Filosofia Tra gioco e irrazionalismo, due anime della contemporaneità di Tommaso Urselli Il teatro è gioco nell’accezione più alta del termine. Il suo aspetto ludico è rintracciabile fin dal significato ed etimologia di alcuni vocaboli: in latino i Ludi erano sia i giochi dei bambini che un insieme di rappresentazioni equestri, gladiatorie, teatrali e a carattere religioso; in inglese il verbo “to play” sta sia per giocare che per recitare. Ed è evidente tutta la componente ludica che attraversa la storia del teatro, dalla commedia antica del greco Aristofane, all’italiana commedia dell’Arte del Cinquecento, fino alle opere del nostro contemporaneo Dario Fo che nel 1997 ha ricevuto il Premio Nobel. Attraverso il gioco e il lazzo, che a volte può assumere tinte grottesche e irriverenti, è spesso possibile comunicare verità che, trasmesse con altre modalità, potrebbero risultare imbarazzanti e fastidiose: come pubblico siamo certo più ben disposti ad accettare delle provocazioni se esse vengono poste in modo da suscitare la nostra risata. Gli artisti, non solo in ambito teatrale, l’hanno spesso tenuto presente, introducendo elementi ludici nel loro linguaggio. Un esempio ne è il Dadaismo, corrente artistica che nasce in Svizzera nel primo novecento durante la Prima Guerra Mondiale e coinvolge diverse arti (pittura, grafica, teatro, fotografia): a cominciare dal nome Dada - che suscita echi infantili ma non vuol dire nulla di preciso - il movimento utilizzava il gusto del gioco anticonvenzionale, assurdo e spesso provocatorio per manifestare il proprio dissenso contro la guerra. Un precursore di questa corrente, come anche del Surrealismo e di quello che verrà definito come Teatro dell’Assurdo, è l’autore Alfred Jarry che nel 1896 compone l’opera Ubu re (cui seguirà tutto un ciclo avente come protagonista l’omonimo personaggio). Ubu, che nell’opera incarna la figura di un re in maniera alquanto insolita, è ispirato probabilmente alla caricatura di un professore di fisica della scuola frequentata dall’autore. PADRE UBU Prima di tutto riformerò la giustizia, poi ci occuperemo delle finanze. MAGISTRATI Noi ci opponiamo ad ogni cambiamento. PADRE UBU Merdre. Per prima cosa i magistrati non saranno più pagati. MAGISTRATI Di che cosa vivremo? Siamo poveri, noi. PADRE UBU Intascherete le multe che farete pagare i beni dei condannati a morte. UN MAGISTRATO Orrore. SECONDO Infamia. TERZO Scandalo. Questa pagina può essere fotocopiata esclusivamente per uso didattico - © Loescher Editore www.loescher.it/filosofiascienzeumane QUARTO Vergogna. TUTTI Ci rifiutiamo di giudicare in simili condizioni. PADRE UBU Nella botola i magistrati! È evidente fin da queste poche battute la vena grottesca che scorre lungo tutto il lavoro, sia a livello di costruzione linguistica – un esempio ne è il neologismo “merdre” con quella erre in più – che per la costruzione del personaggio, di pregnante attualità. Non è dunque un caso che il testo sia stato e continui a essere rappresentato nel teatro contemporaneo, come la bellissima rilettura messa in scena nel 2007 dal Teatro delle Albe di Ravenna, in cui molti dei protagonisti erano attori adolescenti. Nei primi anni del Novecento la corrente artistico-estetica detta “Dadaismo” si faceva portavoce di un diffuso senso di malessere nei confronti di quella civiltà borghese cosiddetta “razionale” e che pure aveva sconvolto il mondo lasciandolo nelle macerie della Prima guerra mondiale. Il nonsense, l’anomalia, l’assurdo, l’irrazionale facevano capolino nel mondo artistico divenendo l’emblema di una realtà non più riconducibile a lucide categorie, razionali e filosoficamente fondate, viste le conseguenze cui aveva portato la fede cieca in quei valori. Il mondo, ridivenuto caos dal cosmo che era, non pareva fondato più su nulla se non sulla chiara coscienza dell’impossibilità di trovare in esso un senso vero e definitivo. In filosofia ogni corrente che pretende di negare al pensiero ogni possibilità non solo di conoscenza del reale, ma anche di rinvenire nel reale un fondamento razionale, si dice “irrazionalismo”: tale irrazionalismo, poiché arriva a toccare i fondamenti stessi del reale, si dice “ontologico”. Alle radici dell’irrazionalismo ontologico vi sono varie filosofie, tra qui quella di Schopenhauer, feroce oppositore della teoria dell’idealismo razionalistico di Hegel. Schopenhauer nella prima metà dell’Ottocento rinveniva in una Volontà cieca e irrazionale l’essenza dell’uomo, dominato da tensioni che mai si sarebbero sopite (se non attraverso un impegnativo percorso ascetico). Più di Schopenhauer, però, sarà la filosofia di Nietzsche a essere la base degli irrazionalismi contemporanei. Il suo annuncio che “Dio è morto” (metafora della fine di ogni possibilità di cosmo nel mondo), e affermazioni perentorie come quella contenuta in una delle sue opere più mature (Umano, troppo umano, del 1878), in cui dice “L’irrazionalità di qualcosa non è affatto una ragione contro la sua esistenza, ma piuttosto una condizione di questa”, pone chiaramente il nocciolo di base degli assunti dell’irrazionalismo ontologico: l’irrazionalità, quindi l’assenza della possibilità di trovare una struttura razionale nell’evolvere del mondo, non depone contro l’esistenza di qualcosa (secondo Hegel ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale, identificando quindi sempre e in modo assoluto la struttura razionale del reale con la possibilità di conoscere la stessa), ma ne è “la condizione”: ogni cosa, in quanto esistente, è di per sé, da subito, irrazionale. L’irrazionalità è la carta d’identità, il DNA di ogni evento del mondo. 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