PIER DAVIDE GUENZI Un ethos in cambiamento. Per una nuova etica civile: scenari di fine e inizio secolo nello spazio ecclesiale e teologico «La stretta società fa che ciascuno fa conto degli uomini e desidera farsi stimare […] e li considera per necessarii alla propria felicità, sì quanto ad altri rispetti, sì quanto a questa soddisfazione del suo amor proprio che ciascuno in particolare attende desidera e cerca da essi, da’ quali dipende, e non si può ricever d’altronde. […] Quel poco, dico, che v’ha in Italia di conversazione, essendo non altro che una pura e continua guerra senza tregua, senza trattati, e senza speranza di quartiere, benché questa guerra sia di parole e di modi e sopra cose di niuna sostanza, pure è manifesto quanto ella debba disunire e alienare gli animi di ciascuno da ciascuno, sempre offesi nel loro amor proprio, e quanto per conseguenza sia pestifera ai costumi divenendo come un esercizio per una parte, e per l’altra uno sprone dell’offendere altrui e della nimicizia verso gli altri, nelle quali cose precisamente consiste il male morale e la perversità de’ costumi e la malvagità morale delle azioni e de’ caratteri».1 Non solo in questi tempi gli intellettuali riflettono sull’importanza di un’etica civile, che possa racchiudere ideali e pratiche condivise, attinte ad una comune radice culturale, non concepita come astrazione dalla realtà o estemporanea divagazione del pensiero, ma che sia radicata nel costume reale. È questa la stessa aspirazione che anima il ventiseienne Giacomo Leopardi, mentre attende alla composizione delle sue Operette morali, e nel 1824 redige il suo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, dal quale sono tratte le affermazioni che hanno aperto questo contributo. Per il genio di Recanati, che qui non veste né i panni del poeta, né quelli del moralista, ma dell’antropologo e dell’etnologo, la nazione italiana, a differenza di quella tedesca, inglese, francese, non presenta una società «stretta», compatta e coesa grazie alla stima reciproca dei cittadini; risulta carente di un autentico spirito di confronto, non fazioso, ma attuato attraverso la pratica dell’ascolto e della condivisione. Piuttosto domina nel dibattito pubblico una «guerra senza tregua», in nome di interessi individuali, che finisce per disunire. Ugualmente è rilevata all’interno del Discorso leopardiano l’assenza di un ethos in grado di dare unità alla nazione italiana preunitaria. Il cinismo attraversa le fasce alte, come quelle più umili della popolazione, con scarso rispetto per sé e per gli altri, con un pericoloso abbassamento della soglia di eticità nel giudicare 1 G. LEOPARDI, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, in Opere, tomo I, a cura di S. Solmi, Milano – Napoli, Ricciardi, nell’edizione ridotta: Letteratura e vita civile. I classici del pensiero italiano, Roma, Treccani, 2006, pp. 621-622 e 636. Sull’attualità del testo cfr. E. FERRERO, Leopardi che scostumati gli italiani, in “La Stampa”, 18 marzo 2011, p. 44. Come ha notato Ernesto Ferrero, riportando l’attenzione sull’operazione etnografica di Leopardi, «dobbiamo fare un certo sforzo per convincerci che l’onniveggente etnologo di Recanati sta scrivendo nel 1824». 1 comportamenti difformi e trasgressioni come negativi, anzi piuttosto mostrando per essi indulgenza, forse anche segreta ammirazione e invidia. Non è certamente impresa facile, né consigliabile, condensare in un breve intervento, una compiuta analisi del bisogno di una rinnovata etica civile per come è maturata in questi due ultimi decenni, mantenendo quale angolo prospettico la cultura intra-ecclesiale italiana o in senso più ristretto la riflessione teologica. Più modestamente è possibile disegnare qualche scenario per delineare almeno alcune prospettive di fondo, prendendo atto dei principali cambiamenti sociali, particolarmente avvertiti in questo ultimo ventennio e sinteticamente censiti nella “complessificazione sociale” e nella “soggettivizzazione degli stili di vita”.2 1. Complessificazione della società e pluralità di sistemi etici Il difetto di ethos civile è stato più volte denunciato. Con esso si intende suggerire che «stenta a realizzarsi in qualsiasi forma la oggettivazione sociale delle forme della vita buona», quella meritevole non solo dell’apprezzamento di tutti, ma della dedizione di ciascuno.3 A rendere arduo il compito, oltre alle resistenze di sempre, come quelle abbozzate da Giacomo Leopardi, è indubbiamente il consolidarsi del profilo sociale della complessità. Emersa dal riflusso di passati decenni, quelli degli anni ’60-70 del XX secolo, attraversati da forti spinte ideologiche e dialettiche, la società complessa è contrassegnata, come noto, da una frantumazione del tessuto sociale con l’emergenza di dispersi gruppi che ambiscono a precise garanzie e tutele nel perseguimento dei propri interessi, ma in cui non sembra manifestarsi con chiarezza il contributo costrutttivo al bene collettivo. La presa d’atto della pluralità dei sistemi sociali non di rado si coniuga con la percezione di una certa autoreferenzialità di ciascuno di essi. La più vistosa conseguenza in ambito etico è una comprensione solo marginale (o forse residuale) dell’idea dell’etica come scienza del bene umano complessivo e l’emergere di etiche settoriali, con logiche discorsive ugualmente auto-referenziali, orientate prevalentemente in chiave pragmatica e impegnate a definire, attraverso procedure formali, regole strategiche di tipo immediatamente tecnico-operativo. Ciò può essere inevitabile 2 La categoria “etica civile” è giocata, nel dibattito odierno, non solo in chiave costruttiva e dialogica, ma anche come via alternativa ad un modello ritenuto fortemente condizionato dalla prospettiva confessionale. Sul versante di un pensiero che si intende rigorosamente laico cfr. la rivista “LucidaMente – Risita di cultura ed etica civile”. Inoltre andrebbe discusso lo stilema per come compreso, forse un po’ superficialmente da Marciano Vidal. Secondo il moralista cattolico spagnolo i tre presupposti dell’etica civile sono: 1. la “non confessionalità della vita sociale” (cioè la difficile accezione di “laicità” sospesa prima della sua precipitazione ideologica o della sua apologetica contestazione quale “laicismo”); 2. il “pluralismo dei progetti umani” (come tratto caratterizzante la complessità sociale); 3. la “possibilità teorica e pratica dell’etica laica”. Tuttavia in una forma compresa non come rifiuto della religione, «bensì dall’accettazione della razionalità condivisa e dal rifiuto dell’intransigenza esclusivista» (M. VIDAL, Etica civile e società democratica, Torino, S.E.I., 1992 [ed. or. 1988], p. 7, ma cfr. pp. 5-7) Cfr. G. ACOCELLA, Etica sociale, Napoli, Guida, 2003. 3 G. ANGELINI, La morale. Il silenzio della filosofia (e della teologia), in «Teologia», 24 (1999), p. 372, ma cfr. l’intero contributo alle pp. 369-375). Anche la successiva riflessione sulla morale “provvisoria” di Cartesio ha come impulso iniziale questo e altri contributi di Angelini. 2 come non ha mancato di notare lucidamente il teologo-morale Klaus Demmer, poiché «quanto più è complessa la struttura di una singola società tanto più spezzata la prassi morale delle persone». Pertanto ciascuno valuta e agisce appartenendo simultaneamente a piani diversi della società (pubblico-privato, religioso confessionale, civile, politico, economico), adattandosi alle logiche differenti che sono proprie di ciascun sistema sociale, rendendo esistenzialmente arduo il coordinamento sintattico e sensatamente complessivo del proprio agire. Inoltre, accanto ai molteplici segmenti delle etiche applicate, la complessità sociale, è chiamata ad affrontare come presupposto ad una morale condivisa, l’impegno dialogico tra i differenti modelli etici, alla luce di quella caratteristica pluralizzazione del pensiero da integrare, anche per gli inevitabili aspetti di conflittualità, all’interno del confronto sociale. La complessità e l’arcipelago dei sistemi sociali sembra così introdurre come unica via possibile alla morale quella della normazione tecnologicoburocratica, con il rischio di produrre prescrizioni di comportamenti i quali, più che radicati in un sistema di intime convizioni da parte degli attori morali, appaiono piuttosto posti di fronte alla loro coscienza e irrelati da più convincenti percorsi fondativi. Anzi, presupponendo l’intangibilità stessa delle convinzioni individuali e private, si sanziona l’impossibilità di ancorare ad una fondazione unica e condivisibile il sistema della morale. La ricerca di accordi e procedure, più pensate sul modello della strategia politica del compromesso, che sulla deliberazione secondo prudenza e giustizia, espressione caratteristica dell’etica classica, sembra apparire la declinazione post-moderna di una figura morale ben nota già alle soglie della modernità. «La nascita dell’Io moderno – ha scritto Elena Pulcini – appare caratterizzata da una costitutiva ambivalenza […] L’individuo si scopre libero, autorizzato a inventare il proprio programma di vita, a esplorare una realtà senza confini su cui dirigere il proprio sguardo “curioso” e carico di aspettative ma allo stesso tempo avverte il proprio smarrimento e la propria debolezza di fronte alla crisi di ogni aprioristica certezza che non solo gli impone nuovi oneri, ma lo espone al caos inquietante di nuovi desideri, inclinazioni, passioni».4 Il dubbio mai revocato sulla reale entità del bene e del male, nelle pratiche sociali, come nell’etica individuale, porta a configurare la contemporanea aspirazione ad un’etica civile in una forma che può ricordare assai da vicino la morale cartesiana «par provision» (cfr. Discorso sul metodo, parte III). L’approccio alle norme di tradizione da parte dell’uomo critico, abituato al sistema logico e razionale della scienza, è quello di chi sospende la questione della ricerca della loro verità, bastando, per il momento, che esse siano accettate “come se” fossero vere. In ogni caso necessarie, per l’oggi, in assenza di più convincenti sistemi valoriali. Non diversamente anche Henri Bergson, già negli anni ’30 del Novecento faceva notare che «in mancanza di un riforma morale completa, bisognerà ricorrere a degli espedienti, 4 E. PULCINI, L’individuo senza passioni, Torino, Einaudi, 2001, p. 21. 3 sottomettersi a una “regolamentazione” sempre più invadente, aggirare uno ad uno gli ostacoli drizzati dalla nostra natura contro la nostra civilizzazione. Ma sia che si opti per i grandi mezzi, sia che si opti per i piccoli, una decisione si impone. L’umanità geme, è quasi schiacciata dal peso del progresso compiuto. Non sa abbastanza che il suo avvenire dipende da lei» (Le due fonti della morale e della religione, 1932, cap. IV, § 7). La provvisorietà della morale mostra come sia pragmaticamente irrinunciabile e urgente mantenere almeno una cornice di principi morali per contenere la complessità, un inquadramento precettistico per comprendere i fatti, non semplicemente limitandosi a descriverli e riprodurli, ma guidati dall’impegno per una seppur generica intuizione di “preservazione dell’umano”. Non diversamente possiamo leggere la nascita e l’iniziale impulso della stessa bioetica nel contesto americano degli anni ‘70 come “scienza della sopravvivenza” in cui includere al sapere della scienza alcuni criteri valoriali a tutela della vita umana per il presente e per il futuro. Così la “provvisorietà” può diventare la normalità o addirittura tout court la forma di quel meglio, attualmente disponibile alla riflessione umana, che possa fungere da contorno di riferimento desiderabile per un’etica civile. Il “come se fosse vero” della morale par provision di Cartesio, il quale era ugualmente figlio di una logica del discorso etico ben conosciuta dai teologi morali, cioè il sistema del probabilismo, può diventare per l’oggi più che il presupposto per una rinnovata opzione fondativa, come stava ancora davanti ancora a Bergson, piuttosto l’esito migliore (o minimale) che scaturisce dal confronto democratico tra prospettive morali irriducibilmente diverse. Anche quando, come nella nota proposta della Diskursethik di Jürgen Habermas, la ricerca del consenso attraverso la pratica dialogica sembra l’unica strada percorribile per definire, attraverso una via procedurale più che fondativa, è ancora il caso di ricordarlo, le necessarie regole morali che possano vantare un carattere di universalità per una società post-metafisica, nonostante essa non sia pensata in opposizione al particolarismo etico elaborato nei differenti contesti vitali della società pluralista, non può fare a meno di far emergere una empasse che si rivela come preziosa spia per l’ipotesi di un’etica civile. La specializzazione deontologica della morale riesce a dare ragione della “doverosità” dell’agire morale, ma appare debole in chiave motivazionale, cioè della “volontà di essere morali”.5 La conclusione sospensiva con cui si congeda il saggio habermasiano dedicato ai rischi della genetica liberale ne è una significativa attestazione, limitandosi a riconoscere, o forse, sforzandosi di voler riconoscere, nella società umana una residua e irriducibile riserva etica di 5 Su questo aspetto si appuntata la riserva critica radicale posta da Spaemann in senso generale alle morali contemporanee le quali non farebbero che trasferire su un piano sempre più elevato l’insanabile dualismo tra eudemonismo (attribuito alle “etiche di prima persona”) e universalismo (proprio delle “etiche di terza persona”). Un possibile fondamento al di là di tale stallo del pensiero, per Spaemann, può essere mostrato, ma non spiegato in quanto «la domanda “why to be moral?” non ammette risposta perché è già essa stessa una domanda immorale. Essa non si poggia su un fondamento ma, oltre ogni fondamento, lancia il suo messaggio nel vuoto: non è possibile esigere ragione dell’esigenza di una ragione» (R. SPAEMANN, Felicità e benevolenza, Milano, Vita e Pensiero, 1998, p. 7). 4 fronte al rischio del vuoto morale o di una semplice strategia dell’agire lasciata in balia alle proteiformi preferenze soggettive.6 Nonostante ciò, la riflessione di Habermas ha il merito di rintracciare almeno un indice minimale per un ethos civile dove in primo piano sia messa la salvaguardia della libertà di tutti gli attori implicati nella pratica sociale del dialogo, da articolare con la verità propria delle argomentazioni razionali della morale, la disponibilità all’ascolto dell’altro, l’esercizio riflessivo sulle forme di agire per garantire la tutela della soggettività umana, a fronte del suo riduzionismo strumentale, la costante critica a ogni forma riemergente di pensiero unico, potenzialmente totalitario.7 Non deve sembrare una divagazione rispetto al compito fissato l’indugio sulle tesi del filosofo francofortese, soprattutto se si considera l’importanza riservata alle sue argomentazioni nel dialogo da lui avuto nel 2004 con il teologo Joseph Ratzinger sui fondamenti pre-politici dello stato liberale a commento e verifica del cosiddetto Böckenförde-Diktum: «lo stato “libertario” [freiheitlich] secolarizzato vive di presupposti che non può garantire». Il dibattito tra i due prestigiosi intelllettuali sembra però smarcarsi dal limitato fuoco di interesse manifestato a suo tempo dal costituzionalista tedesco, il quale, se pure indendeva porre con consapevolezza i limiti del moderno Stato liberale, nei confronti proprio di quell’ethos cui ha portato linfa, accanto ad altre radici, il cristianesimo, d’altra parte si proponeva, all’interno del contesto tedesco degli anni ‘60, di stimolare i cristiani a comprendere «questo Stato, nella sua laicità, non più come qualcosa di estraneo e nemico della loro fede, bensì come l’opportunità della libertà, che è anche loro compito preservare e realizzare». 8 Piuttosto l’intento si definisce attorno ai percorsi di universalizzazione di alcuni contenuti etici ritenuti imprescindibili alla vita comune. In quel contesto Ratzinger riproponeva il valore in seno al cattolicesimo della “legge naturale”, nella sua duplice potenzialità di fondazione di un auspicabile universalismo, a partire dalla capacità euristica della ratio umana, ma anche nella sua possibilità di indicare un iniziale tracciato contenutistico sui beni umani oggetto di tutela e cura. Pur riconoscendo, in quella sede, che lo stumento della legge naturale appare nel contesto odierno “spuntato” per incidere adeguatamente sulle evidenze etiche condivise, l’intervento del prossimo 6 «Il fatto che noi dovremmo agire moralmente è cosa implicita alla struttura deontologica della morale in quanto tale. Ma perché mai dovremmo anche volere essere morali, nel momento in cui l’ingegneria genetica scalza silenziosamente la nostra identità come esseri di genere? […] Non varrebbe più la pena di vivere in una sorta di vuoto morale, in una forma-di-vita in cui nemmeno il cinismo morale sarebbe più immaginabile. In questo giudizio si esprime semplicemente l’impulso a preferire un’esistenza che sia degna dell’uomo rispetto alla freddezza di forme-di-vita impermeabili agli scrupoli morali» (HABERMAS, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Torino, Einaudi, 2002 p. 73). 7 Su questi aspetti cfr. P.D. GUENZI, Percorsi moralfilosofici di un’etica della vita. Sui sentieri di Jürgen Habermas ed Evandro Agazzi, in La casa della vita, a cura di R. Altobelli, S. Privitera, Cinisello Balsamo (Milano), San Paolo, 2006, pp. 143-218. 8 E.-W. BÖCKENFÖRDE, La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione, Brerscia, Morcelliana, 2006, p. 68 e 70. Lo studio fu pubblicato la prima volta nel 1967. Su questo aspetto cfr. P.D. GUENZI, Ricercare il bene comune. Prospettive teologico-morali per definire il contributo della comunità cristiana, in «Archivio teologico torinese», 14 (2008), pp. 423-452. 5 papa Benedetto XVI indicava un compito alla ricerca teologica. Quello di rinnovare il pensiero a partire da tale categoria, in grado di preservare la verità dell’humanum, con una spiccata tendenza alla possibilità di reciproca comprensione attorno ad un nucleo irrinunciabile di evidenze etiche, al di là del “politeismo dei valori”, secondo la fortunata formula di Max Weber, che contrassegna le moderne società evolute. Questo perché l’accettazione delle differenze non finisca per sanzionare semplicemente i confini insuperabili delle convinzioni personali, ma sia possibile un linguaggio comune in cui riconoscersi universalmente. Con l’appello a questo dato di tradizione si intendeva così rilanciare anche il ruolo della Chiesa quale autorità morale, con un suo peculiare contributo di pensiero per tracciare rotte all’interno dell’arcipelago della complessità e della frammentazione delle etiche. Risulta così posto il nodo fondativo anche per l’auspicato ethos civile, non per distillazione dai sedimenti dei differenti particolarismi morali per giungere ad un prodotto “purificato” che ambisca al requisito di universalità, ma attraverso una continua circolarità dei suoi possibili asserti normativi e contenuti etici attorno ad un asse di senso già disponibile a partire dalle risorse della tradizione, appunto a partire da un’operazione di ripulitura e rigenerazione della categoria di legge naturale. La proposta di ridare vigore alla tradizione della lex naturalis ha comportato un sobrio dibattito all’interno delle scuole teologiche, anche quelle presenti sullo scenario italiano, e ha riscontrato un punto di riferimento nel documento della Commissione Teologica Internazionale Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale del 2009. L’autorevole testo è consapevole della necessità di superare quello che è definito il modello “razionalista moderno” della legge naturale, come emerso nella seconda scolastica dal XVII secolo, soprattutto per quel tratto di essenzialismo e a-storicità con cui si definivano le caratteristiche antropologiche da cui dedurre normativamente, attraverso la ragione, le regole morali congruenti con l’essenza metafisica dell’uomo (cfr. CTI, 2009, n° 33). Conseguenza di tale modello è la separazione non solo dell’idea di natura da quella di cultura, ma anche l’occultamento del debito che la legge naturale viene ad avere nel pensiero cattolico da un orizzonte di riferimento di tipo teologico, quando è compresa come rigida proposta di regole perfettamente razionali e universalmente evidenti. Di una visione in grado di superare i limiti concettuali emersi nel pensiero cattolico moderno è custode la tradizione facente capo al pensiero di Tommaso d’Aquino, per il quale la caratterizzazione principale della legge naturale risulta essere la modalità tipicamente umana, attraverso la ragione, di partecipazione alla legge eterna, espressione superiore del governo di Dio sulla realtà, grazie alla quale, per il suo particolare statuto ontologico, l’uomo è reso partecipe della provvidenza divina, provvedendo a sé stesso e nella forma di responsabilità attiva nei confronti delle altre creature (cfr. Summa theologiae I-IIae, q. 91, art. 2). Va comunque riconosciuto che il teorema della legge naturale consente di 6 individuare alcuni tratti caratteristici della peculiare comprensione dell’essere umano i quali, più che organizzati in una forma di rigorosa sistematizzazione, sono piuttosto elementi indicatori e rivelatori di un compito che mantiene aperto il pensiero. A partire da essi risulta possibile delineare un senso positivo per un riconoscimento comune dell’umano. Tale operazione di significazione, tuttavia, non può dirsi se non attraverso forme culturali, anche se può rappresentare una grammatica e una sintassi elementare che si pone al di sotto di ogni cultura e permette di tracciare precise convergenze tra la culture. Inoltre non può essere occultato un altro elemento proprio della tradizione cattolica sulla legge naturale, che ha sempre considerato in chiave evolutiva, e dunque storicamente condizionata, le sue ulteriori determinazioni dai primi principi, di tipo formale. Tale operazione di ragione non si sottrae da una decrescente certezza nella loro espressione contenutistica e dunque da una conseguente possibilità di errore, comunque mai da presumere, ma da mostrare attraverso migliori argomentazioni. Un passaggio, quello dai principi primi alle loro conseguenze inoltre, che ingloba in sé non il semplice rispecchiamento di evidenze indiscutibili o di principi non negoziabili, ma anche una riconosciuta base pattizia e consensuale della loro chiarificazione. Inoltre il rilancio della teoria della legge naturale, come base per un etica a pretesa universale, nelle riflessioni della Commissione Teologica Internazionale non sembra tener conto in modo adeguato che essa è pienamente comprensibile solo a partire da una tradizione inquadrata in chiave teologica. Nella prospettiva della fede cristiana, conserva il suo carattere dinamico e drammatico per indirizzare alla verità escatologica propria della creatura e funge da elemento critico per il discernimento di quanto nelle tradizioni umane consenta o meno l’apertura al compimento integrale e definitivo dell’uomo. A partire dalla coscienza di una verità circa se stesso, che risulta sottratta alla pura disponibilità soggettiva, ma anche dalla traiettoria verso un compimento ancora in fieri, si apre lo spazio della conoscenza e della responsabilità umana nel dar forma storica a tale verità, attraverso la propria libertà. Anche questo aspetto è parte integrante della tradizionale interpretazione della legge naturale che assegna alla ragione (e correlativamente alla libertà umana) un ruolo importante nella inventio (non nella creazione ex nihilo) di tutte quelle determinazioni contenutistiche, forse maggiormente assegnabili allo jus gentium, per le quali il confronto condiviso risulta inevitabile. Nell’apologia della legge naturale uno dei punti delicati, soprattutto in alcune reintreprazioni della teologia cattolica, risulta essere l’idea che essa traduca un sistema di verità morali disperse nelle differenti espressioni del raziocinio umano, le quali tendono verso la lex nova evangelica quale suo suo punto terminale. Per questo, al di là di legittime comprensioni dello strumento della lex naturalis come grammatica basilare di un ethos civile, non dovrebbe essere dimenticata la sua appartenenza ad un codice etico particolare teologicamente connotato. Il dibattito, almeno 7 all’interno del pensiero cattolico, ha indubbiamente segnalato l’istanza costruttiva di un ethos civile per il quale si è suggerito il ricorso ad un sapere di tradizione, che si ponga al di sopra della pluralizzazione dell’etica contemporanea. Si può comunque obiettare che la questione forse più corretta sarebbe, più che quella di una evidenza etica indisponibile ad essere scalfita, pena la perdita di una consistente possibilità di comprensione dell’umano, e anteriore alla pluralità delle etiche, quella piuttosto di un’etica al plurale, cioè pienamente sensibile alla e gelosa della cura per le differenze particolari, comunque impegnata, accanto ad una continua tradizione e rilettura delle proprie radici, a lavorare nella direzione di un universalismo morale pensato come opus in fieri. È questo, pur con i doverosi distinguo, il progetto convergente a partire dall’ultimo decennio del XX secolo, ma iniziato già molto prima, di un Weltethos, suggerito da Hans Küng. Come noto la proposta del teologo svizzero si muove perfettamente nei parametri di una società post-moderna, assumendo in senso positivo la differenza di sistemi fondativi e insieme l’urgenza di un pensiero comune di fronte anche ai drammi della sopravvivenza umana. Il suo “ecumenismo morale”, tuttavia, non si sottrae dall’essere un modello auspicabile di ricerca di intese, attraverso l’adesione dei differenti pensieri religiosi e secolari, in cui l’effetto finale assume i tratti di una sorta di “sincretismo” etico. In esso le differenze si trascendono, annullando le specifiche potenzialità conflittuali manifestate nei tempi passati, ma anche appiattendo la ricchezza che ciascuna di esse può apportare, giungendo ad una sorta di prodotto “ibrido”. Inoltre sembrerebbe che ciascuno dei soggetti e degli attori morali del Weltethos possa trovare la propria identità solo andando al di là del proprio particolare mondo di tradizione, individuando così la matrice dell’humanum oltre a tale mondo, quasi azzerando le interpretazioni storiche in cui è stato espresso attraverso molteplici narrazioni interpretanti. 9 Una via più costruttiva all’impegno teologico di pensare all’ethos civile può invece giungere da una proposta, quella di Pier Cesare Bori, esplicitamente tesa ad una forma di etica al plurale, condotta a partire da un atto di lettura delle scritture ebraico-cristiane. Il compito di assumere per questa operazione il paradigma biblico, accanto all’integrale accostamento di altri patrimoni scritturistici di altre tradizioni umane, ha il merito di un’opzione metodologica differente rispetto a quella di una produzione di un metalinguaggio che assimili e unifichi ciò che invece dovrebbe restare ineliminabile, in quanto espressione di una indubbia ricchezza dell’umano: la pluralità delle lingue e delle culture. Il paradigma biblico è così compreso nella sua traducibilità in chiave uniersalistica nel rispetto di una mutua accoglienza critica e consapevole delle tradizioni. In particolare il particolarismo etico non è condizione per affermare l’impossibilità di un confronto, ma è compreso come il linguaggio nativo in cui ciascun soggetto umano ha imparato a leggere e a declinare in 9 Su questo aspetto concordo con quanto espresso in S. MORANDINI, Da credenti nella globalizzazione. Teologia ed etica in orizzonte ecumenico, Bologna, EDB, 2008, pp. 89-97 con utili osservazioni per ampliare la riflessione. 8 comportamenti responsabili la propria umanità. L’operazione di consenso, così, non si produce, come in una rigida riproposizione della legge naturale, su una discutibile separazione nella stessa persona tra il piano soprannaturale della fede e quello naturale della ragione. Né nella forma di Küng attraverso un’operazione di risalita verso i contenuti etici dell’umano al di là dei diversi modelli etici e delle fedi. Bensì attraverso l’immagine della “traduzione” operabile su una lingua nativa particolare, come quella del cristianesimo, operazione possibile solo a partire dal fatto di una radice linguistica profonda e comune, nella convinzione secondo cui «i grandi testi siano “traducibili per definizione” giacché ad essi soggiace un metatesto comune, una “pura lingua” non esplicitabile tuttavia se non nelle diverse lingue umane». 10 Ogni proposta particolare, come quella propria delle scritture ebraico-cristiane, nell’orizzonte della traducibilità, è assunta non come una verità in sé chiusa dall’interpretazione dell’autorità deputata alla sua trasmissione, ma come rivelatrice di potenzialità espressive al di là della sua semplice affermazione. Potenzialità non altrimenti dette che in una lingua particolare e definita, ma rintracciabili da un analogo atto di lettura di tradizioni diverse. Proprio da tale confronto scaturirebbe l’opportunità di portare a galla quello che può restare implicito (e pure è fondante) in una singola sapienza ed è in grado di contribure a dare forma ad un ethos condiviso, che non si limiti a una forma di consenso di tipo pregiuridico, come nel caso della Dichiarazione universale dei diritti umani, senza per questo annullarne il pregio, ma organizzato attorno a «percezioni etiche essenziali» e al loro aggregarsi attorno ad alcuni «convincimenti etici fondamentali». Essi non sarebbero, infine, solo esplicitati intellettualmente, ma anche affettivamente vissuti, radicati sul «sentimento dell’obbligo verso ogni essere umano». Di passaggio tale proposta di lettura appare assai più urgente di ogni tentativo, seppur lodevole, di ridescrivere unicamente l’agire del cristiano a partire dalla Parola di Dio, come se esso possa prescindere da una sua dimensione secolare, e trova la sua verifica intratestuale già all’interno del Nuovo Testamento, soprattutto in quel documento che potrebbe costituire la matrice originaria per un ethos mondano, che è il capitolo 13 della Lettera ai Romani. Paolo non rinuncia ad affermare il differenziale dell’amore-agape, non solo quale regola interna alla comunità, ma anche nella forma radicale di antidoto all’inimicizia nei rapporti inter-soggettivi, eppure riesce a motivare il fatto che esso debba essere tradotto, a partire dalla pratica dei cristiani, in una forma che risulti apprezzabile, cioè leggibile, a partire dai presupposti dell’etica umana. In questo senso l’invito a «fare il bene», così come la lealtà istituzionale oppure la stima da parte degli altri cives, evocati nella pericope (cfr. Rm 13, 1-7), non sono da valutare come una semplice parenesi moralistica, bensì come “traduzione” 10 P.C. BORI, Per un consenso etico tra culture. Tesi sulla lettura secolare delle scritture ebraico-cristiane, Genova, Marietti, 1991, p. 35. 9 secondo la lingua e il codice etico dell’aristotelismo e dello stoicismo, delle potenzialità secolari del particolarismo etico dell’amore cristiano, in una forma di universale comprensibilità. Inoltre l’esercizio riflessivo sulla cosiddetta “regola d’oro”, al di là della sua semplificante riconduzione ad una mera sentenza di saggezza popolare, quella stessa valutazione che ritroviamo nella Fondazione della metafisica dei costumi di Kant e nella critica ad essa come forma imperfetta di un’auspicabile principio etico fondamentale, in quanto vistosamente dipendente dalla patologica contaminazione del desiderio soggettivo, potrebbe evidenziare una sua potenzialità aperta sia alla sua particolarizzazione in chiave teologica, così come esemplarmente espressa nei testi evangelici, sia alla sua universalizzazione nell’ottica di quelle «percezioni etiche universali» presagita da Bori. Erede già di un’operazione ripropositiva basata sulla “sapienzializzazione” della Torah, la “regola d’oro”, compresa all’interno di una specifica tradizione teologica, anzi di due, quella ebraica e quella cristiana, conserva un linguaggio di alta densità simbolica in grado di abbracciare per intero lo spettro dell’etica tout court, tuttavia non senza una precisa opzione che, ancora nel solco di Bori, è indice di quell’obbligazione reciproca che non solo definisce le giuste relazioni istituzionali, ma indirizza ad un codice di prossimità radicato nell’identità stessa della persona e del suo desiderio. «Fare agli altri quello che vorresti sia fatto a te» interfaccia due livelli in cui ritroviamo sia la chiave teologica della buona circolazione della sovrabbondanza dell’amore del Padre e della sua misericordia (così nella sua contestualizzazione evangelica di Mt 7, 12 e Lc 6, 31), sia l’invito a scoprire, prima ancora della socialità, la radice della prossimità come costitutiva dell’umano.11 Nella prospettiva dischiusa da tale lettura intensiva della “regola d’oro”, le auspicabili forme condivise della vita buona, non sarebbero da rintracciare rimanendo semplicemente sul livello della società, o della socialità, riscontrando in questa categoria già una deviazione rispetto all’idea della communitas soggiacente alla tradizione filosofico-teologica di Aristotele e Tommaso d’Aquino. La 11 Questo impegno per una lettura intensiva della “regola d’oro”, cioè consapevole di tutte le sue possibilità interpretative per un’etica condivisa, deve salvaguardare parimenti anche la conservazione della sua matrice teologica, per come espressa nelle scritture ebraico-cristiane. Punto di partenza è la considerazione della Regola come formulazione di “convinzione comune” (endoxon). Essa può condurre, tuttavia a un modello etico di riferimento, che integri il rispetto per l’altro con la promozione dell’altro; o per cui il rispetto si protende alla responsabilità. La Regola aurea introduce già a partire dalla sua formazione un’intenzionalità buona verso l’altro che è la forma a partire dalla quale articolare la direzione del desiderio non in una forma di colonozzazione o manipolazione dell’altro, ma di sollecitudine per l’altro. Tale orizzonte di intenzionalità non è solo un orientamento generale, ma fa della Regola un principio per l’autoformazione soggettiva e dunque per la costruzione, secondo saggezza, dell’identità personale. La Regola acquista così un significativo profilo “intra-soggettivo”, particolarmente evidenziato nel contesto dell’etica contemporanea dal filone delle etiche neo-aristoteliche e della “virtù”. Tale profilo intra-soggettivo, raggiunto dalla Regola, si distende nello spazio di una soggettività ospitale e accogliente nei confronti dell’altro. Perciò la Regola raggiunge la polarità inter-soggettiva, che si segnala nella tematica della “reciprocità relazionale” e del “riconoscimento” (Io-Altro), ma anche si estende alle relazioni regolabili secondo giustizia, toccando così la polarità delle etiche deontologiche di matrice kantiana o neo-contrattualiste. La Regola d’oro acquista anche una valenza politica, nel delineare rapporti istituzionali, in cui però è necessario integrare la logica del potere (fautrice anche di una politica intesa come “ostilità”) ad una forma includente la dimensione classica dell’amicizia politica (cfr. Aristotele e Tommaso). 10 caratterizzazione attuale della società, come noto, porta i tratti della moderna comprensione di un “vivere insieme” sotto l’ombra del Leviathan di stampo hobbesiano o in cui la forma primaziale per intendere la relazione tra i soggetti umani sembra essere quella dello scambio mercantile di tipo lockiano. Secondo tale forma moderna di comprensione il profilo delle relazioni intersoggettive e di quelle istituzionali appare attraversato da una mai pacificata logica competitiva, da limitare nelle sue forme estreme, o di rapporti strutturati secondo la logica dell’utile soggettivo. Più originaria della società, e dunque maggiormente traducibile a livello di ethos, è la prospettiva della prossimità umana, come codice anteriore ad ogni costruzione societaria di strategie di consenso e di cooperazione. Tale prossimità, nella logica della regola d’oro, allora può comprendere alcune nervature di un ethos in cui si riconosca e si preservi l’umano che è comune: il superamento della logica dell’investimento di sé secondo la dinamica dell’utile; la denuncia di forme più o meno larvate di onnipotenza e di accumulo illusorio di forza; l’attenzione a pensare alla propria vita in una prospettiva più ampia che includa la cura per il bene comune e da condividere secondo criteri di fratellanza, oltre che attraverso le forme del contratto o della giustizia distributiva. È innegabile che l’etica cristiana abbia una certa dimestichezza con la questione della prossimità. E che abbia una pratica effettiva di essa radicata nel tempo, visibilizzata nelle istituzioni ecclesiali e nella testimonianza dei fedeli. Ciò costituisce una ricchezza, a patto che non resti (e che non venga) marginalizzata in una risorsa utilizzata unicamente a correzione delle inevitabili brutture e ingiustizie del mondo. Occorre tradurre la cultura della prossimità ospitale, che sa creare familiarità, là dove la cultura separa irremediabilmente o confina in una anonima indifferenza. È questo anche il senso dell’agape divina, in un linguaggio politicamente costruttivo. L’amore non ha come destinatario un altro, che la convenzionalità del discorso cristiano chiama “prossimo” e l’efficienza sistemica dell’assistenza sociale tende a denominare come “utente di servizi”. L’amore riconosce e costituisce la prossimità, là dove la società continua ad elaborare strategie di anonimizzazione di chi è costretto ai suoi margini e là dove la cultura diffusa spinge alla rimozione di ciò che tende ad essere percepito come destabilizzante per la sua sopravvivenza. Nella cura del povero si annuncia l’estensione massima della prossimità, che, tuttavia, si costituisce e segna quei legami culturalmente già disponibili per dare senso al vivere comune, quelli che si riportano ai “rapporti elementari della vita”: uomo-donna; genitori-figli, fratelli. In riferimento a tali rapporti si delinea un ethos di fondo, cioè una «legge non scritta che sta a fondamento dell’alleanza sociale», nonostante la riflessione politica moderna persista nel negare «il rilievo dell’ethos in ordine alle forme giuridiche della giustizia». Si tratta allora, come opportunamente si esprime Giuseppe Angelini, di «pensare la responsabilità politica della carità cristiana». Questa via diversa passa attraverso la considerazione 11 del «nesso originario che lega amore cristiano e quelle forme elementari della prossimità umana, che trovano la loro prima definizione esattamente attraverso le forme della cultura». 12 Non diversamente va accolta tutta la capacità costruttiva per l’ethos sociale di una proposta come quella continuamente rielaborata da J.B. Metz nel solco della sua quasi cinquantennale “teologia politica”. Certo siamo più consapevoli dei distinguo prodotti dai molteplici versanti della critica teologica sulla sua proposta. Non di meno resta il valore del suo nucleo generatore, riespresso ultimativamente anche con attenzione ad un possibile ethos globale: la rammemorazione dell’autorità dei sofferenti, «di coloro che soffrono innocentemente e ingiustamente».13 Ritroviamo nella sintetica formula del teologo tedesco una esplicita riserva critica nei confronti di una via meramente «contrattuale» o basata su una riduttiva interpretazione del criterio democratico della «votazione a maggioranza» come procedura tecnica di definizione del consenso sui valori e sulle regole del vivere insieme. Tale operazione di memoria passionis svolge una salutare presa di distanza da uno dei rischi riscontrati nell’ambito pubblico, «tanto pluralista quanto diffuso in modo disordinato e che, perciò, è frequentemente generatore di apatia». La società laica, pluralista e democratica, se da una parte è formalmente strutturata per essere spazio per un confronto aperto e dialogico, può ugualmente, in nome della sua equidistanza esibita da qualsiasi particolarità e per i noti meccanismi di dismissione dei singoli cittadini dalla responsabilità partecipativa loro propria, generare situazioni di “indifferenza” e “apatia” nella più vasta parte del corpo sociale, proprio mentre ne afferma l’“uguaglianza” dei singoli membri. All’interno di questo contesto, così tipico dell’Occidente, la chiesa, come custode della memoria passionis al centro della propria fede, può prodursi in un impiego pubblico non solo delle sue ragioni, spesso prigioniere di inevitabili astrazioni, ma dello stesso profilo “passionale” alimentato da una «razionalità anamnestica». La via privilegiata per un ethos condiviso da parte della comunità cristiana passa non attraverso il semplice allestimento di un “discorso pubblico” che ambisca ad essere autorità morale per la moderna società secolarizzata, ma attraverso un’operazione di continua narrazione del nucleo fondante la fede ecclesiale, cioè nella fedeltà alla sua «storia di fondazione». Così accanto al permanere di una tipicità cristiana, e intra-ecclesiale, di intendere l’esistenza e l’agire, si può aprire un ethos comune tra i soggetti della moderna società complessa, a partire dal «riconoscimento dell’autorità dei sofferenti». Ciò comporta anche la consapevolezza di una qualità che deve sempre essere mantenuta nella parola pubblica eccesiale: la capacità di correlare la parresia con la phronesis. Cioè l’arte di trovare la via giusta, senza annullare il potenziale 12 G. ANGELINI, Eros e Agape. Oltre l’alternativa, Milano, Glossa, 2006, p. 145 e 162. Si limita la riflessione su J.B. METZ solo al suo saggio: Memoria passionis. Un ricordo provocatorio nella società pluralista, Brescia, Queriniana, 2009 [ed. or. 2006], qui p. 161. Per gli altri richiami nelle righe seguenti del testo cfr. pp. 161-162; 195-204; 223-226. 13 12 differenziale che l’evangelo riveste per il credente, appiattendolo alla pura ripetizione dei valori comuni, ma con l’attenzione prudente a non comprendere l’universalismo cristiano in una forma ideologica, tentata dalla nostalgia della cristianità perduta. «Se interrogato nel suo centro delicato e più intimo, - ha scritto Giuseppe Ruggieri – il messaggio cristiano manifesta una sua universalità originale che non è quella del comune riconoscimento dei valori della convivenza, ma sta piuttosto nell’energia, nella dynamis dell’evento predicato […]. La laicità, come principio regolativo dei rapporti fra i diversi, in quanto garanzia esterna al libero esprimersi delle diversità, al fondo resta pur sempre limitata, incapace di garantire quell’accoglienza assoluta che definisce l’universalità del messaggio cristiano». 14 La valorizzazione di questa “laicità”, soprattutto nella forma del confronto aperto, non rappresenta così un “male minore” rispetto ad altri quadri futuribili o nostalgicamente rievocabili, quanto piuttosto, la chance per una maggiore chiarificazione della stessa originalità del messaggio cristiano ed un invito ad una sua ricomprensione sempre più profonda. Parimenti – e qui ritroviamo la lezione habermasiana evocata in apertura – andrà maggiormente apprezzata la disponibilità ad apprendere del “laico” cittadino dello Stato liberale da persone che «attingono la loro integrità e la loro autenticità da convinzioni religiose» e con gelosia ne sanno conservare la loro qualità, ma anche sono disponibili, ad una paziente opera di “traduzione” che dischiuda «il contenuto dei concetti biblici al di là dei confini di una comunità religiosa, fino al pubblico generale di coloro che hanno altre fedi o che non credono».15 Intermezzo: inevitabili questioni di etica pratica Certamente questo potenziale – qui semplicemente approcciato in una prospettiva generale – domanda di essere sviluppato anche nelle questioni di etica pratica. Di questa applicazione non mancano significativi esempi all’interno della recente produzione teologico-morale e anche da parte 14 G. RUGGIERI, Alcune considerazioni teologiche in margine alla concezione contemporanea della laicità, in «Filosofia e teologia», 21 (2007), pp. 297-311, qui p. 311. Possono essere accostate anche le osservazioni di Dietrich BONHOEFFER nel frammento Sulla possibilità della chiesa di rivolgere la parola al mondo: in Etica, a cura di I. TÖDT, H.E. TÖDT, E. FEIL, C. GREEN, Brescia, Queriniana, 1995 (Opere di Dietrich Bonhoeffer, 6), pp. 310-319. Pur nell’accentuazione, tipica della prospettiva evangelica, della separazione tra Vangelo e legge (civile) e sottolineando la differenza rispetto alla prospettiva cattolica che tenderebbe ad impegnarsi nella parola rivolta al mondo «sulla base di qualche conoscenza razionale o di diritto naturale […] astraendo temporaneamente dal vangelo» (ivi, p. 315), il teologo tedesco afferma: «se si pensa che il cristianesimo abbia una risposta per tutte le questioni sociali e politiche del mondo, cosicché basterebbe prestare ascolto a tali risposte cristiane per mettere il mondo in ordine, questo è chiaramente un errore. Se invece si pensa che, alla luce del cristianesimo, ci sia qualcosa di ben preciso da dire a proposito delle cose mondane questo è vero» (ivi, p. 311). Va raccolta a proposito di Bonhoeffer l’attenzione a salvaguardare la qualità evangelica del discorso ecclesiale, che pure non può essere separata da una intelligenza responsabile dei processi storico-civili e politici per le quali si appella alla competenza dei cristiani (cfr. anche PRODI, Una storia della giustizia, cit., pp. 466-469; sul pensiero etico di Bonhoeffer: S. ROSTAGNO, Etica protestante. Un percorso, Assisi, Cittadella, 2008, pp. 148-152). 15 J. HABERMAS, I fondamenti morali prepolitici dello Stato liberale, in J. RATZINGER, J. HABERMAS, Etica, religione e Stato liberale, Brescia, Morcelliana, 2005, pp. 35-36. Cfr. anche ID., Tempo di passaggi, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 140-141. Osservazioni analoghe sono proposte in J.-M. FERRY, Face à la tension entre droits de l’homme et religion, quelle étique universelle? Reflexions sur un au-delà problématique de la läicité, in «Recherches de science religiueuse», 95 (2007), pp. 61-74. 13 dello stesso magistero cattolico. Restando all’interno una semplice ricostruzione – certamente perfettibile – ne emergono alcuni capitoli certamente già percorsi, ma ugualmente espressivi di un indice di un ethos civile. Un primo campo applicativo va certamente nella riflessione sulla forma politica della democrazia. Al di là dell’affermazione di essa, pur non di rado risolta solo ad un livello formale o nella sua degenerazione di dispotismo della maggioranza, si richiede una sua significativa evoluzione in una forma più esplicitamente deliberativa e partecipativa da parte delle forze vive della società civile. La “democrazia rappresentativa”, che ha costituito il punto di svolta della modernità politica, domanda di essere profondamente ripensata in quanto non può essere assunta quale unico punto di riferimento per la definizione della modalità del “vivere bene” in società. La sua possibile entropia, come noto, era stata lucidamente denunciata già nel XIX secolo, con riferimento alla società nordamericana, da Tocqueville nella forma di un “mite dispotismo”, alimentato dal bisogno dei singoli di sentirsi esonerati da una diretta responsabilità gestionale alla cosa pubblica, delegata ai propri “rappresentanti”, per poter perseguire quei “piccoli affari”che ammansiscono la “passione acquisitiva” di benessere materiale di ciascun individuo.16 Il rischio è la formalizzazione di una procedura con cui può disimpegnarsi la ricerca sostanziale di ciò che rappresenta la convivenza democratica, soprattutto nell’istanza partecipativa alla struttura di governo e nella capitalizzazione in chiave solidale, per l’intero organismo, del bene relazionale proprio della società civile. Che la procedura democratica possa comprendersi non in vista della ricompattazione della società su fini comuni, ma costituire una potente spinta alla frammentazione atomistica, concepibile sia nel suo profilo più dimesso del disimpegno e della delega al nume tutelare e di controllo degli organi di rappresentanza come in un decisionistico e tecnico potere “della maggioranza” gestito per fini corporativistici, è storia di oggi e domanda una profonda attenzione in vista, come afferma Charles Taylor, di una «vigorosa vita democratica» da ristabilire in modo più evidente. Sotto questo profilo si è introdotta la concezione di “democrazia deliberativa”, tesa a ridefinire la partecipazione, come costitutiva del progetto politico, contribuendo a costruire “dal basso” lo stesso bene comune, attraverso una più trasparente comunicazione in grado di rafforzare il rapporto tra i membri della società e chi ha cura del bene della polis, trasferendo una maggiore quota del potere decisionale ai cittadini secondo modalità inclusive dei molteplici soggetti sociali, con particolare riferimento a quelli più deboli.17 Va da sé che questa 16 Charles TAYLOR parla di questo aspetto come uno dei “disagi” della modernità, cioè «quei tratti della nostra cultura e società contemporanee che gli uomini sperimentano come una perdita o un declino, anche se la nostra civiltà ‘si sviluppa’»: Il disagio della modernità, Laterza, Roma-Bari 1999 (ed. or. 1991), p. 3 (ma cfr. anche pp. 127-141). Il riferimento è all’opera di A. de Tocqueville, La democrazia in America (1835 e 1840). Una suggestiva ricostruzione della figura dell’homo democraticus secondo Tocqueville in PULCINI, L’individuo senza passioni, cit., pp. 127-175. 17 Cfr. R. LEWANSKI, La democrazia deliberativa. Nuovi orizzonti per la politica, in «Aggiornamenti sociali», 58 (2007), pp. 743-754. 14 espressione della democrazia si unisce non semplicemente ad una proclamazione dei diritti, ma a forme più convinte e visibili di “pratica sociale dei diritti”.18 Questo rinvigorimento in chiave partecipativa dell’ethos democratico non può non ricadere su altri segmenti della vita sociale, anche su una scala planetaria. Tali sono ad esempio una più convinta attenzione alla vita economica, per indirizzare in chiave democratica una migliore govenance politica dei processi di globalizzazione economica e dei suoi poteri estesi su scala planetaria e transnazionale. Vittorio Emanuele Parsi individua in tale esigenza di governance la richiesta per cui «funzioni di governo del sistema internazionale stesso vengano in qualche modo esercitate, a prescindere dall’esistenza o meno di specifiche istituzioni a un tale scopo espressamente create e/o dedicate».19 L’agenda minimale dei contenuti di una governabilità dell’assetto internazionale, incrocerebbe i seguenti aspetti: la capacità di prevenire conflitti su scala allargata, la limitazione della violenza illegale (come nel caso del terrorismo) operante a livello internazionale, le strategie umanitarie di peacekeeping, a fronte del ritorno ad un più diffuso utilizzo della forza militare, legalmente accreditata anche attraverso il problematico stilema di “guerra giusta”, ma forse troppo precipitosamente invocata come unica via risolutiva dei conflitti o dell’evoluzione democratica di regimi dittatoriali.20 Tale agenda non può che intrecciare anche la questione dell’utilizzo delle risorse planetarie secondo un modello perseguibile di sostenibilità, con l’impegno a ridurre lo scarto tra ricchezza e povertà tra le nazioni senza l’imposizione di forme neo-colonialistiche, e dunque con una più convinta attenzione alle problematiche dell’ambiente come connesse al riconoscimento di una più estesa comprensione del bene comune per la presente e le future generazioni. In senso più ampio l’auspicabile ethos globale comporta la possibilità di ridefinire la cittadinanza su una scala sopranazionale e in chiave democratica, in cui far convivere accanto agli ideali illuministici e liberali dell’uguaglianza e della libertà, il codice della “fraternità”. Benedetto XVI nella sua recente enciclica Caritas in veritate vi ha fatto riferimento per indicare come la costruzione della città dell’uomo si regga non semplicemente sulla giustizia formale, ma anche su 18 Cfr. F. VIOLA, Identità e comunità. Il senso morale della politica, Milano, Vita e Pensiero, p. 58 V.E. PARSI, ‘Governance’ e libertà: la prospettiva dei diritti di cittadinanza, in Globalizzazione: nuove ricchezze nuove povertà, a cura di L. Ornaghi, Milano, vita e Pensiero, 2001, p. 104. Per le osservazioni seguenti cfr. tutto questo contributo. 20 Sulla questione della “guerra giusta” illuminanti le riflessioni di D. MIETH, Il ritorno della guerra giusta, in «Concilium», 37 (2001), pp. 215-219. La ripresa (per certi versi necessaria) dell’impiego della criteriologia della “guerra giusta”, «che di fronte alle armi scientifiche sembrava aver perso valore come legittimazione della guerra tra le nazioni», per affrontare le nuove situazioni rende il giudizio etico più complesso e incerto. Resta elusa la modalità adeguata di affrontare «la guerra quotidiana e incessante della violenza di sistemi globali di dominio […] dove la guerra viene cotta a fuoco lento e uccide attraverso la negazione di beni vitali o attraverso la mancanza di solidarietà» Il ritorno alla guerra giusta, non può ritenersi «un mascheramento sofistico della violenza di sistemi globali di dominio?» O, nella forma di “intervento umanitario” può ambiguamente celare «un’azione selettiva, che sceglie secondo i propri interessi dove – tra analoghi casi di genocidio – intervenire» O ancora, non potrebbe essere un alibi per una lotta ad effetti e sintomi, senza affrontare seriamente le cause e i fattori scatenanti la violenza? 19 15 modalità relazionali che mettano in circolazione il bene della gratuità e della solidarietà, superando il semplice scambio secondo il principio di utilità. Il sapere della fede così può contribuire ad aprire la prospettiva del senso del vivere sociale alla costruzione di un orizzonte fraterno, là dove le situazioni della storia o le logiche proprie della civiltà e delle sue forme organizzative tendono a privilegiare un’asettica equivalenza tra soggetti estranei e autoreferenziali che si rivendicano i propri spazi di libertà. Questa intuizione, come noto, è una delle chiavi di lettura fondamentali sottostanti alla Caritas in veritate, là dove si sottolinea l’imprescindibile orizzonte della fraternità, accanto a quello razionalmente deducibile della libertà e dell’uguaglianza, come modalità realizzativa della qualità tipicamente umana delle interazioni sociali di cui la fede cristiana conserva una permanente traccia: «la società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli. La ragione, da sola, è in grado di cogliere l'uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità. Questa ha origine da una vocazione trascendente di Dio Padre, che ci ha amati per primo, insegnandoci per mezzo del Figlio che cosa sia la carità fraterna» (n° 19). Il punto di accesso fenomenologico – universalizzabile – a questa forma della relazione risiede nella considerazione del dono che è alla base dell’esistenza di ciascuno, nella percezione che l’origine di sé risiede dal dono di altri (cfr. Caritas in veritate, n° 34). Questa citazione risulta preziosa sia nella direzione di quella operazione di “traduzione” e “riconoscimento” di alcune “percezioni etiche essenziali” in vista dell’elaborazione di un consenso attrono a “convincimenti etici fondamentali”, così come auspicato da Bori, come in quella ricercata esigenza di costante “rammemorazione” da parte del cristiano di ciò che è al cuore della sua fede e pure ha decisa importanza nella definizione del bene umano integrale. In questi ambiti domanda di essere studiata e verificata la capacità di generare un ethos condiviso da parte della “regola d’oro”, almeno nei termini che si è cercato di mettere in luce nelle note precedenti. 2. La soggettivizzazione degli stili di vita C’è un altro versante da esplorare, complementare alla complessificazione sociale, riassumibile in un processo di forte soggettivizzazione degli stili di vita. Le sue radici affondano ugualmente nella reazione alla cultura degli anni '60, con la sua enfasi sul pubblico che ha contraddistinto un tempo di forte spinta alla politicizzazione come chiave interpretativa dell’umano e del suo senso nella storia. In positivo la cultura della soggettività è dunque reazione all’invadenza dei modelli di costruzione del sé improntati da una logica alla cultura del pubblico, ma anche da tutte le dinamiche omologanti concepite come limitazioni esterne alla libera espressione dell’io. L’enfasi sul soggetto antepone al problema del fare e del dovere, la questione della identità, della ricerca di una immagine di sé cui affidarsi e da tutelare da tutte le forme di interferenza esterna percepite come potenziali 16 minacce alla propria autonomia. L’inevitabile problema che si riversa sull’etica sarà pertanto quello di una sua comprensione minimale come “arte del vivere”.21 L’espressione è di per sé nobile e caratterizza un importante filone del pensiero occidentale che si riallaccia direttamente al modello eudaimonistico della classicità, ma che nell’attuale contesto appare fortemente modulata in una declinazione che, mettendo da parte ancora una volta la questione del bene, si ripiega al traguardo più modesto della strategia tesa ad assicurare il benessere e l’equilibrio psico-emotivo del soggetto. È questo il profilo problematico della cultura della soggettività, là dove si connota nei termini di un’eccessiva privatizzazione narcisistica e di una lettura spontaneistica del bene. Se la figura ideale dell’uomo della modernità era Prometeo, attraverso il perseguimento di mete ardite, oggi l’uomo contemporaneo tende a riflettersi sull’immagine di Narciso: a quello della progettualità incarnata nell’ideale dell’uomo maturo e adulto succede il profilo adolescenziale dell’io in perenne ricerca di conferme su di sé. La questione del soggetto ripiegato su di sé, teso alla sua sopravvivenza ha portato ad una rilettura della questione dell’identità individuale incline ad un tratto autoreferenziale. Tale lettura condiziona molti aspetti dell’etica della vita affettiva e sessuale, ma anche è operante nel dibattito bioetico. La diffusa (e preoccupata) attenzione alla soggettività individuale si regge sull’imperativo “vivi la tua vita”, ma con esso sottintende, più che la ricerca del senso obiettivo che merita dedizione, il suo darsi e ricercarsi dentro forme di spasmodica attenzione alla qualità dei processi affettivi. L’auspicio per una vita bella, piena di fascino, interessante, ossessivamente ripetuto dalla cultura ambiente, finisce così per esporre con maggiore facilità di un tempo l’individuo ai meccanismi ansiogeni e alle patologie depressive. La ricetta ampiamente divulgata individua i canoni di una vita riuscità nella possibilità di moltiplicare le esperienze e con esse gli esperimenti su di sé, pensati come successione paratattica di momenti di vita ad alto tenore emotivo. La loro riuscita, più che posta a confronto con un idea etica di bene, resta prigioniera di un superficiale apprezzamento estetico, quello cioè di sensazioni gradevoli e appaganti per il soggetto. Una descrizione efficate di tale modello è quella offerta da Armido Rizzi: «il riferimento decisivo e definitorio è dato dall’autoreferenzialità dell’individuo, in tutto l’arco costitutivo della soggettività, che va dal desiderio come movente all’azione come sua esecuzione. Obiettivo del soggetto desiderante e agente non è più la creazione di condizioni necessarie di vita, come è stato per millenni, né il miglioramento di queste condizioni, come nei primi decenni del dopoguerra: è il progetto di una vita bella, dove situazioni e oggetti e incontri alimentino con continuità l’esistenza come riuscita e fruizione».22 21 Cfr. a questo proposito anche i recenti contributi di Bauman, sul versante sociologico, e di Hadot su quello filosofico. Rispettivamente: Z. BAUMAN, L’arte della vita, Roma-Bari, Laterza, 2009; P. HADOT, Ricordati di vivere. Goethe e la tradizione degli esercizi spirituali, Milano, Raffaello Cortina, 2009. 22 A. RIZZI, L’erba voglio. Dal narcisimo postmoderno al soggetto responsabile, Assisi, Cittadella, 2003, pp. 24-25. 17 Il sostegno antropologico a questa ricerca esperienziale risiede nella dilatazione del desiderio in uno spazio tuttavia che resta interno all’io e che nella relazione inter-personale finisce per attirare l’interesse per l’altro ugualmente nel circuito del proprio sé. In questo senso l’evocazione di Narciso come eroe post-moderno della ricerca di sé risulta particolarmente riuscita. «Nei comportamenti il singolo soprattutto si cerca, non si spende; attraverso quello che fa cerca, in forme quasi ossessive, conferme per la propria immagine» (G. Angelini). Nel cercare l’altro da sé, con cui intessere un dialogo che dà forma all’esistenza, il soggetto continua a cercare se stesso. Questa ricerca su di sé porta a sperimentarsi ancora di più come un soggetto “precario”. La conferma spasmodica su di sé contribuisce a rafforzare, mettendola continuamente in circolo, non la propria identità, ma il simulacro riflesso della propria precarietà psicologica.23 La via per la ricerca della propria autorealizzazione, “sii te stesso” come vero imperativo categorico del tempo presente, passa attraverso la ricerca di una identità performativa, cioè rappresentata a partire dagli instabili desideri soggettivi e dunque componibile, decomponibile e ricomponibile in un gioco adolescenziale che vuole lasciare aperto davanti a sé indefinite (e dunque mai chiarite) scelte di possibilità, sempre ritrattabili. Si considera degno di investimento ciò che si connota immediatamente come utile e soddisfacente il proprio bisogno di autorealizzazione. «Il singolo, per valutare le ragioni di vantaggio di tutto quello che fa, si affida al criterio del guadagno che quei comportamenti consentono di realizzare sotto il profilo della soddisfazione emotiva; o come anche si dice con formula enfatica, sotto il profilo dell’autorealizzazione» (G. Angelini).24 Così sulla base psicologica del desiderio soggettivo come radice di potere, cioè della possibilità di disporre delle cose, delle relazioni, delle persone, del potere di scelta, che non deve essere limitato, si salda anche l’emancipazione dalla tradizione, compresa come fastidiosa interferenza sulla autonomia della persona e insostenibile eternomia. Per l’ethos civile risulta importante registrare l’ulteriore evoluzione di questa dinamica. Essa consiste nell’esasperazione del ricorso alla questione dei “diritti individuali” come via politica e sociale per il riconoscimento, prevalentemente in chiave rivendicativa, della legittimazione del proprio desiderio e delle proprie preferenze soggettive. Tale espressione risulta particolarmente viva nell’ambito delle più delicate questioni bioetiche che attraversano il dibattito contemporaneo che possono essere accumunate da questa unica matrice che conferisce un assoluto rilievo morale all’affermazione del diritto di libertà dei soggetti e della loro autodeterminazione.25 Resta da 23 Fratello del mitico Narciso, icona quasi profetica di un modello di esistenza, può anche essere la figura di Peer Gynt, come nell’omonima piéce teatrale di Henrik Ibsen, con la sua spamodica ricerca di identità e della propria autorealizzazione condensata nel programma di “essere se stesso”. 24 Cfr. G. ANGELINI, Educare si deve ma si può?, Milano, Vita e Pensiero, 2002. 25 Un altro campo, particolarmente vivo nel dibattito filosofico e sociale, è costituito dalla legittimazione di forme plurime di identità di genere. Si rimanda P.D. GUENZI, Sesso/genere. Oltre l’alternativa, Assisi, Cittadella, 2011. 18 dubitare se un eventuale etica civile debba sposare in toto questo tipo di rivendicazione in cui l’enfasi è posta su una forte soggettivizzazione dei diritti, fino a snaturare la loro originaria matrice implicante non la frammentazione del tessuto sociale nella autorizzazione alla pura realizzazione delle legittime preferenze individuali, bensì in chiave di tutela di ciò che è risulta essere degno per ogni uomo e per le giuste relazioni tra i differenti soggetti umani. Nella accentuazione della condivisione dell’umano che è in comune, come base auspicabile per un etica civile, i diritti non sono da comprendere come espressione di rivendicazione dell’individuo nei confronti di altri e della società, esasperando la chiave della conflituttalità, ma alla luce di quel riconoscimento reciproco che lega i soggetti umani nella forma originaria di una responsabilità condivisa. Ugualmente non può essere taciuta una particolare deriva conseguente all’esasperazione della risoluzione dei problemi posti dalle relazioni interpersonali e societarie nella chiave dei puri diritti pensati in chiave individuale. A ragione Armido Rizzi parla di una dinamica “implosiva” connessa all’affermazione e all’allargamento della mediazione dei diritti individuali come unica e risolutiva chiave dei rapporti sociali, palesando così la manifestazione di interne contraddizioni e difficile compatibilità tra diversi ambiti applicativi e normativi. 26 Non è secondario rileggere la stessa evoluzione dei diritti umani come un processo ugualmente involutivo, ben vivo negli accesi dibattiti pubblici, che ne muta la consistenza profonda in “diritti delle differenze” e non più quali elementi di tutela della dignità dell’umano che è comune. Come riferisce opportunamente Antonio Pieretti «così concepito, il riconoscimento dei diritti inalienabili dell’uomo assume la forma inquietante della legittimazione dei suoi bisogni e dei suoi desideri, senza alcuna mediazione sociale e con la conseguenza di rendere assai problematica la convivenza civile» o una stessa convergenza condivisa comunitariamente su un “bene comune”.27 Sul versante della riflessione teologica, che nell’elaborazione del suo discorso non può non tener conto della rapida assimilazione a livello di “sentire comune” di stili di vita e comportamenti difformi rispetto alle indicazioni normative proposte dal magistero, come vistosamente percepibile nell’ambito della sessualità, della vita affettiva e famigliare, ma ormai in modo più diffuso a riguardo delle stesse indicazioni legate alla bioetica, l’auspicato contributo di questo sapere ad un ethos civile raccomanda una previa chiarificazione della qualità della propria parola. L’impressione è, a riguardo, di una accentuazione unilaterale sul codice normativo, ulteriormente allargata ad un ritorno al gusto casistico impegnato ad una capillare declinazione dell’imperativo morale all’interno di sempre nuove situazioni legate allo sviluppo delle conoscenze scientifiche e delle applicazioni tecnologiche. Questo andamento è chiaramente riscontrabile nell’ultimo documento emanato dalla 26 Cfr. RIZZI, Oltre l’erba voglio, p. 78. A. PIERETTI, Per un nuovo paradigma della convivenza civile. Il bene oltre la giustizia, in «Humanitas», 61 (2006), pp. 628-629. 27 19 Congregazione per la dottrina della fede, l’istruzione Dignitatis personae del 2009, predisposto come aggiornamento del primo autorevole documento in materia di procreazione assisitita di vent’anni prima, la Donum vitae, e alla luce della enciclica Evangelium vitae del 1995. Il documento si sofferma, ripetendo un lessico normativo già ampiamente conosciuto, ma non ulteriormente argomentato, su alcune pratiche meritevoli di valutazione emergenti dall’evoluzione delle scienze medico-biologiche. Pressoché assente risulta l’attenzione ad una riflessione di fondo, soprattutto di fattura teologica, mentre il piano discorsivo cerca un andamento prevalentemente ritagliato su condivisibili “argomenti di ragione”, con la costante applicazione degli asserti normativi ai nuovi “casi”. Così congegnato il documento vaticano non contribuisce certo ad riavviare la riflessione e il confronto con altre prospettive di pensiero. Piuttosto a rinforzare l’opinione dell’invetibaile scarto, non ricomponibile, tra la morale cattolica e quella “laica”. Non ci si doveva aspettare certo, questa è piuttosto la prospettiva di analisi mass-mediatica, aperture rispetto alla precisione definitoria già chiaramente delineata da Donum vitae. Piuttosto l’impostazione di un discorso che potesse introdurre una nuova forma discorsiva, maggiormente tesa ad esplicitare il logos, cioè il senso degli eventi umani connessi alle pratiche rese disponibili dagli sviluppi delle tecno-scienze, rispetto ad una semplice ripetizione del nomos. Questo nella convinzione che ogni buon discorso normativo, anche quello più raffinato operato sulle questioni bioetiche, deve continuamente ricollegare situazioni estremamente sofisticate, quelle generate dalle possibilità aperte dallo sviluppo della scienza, all’evidenza del mondo della vita, riportando a livello fenomenologico ed esistenziale quello che attraverso il linguaggio e l’operazione tecnica, inevitabilmente, è compreso all’interno dei parametri di una specifica razionalità e operatività. Un buon contributo ad un’etica civile, da parte del pensiero cristiano, nell’ambito bioetico, si situa allora nella capacità di ridare spessore ad un discorso che sappia dire o delineare il senso buono di quegli eventi umani ormai inevitabilmente connessi alla modificazione tecnologica della vita. Quell’evidenza originaria di senso che richiede di essere riespressa per non essere annullata, bensì da ritrovare anche nella logica e nella pratica della ragione tecno-scientifica.28 In sostanza, anche grazie alla sapienza attingibile dalle scritture ebraico-cristiane, è possibile introdurre in modo più convinto a percorsi di “significazione” che appaiono oggi necessari e previ ad ogni sforzo di “normazione” nella ambito della vita umana. Questa operazione corrisponde certamente al codice nativo dello stesso discorso teologico, e dunque tipicamente cristiano, là dove non è sottoposto immediatamente alla pressione quasi ansiosa di riempire un vuoto legislativo, cui comunque occorre dare risposta. Una riflessione che percorra 28 Uno sforzo in tal senso è abbozzato, a partire dalla riflessione epistemologica di E. Agazzi, in P.D. GUENZI, Appunti per un ripensamento della categoria di limite alla luce del pensiero di Evandro Agazzi, in Quale uomo per quale cura? Argomenti per una clinica etica, a cura di A. Filiberti, Milano, Franco Angeli, 2005, pp. 119-142. 20 con maggiore evidenza e pertinenza la via lunga di un più ponderato e profondo ancoraggio del nomos al logos. Ciò inoltre potrà permettere anche di comprendere come la parola evangelica riesca non solo a ritornare sul senso buono e ovvio della vita umana, dal nascere al morire, ma consenta anche di essere parola critica, perché illuminante e non semplicemente giudicante, cioè capace di de-situarsi rispetto alla cultura ambiente per introdurre un punto di vista altro che possa consentire di cogliere con maggiore profondità quanto, relativamente a tali eventi e al loro senso, può correre il rischio di essere soffocato dal continuo riproporsi di discorsi ben conosciuti e inevitabilmente precompresi. L’accesso alla norma deve procedere a partire dalle forme effettive del costume e della cultura, anche se il logos che le fonda, e dunque conferisce loro una particolare forza espressiva, supera le evidenze accreditate da ogni interpretazione culturale. Anzi il logos si pone come elemento di permanente valutazione critica di una normativa che possa accreditare culturalmente interpretazioni discostanti sensibilmente dall’evidenza del “principio”. La correlazione da rendere maggiormente visibile tra logos e nomos, a fronte del possibile rischio di enfatizzazione della dimensione normativa, oltre che apparire un utile servizio di tipo sapienziale e riflessivo raccomandato dallo stesso bisogno di etica civile, mi sembra anche riesca a interpretare con maggiore fedeltà l’attenzione dovuta dal discorso teologico alle sue fonti specifiche, con un atto di lettura della Parola di Dio in grado di rispettarne l’indole profonda. Per un epilogo narrativo… Ragionando sul contributo della teologia ad un etica civile, pur rimanendo semplicemente alla periferia di un discorso che merità ben altra acutezza, ci siamo imbattutti nella complessità sociale e nella soggetivizzazione degli stili di vita, nella necessità di riattivare percorsi di memoria condivisa, nella capacità di accedere a ciò che accumuna l’umano prima e in modo più profondo rispetto ad ogni attribuzione consensualmente stabilita, nella capacità di lettura di convincimenti etici fondamentali, nella loro traducibilità e dunque comprensione a partire da differenti tradizioni, di una forma plurale dell’etica che non si limiti a registrare come insuperabile il pluralismo delle etiche, in percorsi di “significazione” su cui impegnarsi senza cadere nell’illusione casuistica di una capacità di “normazione” integrale della vita. Il tutto a partire da quell’esigenza di una società “stretta”, per riprendere Leopardi, cioè coesa dalla stima reciproca dei suoi membri, che deponga l’inevitabile profilo di conflittualità, quella che ancora attraversa gli inconcludenti dibattiti pubblici su ciò che è bene e su ciò che male, su ciò che è giusto e su ciò che ingiusto. Mi sono reso conto che tutto il discorso è stato solo un ampliamento di ciò che nella sua insuperabile capacità evocativa, Italo Calvino aveva attribuito come profilo caratteristico di una delle sue “città invisibili”: la sottile Zenobia, intrico di palafitte e di scale sospese a collegamento 21 tra gli edifici, proiezione assai suggestiva della complessità contemporanea. La visibilizzazione di questo profilo urbano nella limpida prosa calviniana è un invito ad abitare una città complessa. Quella complessità che ha portato a continue rielaborazioni del disegno iniziale, fino a rendere estremamente difficile distinguere un orizzonte di significati condivisi e un progetto comune o che può correre il rischio di dimenticarlo per sempre. Eppure sempre una “città”: una forma umana di vita ancora in grado di poter abbracciare un senso che motivi la vita di ciascuno e quella di tutti. Una città in cui sia tuttora meritevole di dedizione l’impegno di definire criteri per misurare una esistenza ad altezza della dignità delle persone. Così come nel profondo di Zenobia continua a pulsare l’intuito originario, nonostante la città ormai si sia elevata molto dal suolo e si sorregga su equilibri affidati a disparate tecniche costruttive, che ne mettono sempre alla prova la sua stabilità. Nella speranza che tale “città invisibile”, eppure presente, non diventi una “città invivibile”. Perché, ricorda Calvino, i nostri desideri possono arrivare a distruggere la città e la vita. Ma anche perché il nostro modo di vivere nella cità può portarci a cancellare i nostri desideri profondi e quella verità di cui ancora portiamo le tracce. In fondo ogni abitante di Zenobia, quando indica in cosa consista il buon vivere umano, non potrà che richiamarsi a questa città, pur agognando alla sua perfezione: «Ora dirò della città di Zenobia, che ha questo di mirabile: benché posta su terreno asciutto essa sorge su altissime palafitte, e le case sono di bambù e di zinco, con molti ballatoi e balconi, poste a diversa altezza, su trampoli che si scavalcano l’un l’altro, collegate da scale a pioli e marciapiedi pensili, sormontate da belvederi coperti da tettoie a cono, barili di serbatoi d’acqua, girandole marcavento, e ne sporgono carrucole, lenze e gru. Quale bisogno o comandamento o desiderio abbia spinto i fondatori di Zenobia a dare questa forma alla loro città, non si ricorda, e perciò non si può dire se esso sia stato soddisfatto dalla città quale noi oggi la vediamo, cresciuta forse per sovrapposizioni successive dal primo e ormai indecifrabile disegno. Ma quel che è certo è che chi abita Zenobia e gli si chiede di descrivere come lui vedrebbe la vita felice, è sempre una città come Zenobia che egli immagina, con le sue palafitte e le sue scale sospese, una Zenobia forse tutta diversa, sventolante di stendardi e di nastri, ma ricavata sempre combinando elementi di quel primo modello. Detto questo, è inutile stabilire se Zenobia sia da classificare tra le città felici o tra quelle infelici. Non è in queste due specie che ha senso dividere le città, ma in altre due: quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati».29 29 I. CALVINO, Le città invisibili, 1972: Milano, Mondadori, 2009, pp. 34-35. 22