Tavole da 31 a 50 - Lodi e il suo territorio

31. Fucilazione degli insorti del 6 febbraio 1853 a Milano (9 febbraio 1853)
Nonostante l’esilio Mazzini continuò a mantenere stretti
rapporti con i circoli repubblicani italiani e più volte
tentò di organizzare moti insurrezionali nella penisola;
nel febbraio 1853, preoccupato dalle troppe simpatie che
Casa Savoia andava acquistando in Italia pensò di
risollevare le sorti del partito repubblicano organizzando
un’insurrezione che, partendo da Milano, avrebbe dovuto
propagarsi nel Lombardo Veneto e nel centro della
penisola.
La data dell’insurrezione fu fissata al 6 febbraio, ultima
domenica del carnevale ambrosiano; gli organizzatori,
infatti, contavano sul fatto che i soldati austriaci, in libera
uscita, si spargessero per le osterie. Nei progetti di
Mazzini e dei suoi seguaci l’insurrezione avrebbe dovuto
coinvolgere migliaia di cittadini e prendere d’assalto contemporaneamente il castello, il
palazzo reale, il fortino di Porta Tosa e le caserme. Nella realtà, solo qualche centinaio di
uomini, soprattutto artigiani ed operai, male armati ed inesperti, la domenica del 6 febbraio
diedero l’assalto ai posti di guardia e alle caserme austriache. Gli insorti speravano che i
soldati ungheresi inquadrati nell’esercito austriaco si ammutinassero in nome delle loro
aspirazioni all’indipendenza nazionale da Vienna e collaborassero alla rivolta, ma così non
fu e anche il popolo milanese restò indifferente alla sommossa. Da fuori Milano giunsero
velocemente altri reparti austriaci di rinforzo che riuscirono in breve a circoscrivere la
rivolta e a spegnerla prima dell’alba del giorno successivo.
Il tentativo insurrezionale servì unicamente a inasprire la politica repressiva delle autorità
austriache.
32 I martiri di Belfiore (3 marzo 1853)
Dopo la caduta di Napoleone e il ritorno degli Austriaci,
Mantova divenne una delle principali roccaforti dell’Impero
asburgico: insieme a Peschiera, Verona e Legnago, infatti, la
fortezza mantovana si inserì nel sistema difensivo asburgico
conosciuto come il Quadrilatero e il castello di San Giorgio
divenne uno dei carceri di massima sicurezza dell’Italia del
nord. L’Austria, vinta la Prima guerra d’indipendenza e
repressi i moti del 1848-1849, attuò nel Lombardo Veneto
una dura politica di repressione del dissenso e delle libertà,
volta a scongiurare ulteriori insurrezioni, politica che, in
realtà, non fece che fomentare l’odio e il malcontento verso
la dominazione straniera.
Le differenti ideologie presenti all’interno del movimento
rivoluzionario riuscirono a trovare un punto d’incontro nel
gruppo mantovano che unì esponenti di diversa estrazione sociale e di differente
appartenenza politica. I patrioti mantovani riconobbero la necessità di realizzare un’unica
organizzazione che si occupasse non solo della raccolta di armi e denaro, ma anche della
diffusione di una coscienza civica tra la popolazione. Vero animatore del comitato fu il
parroco don Enrico Tazzoli che, convinto della necessità di mantenere rapporti anche con
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altre organizzazioni internazionali, strinse accordi con Mazzini, esule a Londra, per
lanciare le cartelle del prestito interprovinciale mazziniano che avrebbe finanziato i moti
insurrezionali. Nel gennaio del 1852, però, la congiura fu scoperta: don Enrico Tazzoli
venne arrestato il 27 gennaio e al suo arresto seguirono quelli degli altri congiurati. Il
processo contro i rivoluzionari proseguì fino al marzo del 1853, quando furono comminate
le ultime condanne contro i cospiratori. Undici fra i congiurati furono condannati a morte e
impiccati nella valletta di Belfiore, all’ingresso della città: tra essi don Enrico Tazzoli e il
giovane patriota bresciano Tito Speri.
Per somma ingiuria, il governo austriaco vietò il seppellimento degli impiccati in terra
consacrata.
33. I Piemontesi in Crimea – Battaglia della Cernaia (8 settembre 1855)
34. Cavour al Congresso di Parigi (8 aprile 1856)
Il declino della potenza ottomana nel corso dell’Ottocento
ebbe come effetto la rottura dell’equilibrio delle forze in
Europa: la Russia vide nella crisi dell’Impero Turco
l’occasione di guadagnare uno sbocco sul Mediterraneo e
iniziò una serie di manovre offensive occupando i
principati danubiani di Moldavia e Valacchia, vassalli
dell’Impero ottomano. Le mire espansionistiche dello zar
Nicola I, non potevano però essere viste di buon occhio
dalle altre grandi potenze europee, Inghilterra e Francia,
che il 28 marzo 1854 dichiararono guerra alla Russia.
L’Austria decise di fornire alla Turchia solo un appoggio
diplomatico, la Prussia restò neutrale, lasciando la Russia
senza alleati.
Nel 1855 anche il Regno di Sardegna si unì all’impresa, a fianco di Francia e Inghilterra: il
presidente del consiglio Cavour considerava, infatti, l’intervento un buon trampolino di
lancio per entrare a far parte del gioco politico europeo ed inviò un corpo di spedizione
capeggiato dal generale Alfonso La Marmora.
Gli scontri si svolsero nei Balcani, nel Mar Baltico, nel Mar Caspio ed ebbero il loro centro
sulla penisola della Crimea. Il 16 agosto 1855 l’esercito
sardo fu impegnato, a fianco di quello francese, nella
battaglia della Cernaia (dal fiume omonimo) che vide la
vittoria delle truppe franco piemontesi. Il conflitto si chiuse
solo nel 1856, con la conquista di Sebastopoli, che segnò la
definitiva sconfitta dell’esercito russo. Le condizioni finali
della pace furono concordate al Congresso di Parigi (28
febbraio – 30 marzo 1856) dove, per la prima volta, l’Italia
poté sedere al tavolo con le grandi potenze europee. Cavour
non ottenne compensi territoriali per la partecipazione al
conflitto, ma un’intera seduta fu dedicata a discutere il
problema italiano e per la prima volta, grazie all’intervento
del primo ministro sabaudo, la questione italiana venne
considerata a livello europeo come una situazione che
richiedeva modifiche a fronte di legittime rimostranze della
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popolazione. Il Congresso di Parigi servì inoltre a Cavour per rinsaldare i legami politici e
le alleanze del Regno di Sardegna con Francia e Inghilterra.
35. L’eccidio di Carlo Pisacane e dei suoi compagni (2 luglio 1857)
Carlo Pisacane (Napoli, 22 agosto 1818 – Sanza, 2 luglio
1857), nacque in una famiglia decaduta della nobiltà
napoletana, fu allievo dell’Accademia militare della
Nunziatella di Napoli e incominciò la carriera militare
nell’esercito borbonico. Intorno ai trent’anni, insofferente al
conformismo caratteristico degli ambienti aristocratici e
militari borbonici, abbandonò la carriera militare e fuggì a
Marsiglia, poi a Londra e a Parigi, dove entrò in contatto
con gli esuli politici italiani. Nel 1847 lasciò Parigi per
arruolarsi nella legione straniera francese, ma appena seppe
dei moti che stavano sconvolgendo l’Italia si congedò per
far ritorno in patria. Partecipò alla Prima guerra
d'
indipendenza e alla difesa della Repubblica romana, dove
entrò in stretto contatto con Mazzini e, dopo il fallimento
dell’impresa, si rifugiò in esilio a Londra. Nel periodo londinese elaborò il proprio progetto
politico, in cui collegava l’ideale dell’indipendenza nazionale alle aspirazioni di riscatto
sociale e politico delle masse contadine. Allo scopo di mettere in atto le proprie
convinzioni, prese contatti con altri patrioti che condividevano le stesse idee e organizzò
una spedizione per portare la guerriglia nel Meridione. Il 25 giugno 1857 Pisacane
s’imbarcò, con altri ventiquattro rivoluzionari, sul piroscafo di linea Cagliari, della Società
Rubattino, originariamente diretto a Tunisi. Dirottata l’imbarcazione, sbarcò sull’isola di
Ponza, dove liberò dalle carceri più di trecento prigionieri, per lo più delinquenti comuni
(solo undici erano effettivamente prigionieri politici) e proseguì la navigazione. Il 28
giugno approdò a Sapri, dove sperava di fomentare un’insurrezione antiborbonica grazie
all’appoggio dei patrioti napoletani con cui aveva preso contatti precedentemente, ma i
suoi appelli rimasero inascoltati. Pisacane non rinunciò all’impresa e decise comunque di
proseguire verso l’interno: il 1° luglio, a Padula, i suoi uomini si scontrarono con i soldati
borbonici e furono costretti a ripiegare verso il mare. Senza munizioni e privi di
rifornimenti, il 2 luglio, a Sanza, furono attaccati da una cinquantina di persone, in gran
parte contadini, convinti dalle guardie borboniche che si trattasse di ladri: Pisacane e i suoi
uomini vennero così barbaramente trucidati.
36. La battaglia di Montebello (17 maggio 1849 [in
realtà 20 maggio 1859])
La Battaglia di Montebello rappresentò uno scontro di
secondo piano nel quadro più generale della Seconda
guerra d’indipendenza italiana.
La battaglia, svoltasi il 20 maggio 1859 a Montebello
(oggi Montebello della Battaglia, in provincia di Pavia), fu
combattuta dalla cavalleria piemontese e dalla fanteria
francese contro l’esercito austriaco e rappresentò la prima
grande vittoria dell’esercito franco piemontese nella
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Seconda guerra d’indipendenza. La sconfitta degli austriaci, malgrado la loro superiorità
numerica, confermò ai Piemontesi l’inferiorità della preparazione militare delle truppe del
Lombardo Veneto.
37. Garibaldi e i Cacciatori delle Alpi a Varese (24 maggio 1849 [in realtà 24 maggio
1859])
Cacciatori delle Alpi fu denominata la brigata di volontari,
agli ordini di Garibaldi, che nel corso della Seconda guerra
d’indipendenza combatté nella Lombardia settentrionale
contro l’esercito austriaco: in appoggio all’offensiva
principale portata avanti dall’esercito franco-piemontese in
pianura, i Cacciatori delle Alpi operarono sulla fascia
prealpina.
Il 23 maggio 1859 i volontari garibaldini giunsero a Varese
dove, il 26 maggio, si scontrarono con le truppe austriache
guidate dal generale Urban e riuscirono a sconfiggerle,
nonostante l’inferiorità numerica. Il giorno successivo
riportarono un'
ulteriore decisiva vittoria nella battaglia di
San Fermo ed occuparono Como, la città più importante
della zona; a cui seguì la conquista di Bergamo e Brescia,
entrambe già evacuate dagli Austriaci.
Mentre il grosso degli eserciti operava in pianura, Garibaldi, con i Cacciatori delle Alpi e
la 4a Divisione Sarda del generale Cialdini, coprì l’estremo lato sinistro dell’armata alleata,
operando in Val Camonica, Val Sabbia, Val Trompia, Valtellina e sul Garda. In particolare
ai Cacciatori delle Alpi fu affidata la conquista della Valtellina.
38. Battaglia di Palestro (31 maggio 1859)
La battaglia di Palestro rappresentò una delle tappe
decisive del cammino di avvicinamento a Milano
dell’esercito franco piemontese: dopo la vittoria di
Montebello, infatti, le truppe dirette a Milano, si
spostarono verso Novara. Il 30 maggio i piemontesi
attraversarono il fiume Sesia e si trovarono a dover
affrontare, per la prima volta in territorio lombardo,
l’esercito austriaco, comandato dal feldmaresciallo
luogotenente Friedrich Zobel. Entrati a Palestro (Pavia) il
30 maggio 1859 dopo una serie di duri scontri, i soldati di
Vittorio Emanuele II, al comando del generale Cialdini,
subirono un violento attacco austriaco. La resistenza fu
forte e costrinse gli austriaci a retrocedere verso Robbio (Pavia). L’intervento decisivo che
portò alla vittoria fu condotto dal colonnello francese Chabron, alla guida del 3°
Reggimento zuavi, che riuscì a impadronirsi delle batterie di cannoni austriache, per poi
proseguire l’attacco alla baionetta. Un ruolo determinante ebbero anche i reparti di fanti e
bersaglieri guidati da Vittorio Emanuele in persona, che riuscirono nell’intento di
rinsaldare le posizioni conquistate ed evitare un pericoloso contrattacco austriaco. Zobel
decise, infatti, di ritirarsi definitivamente.
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39. La battaglia di Magenta (4 giugno 1849 [in realtà 4 giugno 1859])
Nel corso della Seconda guerra d’indipendenza, la battaglia
di Magenta (4 giugno 1859) fu lo scontro decisivo che aprì
all’esercito franco piemontese la strada per la conquista
della Lombardia. La battaglia, combattuta nei pressi
dell’omonima cittadina, vide lo scontro tra l’esercito
franco-piemontese e quello austro-ungarico. L’abilità
tattica e la preparazione militare del generale francese Mac
Mahon furono decisive ed ebbero la meglio sulle truppe
austriache, condotte dal maresciallo Gyulaj, consentendo
all’esercito franco piemontese di riportare una decisiva
vittoria.
La sera del 4 giugno, dopo la vittoriosa battaglia,
Napoleone III nominò Mac Mahon maresciallo di Francia e
duca di Magenta.
L’8 giugno, Vittorio Emanuele II e Napoleone III entrarono vincitori in Milano, sfilando
sotto l’Arco della Pace in Corso Sempione.
Curiosità
Nell’anno di questa battaglia lo studioso francese Emanuele Verguin scoprì un’anilina di
colore rosso violaceo che volle intitolare alla vittoria dei francesi e chiamò magenta,
alludendo al sangue sparso nel corso della battaglia. Questo colore è oggi conosciuto in
tutto il mondo come un colore primario della quadricromia.
40. Entrata in Milano di Vittorio Emanuele II e Napoleone III (8 giugno 1859)
Le vittorie di Montebello (20 maggio 1859), Palestro (31
maggio 1859) e Magenta (4 giugno 1859) aprirono
all’esercito franco piemontese la strada per la conquista di
Milano.
Il 5 giugno l’esercito austriaco, sconfitto, abbandonò la
capitale del Regno Lombardo Veneto, dove l’8 giugno,
Napoleone III e Vittorio Emanuele II fecero il loro
ingresso trionfale. Fra le acclamazioni della popolazione i
due sovrani attraversarono l’Arco della Pace e la piazza
d’armi (oggi Parco Sempione) dove era schierata la
Guardia imperiale. Il 9 giugno 1859 il consiglio cittadino
votò per acclamazione il documento che sanciva
l’annessione della Lombardia al Regno di Sardegna.
41 Lo sbarco dei Mille a Marsala (11 maggio 1860)
La pace di Zurigo (10-11 novembre 1859), che pose fine alla Seconda guerra
d’indipendenza, obbligava gli Asburgo a cedere ai Savoia la Lombardia, con l’esclusione
di Mantova e Peschiera e reintegrava nei loro ruoli i sovrani di Modena, Parma e Toscana,
così come i governanti papalini a Bologna.
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Tutti gli stati italiani, inoltre, incluso il Veneto, ancora austriaco, avrebbero dovuto unirsi
in una confederazione italiana, presieduta dal Papa. In realtà le clausole della pace furono
disattese quasi in toto: la confederazione con a capo il Papa non si realizzò e i sovrani
spodestati non tornarono nei loro stati. Le uniche clausole attuate della Pace di Zurigo
furono quelle relative alla Lombardia, ma l’obiettivo dei negoziatori piemontesi di ottenere
Mantova e Peschiera fallì, lasciando le fortificazioni del Quadrilatero in mano austriaca.
Il trattato di Zurigo fu superato anche a livello di diplomazia internazionale quando, il 24
marzo 1860, Cavour sottoscrisse la cessione della Savoia e di Nizza alla Francia e ottenne,
in cambio, il consenso dell’imperatore all’annessione di Toscana ed Emilia Romagna al
Regno di Sardegna.
A questo punto per completare il progetto dell’unificazione nazionale sotto l’egida di Casa
Savoia non restava che conquistare il Veneto e il Regno delle Due Sicilie. Il Governo
piemontese decise di privilegiare quest’ultimo, che appariva come un obiettivo più facile
da conseguire, sia per l’isolamento diplomatico in cui da tempo si trovava, che per
l’atavico malcontento della popolazione nei confronti della dominazione borbonica;
l’impresa fu affidata a Giuseppe Garibaldi, che già aveva dato prova delle proprie capacità
nel corso della campagna in Lombardia.
La sera del 5 maggio 1860, con l’aperto appoggio delle autorità piemontesi, la spedizione
garibaldina salpò dalla spiaggia di Quarto (Genova) a bordo di due vapori dai nomi
evocativi, Lombardo e Piemonte; il generale era riuscito a raccogliere intorno a sé più di
mille giovani volontari. Dopo alcuni giorni di navigazione, i garibaldini sbarcarono a
Marsala l’11 maggio 1860, dando avvio all’invasione del Regno delle Due Sicilie.
42. Bombardamento di Palermo all’entrata di Garibaldi (maggio 1860)
43. Entrata di Garibaldi a Palermo – Assalto al Ponte Ammiraglio (27 maggio 1860)
Sbarcati a Marsala, i garibaldini si inoltrarono rapidamente
verso l’interno, in direzione di Palermo, raccogliendo lungo
il percorso altri giovani volontari. Il 27 maggio, giunsero
alle porte della città e si prepararono ad entrarvi.
Il primo scontro con le truppe borboniche avvenne al Ponte
dell’Ammiraglio, presidiato dai militari borbonici: dopo un
duro combattimento, i volontari garibaldini ebbero la
meglio e le truppe reali abbandonarono il campo
rientrando.
All’ingresso di Garibaldi in
città anche il popolo
palermitano insorse e, tra il
28 e il 30 maggio, i
garibaldini e gli insorti,
combattendo strada per strada, riuscirono a conquistare
tutto il capoluogo.
Per ostacolare l’avanzata degli insorti fu dato ordine
all’esercito borbonico di procedere a un bombardamento
indiscriminato della città: i bombardamenti, condotti dalle
navi e dalle postazioni presenti presso il piano antistante
Palazzo dei Normanni e il Castello a Mare, non riuscirono
comunque ad arrestare l’avanzata dei ribelli, ma distrussero
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interi quartieri cittadini. Il 30 maggio, i borbonici, asserragliati nelle fortezze lungo le
mura, chiesero l’armistizio. Garibaldi, ormai padrone della città, si proclamò “dittatore” in
nome di Vittorio Emanuele II e nominò un governo provvisorio. Il 6 giugno le truppe
borboniche lasciarono definitivamente Palermo.
44. Entrata di Garibaldi in Napoli (7 settembre 1860)
Dopo la conquista di Palermo (maggio 1860) l’esercito
garibaldino proseguì vittorioso nella conquista dell’Italia
meridionale e, nel mese di agosto, giunse ad attraversare lo
stretto di Messina, puntando su Napoli.
Di fronte all’avanzata garibaldina, agevolata dalle
insurrezioni nelle varie province, l’esercito borbonico si
disgregò senza opporre una valida resistenza. Il 6 settembre,
Francesco II di Borbone, con la moglie Sofia e le truppe più
fedeli, fu costretto ad abbandonare Napoli per rifugiarsi
nella fortezza di Gaeta, che venne immediatamente
circondata dai piemontesi.
Il 7 settembre 1860 Garibaldi fece il suo ingresso nella città
partenopea, accolto alla stazione ferroviaria da una folla
entusiasta e plaudente: per l’ultimo tratto di strada, infatti, il
generale aveva preferito al proprio cavallo il più comodo treno!
45. Battaglia del Volturno – Da Santa Maria a Capua (21 settembre 1860 [in realtà 21
ottobre])
Entrate a Napoli da liberatori, le truppe garibaldine
proseguirono la loro marcia: tra il settembre e l’ottobre
1860, nei pressi del fiume Volturno, si scontrarono più
volte con l’esercito borbonico.
La battaglia decisiva ebbe luogo il 21 ottobre e fu una delle
più importanti battaglie del Risorgimento italiano, sia per il
numero dei combattenti coinvolti, che per i risultati
ottenuti da Garibaldi, che riuscì ad arrestare la ripresa
offensiva dell’esercito borbonico.
All’esercito borbonico, ben armato ed equipaggiato, con
buoni ufficiali e soldati, era, infatti, venuta meno l’abilità
dei capi, mentre i garibaldini, mal preparati e mal armati,
potevano contare su comandanti capaci e di grande
ascendente, a partire dallo stesso Garibaldi, che mostrò un
notevole intuito tattico.
I Borbonici furono costretti a ripiegare e la battaglia si risolse in una decisiva vittoria per
l’esercito garibaldino, supportato, negli ultimi giorni di combattimento, da un battaglione
dell’esercito regolare piemontese.
Dopo la sconfitta sul Volturno, i resti dell’esercito borbonico si rifugiarono a Gaeta, ultimo
baluardo (con la cittadella di Messina e Civitella del Tronto) a difesa del Regno delle Due
Sicilie. L’assedio di Gaeta, iniziato dai garibaldini il 13 novembre 1860, fu concluso
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dall’esercito sardo il 13 febbraio 1861 e gli ultimi Borbone di Napoli furono costretti
all’esilio.
46. Incontro di Garibaldi con Vittorio Emanuele (26 ottobre 1860)
Dopo la battaglia sul Volturno (21 ottobre 1860) giunse in
soccorso ai volontari garibaldini il corpo di spedizione
sardo, guidato da Vittorio Emanuele II, che, sconfitto
l’esercito pontificio a Castelfidardo, aveva occupato i
territori papali in Umbria e nelle Marche.
La spedizione dell’esercito sabaudo era stata organizzata
dal primo ministro Cavour, preoccupato di un eccessivo
rafforzamento del potere di Garibaldi nel Meridione e lo
stesso Vittorio Emanuele II era sceso lungo la penisola allo
scopo di fermare il generale e impedire che la spedizione
arrivasse fino alle porte di Roma.
L’attacco alla città papale, infatti, avrebbe provocato
l’intervento francese (il pontefice godeva della protezione
di Napoleone III) e messo a repentaglio le conquiste
effettuate fino a quel momento.
L’incontro tra i due avvenne a Teano, il 26 ottobre 1860; Garibaldi “consegnò” a Vittorio
Emanuele i territori liberati dell’Italia meridionale e ottenne che i volontari garibaldini
entrassero nell’esercito regolare sardo, dopo una selezione, con il medesimo grado rivestito
nella spedizione. L’incontro rappresentò l’adesione del generale alla politica di Casa
Savoia, deludendo le aspettative di coloro che auspicavano la fondazione di una repubblica
meridionale di stampo mazziniano, che avrebbe dovuto in seguito estendersi anche ai
domini papali, conquistando Roma. Lasciate le truppe, Garibaldi si ritirò a Caprera.
Nel frattempo, il 13 ottobre, aveva avuto esito positivo il plebiscito per l’annessione del
Regno delle Due Sicilie al Regno di Sardegna.
47. Custoza – Umberto e il Quadrato (24 giugno 1866)
Vittorio Emanuele II di Savoia fu nominato re d’Italia il
17 marzo 1861, ma il processo di unificazione nazionale
non poteva ancora considerarsi concluso: Mantova, il
Veneto (che allora comprendeva anche la provincia del
Friuli), il Trentino e Trieste appartenevano ancora
all’Austria, mentre Roma era saldamente nelle mani del
Papa.
L’occasione per tentare il recupero dei territori mancanti
fu data all’Italia dal conflitto che si aprì tra Prussia e
Austria per la supremazia in Germania.
Nell’aprile del 1866, infatti, il governo italiano, guidato
dal generale Alfonso La Marmora, stabilì un’alleanza
militare con la Prussia del cancelliere Otto von Bismarck:
si era creata, un’oggettiva convergenza d’interessi fra i due
stati che vedevano nell’Impero austriaco l’ostacolo ai loro
disegni di unificazione nazionale.
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Secondo i piani prussiani, l’Italia avrebbe dovuto impegnare l’Austria sul fronte
meridionale, ma, in realtà, a causa della scarsa organizzazione dell’esercito italiano (alla
prima vera prova sul campo dopo la dichiarazione di unità) e agli errori tattici dei suoi
generali, la campagna militare italiana fu disastrosa. Il primo scontro con l’esercito
austriaco avvenne a Custoza il 24 giugno 1866 e la battaglia, che diede inizio alla Terza
guerra d’indipendenza, vide la sconfitta delle truppe italiane, pur numericamente superiori.
Alla battaglia di Custoza partecipò anche l’erede al trono sabaudo, il principe Umberto, a
capo della 16a Divisione. Dopo la rovinosa sconfitta, nel muovere da Custoza verso Goito,
la divisione guidata dal principe si trovò divisa dal grosso dell’esercito e fu attaccata
frontalmente da un corpo di Ulani (la cavalleria dell’esercito austriaco).
La fanteria italiana, disponendosi a quadrato attorno al principe, riuscì a respingere
l’attacco e a proteggere Umberto, evitando che cadesse prigioniero: l’eventuale cattura
dell’erede al trono di Casa Savoia avrebbe aggiunto un ulteriore duro colpo alla sconfitta in
battaglia.
48 A Lissa (20 luglio 1866)
La sconfitta di Custoza (24 giugno 1866) causò un generale
arresto delle operazioni sul fronte italiano, ma le importanti
vittorie prussiane sul fronte tedesco, in particolare quella di
Sadowa (3 luglio 1866) misero l’Austria nelle condizioni di
cercare un accordo che ponesse fine alla guerra. La situazione
da parte italiana appariva, però, particolarmente
imbarazzante, in quanto le nostre forze armate non avevano
guadagnato alcun successo sul campo. L’opinione pubblica,
indignata per l’immobilismo dell’esercito e della marina
italiani, iniziò a far pressioni affinché la flotta riscattasse
l’onore della patria, evitando l’umiliazione di vedersi
consegnare il Veneto dalla Prussia, anziché conquistarlo sul
campo. Al fine di rimediare all’insuccesso di terra con un’eventuale vittoria navale, quindi,
il governo ordinò all’ammiraglio Carlo Persano di salpare dal porto di Ancona e di
attaccare e occupare l’isola di Lissa al largo delle coste dalmate. La battaglia navale che ne
seguì fu una disfatta per la flotta italiana: gli errori tattici dell’ammiraglio Persano
portarono all’affondamento di entrambe le corazzate, Palestro e Re d’Italia, e segnarono la
definitiva sconfitta militare italiana. La duplice disfatta, a Custoza e a Lissa, ebbe ovvie
conseguenze a livello politico e diplomatico: di tutti i territori che erano obiettivo della
guerra, l’Italia riuscì ad ottenere solo il Veneto, che fu ceduto dall’Austria alla Francia e
successivamente “donato” dalla Francia all’Italia.
49. La breccia di Porta Pia (20 settembre 1870)
50. Sul Campidoglio (20 settembre 1870)
Gli avvenimenti che in Francia segnarono la fine del
Secondo Impero (seguito alla sconfitta dell’esercito
francese, a Sedan, nella guerra franco prussiana) e la
destituzione di Napoleone III, con la proclamazione
della Terza Repubblica, aprirono all’Italia la strada per
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l’annessione di Roma al Regno. Venuta meno la protezione francese sullo Stato Pontificio,
infatti, il Governo italiano poté preparare l’attacco, stanziando le truppe ai confini del
territorio pontificio.
Prima di procedere all’invasione Vittorio Emanuele II tentò, comunque, la carta della
mediazione, ma Pio IX rifiutò qualsiasi compromesso che comportasse il mancato
riconoscimento del potere temporale della Chiesa.
La mattina del 20 settembre 1870, quindi, l’artiglieria
dell’esercito italiano, guidata dal generale Cadorna,
attaccò le mura della città e riuscì ad aprire una breccia di
circa trenta metri nelle fortificazioni, accanto a Porta Pia,
consentendo a due battaglioni - uno di fanteria, l’altro di
bersaglieri - di occupare la città.
Il 2 ottobre, un plebiscito sancì l’annessione di Roma al
Regno d’Italia; l’anno successivo la capitale del Regno fu
trasferita da Firenze a Roma. Pio IX condannò
aspramente l’atto, con cui la Curia romana vedeva
sottrarsi il secolare dominio su Roma; si ritirò in
Vaticano, dichiarandosi “prigioniero” dello Stato italiano
fino alla morte e intimò ai cattolici - con il celebre
decreto Non expedit - di non partecipare più alla vita
politica italiana.
Questa situazione, indicata come “Questione Romana”, perdurò fino ai Patti Lateranensi
tra Stato e Chiesa del 1929.
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