La pubblicità è ancora l'anima del commercio? Vecchie e nuove strategie per vendere i prodotti di Ariela Mortara Introduzione La frase o forse meglio lo slogan o il luogo comune “la pubblicità è l’anima del commercio”, ricorre anche oggi in modo quasi ossessivo, anche se è difficile rintracciare l’origine perché identifica, in maniera inequivocabile, il legame profondo che intercorre tra la pubblicità e le vendite dei prodotti (o dei servizi)1. Ma questo legame, ancorché importante e alla base dell’approccio microeconimico-aziendalistico alla pubblicità, non esaurisce tutti gli approcci disciplinari con cui la pubblicità è stata studiata. La pubblicità quindi è stata definita un’arte, anche se decorativa e consolatoria (Falabrino, 1989), e da questo punto di vista i legami con il mondo dell’arte sono bene noti, specialmente in Italia, grazie al contributo di pittori come Depero e alla felice epoca dei cartelloni pubblicitari (Codeluppi, 2001), ma anche grazie ai contributi della pop art (Centre Georges Pompidou, 1990). Ma essa è anche un genere massmediologico che da tempo ha ormai acquisito una sua autonomia e dignità al pari di altri generi che appartengono al mondo delle comunicazioni di massa (Abruzzese, 1995, 2000), tagliando in maniera trasversale tutti i media e, ancora, secondo un approccio più propriamente sociologico, è vista come una istituzione e, come tale, caricata di responsabilità. Altri approcci studiano il sistema economico che ruota attorno alla pubblicità, con una serie di attori e di ruoli ben distinti (agenzie pubblicitarie, agenzia media, figure professionali che vanno dai grafici ai food stylist, ai professionisti del montaggio, senza contare le ormai non più nuovissime figure professionali che sono collegate al mondo dell’on-line) che assorbe a tutt’oggi la parte più rilevante del budget di comunicazione degli utenti in Italia2 e nel mondo. In una prospettiva di sociologia critica, inoltre, si può ricordare che alla pubblicità 1 Come è noto prodotti e servizi non sono la stessa cosa: il servizio è per sua natura intangibile e una vasta letteratura è dedicata alle tecniche di promozione e di marketing legate a questo mondo (Groonros, 1990, Cherubini, 2003, Hoffman et al.., 2007). Per semplicità in questo saggio ci si riferisce ai prodotti in quanto è sul prodotto che si sono concentrati sia la pubblicità che il marketing nei primi decenni della loro applicazione. 2 I dati UPA aggiornati al 2008 riportano un investimento in pubblicità pari a 10.746 milioni di Euro a fronte di un investimento complessivo in comunicazione (area classica più direct response, sponsorizzazioni, promozioni, relazioni pubbliche e Internet) di 19.035 milioni di Euro (UPA, 2008). è stato attribuita una funzione di controllo sociale senza una responsabilità sociale (Potter, 1954) anche se tale concezione appare oggi superata dalla consistente presenza di una pubblicità sociale (Gadotti, 2003) di cui si fanno promotori non solo istituzioni pubbliche (Rolando, 2001), ma anche associazioni e imprese private. In una prospettiva socio-antropologica, infine, il focus è sulle conseguenze della pubblicità, sull’ideologia che veicola, sui modelli che propone e, quindi, sulla sua funzione di agenzia di socializzazione. In quest’ottica la pubblicità diffonde valori, forgia le identità e crea modelli di riferimento cui i consumatori si ispirano (Fabris, 1992). La pubblicità è quindi «un fenomeno complesso e multimensionale» (Fabris, 1992, p. 17), ben radicato nelle società occidentali, che può essere avvicinato e studiato utilizzando approcci molto diversi seppur spesso complementari. Le teorie sulla pubblicità Nonostante che in letteratura la nascita della pubblicità sia collocata di volta in volta nell’antica Grecia o fra le strade di Pompei (Codeluppi, 2001) e la sua origine sia connessa più che altro alla necessità di segnalare ai passanti la posizione di locali quali le taverne o i lupanari, la pubblicità, come, si intende oggi, nasce con la diffusione della stampa e con lo sviluppo industriale (Falabrino, 2001). Grazie all’industrializzazione moderna, infatti, i prodotti non sono più venduti direttamente da chi li realizza all’interno delle botteghe artigiane o si possono vedere esposti sui banchi delle fiere itineranti, ma sono distribuiti contemporaneamente in più punti vendita, nascosti all’interno dei negozi e venduti da persone che non sono state minimamente coinvolte nella loro produzione e che quindi non li conoscono realmente. Quindi, il fondamentale passaggio dalla produzione artigianale alla produzione in serie attribuisce alla pubblicità il compito, prima, di informare dell’esistenza stessa del prodotto e poi delle sue caratteristiche. Quanto più si allunga la catena distributiva inserendo intermediari commerciali tra il produttore e il consumatore, tanto più la pubblicità diventa indispensabile per appoggiare le vendite del prodotto. Questo legame viene consolidato, e definito in maniera più specifica, con il passaggio, da parte delle imprese, dall’orientamento al prodotto a quello alle vendite (Collesei, 2006). Il contesto è quello degli Stati Uniti negli anni immediatamente successivi alla crisi del 1929, quando la capacità produttiva, in eccesso rispetto alla domanda, inonda il mercato di beni che i consumatori non possono comprare a causa appunto della crisi finanziaria in atto. Il sistema industriale affidò quindi alla forza vendita il compito di spingere i prodotti sul mercato utilizzando la leva della pubblicità e della promozione per convincere i consumatori a scegliere un prodotto rispetto a quello dei concorrenti. Ma è con l’avvento dell’orientamento delle imprese al mercato, che la maggior parte della letteratura fa risalire agli anni ’50 del secolo scorso, che la pubblicità assume le sue caratteristiche definitive diventando una delle P (promotion) del noto marketing mix di Kotler (Kotler, 1986). In un’ottica di marketing i prodotti sono realizzati per soddisfare i bisogni degli individui e nasce quindi l’esigenza di conoscere i consumatori in modo da poter prima individuarne e poi soddisfarne le necessità. Le prime ricerche motivazionali sul consumatore, famose quelle di Dichter (1967), che utilizzava la psicologia del profondo per trovare quelle motivazioni inconsce su cui la pubblicità doveva far leva per essere realmente efficace (Fabris, 1992), si sviluppano proprio sulla scia della consapevolezza che i prodotti non si vendono più da soli per il semplice fatto di esistere e di soddisfare dei bisogni dei quali il consumatore è perfettamente consapevole. Il ruolo della pubblicità diventa quindi fondamentale, non solo per spiegare le caratteristiche delle merci, ma anche per suggestionare i consumatori e indurli a preferire, a parità di prestazione, un bene al posto di un altro, una marca invece di un’altra. Le teorie che si sono sviluppate attorno alla pubblicità si possono, come è noto, raggruppare in due grandi categorie: la teoria forte e la teoria debole o degli effetti limitati (Jones, 1991). Secondo la teoria forte la pubblicità influisce sugli atteggiamenti e sui comportamenti di un «consumatore passivo e sostanzialmente stupido» (Fabris, 1992, p. 52), manipolando la sua volontà. Il presupposto per la sua efficacia è la ripetizione, anzi il martellamento. La teoria debole invece presuppone che il compito della pubblicità sia sostanzialmente quello di informare i consumatori che tendenzialmente si esporranno a quei messaggi che sono in sintonia con il loro sistema di atteggiamenti: la pubblicità quindi sarà più efficace qualora si prefigga come obiettivo quello di rafforzare un’opinione già esistente (Lazarsfeld, Merton, 1949). I presupposti per la teoria forte sono il behaviorismo di Watson (1925) e la riflessologia pavloniana (Pavlov, 1976) che vedono entrambe il comportamento del consumatore come conseguenza di uno stimolo (pubblicitario) cui non si può sottrarre. A queste teorie, sviluppate nell’ambito della psicologia, si affianca, nel campo della ricerca sul funzionamento dei media (Losito, 2001), la teoria ipodermica (o bullet theory). La comunicazione di massa agisce come un proiettile che colpisce un target preciso, un singolo individuo che fa parte di una folla indistinta all’interno della quale il consumatore è vittima solitaria (Riesman, 1956) del sistema dei media. In questo contesto il compito della pubblicità è quello di suggestionare l’individuo e da qui il passo verso la pubblicità subliminale, che dovrebbe sfruttare le teorie psicoanalitiche e la potenza dell’inconscio, e verso la convinzione che i pubblicitari siano in verità dei persuasori occulti (Packard, 1958) è breve. Le ricerche sul consumatore misero ben presto in luce come, in effetti, per molti settori merceologici le motivazioni inconsce non siano alla base delle scelte di consumo e che il consumatore, lungi dall’essere un individuo facilmente suggestionabile, doveva invece essere persuaso. Tra lo stimolo e la risposta si inserisce quindi un individuo cosciente caratterizzato da un suo sistema di atteggiamenti, da un carattere e da una personalità unica. La teoria debole della pubblicità è sostenuta dal presupposto che, perché la pubblicità funzioni, essa debba appoggiarsi ad un substrato emozionale e di atteggiamenti coerenti con il contenuto del messaggio e che quindi essa difficilmente sia in grado di creare dei nuovi bisogni (o dei falsi bisogni come sostenevano i teorici della Scuola di Francoforte). La comunicazione pubblicitaria deve fare ricorso alle motivazioni che sono alla base della condivisione di determinati modelli di consumo che si fanno via via più complessi nelle società avanzate, in cui si dà per scontata la soddisfazione dei bisogni primari (Maslow, 1954). Se la pubblicità ha il compito di persuadere il consumatore, lo studio del sistema degli atteggiamenti, che, a differenza delle motivazioni, possono essere quantificati, diventa fondamentale anche perché predittori di comportamenti (di consumo). Lo stimolo pubblicitario, il messaggio della comunicazione, interagisce con le tre componenti degli atteggiamenti presenti nell’individuo, cognitiva, affettiva e conativa, ovvero con l’insieme delle «credenze associazioni, immagini e ricordi concernenti la marca» (Fabris, 1993, p. 146) per determinare un comportamento. Il messaggio attraverso cui viene veicolato lo stimolo pubblicitario assume quindi una fondamentale importanza, così come l’emittente dello stesso: la fonte. Il compito della pubblicità si sta trasformando dall’area della persuasione a quella più plausibile dell’influenza sui comportamenti di consumo. In questa nuova accezione della pubblicità, l’impresa, che è spesso identificabile come la fonte del messaggio, assume un ruolo fondamentale nel conferire credibilità al contenuto della comunicazione che viene sempre più spesso veicolato facendo ricorso alla figura del testimonial (Musso, 2000), sia esso un personaggio del mondo dello spettacolo o una persona la cui competenza verso il prodotto pubblicizzato sia nota e riconosciuta. Nell’era dell’influenza, oltre che la fonte e il tipo di messaggio veicolato, si cominciano a tenere in considerazione anche le variabili sociali, dato che l’individuo compie le sue scelte di consumo inserito in un ambiente e circondato da persone. L’importanza del gruppo sociale d’appartenenza e della sua influenza sulle scelte di consumo diventa sempre più determinante in un contesto in cui l’atto di consumo non è più volto alla soddisfazione di un bisogno, ma acquisisce un valore simbolico (Douglas, Isherwood 1984). Nelle società avanzate, infatti, il consumo cambia la sua connotazione e diventa segno e comunicazione, i beni quindi vengono scelti per il loro valore di senso più che per il loro valore d’uso. La pubblicità sembra pertanto essersi allontanata dal commercio assumendo funzioni diverse da cui discendono una serie di teorie legate all’ambito dell’informazione, come la teoria degli uses and gratifications (Blumler, Katz, 1974) e, all’interno di questa, la teoria dell’agenda setting (McCombs, Shaw 1972). La prospettiva dell’analisi si sposta, quindi, dall’influenza della pubblicità sui consumatori a ciò che gli individui fanno della pubblicità e questo shift verso la fruizione attiva, di cui Fabris scriveva già agli inizi degli anni ’90 (Fabris, 1992, p. 252) del secolo scorso, sembra quanto mai attuale nel contesto odierno in cui sono i consumatori stessi, sempre più empowered (Mortara, 2007) a creare, a volte, uno spot pubblicitario. Si pensi al celebre caso del concorso promosso da Doritos (AA VV., 2007), nota marca americana di snack, che ha portato alla realizzazione, da parte di consumatori del prodotto, di uno spot, che è stato trasmesso durante l’edizione del 2007 del Superbowl, notoriamente lo spazio pubblicitario più caro del palinsesto statunitense. La pubblicità non è più sola Da quando era “solo” l’anima del commercio la pubblicità ha subito, come si è visto, molte trasformazioni e negli ultimi anni da più parti si legge che, nonostante gli investimenti sembrino ancora tenere, è in atto un processo di evoluzione e di differenziazione (Berman S. J et al., 2007) del panorama dell’advertising classico. Il sovraffollamento mediatico, la diffusione dei canali televisivi tematici, le trasmissioni satellitari via decoder o cavo hanno ridimensionato sempre più l’esposizione di alcuni particolari target alla televisione (Lombardi, 2007) e questo ha portato ad una crescente diversificazione degli investimenti. Dagli Stati Uniti, in particolare, giunge il monito che da adesso in poi la pubblicità da sola non basterà più a sostenere l’immagine di marca e ad aumentare la notorietà dell’impresa: insomma, la sua presenza non sarà più sufficiente a far vendere i prodotti. Per ovviare a ciò alcuni autori suggeriscono che il futuro della comunicazione risieda nell’utilizzare un’idea creativa che sia media neutral, ovvero che possa essere declinata su più mezzi senza perdere di efficacia, ma anzi sfruttando l’effetto accumulo (Lombardi, 2007). Il concetto di comunicazione integrata (Collesei, Ravà, 2004) sta quindi diventando un assoluto must, non solo per le grandi imprese che lo applicano già da tempo, ma per qualsiasi organizzazione che voglia mantenere un ruolo competitivo sul mercato. E ancora, alla pubblicità si stanno affiancando una serie di attività volte a suscitare l’engagement (impegno) del consumatore (Lombardi, 2007) che, da ricevente passivo delle affermazioni della marca (tipicamente diffuse tramite la pubblicità), vuole sentirsi partecipe delle diverse attività che possono essere realizzate attorno ad essa (si inseriscono in questo contesto gli eventi organizzati ad hoc, le sponsorizzazioni, l’implementazione di comunità virtuali (Mortara, Sinisi, 2005)). Conclusioni In un’epoca in cui i prodotti sono sempre più standardizzati e gli aspetti funzionali e le caratteristiche tecniche non rappresentano più una reale motivazione di scelta, il ruolo della pubblicità è diventato fondamentale grazie alla sua capacità di attribuire loro una specificità, rendendoli unici in un universo di bene fungibili. La pubblicità quindi, non è più solo l’anima del commercio, ma ha subito una grande cambiamento acquisendo la capacita di aiutare la trasformazione di prodotti da beni a segni in grado di definire e caratterizzare le identità dei consumatori (Siri, 1995). Lo stesso significato della pubblicità è quindi mutato radicalmente e con esso sono cambiati gli obiettivi, gli attori e i mezzi attraverso cui esplica la sua funzione. Si pensi solo ai cambiamenti che la pubblicità ha dovuto affrontare dall’avvento, recente, di Internet. Dalla semplice presenza di un banner o una qualche forma di finestra pop-up che rimandano ad un sito internet (Brognara, Del Curto, 2008), oltre che ovviamente la possibilità di avere un proprio sito, le imprese, a partire dal 2003, hanno avuto a disposizione un intero mondo: Second Life (www.secondilife.com). Non a caso, nei suoi anni d’oro (2006-2008), Second Life ha ospitato la comunicazione pubblicitaria di molte aziende che, in maniera diversa, hanno deciso di manifestare la loro presenza (Mortara, 2008). Attualmente, l’ultima frontiera per la pubblicità on-line e rappresentata dai social network: LinkedIn, MySpace e soprattutto Facebook che pubblica pagine che possono essere dedicate ai business locali, ai prodotti, ai brand, alle società, agli artisti, alle band, ai personaggi pubblici (Mortara, 2009), consentendo l’inserimento di link, video e, ovviamente, inserzioni pubblicitarie. In questo panorama di grandi cambiamenti l’unica costante rimane, se pur declinata a seconda dei mezzi e delle modalità di relazione, il termine “pubblicità”: che sia giunto il momento di cambiarlo? A.A. V.V. (2007), User Generated Advertising: Doritos e il SuperBowl, reperibile al seguente indirizzo http://barcode.blogsome.com/2007/01/06/user-generated-advertising-doritos-e-ilsuperbowl/. Abruzzese, A. 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