Andrea Raffo

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1.10.2014
Andrea Ferrero (University of Oxford)
[email protected]
Andrea Raffo (Board of Governors of the Federal Reserve System)
[email protected]
Riforme Strutturali e Politica Monetaria in Europa 1
La crisi del debito sovrano in Europa sembra aver messo d’accordo sia
politici che accademici su almeno un punto: I paesi della periferia europea
necessitano urgentemente di ampie riforme strutturali. Lo scorso 4 settembre
2014 anche il presidente della Banca Centrale Europea (BCE) Mario Draghi ha
fortemente ribadito il ruolo centrale delle riforme per rilanciare l’economia
europea durante la conferenza stampa di politica monetaria 2.
La crisi, che ha portato Grecia, Irlanda, Portogallo, e Cipro a dover
ricorrere a programmi di supporto internazionali e che ha avuto gravi
ripercussioni finanziarie in Italia e Spagna, ha avuto conseguenze molto pesanti
sulle economie di questi paesi, che si sono aggiunte alle perdite accumulate
durante la crisi finanziaria globale del 2008-2009. Ad oggi, il prodotto interno
lordo (PIL) aggregato della “periferia” europea rimane quasi 10 punti
percentuali sotto il livello del 2007! Non sorprende quindi che, di fronte a simili
riduzioni del reddito, anche l’inflazione sia crollata vertiginosamente, aprendo
seri dibattiti sulla possibilità di osservare molti anni di stagnazione economica e
deflazione simili all’esperienza del Giappone a partire dalla metà degli anni 1990.
Purtroppo, gli strumenti di politica economica a disposizione dei singoli
paesi per far fronte a questi scenari sono limitati. La teoria economica
Le opinioni espresse in questo articolo sono solo responsabilità degli autori e non riflettono le
opinioni del Board of Governors of the Federal Reserve System o di alcuna altra persona
associata con il Federal Reserve System.
2 “Determined structural reforms in product and labour markets…are warranted.” Draghi (2014):
“Introductory statement to the press conference (with Q&A)”, Francoforte, 4 Settembre. La
parola ‘riforme strutturali’ compare diciotto volte nella trascrizione della conferenza stampa.
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suggerirebbe di adottare una politica monetaria espansiva mirata a sostenere la
domanda interna ed a svalutare tasso di cambio nominale. Sfortunatamente, la
moneta unica impedisce questa forma di aggiustamento a livello di singolo paese.
La BCE ha portato i tassi d’interesse nominali a livelli molto bassi e, sebbene
ormai applichi tassi negativi sulla liquidità delle banche parcheggiata presso la
banca centrale, sembra ormai impossibile che i tassi ufficiali possano ridursi
ulteriormente. Un’alternativa naturale sarebbe l’uso di politiche fiscali espansive
al fine di sostenere la domanda aggregata. Nel caso europeo, tuttavia, la natura
stessa della crisi, che si è manifestata come una mancanza di fiducia dei mercati
finanziari sulla sostenibilità del debito pubblico dei paesi periferici, rende
impraticabile qualsiasi taglio delle tasse o aumento della spesa pubblica. Al
contrario, la crisi ha richiesto piani di consolidamento fiscale pluriennali al fine
di riguadagnare credibilità sui mercati.
In questo contesto, le riforme strutturali sono non solo l’ultimo baluardo
della politica economica per rilanciare la crescita, ma anche un meccanismo per
aggredire direttamente le origini della crisi. Attraverso liberalizzazioni del
mercato dei beni e del lavoro che riducano le rendite di monopolio ed aumentino
la concorrenza si dovrebbe riuscire ad aumentare la produttività e quindi la
competitività di questi paesi, con benefici per le esportazioni e la domanda
aggregata. In tal senso, si tratterebbe di una ‘svalutazione reale’ del tasso di
cambio ottenuta attraverso misure legislative.
Ma quali sono i costi e i benefici delle riforme nel breve e lungo periodo?
In questo contributo, in primo luogo documentiamo l’effettivo gap di
competitività dei paesi della periferia europea. Introduciamo poi una breve
discussione del meccanismo economico alla base delle riforme strutturali,
concentrandoci
sugli
effetti
di
queste
riforme
in
condizioni
ideali.
Successivamente, spostiamo la nostra attenzione alle possibili conseguenze
indesiderate di breve periodo legate, rispettivamente, alla mancanza di supporto
da parte della politica monetaria dovuta al vincolo di tassi d’interesse a zero, alla
mancanza di credibilità delle riforme stesse, ed alla presenza di impedimenti
economici che estendono i tempi per raggiungere gli obiettivi di lungo periodo.
2
Un risultato che emerge dalle nostre analisi è che, nonostante la diversa natura
di questi vincoli, gli effetti economici sono tali da richiedere una politica
monetaria più accomodante del solito. Quindi, in presenza di tassi d’interesse a
zero, forme alternative di stimolo monetario diventano fondamentali per
sostenere gli sforzi riformativi dei paesi.
Il Gap di Competitività della Periferia
Se da un lato misurare la competitività non è un esercizio ovvio, d’altro
canto molti degli indicatori disponibili indicano una perdita sostanziale di
competitività da parte della periferia negli anni prima della crisi.
La Figura 1(a) mostra l’evoluzione del tasso di cambio reale dei paesi
periferici e della Germania, definito come il rapporto tra gli indici dei prezzi al
consumo di ciascun paese e gli stessi indici dei paesi con cui commerciano 3. Dal
2000 fino allo scoppio della crisi finanziaria globale nel 2008, i prezzi al consumo
sono saliti molto più velocemente nei paesi periferici che, ad esempio, in
Germania, risultando in un sostanziale apprezzamento del tasso di cambio reale
ed una perdita di competitività sui mercati esteri. Gran parte di questa crescita
dei prezzi è dovuta principalmente ad un aumento significativo dei prezzi dei
servizi 4.
3
4
Circa metà del commercio estero di questi paesi e’ con altri membri dell’unione monetaria.
Si veda, ad esempio, Gaulier e Vicard (2012).
3
Altri indicatori confermano questa diagnosi di bassa competitività della
periferia ed indicano la mancanza di flessibilità economica tra le possibili cause
di tale fenomeno. La Figura 1(b) riporta una media di diversi indici di efficienza
nel mercato dei beni e del lavoro compilati dal World Economic Forum (sull’asse
orizzontale) 5 insieme alla produttività del lavoro (sull’asse verticale). Questo
grafico suggerisce un’interpretazione microeconomica dell’evidenza macro
appena discussa. Ancora una volta, infatti, i paesi della periferia si posizionano a
livelli uniformemente più bassi in termini di efficienza dei mercati dei beni e del
lavoro. Questa mancanza di efficienza del mercato sembra essere associato con
bassi livelli di produttività. Inoltre, stime elaborate sulla base di analisi
dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE)
indicano che le imprese ed i lavoratori operanti nel settore dei servizi godono di
rendite di mercato decisamente maggiori nei paesi della periferia che nel resto
dell’unione monetaria o negli Stati Uniti (Tabella 1) 6. Questo risultato non
dovrebbe sorprendere se si pensa che le imprese nel settore manifatturiero sono
tipicamente più esposte alla competizione internazionale.
La narrativa che emerge da questa analisi della crisi e delle possibili
misure di politica economica da adottare in risposta ad essa è dunque chiara.
Questi indici misurano caratteristiche quali la facilità di terminare contratti di lavoro, la
capacità delle autorità Antitrust di far rispettare regole concorrenziali, e così via.
6 Sebbene più difficili da ottenere, l’evidenza disponibile circa le rendite di posizione nel mercato
del lavoro indica simili disparità tra settore manifatturiero e dei servizi.
5
4
Vista l’impossibilità di ricorrere ad una svalutazione unilaterale del tasso di
cambio nominale o ad una espansione fiscale aggressiva a causa della natura
della crisi stessa, le riforme strutturali rimangono l’ultimo bastione per rilanciare
la crescita in questi paesi. In particolare, queste riforme dovrebbero essere
indirizzate a ridurre il gap di competitività accumulato nel settore dei servizi,
così da generare un’espansione di questo settore, prezzi più bassi, e quindi una
svalutazione del tasso di cambio reale.
I Benefici e i Costi delle Riforme Strutturali
La teoria economica suggerisce che l’eliminazione delle rendite associate
a posizione di monopolio indiscutibilmente genera benefici in termini di
maggiore reddito ed occupazione. Usando i dati riportati nella Tabella 1 ed un
modello macroeconomico dell’unione monetaria, abbiamo calcolato che, se la
periferia colmasse l’intero gap di competitività con la Germania, il PIL
aumenterebbe dopo 5-10 anni ed in maniera permanente del 6 per cento circa,
una stima in linea con simili analisi nella letteratura 7,8.
Questi benefici di lungo periodo dovrebbero avere anche conseguenze
positive nel breve periodo attraverso le aspettative. Se famiglie ed imprese
internalizzano gli effetti di queste riforme in termini di più alto reddito
permanente, questo meccanismo dovrebbe contribuire a rilanciare la domanda
aggregata anche nel breve periodo attraverso maggiori consumi ed investimenti.
La nostra analisi, tuttavia, evidenzia che purtroppo esistono anche motivi
per aspettarsi effetti recessivi, nel caso le riforme vengano adottate durante una
severa crisi finanziaria, come nel contesto macroeconomico europeo attuale. A
livello
microeconomico,
riforme
strutturali
che
eliminano
rendite
monopolistiche tendono ad aumentare la produzione ma anche a ridurre i prezzi.
Quest’ultimo aspetto, che è spesso trascurato nei dibattiti, è di particolare
importanza in quanto evidenzia come le riforme siano, quasi per definizione,
7
8
Si veda Eggertsson, Ferrero e Raffo (2014).
Si vedano, ad esempio, Bayoumi, Laxton e Pesenti (2004) e Forni, Gerali e Pisani (2010).
5
deflazionistiche. In condizioni normali, la politica monetaria taglierebbe il costo
del denaro in modo da far fronte a tali pressioni deflazionistiche e mantenere il
tasso di crescita dei prezzi vicino all’obiettivo del 2 per cento. In altre parole,
riforme aggressive in tempi normali sarebbero assistite da politiche monetarie
espansive. Ma l’Europa, ed in particolare i paesi della periferia, non si trovano al
momento in condizioni normali. Come notato in precedenza, i tassi nominali
sono essenzialmente a zero, senza possibilità di essere ulteriormente ridotti.
L’introduzione di riforme strutturali in questo particolare momento potrebbe
comportare, in assenza di uno stimolo monetario appropriato, un peggioramento
delle pressioni disinflazionistiche già generate dalla crisi ed un aumento
ulteriore dei tassi di interesse reali, deprimendo i consumi e gli investimenti.
Nel nostro lavoro, quantifichiamo questo meccanismo, che corrisponde ad
un effetto “di sostituzione” di breve periodo, in contrasto all’effetto “di reddito”
di lungo periodo (ed alle sue immediate conseguenze) evidenziato in precedenza.
I nostri risultati confermano che nel breve periodo le riforme strutturali tendono
a peggiorare una recessione di per sé già molto severa. Paradossalmente, tanto
più le riforme sono ambiziose, tanto più l’effetto recessivo di breve periodo è
marcato, nonostante i maggiori benefici di lungo periodo. Ad esempio, nelle
nostre simulazioni, le stesse riforme che aumentano il PIL nel lungo periodo del
6 per cento peggiorano la recessione di due punti percentuali nel breve periodo.
Si noti, inoltre, che questi effetti non tengono in considerazione eventuali costi
aggiuntivi della deflazione dovuti all’elevato livello di debito pubblico e privato
presente al momento nei paesi periferici. Nonostante tassi d’interesse vicino allo
zero, la caduta dei prezzi, infatti, si tradurrebbe in un maggior onere reale del
debito, scoraggiando ancora di più consumi ed investimenti 9. In questo contesto,
quindi, i dati recenti sull’inflazione europea destano non poche preoccupazioni,
con tassi già negativi in Italia e Spagna 10.
Si veda Eggertsson e Krugman (2012).
Al momento, la deflazione registrata sia in Italia che in Spagna nel mese di Settembre sembra
riflettere principalmente la caduta dei prezzi energetici e di alcuni beni alimentari.
Ciononostante, la misura d’inflazione che esclude queste componenti (cosiddetta inflazione core)
rimane eccessivamente bassa.
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Riforme Strutturali e Credibilità
Nella nostra analisi fino ad ora abbiamo considerato il caso in cui i
governi annunciano e al tempo stesso attuano riforme strutturali importanti. In
altre parole, abbiamo ipotizzato che le riforme fossero credibili ed irreversibili.
Ma l’esperienza insegna che i governi faticano non poco a mantenere queste
promesse. Come cambiano le nostre stime se teniamo in considerazione questi
vincoli?
Il seguente scenario, che non riteniamo per nulla improbabile, dovrebbe
destare ulteriori preoccupazioni. Il governo di uno o più paesi periferici attua un
ambizioso piano di riforme, ma si trova ad affrontare forte opposizione interna
guidata da sindacati e associazioni di imprese che perderebbero rendite di
posizione a seguito delle liberalizzazioni 11. Il suddetto governo quindi finisce
sotto pressione, fino al punto che si trova costretto a ritirare, o quantomeno
ridurre, le riforme originalmente proposte. In questo contesto, c’è da aspettarsi
che il settore privato rimarrà scettico sull’efficacia delle riforme annunciate,
cosicché famiglie e imprese non internalizzeranno le aspettative di maggiori
redditi futuri. Le nostre analisi mostrano che, nello scenario peggiore in cui le
riforme sono prima approvate e poi ritrattate, l’economia patisce in pieno i costi
di breve periodo (la recessione peggiora) senza nessuno dei vantaggi di lungo
periodo discussi in precedenza.
In aggiunta a queste considerazioni, la letteratura economica mostra
come la sequenza stesse delle riforme possa avere effetti distributivi rilevanti 12.
Per esempio, nel caso di riforme dei mercati del lavoro e dei beni, un lavoratore,
che si veda ridurre il salario reale a seguito di una liberalizzazione del mercato
del lavoro, può essere in parte compensato da un paniere dei beni meno caro,
conseguenza di liberalizzazioni nel mercato dei beni. Al contrario, se le riforme
nel mercato dei beni tardassero ad essere adottate, i lavoratori sopporterebbero
La nostra analisi suggerisce che nel breve periodo tali proteste possono trovare sostegno nel
fatto che il quadro macroeconomico difficilmente migliorerà, e che anzi la crisi potrebbe
facilmente peggiorare.
12 A questo proposito, si veda Blanchard e Giavazzi (2003).
11
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la maggior parte dei costi, a scapito di maggiori profitti per le imprese. In questo
caso, per evitare eccessivi squilibri nella distribuzione dei costi e benefici delle
riforme, è importante che le liberalizzazioni nel mercato del lavoro non
anticipino di troppo quelle nel mercato dei prodotti.
Riforme Strutturali e Transizione
Storicamente, i benefici delle riforme nel breve periodo sono stati limitati
da altri impedimenti spesso trascurati nelle analisi economiche e nei dibattiti
politici. Innanzitutto, riforme ambiziose possono aumentare l’incertezza
riguardo le prospettive di breve periodo, come è successo in Germania agli inizi
degli anni 2000. Di fronte a tassi di disoccupazione strutturale elevati, il governo
tedesco decise di adottare tagli notevoli ai sussidi di disoccupazione, diminuì i
vincoli legali dei licenziamenti, e favorì una contrattazione più flessibile a livello
aziendale. Come mostrato nella Figura 2(a), in quegli anni il PIL tedesco rimase
molto più debole di quello dell’eurozona. Questo è in parte spiegato dal fatto che
la maggiore incertezza riguardo la sicurezza del lavoro e le prospettive salariali
risultò in un aumento significativo del tasso di risparmio delle famiglie ed una
diminuzione dei consumi.
L’esperienza tedesca mostra, in realtà, che ci sono voluti diversi anni per
osservare benefici tangibili di queste riforme ambiziose. Nella Figura 2(b),
riportiamo la relazione tra la disoccupazione (sull’asse orizzontale) ed il numero
8
dei lavori disponibili (sull’asse verticale) in Germania negli ultimi 15 anni.
Quanto più il mercato del lavoro è flessibile e la disoccupazione strutturale
minore, tanto più la relazione tra queste due variabili– nota come la curva di
Beveridge – si colloca a sinistra. Come mostrato nella figura, la transizione ad
una disoccupazione strutturale minore ha richiesto quasi dieci anni in
Germania 13.
Un motivo per cui le riforme richiedono diverso tempo per portare
benefici è che lo spostamento dei fattori di produzione verso impieghi più
efficienti è soggetto a frizioni. Ad esempio, la caduta del mercato residenziale in
Irlanda e Spagna è responsabile di quasi il 50 per cento dei posti di lavoro persi
in questi paesi (Figura 3(a)) 14. Indubbiamente, nonostante le riforme del
mercato del lavoro adottate negli ultimi anni, il processo attraverso il quale
questi disoccupati saranno riqualificati e trasferiti in altri settori o aree
geografiche sarà lento e doloroso.
Infine, l’evidenza suggerisce che le riforme tendono ad avere meno
successo durante le recessioni. Ad esempio, stime dell’OCSE (Figura 3(b))
mostrano che, dopo aver controllato per gli effetti del ciclo economico, riduzioni
dei sussidi di disoccupazione aumentano l’occupazione, in media e dopo tre anni,
dell’1 per cento in fasi espansive ma la riducono durante le recessioni.
Incidentalmente, il governo socialdemocratico che approvò queste riforme del mercato del
lavoro perse le elezioni, suggerendo come benefici ritardati nel tempo spesso comportino
significativi costi politici.
14 Attualmente, il tasso di disoccupazione si aggira intorno al 24.5% in Spagna ed al 11.5% in
Irlanda.
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Conclusioni
La recente crisi in Europa ha avuto, tra le varie conseguenze, quella di
riaprire un dibattito importante sulla necessità di liberalizzare i mercati per
riguadagnare efficienza e competitività. In questo contesto, le nostre analisi
mostrano due punti che ci sembrano particolarmente importanti, e troppo
spesso trascurati. Primo, nel breve periodo, le riforme strutturali sono
tipicamente associate a pressioni disinflazionistiche che richiedono politiche
monetarie espansive per raggiungere l’obiettivo d’inflazione del 2 percento. Dato
il vincolo sui tassi di interesse dovuto alla attuale situazione macroeconomica,
l’adozione di riforme strutturali ambiziose rischia di acutizzare la fase recessiva
e richiede misure di politica monetaria non convenzionali. Anche politiche fiscali
espansive in paesi con vincoli di bilancio meno stringenti possono contribuire a
ridurre i rischi di spirali deflazionistiche, facilitare la ripresa economica, e fornire
supporto all’adozione di riforme strutturali 15. Queste considerazioni sono ancora
più importanti se si considera che le riforme tendono a mostrare benefici
economici con ritardi dovuti alla presenza di vincoli all’aggiustamento dei fattori
di produzione ed all’aumento dell’incertezza.
Secondo, problemi di credibilità influenzano in maniera non trascurabile
gli effetti macroeconomici delle riforme strutturali. Solitamente, nel dibattito
pubblico, vengono enfatizzate le pressioni dei mercati ad adottare ampie
liberalizzazioni in periodi di crisi. Ma non bisogna dimenticare che una forte
opposizione da parte dei gruppi che più hanno da perdere dalle riforme può far
fallire un processo di liberalizzazioni che non goda del pieno appoggio politico
interno. Questa è una ricetta per pagare solo i costi delle riforme in termini di
incertezza e tensioni sociali senza riuscire ad ottenere benefici in termini di
reddito o occupazione di lungo periodo.
15
Se veda Blanchard, Erceg e Lindé (2014).
10
Bibliografia
Bayoumi T., Laxton D. e P. Pesenti (2004): “Benefits and Spillovers of Greater
Competition in Europe: A Macroeconomic Assessment”, NBER Working Paper
10416.
Blanchard O. e F. Giavazzi (2003): “Macroeconomic Effects of Regulation and
Deregulation in Goods and Labor Markets”, Quarterly Journal of Economics 118,
pp. 879-907.
Blanchard O., Erceg, C. e J. Lindé, (2014): “Fiscal Spillovers in a Currency Union”,
mimeo, International Monetary Fund.
Eggertsson G., Ferrero A. e A. Raffo (2014): “Can Structural Reforms Help
Europe?” Journal of Monetary Economics 61, pp. 2-22.
Eggertsson G. e P. Krugman, (2012), “Debt, Deleveraging, and liquidity trap: A
Fisher-Minsky-Koo Approach”, Quarterly Journal of Economics 127, pp. 14691513.
Forni L., Gerali A. e M. Pisani (2010): “Macroeconomic Effects of Greater
Competition in the Service Sector: The Case of Italy”, Macroeconomic Dynamics
14, pp. 677-708.
Gaulier G. e V. Vicard (2012): “The Signatures of Euro-Area Imbalances”, mimeo,
Banque de France.
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