Circonvenzione di persone incapaci: induzione, abuso e profitto

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Circonvenzione di persone incapaci:
induzione, abuso e profitto
Caratteristiche e presupposti del reato di circonvenzione di persone incapaci.
Le categorie di soggetti passivi: minori, infermi e deficienti psichici. Induzione e abuso
e rapporti reciproci. Il profitto negli orientamenti di dottrina e giurisprudenza.
a cura di Giovanna Berra*
LA QUESTIONE
Nel reato di circonvenzione di incapace ex art. 643 c.p. quali caratteristiche
deve avere l’induzione a compiere l’atto? Quale rapporto tra induzione e abuso? Il profitto deve essere necessariamente patrimoniale o può consistere
in qualsiasi utilità?
INTRODUZIONE
La fattispecie, così come delineata nel vigente Codice penale, rappresenta il punto di arrivo, non privo di aspetti problematici, di una lunga evoluzione storica il cui punto di partenza si può convenzionalmente collocare nel Codice penale francese, passando per il Codice del ’30 in cui viene collocata all’interno dei delitti contro il patrimonio mediante frode; il Codice Rocco ha avuto il considerevole merito di ampliare l’ambito dei soggetti tutelati prescindendo da una legale incapacità e invece accogliendo il concetto di incapacità
di fatto della persona offesa e di individuare come evento del reato, in aggiunta e indipendentemente dalla sottoscrizione di un documento, meri atti verbali e fatti materiali (come
doni materiali, restituzione di titoli).
Interessante da questo punto di vista il fatto che viene in rilievo per la realizzazione della
figura di reato un qualsiasi atto del soggetto passivo che sia produttore di effetti giuridici
dannosi e pertanto anche atti in sé non aventi natura patrimoniale quali l’affiliazione, l’adozione, il riconoscimento di figlio naturale e l’atto di matrimonio, dovendosi riconoscere
a tali atti la potenzialità e la idoneità a generare effetti giuridici dannosi a carico del soggetto passivo o di terzi.
* Avvocato del Foro di Milano.
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LE NORME
Codice penale
Art. 643 – Circonvenzione di persone incapaci
Codice civile
Art. 122 – Matrimonio
Art. 274 – Azione giudiziale di paternità
LA FATTISPECIE
I soggetti
Le condizioni psichiche del destinatario della condotta e la minore età costituiscono i presupposti del reato poiché la condotta di abuso si verifica proprio in relazione e in ragione di
queste situazioni. La legge contempla tre distinte categorie di soggetti o meglio di situazioni soggettive in cui versano o si richiede che versino i soggetti passivi del delitto di circonvenzione di persone incapaci: i minori, gli infermi e i deficienti psichici.
Poiché le condizioni psichiche di queste persone – tutte qualificate da una minorata difesa
psicologica di fronte all’opera induttiva dell’agente – interagiscono con l’abuso, tali persone
prima ancora di assumere le vesti di soggetti passivi del reato assumono le vesti di soggetti
passivi dell’azione: i soggetti in questione, infatti, divenuti strumenti dell’agente, partecipano al fatto in cui si concreta il reato poiché pongono in essere un atto giuridico.
Si è già accennato al fatto che soggetti passivi del delitto di circonvenzione possono essere i
minori, gli interdetti e gli inabilitati e tutti coloro che si trovano in una situazione di fatto qualificabile come “stato di infermità o di deficienza psichica”. A ciò segue come inevitabile corollario l’accertamento specifico delle condizioni psichiche del soggetto al momento del compimento dell’atto. Deve trattarsi, conformemente ai principi che presiedono l’ordinamento penale, di un accertamento di fatto. È corretto pertanto sostenere che detto stato di fatto va provato anche in relazione ai minori e agli altri incapaci per dichiarazione giudiziale. Il dato storico della minore età così come la dichiarazione giudiziale di interdizione o inabilitazione,
dunque, non esonerano, quando si versi in tema di circonvenzione, dall’accertamento del concreto rapporto tra la incapacità del soggetto e l’atto fattogli compiere. Si esprime il medesimo
concetto, adottando una terminologia civilistica, quando esattamente si afferma che i predetti elementi storici costituiscono presunzioni semplici, come tali suscettibili di prova contraria.
In sostanza si può affermare che viene in rilevo a causa di aspetti di personalità, condizioni personali, sociali o culturali il concetto di succubanza di una persona rispetto a un’altra. Succubanza insufficiente comunque ai fini dell’integrazione del delitto che ci occupa se non accompagnata dalla consapevolezza di essa in capo al soggetto attivo e all’abuso che questi ne fa.
L’induzione e l’abuso
I due requisiti – l’induzione e l’abuso – sono per l’integrazione della fattispecie strettamente collegati e devono sussistere contestualmente.
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Y L’induzione
Indurre significa influire – mediante un’apprezzabile attività di persuasione, di suggestione,
di pressione morale – sul processo di formazione della volontà di altra persona che viene condotta in direzione del fine avuto di mira dall’agente. L’induzione non soltanto può far insorgere nel soggetto ricevente una decisione ma può anche rafforzare una decisione già presa.
Secondo la giurisprudenza, l’induzione si deve concretare in un’apprezzabile attività di
suggestione, pressione morale o persuasione, finalizzata a determinare la volontà minorata del soggetto passivo, dunque una spinta psicologica che non può ravvisarsi nella pura e semplice richiesta rivolta al soggetto passivo1.
Peraltro, sempre secondo la giurisprudenza di legittimità, per la prova dell’induzione non è
necessario che la dimostrazione dell’induzione del soggetto passivo al compimento dell’atto
a lui pregiudizievole sia data attraverso episodi specifici, ben potendo detta prova essere anche indiretta o indiziaria e presuntiva, cioè derivare da elementi gravi, precisi e concordanti,
come la natura degli atti compiuti e l’incontestabile pregiudizio da questi derivato2.
Da tali statuizioni si evince che per l’integrazione del reato è necessario che l’agente, facendo uso di mezzi idonei, induca la vittima a compiere l’atto. Tali mezzi devono concretarsi in un’attività più o meno apprezzabile, di coazione, di suggestione morale, di spinta, di persuasione, di determinazione, di un quid insomma che abbia l’idoneità e l’efficacia di indurre il soggetto passivo a compiere l’atto dannoso.
L’induzione è pertanto un’alterazione del processo di formazione dell’altrui volere mediante
l’abuso dello stato soggettivo dell’incapace. Importante a questo punto sottolineare come, a
differenza del reato di truffa, la condotta del circonventore non deve necessariamente tradursi
in una falsa esposizione della realtà, né deve comportare il verificarsi di un errore nel destinatario, ma è sufficiente che l’atto comportante effetti dannosi sia commesso a seguito e a causa dell’azione induttiva altrui ossia a seguito di una suggestione coltivata dal circonventore.
Y L’abuso
Si sostiene che l’abuso, nella fattispecie in esame rappresenti il mezzo che l’agente pone in
essere per indurre la vittima al compimento dell’atto; che tra l’abuso, consistente appunto
nel profittare delle suddette condizioni della vittima – e il compimento dell’atto dannoso
intercorre un rapporto di causalità che si manifesta attraverso l’induzione. Tra abuso e
compimento dell’atto pregiudizievole vi è dunque, a legare i due estremi della figura di reato (il mezzo e l’evento), l’azione induttiva, la quale può anche consistere in una sola azione: si ritiene pertanto applicabile l’istituto della continuazione quando l’agente, in esecuzione del medesimo disegno criminoso, abbia indotto lo stesso soggetto passivo a compiere successivamente più atti che importino effetti giuridici per lui o per altri dannosi.
Nonostante di solito l’abuso comporti una condotta positiva si osserva che questo può
anche consistere in una omissione che assume penale rilevanza quando esista un obbligo giuridico di spendere una condotta attiva.
1)
Cfr. Cass. pen., Sez. II, 7 ottobre 1999, n. 13308, R. Noventa, in Cass. pen., 2000, 2635; Cass. pen., Sez. III, 13 dicembre 1993,
Di Falco, in Cass. pen. 1995, 1194.
2) Cass. pen., Sez. VI, 29 ottobre 1996, n. 266.
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Alla luce di quanto detto è poi irrilevante che l’iniziativa a compiere l’atto importante effetti giuridici sia presa dal circonvenuto: il reato è ovviamente pienamente configurabile.
L’atto produttivo di effetti giuridici dannosi
Si è già chiarito che l’art. 643 c.p. prende in considerazione, diversamente dal Codice Zanardelli, non solo gli atti scritti ma anche dichiarazioni verbali e atti materiali; come pure
non solo gli atti positivi di dare o facere ma anche quelli negativi di non facere (ad esempio
non esigere il pagamento di un credito).
Ci si è chiesti e, lo si vedrà meglio nella sezione relativa alla dottrina, se l’atto che importi
un qualsiasi pregiudizio debba intendersi quello dal quale derivi un pregiudizio di natura patrimoniale o se sia sufficiente un pregiudizio di natura morale.
La questione è molto dibattuta e non vi è unità di vedute: sembra però che il tenore letterale della norma tenda ad abbracciare anche istituti che non hanno contenuto patrimoniale in
senso stretto quali il matrimonio o il riconoscimento del figlio naturale ma proprio in quanto importano effetti giuridici (patrimoniali) dannosi per il minorato o per altri.
Così, giacché l’art. 643 c.p. individua gli atti giuridicamente rilevanti in funzione della dannosità degli effetti – sì che l’atto in sé ben può non avere natura patrimoniale – assumono la
veste di atti integranti la circonvenzione gli atti di adozione, affiliazione, legittimazione di figlio naturale e l’atto di matrimonio: dovendosi senz’altro riconoscere a tali atti la potenzialità o l’idoneità a generare effetti giuridici a carico del soggetto passivo o di terzi, poiché gli
effetti dannosi possono incidere sulle aspettative patrimoniali o sul patrimonio del destinatario della condotta di induzione o su quelle del terzo.
Poiché gli effetti si riverberino sul terzo occorre che il soggetto passivo abbia la titolarità di
compiere l’atto suscettivo di pregiudizio per il terzo mediante atti di disposizione relativi al
patrimonio proprio o di detto terzo (come ad esempio il riconoscimento di figlio naturale all’interno di testamento, per i figli legittimi dell’incapace).
Il profitto
Il profitto in senso generale viene individuato non solo in un vantaggio economico ma anche
in qualunque utilità materiale o morale che l’agente intenda perseguire.
Il profitto è connaturato nel reato in quanto il reato è a dolo specifico. L’agente pertanto, oltre a rappresentarsi tutti gli aspetti relativi alla tipicità del fatto (sia le condizioni personali
del soggetto passivo sia il fatto che tali condizioni siano da lui strumentalizzate al fine di indurlo al compimento dell’atto) deve altresì rappresentarsi intenzionalmente un ulteriore elemento: deve agire per procurare a sé o ad altri un profitto.
LA GIURISPRUDENZA
Gli orientamenti delle Corti italiane hanno non poco contribuito a dare nitidezza alla figura della
circonvenzione di incapace. Gli attuali orientamenti non registrano particolari divergenze (se non
qualche pronuncia in materia di natura del profitto) in merito all’interpretazione dell’art. 643 c.p.
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I problemi di prova
Poiché il reato pone non pochi problemi in tema di prova sia per quanto riguarda l’accertamento dell’incapacità, sia per quanto riguarda l’induzione, la giurisprudenza si è premurata
di descrivere la situazione in cui versa il soggetto passivo e gli elementi che debbono essere
considerati per descrivere la condotta.
Il profitto
In giurisprudenza le pronunce più importanti ritengono che il profitto debba rivestire il carattere dell’ingiustizia e che non debba avere necessariamente contenuto patrimoniale, in
realtà il dato letterale dell’articolo e la migliore interpretazione, unitamente a qualche pronuncia di merito, fa invece propendere per l’affermazione che la ritenuta o pretesa giustizia
del profitto non escluda l’elemento soggettivo del reato: il reato si consuma anche se l’agente sia convinto di realizzare una propria pretesa obiettivamente legittima.
PROVA DELL’INDUZIONE E ABUSO
Cassazione pen., Sez. I, 31 marzo 2005, n. 16575
In tema di circonvenzione di persone incapaci, ai fini della sussistenza dell’elemento dell’induzione debbono essere presi in considerazione non solo le condotte tenute dall’imputato al momento della commissione di atti pregiudizievoli, ma anche tutto ciò che
è accaduto successivamente in quanto indice rivelatore di un antecedente minorata capacità psichica della persona offesa, e inoltre la valutazione dei risultati degli atti di disposizione patrimoniale compiuti che possono dimostrare indizi sul perpetramento di
una induzione in termini di rafforzamento di una decisione in itinere. (Ced Cassazione 2005, RV 231380)
Corte d’Appello di Milano, Sez. IV, 23 agosto 2004, pres. est. Ichino
Per la configurabilità del reato di circonvenzione di incapace, non occorre una vera e propria malattia mentale che scofini in uno
stato patologico, ma è sufficiente una menomazione delle facoltà intellettive e volitive, tale da rendere possibili la suggestione del
minorato da parte di altri. Il Legislatore ha inteso tutelare non tanto le persone parzialmente o totalmente incapaci, quanto quei
soggetti che, a cagione della loro età o dello stato di infermità che li rendono particolarmente assoggettabili alle pressioni, agli
stimoli e agli impulsi che altri esercitino su di loro, siano facilmente determinabili e coscientemente indotti al compimento di atti
pregiudizievoli. È dunque sufficiente che la persona offesa versi in uno stato di minorazione della sfera intellettiva e di indebolimento della capacità volitiva, tale da privarla del normale discernimento e del potere critico, così da compiere atti che una persona di media capacità critica non si sarebbe determinata a fare3.
Cassazione pen., Sez. VI, 29 ottobre 1996, n. 266
In tema di circonvenzione di incapace, la prova dell’induzione non deve necessariamente essere raggiunta attraverso episodi specifici ben potendo la stessa anche essere indiretta, indiziaria e presunta, cioè risultare da elementi gravi, precisi, concordanti come la natura degli atti compiuti e l’incontestabile pregiudizio da essi derivato. (Cass. pen., 1997, 3009)
Cassazione pen., Sez. II, 4 maggio 1994, n. 1773
Nell’ipotesi del delitto di circonvenzione di persone incapaci la mancanza di prova diretta della sussistenza di specifici atti di induzione può essere superata dall’acquisizione di prova indiretta che possa trarsi dalla stessa natura e struttura degli atti che, sin
dal momento in cui vengono compiuti, prefigurino unilaterali effetti pregiudizievoli nei confronti di una sola delle parti. Affinché da
un atto transattivo possa desumersi siffatto elemento probatorio d’accusa non è sufficiente una mera sproporzione tra le reciproche concessioni, bensì è necessario che una delle parti sia stata indotta a riconoscere l’altrui pretesa, nonostante fosse temeraria, o manifestamente infondata o, comunque, genetica di esclusivo pregiudizio nei suoi confronti.
3)
Cass. 7 giugno 2005, pres. Sirena, rel. Tavassi ha rigettato il ricorso e confermato i principi di cui alla massima, seguendo peraltro un orientamento di legittimità consolidato.
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DOLO SPECIFICO E PROFITTO
Tribunale di Imperia 28 febbraio 2005
Per la punibilità del delitto di circonvenzione di persona incapace l’art. 643 c.p. non richiede l’ingiustizia del profitto ma sanziona
qualunque comportamento tenuto da chi, avvalendosi dell’altrui inferiorità, ne tragga profitto, soprattutto in considerazione della
necessità di garantire adeguatamente il patrimonio e le ragioni di coloro che si trovano in determinate situazioni e che, diversamente, non sarebbero tutelati.
Cassazione pen., Sez. III, 1° dicembre 2004, n. 48537
A fini della configurabilità del delitto di circonvenzione di persona incapace, di cui all’art. 643 c.p., è necessario il dolo specifico
di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto di carattere non necessariamente patrimoniale, ed è sufficiente che si ingeneri un
pericolo di pregiudizio per il soggetto passivo, atteso che trattasi di reato di pericolo. (Cass. pen., 2006, 3, 955)
DIRITTO DI PROPORRE QUERELA
Cassazione pen., Sez. II, 3 marzo 1983
In tema di circonvenzione di persona incapace, soggetto passivo, e quindi titolare del diritto di querela, è soltanto la persona circonvenuta, e non il terzo che eventualmente subisca un danno per effetto dell’atto posto in essere dall’incapace. Pertanto, esclusa la punibilità dell’imputato in relazione al fatto compiuto in danno di un congiunto, ai sensi dell’art. 649, comma 1, n. 2, c.p.,
l’imputato stesso non è perseguibile per il medesimo fatto riguardato nel suo aspetto dannoso nei confronti di altro congiunto
(nella specie fratello non convivente) che, quale danneggiato dal reato, resta unicamente legittimato all’azione civile. (Cass. pen.,
1984, II, 416)
LA DOTTRINA
Proponibilità delle querela
Partendo proprio dall’ultimo tema analizzato ovvero la proponibilità della querela pare opportuno segnalare che parte importante della dottrina ritiene di dover contrastare l’opinione troppo aderente al Codice della maggioritaria giurisprudenza e sostenere che anche il terzo danneggiato è soggetto passivo del delitto di circonvenzione. Il ragionamento a conferma
di questa tesi è così articolato: poiché è pacifico che l’effetto dannoso possa riguardare tanto la persona incapace quanto una persona diversa non si può ammettere che l’effetto dannoso venga espunto dalla fattispecie e relegato all’ambito civilistico. In particolare questa
dottrina ha il merito di rendere operativa la norma anche in ipotesi non infrequenti nella
realtà di captazione di disposizioni di ultima volontà.
Posto che sin dalla metà del secolo scorso è pacifico che ha diritto a proporre querela e costituirsi
parte civile se la persona offesa è deceduta, chi ha subito un danno diretto ed effettivo cioè un danno di cui il reato sia stato causa immediata e diretta e anche chi rivesta la qualità di erede, e che in
alcuni sporadici casi vi sono state delle aperture, anche giurisprudenziali4, questa dottrina si segnala per cogliere in particolare la distinzione già riportata tra soggetto passivo dell’azione e del
4) La fattispecie riguarda Cass. 17 maggio 1954, Di Santolo, che ha ritenuto che i figli dell’incapace, i quali, pur non avendo in via at-
tuale diritti sul patrimonio dello stesso, siano, ciò nonostante, incorsi in pericolo di danno per l’atto pregiudizievole posto in essere
dal loro ascendente a cagione di induzione di altro figlio. Questi approfittando della procura ottenuta dal padre in stato di deficienza
psichica, aveva venduto contro la volontà del mandante i quattro quinti del suo patrimonio senza renderne conto, con conseguente
danno per i fratelli che avevano proposto querela. La Corte in questo caso aveva affermato che il fratello non convivente, danneggiato dal reato di circonvenzione, può proporre querela ai sensi dell’art. 649, co. 2, c.p. contro l’autore del fatto.
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reato: le due figure non necessariamente coincidono e quando il terzo danneggiato assume la veste di soggetto passivo del reato ne consegue la legittimazione dello stesso a proporre la querela.
Natura del profitto
La natura del profitto è stata ampiamente dibattuta in dottrina: da una parte se ne afferma la
necessaria patrimonialità dando rilevanza all’appartenenza del reato di circonvenzione alle frodi patrimoniali; come già detto l’opinione sembra preferibile sia perché il profitto è speculare
alla produzione degli effetti giuridici dannosi procurati al soggetto passivo sia perché se il Legislatore del ’30 avesse voluto dare tutela indiretta e marginale al patrimonio non avrebbe ricompresso nell’articolo la dannosità che dall’atto dell’incapace può derivare alla sfera giuridica altrui. In realtà l’opinione più moderna indica che5 «non si possa derogare al significato ampio che il Codice attribuisce, nei vari reati contro il patrimonio, al termine in questione».
L’altra questione è quella relativa all’ingiustizia del profitto, aggettivo che non rientra nel dato letterale della norma in questione e invece si rinviene in altre fattispecie di reati contro il patrimonio. Alcuni autori sostengono che il profitto ottenuto mediante induzione sarebbe ingiusto per definizione, scaturendo l’ingiustizia dal carattere fraudolento dell’abuso. Sembra preferibile l’opinione secondo cui se la norma richiedesse l’ingiustizia del profitto non sarebbe punibile colui che
per ottenere la soddisfazione di un suo diritto o di una sua aspettativa, anche solo indirettamente tutelata dall’ordinamento, strumentalizzi le minorate o fragili condizioni del soggetto passivo.
La configurabilità del tentativo
In merito alla configurabilità del tentativo del reato di cui all’art. 643 c.p. osta in via generale
la qualificazione del delitto de quo nei reati di pericolo. Da una parte la dottrina esclude che la
circonvenzione, rientrando nei reati di pericolo, possa ammettere il tentativo, in quanto, prima
della consumazione vi sarebbe esclusivamente una situazione qualificabile in termini di mera
possibilità di un danno, e quindi non vi potrebbe essere un tentativo punibile.
D’altra parte invece sembra più aderente alla realtà quella tesi che sottolinea come dalla fattispecie in esame emerga un evento naturalistico – l’atto dell’incapace soggetto a induzione
– connesso casualmente alla condotta dell’agente. Prescindendo pertanto dalla categoria dei
reati di pericolo è la configurazione stessa a condurre a ritenere ammissibile il tentativo: proprio in considerazione del fatto che il delitto ex art. 643 c.p. è reato con evento naturalistico ben può la condotta realizzarsi solo parzialmente.
Per ulteriori approfondimenti dottrinali
– DAWAN, La circonvenzione di persone incapaci, Cedam, 2003;
– FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte speciale, i delitti contro il patrimonio, Zanichelli, 2002;
– MANTOVANI, Diritto penale, Parte speciale, delitti contro il patrimonio, II, Cedam, 2002;
– PECORELLA, Il profitto ingiusto nel diritto penale, Milano, 1966;
– PEDRAZZI, «Sul soggetto passivo della circonvenzione di incapace», in Riv. it. dir. e proc. pen., 1977.
5)
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RONCO, voce Circonvenzione, Enciclopedia Giuridica, vol. VI, Roma, 1988.
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LE CONCLUSIONI
Con riferimento al reato di cui all’art. 643 c.p. la condotta di induzione deve essere posta in
essere dall’agente di coazione, pressione morale, di suggestione, di spinta, di persuasione,
di determinazione di un quid che abbia l’idoneità e l’efficacia di indurre il soggetto passivo
a realizzare l’atto dannoso. L’abuso deve concretarsi in una qualsiasi azione fraudolenta, che
sia però in diretto e necessario rapporto con l’incapacità o lo stato di mente del soggetto passivo. In sostanza nell’art. 643 l’abuso sta a significare ogni condotta di mendacio, anche non
caratterizzata dalla presenza delle note modali della truffa, ma comunque casualmente idonea a provocare l’avvio della serie causale descritta nell’articolo. È evidente lo strettissimo
legame tra induzione e abuso: infatti si dice che nella circonvenzione non tanto l’agente utilizza l’errore dell’incapace quanto si serve della persona nella sua interezza.
Il profitto secondo la parte maggioritaria di dottrina e giurisprudenza non deve essere necessariamente patrimoniale, ben potendo consistere anche in altra utilità, ma appare preferibile la tesi che lo inquadra come patrimoniale non da ultimo dando rilevanza alla collocazione del reato all’interno del nostro Codice tra le frodi patrimoniali.
LA PRATICA
Si riporta di seguito un caso esplicativo delle tematiche sopra esposte.
IL CASO CONCRETO
Tizio, di professione avvocato, è indagato in concorso con altri professionisti e con Caio, per avere, abusando dello stato di incapacità naturale di Mevia, al fine di conseguire un ingiusto profitto, indotto la stessa in cambio di euro <…> a sottoscrivere un
accordo transattivo con il quale rinunciava a proporre ricorso per cassazione contro il decreto della Corte d’Appello che accoglieva il ricorso di Caio contro la dichiarazione giudiziale di paternità emessa dal Tribunale e proposta da Mevia che, con tale atto, rinunciava alla paternità.
Il caso sopra esposto offre diversi spunti di riflessione. Per completezza occorre sin d’ora
sottolineare che la somma di cui alla transazione non era alta ma poteva essere ritenuta
decorosa sia in quanto Caio era malato e prossimo a un intervento chirurgico cui avrebbe
potuto non sopravvivere (con conseguente perdita di qualsiasi diritto da parte di Mevia),
e che l’incapacità di Mevia era fuori discussione, visibile anche a terzi estranei ma comunque conosciuta e nota a tutte le parti della vicenda. Si aggiunga che Caio aveva una
propria famiglia legittima. In querela la madre della minore, in qualità di tutore di Mevia
sosteneva che i difensori avevano indotto la figlia a sottoscrivere una transazione assolutamente sfavorevole tenendo all’oscuro sia lei medesima che Mevia delle trattative intercorse tra le parti per addivenire alla transazione e che quando lei si era opposta alla sottoscrizione i professionisti l’avevano convinta a non avere nessuna possibilità di poter ottenere quanto richiesto.
I difensori del legale nelle memorie difensive e in sede di discussione hanno ritenuto di affrontare la materia sia prospettando al Giudice l’incertezza della paternità, sempre negata da
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Caio, facendo leva su quella giurisprudenza che considera neutro il rifiuto all’esame del
DNA, sia l’incertezza dell’azione di per se stessa, posto che la Corte d’Appello aveva accolto il reclamo di Caio. Inoltre hanno altresì sottolineato che non era possibile configurare il
dolo specifico in capo al proprio cliente in quanto lo stesso non aveva raggiunto né avrebbe
mai potuto ottenere alcun profitto posto che aveva operato in favore di Mevia a titolo gratuito, non ricevendo compenso alcuno.
Anche dal punto di vista dell’induzione secondo i legali della difesa non vi erano prove in
quanto i rapporti tutti documentati con allegati alle memorie, erano intercorsi con la madre
di Mevia, anche se l’atto transattivo era stato effettivamente sottoscritto dall’incapace, e
nemmeno con presunzioni era possibile provare una qualche attività induttiva.
I legali si soffermavano anche sul pregiudizio ritenendolo non sussistente a fronte della complessità e dell’incertezza della causa di riconoscimento di paternità e delle condizioni precarie di salute del presunto padre.
Il giudice con sentenza ex art. 425 c.p.p. emetteva sentenza di non doversi procedere nei confronti degli imputati per insussistenza del fatto.
In motivazione, dopo un breve excursus di tutta la vicenda, il giudice immediatamente ha
ritenuto di dover considerare se vi era stata o meno induzione a sottoscrivere l’atto transattivo con conseguente abuso dell’incapace. Il Giudice ha ritenuto che pur essendo stata
sottoscritta la transazione dall’incapace in realtà i rapporti con i legali erano stati intrattenuti dalla madre dell’incapace, che aveva seguito tutta la vicenda e che aveva contezza
di ogni cosa, oltre a essere presente al momento della sottoscrizione della transazione da
parte della figlia. Tale argomento è stato fondamentale per escludere il reato ipotizzato,
ma ciò non di meno il Giudice ha altresì scritto in motivazione che mancava anche il dolo specifico in capo al professionista in quanto non aveva ricevuto alcun profitto dall’atto
di transazione.
Ha infine sottolineato il giudice che anche l’atto in sé non poteva dirsi automaticamente dannoso sia per l’incertezza del giudizio di accertamento della paternità, sia per le condizioni di
salute di Caio e hanno dunque optato per un vantaggio immediato dell’incapace.
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