplice
a definirsi, richiede l’assioma di rimpiazzamento. E se ci riferiamo a categorie arbitrarie? Il concetto di fibrazione ormai classico in topologia
algebrica è stato generalizzato da Grothendieck, passando all’ambito più
vasto delle fibrazioni di categorie. Analogamente al caso degli insiemi, se
abbiamo una fibrazione E → B è facile passare alla categoria indiciata
(E I), con I∈I, ma l’inverso ha richiesto la scoperta da parte di
Grothendieck di una costruzione tutt’altro che semplice, il cui merito
sta anche nel fatto che essa non sfrutta il rimpiazzamento. Una fibrazione
diventa qui uno speciale tipo di funtore, recentemente usato nella se-
64
Alberto Peruzzi
mantica del polimorfismo. Per definirla, occorre prima introdurre la nozione di morfismo cartesiano. Dato un funtore P: E → B tra categorie
“piccole” (i cui oggetti, cioè, formano un insieme e non una classe propria), un morfismo u su f, cioè tale che P(u) = f, si dice cartesiano se è
unico il lifting di ogni h che consenta di fattorizzare attraverso f un qualunque P(v) come indicato nella figura seguente.
Z
v
!
E
Y
X
u
P
P(Z)
B
h
P(Y )
C
f
Il funtore P si dice una fibrazione se, per ogni f e P(Y) = cod(f) nella
P-immagine di E in B, c’è un morfismo cartesiano su f. In tal caso si parla
nuovamente di E come categoria totale e di B come categoria base. La
fibra su ciascun oggetto B di B sarà a sua volta una sottocategoria EB di E
(si chiede che P porti tutti i morfismi tra oggetti di EB nell’identità su B).
Perché questo concetto di fibrazione è importante anche ai nostri
attuali scopi? Un vantaggio della costruzione qui sommariamente descritta è che permette di eliminare un’ambiguità ricorrente nell’epistemologia: il passaggio da una base consistente in una molteplicità concreta di oggetti e operazioni a una totalità astratta di concetti e processi
sintattico-semantici può infatti essere interpretato sia come una riduzione della ricchezza presente nella base, e dunque come una ricodifica
molti-uno, tanto efficace quanto indispensabile ma nella quale non c’è
niente di nuovo, sia come uno svincolamento del pensiero che si libera
dalle modalità contingenti della sua attivazione e dai limiti di ogni suo
impiego in circostanze specifiche, di modo che l’arricchimento di struttura sarebbe così massiccio da produrre una vera e propria esplosione
combinatoria.
La presenza degli universali su elencati impone vincoli al lifting metaforico; e sono proprio questi vincoli che eliminano l’ambiguità ora
menzionata, perché rendono possibile il processo di scomposizione e
successiva ricombinazione, come bricolage cognitivo, delle strutture locali
presenti nella base, senza però creare una frattura tra pensiero astratto e
Il lifting categoriale
65
spazialità. L’analisi di questo processo conferma un principio generale:
per indagare una categoria base è opportuno immergerla in una più ampia
e, viceversa, per indagare una categoria grande è opportuno servirsi di
sottocategorie piccole che riflettano bene le proprietà strutturali di oggetti e morfismi arbitrari.
Una sottocategoria A di E si dice adeguata, seguendo John Isbell,
quando il funtore E → Set op espA che associa a ogni oggetto l’insieme delle
sue A-figure è pieno e fedele (così, ogni A-figura corrisponde a un qualche oggetto e le immagini di due morfismi distinti in E restano distinte
in Set op espA ). Nel caso che ci interessa, questa condizione di adeguatezza
significa che ogni costrutto astratto è ottenibile come riassemblaggio metaforico di ingredienti che fanno già parte dell’intelligenza spaziale. La
condizione di adeguatezza è correlata alla possibilità di ottenere un qualsiasi oggetto come colimite di figure. Nel caso di E = Set, l’unica figura
che conta si riduce a un singoletto (qualunque) e l’adeguatezza non è
altro che il principio usuale di estensionalità. Ma già nel caso degli insiemi simpliciali, le figure fondamentali sono n-simplessi, per n>0.
4. Concettualizzazione e oggettificazione
Qualunque concetto è il risultato di una complessa genesi che si
realizza nelle interazioni del soggetto cognitivo, in tutta la sua corporeità,
con l’ambiente. Ciò presuppone un’architettura neuronale che estragga,
filtri, rielabori e infine codifichi in un formato opportuno (per la manipolazione simbolica discrèta che ha luogo nel linguaggio) le informazioni
acquisibili attraverso finestre percettive relativamente modulari.
Da un lato, proporre una teoria della conoscenza umana che prescinda
dalla genesi dei concetti e, più specificamente, separi il contesto della
scoperta da quello della gustificazione è sempre più arduo; i criteri di
giustificazione, logici o sperimentali, hanno la loro genesi, sono a loro
volta oggetti di scoperta, e le condizioni cognitive che rendono ciò possibile sono oggetto di conoscenza. D’altro lato, proporre una teoria della
cognizione che prescinda non solo dalla struttura fine dei processi bottomup in cui si generano i concetti ma anche dalla dimensione assiologica
coinvolta in nozioni quali oggettività, verità, dimostrabilità, servirebbe
solo a imbastire una filosofia dimidiata: che, cioè, si lava le mani di come
possano esserci quelle strutture logico-linguistiche che tanto le interessano e di come possano costituirsi valori e norme sul piano epistemico.
Questa duplice ammissione non esclude che una metodologia “analitica” (nel senso che il termine aveva per la tradizione geometrica greca)
mirante a identificare i vincoli strutturali, top-down, necessari affinché
siano possibili configurazioni “di livello alto” come quelle di cui siamo
coscienti, sia utile o indispensabile alla costruzione di un modello mate-
66
Alberto Peruzzi
matico della semantica. Più precisamente, quando considero categorie
come I e K (quella degli individui e quella delle specie in cui gli individui
sono classificati), non assumo che I e K siano date, cioè, caschino dal
cielo proprio così come sono, o che siano secchi così plastici da ospitare
quel che ci aggrada. La genesi fenomenologica di I e K è decisiva per
l’identificazione dei fattori che intervengono nella costituzione dei concetti di individuo e di specie, e continua a essere decisiva anche dopo
aver ammesso che la sua possibilità è dovuta a una delicata architettura
neurocognitiva. E neppure assumo che la costituzione di tali concetti sia
insensibile a differenze di dominio, dipendenti da aspetti specifici delle
diverse regioni ontologiche: per esempio, la nozione di individuo ha aspetti molto diversi in ambito microfisico e macrofisico. Chiarite queste due
non-assunzioni, K e I saranno qui intese come categorie i cui oggetti
sono rispettivamente specie e individui, e i cui morfismi sono rispettivamente relazioni tra specie ed esemplificazioni di tali relazioni, fermo restando che le proprietà dominio-specifiche di K e I andranno di volta in
volta esplicitate.
In generale, un individuo è concepito come un intero coesivo che è
la localizzazione di una specie, mentre una relazione tra specie, che ne
induce una corrispondente tra i loro esemplari, è concepita come un
costrutto che si definisce a partire da schemi d’azione. Per esempio, la
relazione “predatore di” tra individui di diversa specie è ottenuta a partire da schemi d’azione di cattura, mediante un’astrazione che corrisponde
a un quoziente polimorfo; e la relazione F = “fratello di” tra individui di
una stessa specie aventi la stessa coppia di genitori, è ottenuta come prodotto di azioni parallele (di fecondazione): F(x,y) sse ∃z ∃z’ (fz(z’,p) = x ∧
fz(z’,p’)=y, ove p e p’ specificano parametri spazio-temporali.
A ogni specie K corrisponde linguisticamente un tipo τ e ad ogni
individuo i un termine singolare t, perciò il fatto che i sia classificato
come un “esemplare” della specie K si esprime nel typing, cioè dicendo
che il termine t abita il tipo τ, in breve, t:τ. Non ho usato l’espressione “i
è un membro di K”, perché il processo di concettualizzazione
classificatoria non va inteso insiemisticamente, come appartenenza di i a
K. Una specie non è l’insieme dei suoi membri, anche se a ogni specie è
associabile quest’insieme, tenendo conto funtorialmente che si tratta di
un insieme variabile. Tra l’altro, si noti che nel linguaggio naturale la
tipizzazione (typing) ha luogo anche per la nozione di insieme: il lessico
italiano distingue per esempio tra mucchio, mandria, stormo, flotta ecc.,
conservando in ciascun termine collettivo una traccia delle modalità dinamiche che danno coerenza all’intero risultante.
Così lascerò da parte le questioni concernenti la struttura categoriale
di K e I, a eccezione del fatto che le specie sono organizzate in una gerarchia di ordine parziale. Il correlato oggettivo del typing è supposto esse-
Il lifting categoriale
67
re un funtore σ: I → K e se aggiungiamo la richiesta che σ sia pieno, o
almeno suriettivo, siamo indotti a pensare I come la categoria degli individui virtuali, di modo che a due specie distinte cui non corrisponde
alcun individuo effettivamente esistente corrispondono pur sempre
oggetti diversi in I.
Questo fatto suggerisce che l’epimorfismo, o almeno suriezione,
possa essere spezzato, cioè si abbia una sistematica procedura di splitting
e dunque esista una sezione ε: K → I tale che σε sia il funtore identità su
K, facendo di εσ un idempotente. Si potrebbe obiettare che con ciò si
dice ben poco, perché l’esistenza di ε è garantita dall’assioma di scelta.
Ma servirsi di quest’assioma in relazione al problema che stiamo discutendo è empiricamente inadeguato. Infatti, quale esemplare associare alla
specie MAMMIFERO o alla specie MOBILIO? È un tratto ricorrente, e fondamentale, della concettualizzazione (o, come dicono gli psicologi, della
“categorizzazione”) che si possa ragionare su specie ragionando sui loro
esemplari rappresentativi.
Per questo motivo, ho indicato con B la più grande sottocategoria di
K per cui il funtore σ ha un aggiunto destro e ho indicato quest’aggiunto
con π, per “prototipazione”, in quanto l’unità dell’aggiunzione permette
di fattorizzare in maniera univoca ogni relazione esemplificata (localizzata) tra individui i e j in termini di relazioni tra πσ(i) e πσ(j), che dunque si comportano come esemplari generici delle rispettive specie. Precedenti indagini di linguisti e psicologi permettono di identificare le specie per le quali questa condizione è soddisfatta con le specie “di livello
basico”, caratterizzate da una resa ottimale nel bilanciare capacità di
differenziazione e salienza percettiva (Gestalt), cfr. [PTK].
Ora, ciò che vale per gli oggetti vale anche per i morfismi e così
risulta individuato un livello basico di schemi di risposta motoria. È proprio la classe degli schemi che troviamo a questo livello a esser trasferita
per “sollevamento” alla totalità della cognizione così come essa si manifesta nel linguaggio. La procedura del lifting, in quanto logic-free, non è
confinata all’ambito umano: ce ne possiamo servire sia per descrivere un
processo che nel “pensiero animale” trova una pur minima realizzazione
sia per costruire sistemi di intelligenza artificiale, ovviamente uscendo
dal solco finora privilegiato.
La nozione di oggetto individuale che emerge dall’esperienza a livello
macrofisico e trova diretta espressione nel linguaggio naturale comporta
già un’invarianza rispetto a una qualche categoria di azioni, che nei casi
più comuni si riduce a un gruppo (Helmholtz, Poincaré). Curiosamente,
questo fatto è opaco alla semantica insiemistica: o gli individui, come
particolari nudi (autonomi da ogni proprietà o relazione che non sia quella
di essere diversi dagli altri) sono là che aspettano di essere relazionati
pur non avendo in sé alcuna ragione per essere coordinati in un modo
68
Alberto Peruzzi
piuttosto che in un altro, oppure gli individui sono accessibili mediante
successioni (quando non vengano identificati tout court con ultrafiltri)
di predicati. Conseguentemente, i vincoli strutturali che garantiscono la
stabilità di un oggetto (individuale) scompaiono dall’ambito logico. La
rilevanza delle azioni per il processo costitutivo degli oggetti è stata invece
riconosciuta, oltre che nella logica lineare, nella logica categoriale associata
a un topos.
In [PTK] è esposta una serie di motivi, pertinenti all’analisi logica
del linguaggio naturale, che rendono imprescindibile nella teoria
semantica il riferimento a categorie di G-spazi entro cui isolare di volta
in volta la base opportuna di un topos di insiemi coesivi variabili. Ma si
ottiene una significativa aderenza all’esperienza cognitiva già nel caso
molto più semplice in cui sia possibile ridurre la coesione degli oggetti,
trattandoli come G-insiemi, cioè interpretando il linguaggio nella
categoria degli insiemi chiusi rispetto all’azione di un gruppo G (necessariamente biunivoca per g≠g’ ∈ G) con morfismi “equivarianti”, che
preservano l’azione. Ogni G-insieme G × A → A “rappresenta” G negli
endomorfismi di A. Perfino nel caso in cui G = Z2, le minime simmetrie
di spin interne a un oggetto permettono di impostare un’analisi migliore
di quelle regioni semantiche entro le quali ci riferiamo a interi i cui componenti ammettano una simmetria bilaterale (per esempio, ci sono solo
due profili di una moneta).
Gli insiemi sono G-insiemi rigidi, cioè le uniche figure sono di tipo
“punto”, e tutti i punti sono fissi rispetto all’azione (del gruppo banale).
Ma in generale due G-insiemi possono non essere isomorfi anche se hanno gli stessi punti fissi. L’oggetto valori di verità nel topos dei G-insiemi
è necessariamente booleano, garantendo così la validità della logica
classica nel topos.
Questo fatto è significativo in relazione al problema “epi-logico”
seguente: se i macro-oggetti di una regione sono invarianti rispetto
all’azione di un gruppo (e ciò legittima l’uso della logica classica), si deve
spiegare come, a partire da una tale base, si possa ugualmente arrivare a
universi di discorso in cui si ragiona costruttivamente. La filosofia
intuizionistica, sia nella versione originaria di Brouwer sia nella
riformulazione “analitica” offertane da Dummett, non sembra essere in
grado di affrontare questo problema, dato che confina la logica classica
a domini finiti o decidibili, e non la riferisce anche a domini con oggetti
invarianti rispetto a un gruppo di trasformazioni (in generale, il cosiddetto
“problema della parola” per i gruppi non è decidibile). Il problema epilogico esige la considerazione simultanea di più categorie (eventualmente
topoi, ciascuno con la propria logica) collegate da funtori opportuni.
Rimpiazzare l’azione del gruppo con quella di un monoide è un passo
verso la considerazione di sistemi dinamici in cui una transizione di stato
Il lifting categoriale
69
non è detto che sia invertibile. Piaget aveva ragione a insistere sull’invertibilità delle operazioni concrete come ingrediente essenziale della nozione
di oggetto che si costituisce nel corso dello sviluppo cognitivo, ma per
risolvere il problema epi-logico occorre esaminare una situazione più
complessa, come per esempio quella che si ha raccordando funtorialmente
i fasci su un G-spazio con una categoria di sistemi dinamici.
5. Sul concetto di spazio
Il quadro fin qui delineato consente di impostare unitariamente ricerche che, pur minoritarie in passato, stanno diffondendosi in ambiti
distinti (come la formazione di significati, la stabilizzazione di gestalt
percettive, la crescita di ordine in sistemi fisici non lineari, la propagazione di risonanze in reti oscillatorie); e sono tutte ricerche che contribuiscono a identificare nella struttura geometrica l’ambiente di coltura del
pensiero, cfr. [GRS]. Ma come posso aver dimenticato la dissoluzione
del sintetico a priori kantiano? E come posso aver dimenticato che uno
spazio è definito in termini insiemistici?
I cambiamenti che la geometria ha subìto nel corso dell’Ottocento
e del Novecento hanno condotto a legittimare la coerenza e l’applicabilità empirica (attraverso la teoria generale della relatività) di metriche non-euclidee. Ma hanno anche condotto a individuare una serie di
strati concettualmente distinti nella nozione stessa di spazio, tanto che
sul piano topologico si pongono questioni di rilievo per la cosmologia
odierna.
Per quanto metodologicamente proficua, la specifica immagine della geometria che emergeva nel Programma di Erlangen non era in grado
di dar conto del panorama aperto dalle profonde intuizioni di Riemann.
Eppure, l’idea di caratterizzare una struttura geometrica in termini di
invarianti algebrici, anche se confinata a gruppi di simmetrie globali
(quando non necessariamente si tratta di gruppi né di simmetrie globali)
si agganciava alla realtà fisica e alla fenomenologia dell’esperienza
semantica ben più saldamente di quanto avrebbe potuto risultare dalla
simbiosi di logica e teoria degli insiemi.
Nel quadro fondazionale logico-insiemistico sembravano confluire
in modo definitivo la via che dalla geometria in senso stretto passava per
la teoria delle varietà e giungeva alla topologia, e la via che passava per la
formalizzazione, l’assiomatizzazione e si concludeva con la logicizzazione,
relegando il contenuto della matematica a una metateoria minimale. Purtroppo, la confluenza di queste due vie nell’universo insiemistico se da
un lato eliminava l’intuizione geometrica, dall’altro restituiva una nozione di oggetto polverizzata e rigida, mentre il soggetto delle costruzioni
matematiche ne diventava il semplice spettatore esterno.
70
Alberto Peruzzi
In alternativa, lo si poteva identificare come manipolatore di simboli o come “soggetto creativo”. Nel primo caso, i teoremi limitativi costituiscono uno scoglio che non si capisce come superare. Nel secondo, la
nozione di soggetto che l’intuizionismo recupera è, quando non metafisica, più astratta e indeterminata di ciò che dovrebbe fondare.
L’impostazione categoriale dei fondamenti che fu proposta per la
prima volta da Bill Lawvere permette di raffinare la nozione di oggetto,
come insieme coesivo variabile; e anche se la logica di un topos arbitrario è intuizionistica, la costruttività è “internalizzata” – in un topos, Ω è
un oggetto-algebra-di-Heyting. Inoltre, pensando una teoria come categoria e un soggetto come teoria, a ogni dominio empirico U resta associato un soggetto generico. In [TRPL] il soggetto “trascendentale” è infatti definito come un soggetto U-generico per ogni U. E anche su un
piano così astratto si conserva traccia della spazialità: una volta che una
teoria è stata riformulata come teoria “geometrica”, la forma dei suoi
assiomi garantisce la preservazione della loro verità attraverso trasformazioni opportune, che si dicono appunto geometriche, dei loro modelli (da considerarsi anche in categorie diverse da Set); e tra questi modelli
ce n’è uno generico, caratterizzato per aggiunzione.
La teoria degli insiemi resta un edificio meraviglioso per la sua potenza e per le sue sottili architetture interne; non va però confusa con
una sorta di Assoluto né con l’organon del pensiero razionale. La categoria degli insiemi mantiene la sua importanza senza bisogno di considerarla il contenitore supremo di ogni costruzione logico-matematica. Con
questo, non s’intende suggerire un atteggiamento convenzionalistico che
riproponga, mutatis mutandis, la situazione proto-novecentesca nei
confronti della pluralità delle geometrie. Chi insiste sul carattere fondante della geometria rispetto alla logica e sulla relativa autonomia di
questa fondazione dalla teoria degli insiemi, è dunque in debito di una
spiegazione. La geometria non presuppone forse il concetto di spazio
topologico? E uno spazio topologico, per quanto ricca e variegata sia la
struttura che lo caratterizza, non è forse definito classicamente come un
insieme di punti munito di una famiglia di aperti? Lo stesso tipo di obiezione, in effetti, si può muovere nei confronti della nozione di categoria
come collezione di oggetti e morfismi, ma qui mi limito al caso della
topologia perché quello più direttamente pertinente alla teoria del lifting.
E anche a questo riguardo, tra i numerosi fattori rilevanti a una spiegazione, ne saranno considerati soltanto due.
(1) La “risoluzione” di uno spazio fino ai suoi punti trova espressione nell’assioma di separazione di Hausdorff. Le varietà topologiche sono
spazi di Hausdorff, ma in geometria algebrica è risultata particolarmente
feconda la topologia di Zariski sullo spettro di un anello; e lo spazio
Il lifting categoriale
71
risultante non è di Hausdorff. Anche in informatica teorica, i “domini di
Scott” non sono di Hausdorff, quindi non è detto che una successione di
punti abbia un unico limite. E se uno spazio non è di Hausdorff, la
distinguibilità dei suoi punti è garantita solo grazie alle assunzioni
insiemistiche. Ma, per la maggior parte degli usi e in particolare ai fini
della logica, l’informazione che conta circa uno spazio X è quella codificata nel reticolo degli aperti che, più precisamente, formano un’algebra
di Heyting completa O(X), ovvero ciò che è indicato come un locale.
La categoria dei locali, avente come morfismi le funzioni che
riflettono intersezioni finite e disgiunzioni infinite, è chiaramente in
rapporto con la categoria degli spazi e delle funzioni continue, perché
f: X → Y è continua se e solo se f*: O(Y) → O(X) è un morfismo di
locali. Un punto px di un locale è un morfismo d’ordine O(X) → 2, con
2 = {0,1}, che associa il valore 1 a un aperto U di X sse x ∈ U. Se c’è una
biiezione tra i punti di X e i punti di O(X), X si dice uno spazio sobrio.
Non solo esistono spazi che non sono sobri, ma esistono locali completamente privi di punti. I locali costituiscono una generalizzazione propria
del concetto usuale di spazio, e non sono l’unica: sviluppando in maniera originale un’intuizione di Per Martin Löf, con la nozione di
“topologia formale” Giovanni Sambin ha reso possibile il collegamento fra una nozione costruttiva di spazio con un livello ancor più basilare di analisi logica, cfr. [PC].
Possiamo dunque considerare uno spazio X come costituito dai
punti del locale associato o da un’opportuna algebra delle sue regioni,
e introdurre categorie di vario genere definite funtorialmente su un
locale o su una più generale algebra di regioni invece che su uno spazio
nel senso classico, senza che le proprietà logiche inerenti alla costruzione ne siano toccate. Inoltre, sviluppando un’idea di Lawvere, possiamo
anche pensare un oggetto-spazio di una categoria ambiente C come
caratterizzato dalla collezione (sottocategoria) F delle figure di varia
forma che sono immergibili in esso, ricostruendo poi un qualunque Coggetto, definito sullo spazio, nei termini di tali figure e delle relative
intersezioni.
Sia nella problematica fondazionale sia nei modelli logici della
semantica, l’approccio insiemistico ha cancellato ogni traccia delle relazioni
di incidenza in F e con ciò l’aspetto geometrico della logica, lasciando
isolate nella sottocategoria Q delle quantità le sole nozioni logiche (valori
di verità e relative operazioni formali), nella convinzione di aver raggiunto
il più generale livello di purezza qualitativa. Questa convinzione si è
scontrata col fatto che le reali proprietà qualitative che emergono nella
cognizione sono finemente correlate ad aspetti quantitativi intrinseci alla
struttura coesiva degli oggetti (una volta che questi sono più che aggregati
di “elementi” puntiformi) e delle azioni su di essi.
72
Alberto Peruzzi
In pratica, invece, nelle applicazioni della semantica formale ad
opera di linguisti, logici e filosofi “analitici”, Q si riduce a potenze
finite di un solo oggetto Ω, cosicché la teoria algebrica corrispondente
ha una sola sorta. Certo, era già “qualcosa” trattare Ω, sulla scia della
pragmatica formale di Richard Montague, come facente parte dello
stesso universo di oggetti cui si riferiscono gli enunciati ordinari, perché tale trattazione consentiva almeno di misurarsi con le difficoltà
derivanti dalla separazione della logica dall’analisi delle parti di cui gli
oggetti si compongono. Ma questo “qualcosa” non era sufficiente: perché, infatti, l’algebra delle parti doveva essere booleana? perché prodotti ed esponenziali di tipi erano scorrelati? perché servirsi di un
linguaggio tipato e poi usare un’ontologia “piatta” come quella insiemistica?
In mancanza di risposte, i limiti della teoria classica dei modelli,
quando applicata alla semantica dei linguaggi naturali, erano così numerosi da far pensare che logica e scienza cognitiva abitassero due pianeti distinti. Il fatto che questi limiti si riproponessero poi per l’approccio computazionale dell’IA alla comprensione del linguaggio non
faceva che aumentare lo scetticismo verso l’applicabilità della logica
matematica alla cognizione. L’impostazione categoriale rimuove le
ragioni che stanno all’origine di questi limiti.
(2) Una diversa generalizzazione del concetto di spazio fu introdotta
da Grothendieck col concetto di sito, associando a ogni aperto U la
famiglia dei suoi ricoprimenti (chiusa rispetto all’identità e a
raffinamenti) in modo che se U’ ⊆ U e se S = {Vx: x ∈ X} copre U, allora
{Vx ∩ U’: x ∈ X} copra U’. Queste proprietà definitorie possono essere
trasportate a oggetti di qualsiasi categoria C che abbia pullback, dotando C di “topologie” (di Grothendieck) anche tra loro diverse.
Le categorie di fasci su un sito si chiamano topoi di Grothendieck,
i quali dunque comprendono come casi particolari le categorie di fasci
su uno spazio topologico. La categoria degli insiemi non risulta essere
altro che il topos su uno spazio base X ridotto a un unico punto {x}; e
la bivalenza, cioè, l’esserci soltanto due valori di verità: il vero e il falso,
è riconducibile al fatto che nello spazio {x} ci sono due soli aperti: {x}
e Ø. Nel caso in cui lo spazio X abbia più punti, diciamo n, per n ∈ N,
ma X sia discreto, avremo una logica con 2n valori di verità, che risulterà sempre classica perché l’algebra dei sotto-oggetti (aperti) di X è
un’algebra di Boole. Ma gli spazi booleani sono solo un caso limite,
perché in generale la logica di un topos, formulata nella corrispondente teoria dei tipi – in cui un tipo τ sta per un oggetto A e un termine t:τ
sta per un morfismo di codominio A – è, come si è già detto,
intuizionistica e d’ordine superiore.
Il lifting categoriale
73
La diversità fra gli oggetti di uno stesso topos E non impedisce
l’uniformità logica. Infatti, le proprietà logiche di un topos sono
ricavabili dalla struttura interna di un solo oggetto: Ω. In virtù
dell’aggiunzione esponenziale, poiché il reticolo Sub(A) di un oggetto
A è isomorfo alla collezione di morfismi da A×1 a Ω, e poiché A×1 ≅ A
e Ω 1 ≅ Ω, la collezione di “elementi” x: 1 → Ω è isomorfa a Sub(1);
così, se 1 è lo spazio base, il modo in cui sono organizzate le sue regioni
(i suoi sottoggetti) si traduce direttamente in proprietà logiche di tutto
il topos. Beninteso, ci sono categorie di notevole rilievo matematico
che non sono topoi; e fra esse ci sono categorie molto importanti per la
logica. Alcune possono anche avere un classificatore, ma non sono
cartesiane chiuse (e viceversa). D’altra parte, si possono anche studiare
costruzioni funtoriali che correlino fra loro categorie con logiche tra
loro diverse.
La tesi sinteticamente espressa nel titolo di questo lavoro richiede
che, per ciascuna di esse, esista una categoria di spazi, nel senso generalizzato che corrisponde a (1) o a (2), su cui la data logica sia definita;
e richiede inoltre che le proprietà che identificano tali spazi siano
estraibili dalla base concreta di esperienze di percezione-azione.
6. Dal riferimento variabile all’invarianza di schemi
All’inizio degli anni Settanta ci fu una grande fioritura di ricerche
logiche concernenti la semantica dei linguaggi naturali. Sembrava che
l’alleanza tra filosofia analitica, linguistica generativa e logica potesse finalmente consolidarsi in una teoria coerente e cognitivamente verosimile del significato e del riferimento. A fare da supporto all’analisi formale
di una vasta gamma di contesti enunciativi che fino ad allora avevano
costituito un ostacolo notevole c’era uno strumento d’elezione: la
semantica “kripkeana” (da Saul Kripke che fu tra i primi a dare contributi in quest’ambito).
In tale semantica, la collezione dei domini d’interpretazione Di,
Dj, ... è indiciata in un insieme preordinato I. Gli indici i, j, ..., inizialmente pensati come mondi possibili, si prestavano a essere trattati anche come stadi di conoscenza, stati di un programma o fasi di un sistema dinamico; e la presenza di una relazione R di “accessibilità” tra gli
indici si traduceva in una relazione tra i domini-fibra corrispondenti,
permettendo di trattare operatori modali e di dare una semantica a
logiche non classiche, a seconda delle ipotesi su R (nel caso della logica
intuizionistica, R è una relazione d’ordine parziale).
Ma la considerazione di una sola relazione su I e la riduzione di I a
un ordine (parziale) limitavano fortemente le potenzialità della semantica
funtoriale di cui quella kripkeana risulta essere un caso molto particolare,
74
Alberto Peruzzi
dal momento che un ordine è una categoria in cui tra due oggetti c’è al
più un morfismo. Così, le strutture tarskiane aventi come supporto Di,
Dj, ..., sono tutt’al più correlate in termini di rapporti d’inclusione tra i
domini-supporto. In presenza di una simile limitazione, un predicato
ϕ(x) sarà interpretato, allorché x varia su Di, come un sottoinsieme [ϕ]i
di Di; e allora, data una coordinazione tra i e j, ne dovrebbe risultare un
qualche rapporto sistematico tra [ϕ]i e [ϕ]j ma non è detto che questo
rapporto sia lo stesso che intercorre globalmente tra Di e Dj né che sia lo
stesso per predicati diversi da ϕ. Una tale semplificazione era pagata con
un’immane casistica: i sistemi semantici per la logica modale gestivano
caso per caso tutta la fenomenologia derivante dalla gamma di leggi di
coordinazione (relazionale) tra insiemi.
Di
•
i
R
Dj
•j
Dk
R
•
k
I
Di nuovo, l’approccio categoriale evita una simile riduzione e con
essa un’arbitraria proliferazione di casi, raffinando l’analisi del processo
di sostituzione: la funtorialità dell’indiciazione richiede che un morfismo
f: i → j induca un morfismo [ϕ]i [ϕ]j (per ogni ϕ) che globalmente è
trattabile come un omomorfismo tra l’algebra dei predicati (della stessa
arietà) associati a i e l’algebra corrispondente su j. Rimpiazzando I con
una categoria più ricca di struttura e rimpiazzando generiche strutture
tarskiane con modelli di ben precise teorie, l’impiego di tecniche di teoria dei modelli era già un passo avanti, ma per sfruttarlo pienamente
occorreva analizzare il significato logico del cambiamento di base.
Allora tornava in primo piano la geometria algebrica, perché il cambiamento di base è appunto un problema tipico della geometria algebrica,
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ed è un problema che ora si configura in tutta la sua generalità anche per
la semantica. Dato u: I → J, il funtore “sostituzione” u*: PJ → PI preserva
∧, ∨, ¬, 0 (falso) e 1 (vero), e ha come aggiunto sinistro ∃u e come aggiunto destro ∀u. Così come, dato uno spazio X fibrato su B si tratta di
riparametrizzare X su B’ lungo un opportuno morfismo da B a B’ o viceversa (covarianza o controvarianza), ora si tratta di fare l’analogo per
quelle strutture che interpretano frammenti coerenti di un linguaggio:
infatti, l’adattamento “contestuale” del linguaggio a situazioni
pragmatiche mutevoli e la corrispettiva nozione di verità locale sono tratti
caratteristici della cognizione semantica. A questo scopo, il singolo indice viene visto come un oggetto, ricco di struttura topologico-algebrica,
in una categoria opportuna – non ci si limita più a una struttura su un
punto, ma si considera una famiglia (categoria) di strutture su un oggetto,
già ricco di struttura, della categoria base, ricca di morfismi. Tutto ciò
può esser fatto in termini di categorie fibrate combinando insieme i vari
pezzi del mosaico che abbiamo delineato fin qui.
Con la speranza che aiuti a intendere il senso concreto della svolta
categoriale in semantica (tanto per linguaggi formali quanto per linguaggi naturali) quando sia accompagnata dal recupero della spazialità, vorrei ricordare una delle motivazioni che orientarono la mia ricerca in questa direzione. Nella seconda metà degli anni Settanta il Centro di Grammatica dell’Accademia della Crusca fu teatro di accese discussioni su
come si potesse conciliare la sintassi generativa con una semantica
modellistica dei linguaggi naturali. In particolare, da una ricerca condotta
insieme a Massimo Moneglia emerse l’impossibilità di rendere adeguatamente nelle teorie semantiche esistenti il significato di verbi come aprire.
Non solo (ovviamente) le azioni fisiche corrispondenti sono diverse
a seconda delle specie di cose da aprire, ma è un dato di fatto che da un
contesto operativo U a un altro U’ cambia la classe di equivalenza locale
≈U associata e dunque il quoziente, indicato come “intensione locale” in
[MT]. Nel caso di aprire, se si ha a che fare con un tappeto, aprire potrà
essere sinonimo di svolgere, se si tratta di una pentola, aprire vorrà dire
sollevarne il coperchio, ecc., ma svolgere non equivale a sollevare, eppure
ci sono tratti invarianti di aprire, che dunque dovevano essere cercati
nelle proprietà topologiche di “connessione per cammini” delle regioni,
alterate dall’azione di aprire. La soluzione si può così riassumere: la collezione delle classi d’equivalenza rispetto a un ricoprimento {Ui} del dominio base dava il significato di aprire come fascio di intensioni locali.
La situazione semantica relativa ad aprire mi sembrò paradigmatica e
continuo a ritenerla tale. Ma una teoria dell’intensione locale, capace di
descrivere fenomeni simili, aveva bisogno di tener conto tanto della
variabilità quanto della coesione, nel rispetto di vincoli tutt’altro che
astratti o arbitrari.
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Alberto Peruzzi
Una volta inserita l’idea di intensione locale nel quadro degli schemi
cinestetici, questi vincoli sono stati esplicitati tracciando, in [GRS], le
linee teoriche lungo le quali un approccio simile finisce per estendersi al
linguaggio naturale nel suo complesso. Per esempio, diventa possibile
rendere la flessibilità referenziale dei locativi, da punti a regioni e viceversa (“Vado a Firenze perché ci vivo”) e la dualità del ruolo degli individui, sia come indici sia come “germi” nelle fibre su un’algebra di stati
di sistema, di modo che il significato dell’enunciato “atomico” Anna è
bionda può essere analizzato sia come <la localizzazione di [biondo] ad
[Anna] coincide con trueAnna> sia come <[Anna] appartiene alla fibra di
individui che si trovano nello stato [biondo]>. Questa dualità corrisponde simmetricamente alla dualità indiciazione/fibrazione.
Riassumendo: gli schemi basici sono quanti di significato che per
risonanza (trasferimento meta-forico) permeano ogni dominio cognitivo.
Che l’analisi logica del linguaggio abbia raggiunto una grande sofisticazione per quanto riguarda le sottigliezze coinvolte nell’uso di connettivi,
quantificatori, descrizioni, nomi propri ecc., ma abbia trascurato la funzione dei verbi è una spia significativa: segnala la staticità dell’ontologia
che fa da sfondo alle consuete applicazioni della logica, e questa staticità
segnala a sua volta la mancata analisi del processo di costituzione
fenomenologica. Non c’è dubbio che la grammatica tradizionale fosse
inadeguata dal punto di vista logico; tuttavia era pur sempre il portato di
un’articolazione topologica (veicolata dalla stessa terminologia:
hypokeimenon/kategoroumenon, sub-iectum/ob-iectum, sub-stantia/predicatum, ...) ben più rilevante dei costrutti in termini di ∈.
Quando, più sopra, ho inserito tra gli universali del linguaggio i TEMI,
intendevo proprio riferirmi a relazioni polimorfe come AGENTE, AZIONE,
OGGETTO, LOCALIZZAZIONE, ecc., nel senso della grammatica dei casi (pur
senza impegnarmi con una particolare grammatica del genere: in effetti
ce ne sono diverse). L’oblìo dei casi come primitivi posizionali ha accompagnato il collasso della spazialità e la sua eliminazione dal novero delle
strutture fondanti del pensiero, lasciandoci con un enigma insolubile:
com’è possibile comprendere un qualunque discorso astratto? Si pensi
invece all’ubiquità, nei più diversi contesti (come nel brano relativo a
Wright), di coppie verbali come muoversi/stare, mostrare/nascondere,
trovare/perdere, collegare/staccare, superare/cadere, dare/ricevere.
Il metalinguaggio in cui il più convinto formalista parla della logica,
della matematica e dell’intelligenza artificiale è carico di quel contenuto
posizionale (e pre-posizionale) che doveva invece essere espunto a favore
della purezza sintattica (combinatoria, strutturale, simbolica). D’altra parte, le idee che popolano il regno platonico servono a poco se non le
“afferriamo”; e gli aspetti “costruttivi” del pensiero non si trovano in
una situazione migliore, se non sappiamo riconoscere che cosa è una
Il lifting categoriale
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costruzione. Il nostro accesso a entità astratte e la nostra comprensione
di qualunque costrutto simbolico (oltre che la sua stessa descrizione)
sono carichi di spazialità.
Sotto questo profilo, si potrebbe perfino dire che il vero problema
non è quello di come evitare la cosiddetta “fallacia simbolica”, commessa
da chiunque spieghi mediante simboli e relativi algoritmi il significato di
una configurazione di segni e il significato delle manipolazioni che la
generano e che ne dipendono. Configurazioni simboliche e procedure
di manipolazione possono, infatti, essere comprese e descritte solo in
quanto sono da sempre ancorate al tessuto di schemi concreti della
spazialità e quindi della corporeità; o meglio, ne sono state estratte (via
lifting), previa scomposizione e ricomposizione, e poi sono risultate così
produttive da prestarsi alle più varie (rap)presentazioni concettuali, anche incompatibili con la realtà empirica. Che sia stato possibile giungere
alla logicizzazione della geometria ci dice che bastavano pochi schemi e
bastava isolarne pochi aspetti; la successiva geometrizzazione della logica ha chiuso il circolo. Le forme dell’azione sui corpi sono il corpo dei
pensieri.
L’integrazione fra teoria dei tipi e teoria delle categorie si è rivelata
estremamente efficace, prima grazie al concetto di topos e al relativo
“linguaggio interno” e poi grazie alla teoria delle fibrazioni, e ha
consentito di tradurre tutta una serie di costrutti matematici (per
esempio anche la nozione di fascio) in termini logici, riducendo poi la
logica stessa a una teoria quasi-equazionale (gli usuali connettivi e
quantificatori possono essere definiti, cfr. [CL]). A un risultato del
genere va attribuita l’importanza che merita, tanto più che ancor oggi
sono pochi i logici e ancor meno i filosofi che ne hanno apprezzato la
portata.
Ma la ragione per cui la categorizzazione è più che un ulteriore
tassello interno al progresso della logica matematica sta nel fatto che,
finalmente, disponiamo di una strumentazione adatta per arrivare alla
comprensione del modo in cui le strutture logiche sono ricavabili
intrinsecamente da strutture geometriche: dalla logica proposizionale
si passa alla logica preposizionale. Questa comprensione è sicuramente
il nocciolo della teoria del lifting semantico, nella cui prospettiva si
specifica il senso in cui l’esperienza ha radici intuitive e si riconosce
che queste intuizioni sono geometriche (in senso ampio), senza che ciò
costringa ad assumere l’intuizione come un quid inanalizzabile: anzi,
attraverso la sua analisi – e soltanto attraverso essa – diventa possibile
una fondazione geometrica della stessa logica.
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Alberto Peruzzi
Riferimenti bibliografici
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1993, pp. 115-143. Per i successivi aggiornamenti del progetto,
cfr. http://www.math.unipd.it/~logic
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Studies”, 6, 1989, pp. 1-24, Errata Corrige, p. 253.
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