C. FARALLI La bioetica tra scienza, morale e diritto 1. Nascita della bioetica La storia dell’origine del termine “bioetica” è nota: esso compare per la prima volta nel 1971 nel titolo del libro, Bioethics. A Bridge to the Future, dell’oncologo americano Van Renssealer Potter, il quale definisce la bioetica come il tentativo di utilizzare le scienze biologiche per migliorare la qualità della vita e lega la sua ragione d’essere alla necessità di formulare una nuova etica in grado di garantire la sopravvivenza dell’umanità attraverso uno stretto dialogo tra scienze biomediche e scienze umane. Gli anni Settanta del secolo scorso, non si dimentichi, sono gli anni delle nuove applicazioni tecnologiche in ambito medico: nel 1965 si effettua il primo trapianto di cuore; nel 1972 si mette a punto la tecnologia del DNA ricombinante (la tecnologia che permette di modificare il DNA di un organismo vivente); negli anni Settanta entrano nell’uso i primi respiratori, che permettono di mantenere in vita persone vittime di gravissime incidenti; nel 1978 nasce Louise Brown, la prima bambina concepita attraverso la fecondazione artificiale. Si delineano così situazioni assolutamente nuove che mettono in discussione le categorie classiche di vita e di morte. In quegli stessi anni la filosofia, fino ad allora prevalentemente orientata in senso analitico, abbandona progressivamente le questioni metaetiche, improntate ad una chiarificazione logico-concettuale, ma senza alcuna attenzione per le questioni concrete, e torna alla discussione delle questioni di contenuto, riguardanti sia i problemi generali (la configurazione della società giusta, i criteri con cui effettuare gli interventi pubblici) sia i problemi particolari della vita umana, di quella animale e della natura (nascono le prime forma di etica applicata: la bioetica, appunto, l’etica animale e l’etica ambientale). Si compie così quello che è stato definito “passaggio dalla metaetica all’etica normativa”, che ha come figure di riferimento negli Stati Uniti John Rawls con la sua Theory of Justice (1971) e in Europa il movimento tedesco della “riabilitazione della filosofia pratica”. Negli Stati Uniti lo sviluppo della bioetica è molto rapido ed è accompagnato dalla nascita delle prime strutture di ricerca: nel 1969 l’Hasting Center, fondato dal filosofo Daniel Callahan; nel 1971 il Kennedy Center alla Georgetown University, diretto da Warren Reich, che nel 1978 curerà la prima grande opera di riferimento in ambito bioetico l’Encyclopedia of Bioethics. Negli anni Ottanta e Novanta la bioetica si diffonde anche in Europa e nelle altre nazioni tanto da poter essere definita “un fenomeno planetario” e si sviluppa a due livelli: quello culturale e quello istituzionale attraverso centri e associazioni. 2. Ambiti tematici Gli ambiti tematici coperti da questo neologismo sono molto vasti e vanno costantemente ampliandosi con il progredire delle ricerche scientifiche e delle loro applicazioni. Accanto alle problematiche strettamente biomediche si collocano nell’ambito della bioetica, intensa in senso ampio, anche i temi della tutela e dei diritti degli animali e della conservazione dell’ambiente. Quanto alla bioetica medica si spazia dall’aborto all’eutanasia, dalla procreazione medicalmente assistita all’ingegneria genetica, dal rapporto medicopaziente, al trapianto d’organi, alla sperimentazione sulle cellule staminali (delle cellule cioè capaci di rigenerare dei tessuti danneggiati, in alcuni casi ricavate da embrioni, cellule staminali embrionali, in altri da tessuti adulti). La bioetica animalista si è sviluppata anch’essa all’inizio degli anni ’70 con la pubblicazione di uno dei “testi sacri” dell’animalismo contemporaneo, Animal Liberation, 1975, di Peter Singer (La liberazione animale, tr. It. 1991). Le tesi di Singer sono ispirate all’utilitarismo di derivazione benthamiana: poiché il piacere e la sofferenza fanno la differenza sul piano morale, allora dobbiamo fare in modo – sostiene Singer – di minimizzare le sofferenze e massimizzare il piacere sia con riferimento agli uomini sia con riferimento agli animali. Singer introduce differenze tra i tipi di animali, cioè tra quelli che hanno solo coscienza, del dolore appunto, e quelli che hanno anche autocoscienza (ad esempio i mammiferi adulti). Il tema dell’autocoscienza è ripreso e sviluppato dall’altro autorevole esponente della lotta a favore degli animali, Tom Regan, autore di The Case for Animal Rights, 1983 (I diritti animali, tr. It, 1990), opera nella quale egli cerca di costruire una vera e propria teoria dei diritti degli animali. Per Regan la presenza di autocoscienza rende gli animali (non umani e umani) dotati di un valore peculiare, che egli chiama “valore inerente” e sul quale fonda l’idea di attribuire diritti agli animali in quanto tali: se infatti – egli argomenta – vengono attribuiti diritti agli esseri umani autocoscenti, non si possono escludere tutti gli altri mammiferi dotati, al pari degli esseri umani, di autocoscienza. Quanto alla bioetica ambientale si possono individuare almeno due correnti: quella dei conservazionisti (una delle voci più rappresentative di questa linea di pensiero è considerato John Passmore, autore di Man’s Responsibility for Nature, 1974), i quali sostengono, partendo da un punto di vista antropocentrico, che la natura è un bene al servizio dell’uomo e quindi va tutelato per motivi di utilità; e quella dei preservazionisti (interessante la prospettiva di Paul W. Taylor, autore di Respect for Nature. A Theory of Environmental Ethics, 1986), i quali, partendo da una prospettiva biocentrica, ritengono che la terra e l’ambiente in genere siano dotati di un valore intrinseco e quindi vadano rispettati per loro stessi. Queste tesi sono state riprese dai movimenti della cosiddetta Deep Ecology o ecologia profonda, contrapposti alla Shallow Ecology o ecologia di superficie. Come si vede da questi semplici accenni il panorama è vastissimo. Ma, se possiamo considerare ormai pacifica l’individuazione per grandi linee del campo di studio della bioetica, costituito dalla chiarificazione e/o dalla soluzione delle questioni etiche poste dagli interventi delle scienze e delle tecnologie sulla vita dell’uomo e del suo ambiente, assai più controversa è la definizione della natura della bioetica: se essa, sia, cioè, una mera disciplina filosofica, collocabile nell’ambito dell’etica applicata o piuttosto un insieme di ricerche su temi che rappresentano un terreno comune di riflessione tra varie discipline riconducibili sia all’area delle scienze umane, come la filosofia, il diritto o la sociologia, sia all’area delle scienze naturali, come la medicina e la biologia. Ridurre la bioetica nel suo insieme alla sola riflessione filosofica significa ignorare da un lato l’apporto alla soluzione delle questioni della ricerca e della pratica medica di chi vive queste realtà (medici, biologici, psicologi) e, dall’altro, il contributo alla discussione che può venire solo dall’apporto ad un dibattito aperto dai cultori di altre discipline, quali il diritto, la sociologia, l’economia ecc. In questo senso si può individuare tra le caratteristiche intrinseche della bioetica la multidisciplinarietà, da intendersi come occasione per l’incontro, lo scambio e la discussione tra le diverse discipline in un rapporto paritario. Ritenere al contrario che il ruolo nel dibattito bioetico dei saperi diversi dalla filosofia sia meramente strumentale ad essa e che consista nell’apporto di dati empirici da valutare o nella pura applicazione di idee elaborate in sede filosofica, significa impoverire la capacità delle diverse discipline di riflettere su loro stesse, di interagire e di comunicare tra di loro. In questa prospettiva la bioetica si configura realmente come terreno ideale per realizzare una relazione di interfaccia tra scienze naturali e scienze umanistiche, nella quale la coesistenza delle varie discipline è tesa ad un’integrazione e non ad una semplice giustapposizione delle diverse prospettive scientifiche in vista della soluzione pratica dei problemi concreti: in questo senso la multidisciplinarietà della bioetica si configura come un obbiettivo da raggiungere, un punto d’arrivo piuttosto che una base di partenza. 3. Principali approcci morali Fin dalla sua nascita la bioetica si è caratterizzata quale riflessione orientata secondo le teorie etiche fondamentali; per citare solo le più influenti, l’utilitarismo, il principialismo, la teoria della legge naturale, che hanno cercato di individuare soluzioni ai problemi bioetici tramite procedure di giustificazione dei giudizi morali. Secondo la prospettiva utilitarista, la bontà di un’azione dipende unicamente dalle sue conseguenze (consequenzialismo) e ciò che è rilevante per queste conseguenze è l’utilità concepita come felicità o benessere, a seconda delle varie versioni dell’utilitarismo (sostenitori di questo approccio a livello bioetico sono importanti autori come Peter Singer, Helga Khuse e James Rachels). Secondo il principialismo, sviluppato soprattutto da Tom. L. Beauchamp e James F. Childress, le questioni bioetiche vanno affrontate alla luce di alcuni principi “evidenti intuitivamente”, ma “non assoluti”, quali l’autonomia, in quanto capacità di libera scelta di ogni essere umano; la beneficenza, cioè il fatto che le nostre azioni verso gli altri devono sempre essere indirizzate al loro bene; la non maleficenza, cioè il fatto che le nostre azioni non devono mai provocare un danno agli altri; e la giustizia, intesa come equità nella distribuzione delle risorse mediche. Tali principi costituirebbero un terreno comune di discussione e vanno bilanciati fra di loro nei casi di conflitto e specificati in coerenza con i nostri giudizi ponderati (intuizioni comuni) finché non si giunge ad un equilibrio soddisfacente. Secondo la teoria della legge naturale, esistono beni che sono fondamentali e inviolabili, vista la loro importanza metafisica nell’ordine del creato, quindi secondo una legge naturale, e non sono fra loro scambiabili: non è, ad esempio, possibile barattare la vita, uno dei beni assoluti, con la felicità (è la prospettiva seguita, in particolare, da pensatori cattolici come John Finnis). L’individuo (medico, infermiere, paziente, ricercatore ecc.) che deve fronteggiare un caso problematico può giungere alla soluzione giusta ricorrendo agli strumenti offerti da questi modelli teorici. La bioetica è stata a lungo pensata come la semplice applicazione di teorie generali alla casistica particolare. Facciamo un esempio: l’eutanasia. Se una persona si trova in una situazione di sofferenza particolarmente grave e non è in grado di togliersi la vita da sè, è moralmente lecito ad un dottore o ad altri soggetti farlo per lui? Secondo l’utilitarismo la risposta può essere fornita solo giudicando le conseguenze: se per la persona la situazione è insopportabile, permettendogli di morire diminuiamo la sua sofferenza e aumentiamo la sua felicità. Peter Singer sostiene che le eventuali resistenze a queste argomentazioni sono solo il rettaggio di convinzioni tradizionali non adeguate ai nuovi problemi posti dalla tecnica; James Rachels distingue tra vita biologica e vita biografica e sostiene che ciò che conta non è il sostrato biologico, ma la vita come esistenza personale, quindi il danneggiamento del corpo non è moralmente rilevante. Secondo la prospettiva della legge naturale, al contrario, il bene della vita è assoluto e quindi non lo si può confrontare con niente altro. E’ indifferente che il nostro intento sia quello di alleviare le sofferenze di un malato. Un’azione indirizzata a violare un bene inviolabile come la vita, a prescindere da qualunque altra condizione, è immorale. Secondo il principalismo l’obbligo di curare il malato, che risponderebbe al principio della beneficenza e a quello di non maleficienza, vale a dire l’obbligo di non causargli un danno, non sono assoluti e vanno bilanciati con gli altri principi, ad esempio quello dell’autonomia del malato che sceglie di morire. In situazioni specifiche, quindi, l’eutanasia può risultare moralmente legittima per rispettare l’autonomia individuale. 4. La particolarità della situazione italiana: bioetica cattolica e bioetica laica Nel nostro paese gli approcci sviluppati secondo questi termini di riferimento si sono intersecanti con la contrapposizione tra etica laica ed etica cattolica; sebbene il confronto tra queste due prospettive sia stato talvolta fecondo, l’opposizione che si è generata corre oggi il rischio di cristallizzarsi eccessivamente dando talvolta luogo a dispute ideologiche. Le ragioni della particolarità dello sviluppo della bioetica in Italia sono di varia natura, culturale e storica. La bioetica, come si è detto, è nata dapprima negli Stati Uniti in connessione, da un lato, allo sviluppo delle ricerche tecnologiche e alla loro applicazione in ambito medio e, dall’altro, a quello che abbiamo definito “passaggio dalla metaetica all’etica normativa”, vale a dire il progressivo abbandono delle ricerche metaetiche di ispirazione analitica e il rinnovato interesse per i concreti e specifici problemi morali. In Italia entrambi questi fattori si sono manifestati con un certo ritardo: lo sviluppo delle ricerche in ambito medico è stato più lento e i maggiori esponenti della cultura laica, di orientamento analitico, tranne alcune eccezioni, fra le quali la più significativa quella rappresentata da Uberto Scarpelli, guardavano con perplessità a una forma di etica applicata, come la bioetica, considerata un inquinamento della purezza del discorso logico-scientifico. Parallelamente la cultura cattolica manifestava un crescente interesse per le problematiche bioetiche, considerandole alla luce di una seconda rinascita del giusnaturalismo, dopo la prima rinascita del dopoguerra. Di fronte a quella che è stata definita “l’invasione del terreno da parte della cultura cattolica”, sin dagli anni Ottanta Scarpelli ha vigorosamente difeso una concezione della bioetica come indagine razionale e libera, tesa a tutelare e garantire le libertà individuali: una bioetica laica, appunto. Laico è infatti per Scarpelli chi ragiona “etsi Deus non daretur”: essere laico non implica affatto né l’agnosticismo né l’ateismo, ma solo l’esclusione di premesse metafisiche o religiose che pretendano di valere per tutti. Chi è laico in questo senso può benissimo essere religioso e aver fede in un Dio rivelato, purché ammetta che tale fede è al di là della razionalità umana e non può costituire argomentazione conclusiva di un ragionamento razionale di un’etica senza verità. Il contributo di Scarpelli è stato determinante nel delineare un indirizzo che ha trovato nel Manifesto di bioetica laica (estensori C. Flamigni, A. Massarenti, M. Mori e A. Petroni, pubblicato in “Il sole 24 ore” del 9 giugno 1996) un primo momento di definizione e che, a oltre dieci anni di distanza, mantiene tutta la sua validità, in un contesto storico in cui – come sostiene Geminello Preterossi nell’introduzione di un libro recente, Le ragioni dei laici – gli attacchi alla laicità sono stati diversi, ma, sotto il comune denominatore di un “uso politico della religione”, tutti volti a delegittimare l’eredità della cultura laica moderna e i suoi portati storici, tra i quali la distinzione tra diritto e morale, tra politica e religione, la difesa dei principi di eguaglianza e di legalità che implicano parità di trattamento e divieto di discriminazione. Per sottolinearne l’attualità, riporto alcuni pezzi di quel Manifesto: «I primi principi della visione laica – vi si legge – riguardano la natura della conoscenza e del suo progresso. In primo luogo, diversamente da quanto fanno la gran parte delle etiche fondate su principi religiosi, la visione laica considera che il progresso della conoscenza sia esso stesso un valore etico fondamentale. L’amore della verità è uno dei tratti più profondamente umani, e non tollera che esistano autorità superiori che fissino dall’esterno quel che è lecito e quel che non è lecito conoscere. In secondo luogo la visione laica vede l’uomo come parte della natura, non come opposto alla natura. Essendo parte della natura, egli può interagire con essa, conoscendola e modificandola nel rispetto degli equilibri e dei legami che lo uniscono alle altre specie viventi. In terzo luogo, la visione laica vede nel progresso della conoscenza la fonte principale del progresso dell’umanità, perché è soprattutto dalla conoscenza che deriva la diminuzione della sofferenza umana. Ogni limitazione della ricerca scientifica imposta nel nome dei pregiudizi che questa potrebbe comportare per l’uomo equivale in realtà a perpetuare sofferenze che potrebbero essere evitate […]. Al contrario di coloro che divinizzano la natura, dichiarandola un qualcosa di sacro e di intoccabile, i laici sanno che il confine tra quel che è naturale e quel che non lo è dipende dai valori e dalle decisioni degli uomini. Nulla è, più culturale dell’idea di natura. Nel momento in cui le tecnologie biomediche allargano l’orizzonte di quel che è fattualmente possibile, i criteri per determinare ciò che è lecito e ciò che non lo è non possono in alcun modo derivare da una pretesa distinzione tra ciò che sarebbe naturale e ciò che naturale non sarebbe. Essi possono soltanto derivare da principi espliciti, razionalmente giustificati in base a come essi riescono a guidare l’azione umana a beneficio di tutti gli uomini.[……] Il primo dei principi che ispira noi laici è quello dell’autonomia. Ogni individuo ha pari dignità, e non devono esservi autorità superiori che possano arrogarsi il diritto di scegliere per lui tutte quelle questioni che riguardano la sua salute e la sua vita. Questo significa che la sfera delle decisioni individuali in questioni come l’eutanasia, la somministrazione di nuovo farmaci, la sperimentazione di nuove terapie, deve venire allargata al di là di quanto oggi non accada […]. Il secondo principio è quello di garantire il rispetto delle convinzioni religiose dei singoli individui. Noi laici non osteggiamo la dimensione religiosa. La apprezziamo per quanto possa contribuire alla formazione di una coscienza etica diffusa. Quando sono in gioco scelte difficili, come quelle della bioetica, il problema per il laico non è quello di imporre una visione ‘superiore’, ma di garantire che gli individui possano decidere per proprio conto ponderando i valori talvolta tra loro confliggenti che quelle scelte coinvolgono, evitando di mettere a repentaglio le loro credenze e i loro valori. Questo rispetto per le convinzioni religiose non ci fa tuttavia dimenticare che dalla fede religiosa non derivano di per sé prescrizioni e soluzioni precise alle questioni della bioetica. Vi può essere una discussione e una giustificazione razionale dei principi morali anche senza la fede. Vi può essere una discussione e una giustificazione razionale che parte dai presupposti della fede. Ma non vi può essere alcuna derivazione automatica di una giustificazione razionalmente accettabile a partire dalla sola fede. Il terzo principio è quello di garantire agli individui una qualità della vita quanto più alta possibile, di contro al principio che fa della mera durata della vita il criterio dominante della terapia medica. Se vi è un senso nella espressione ‘rispetto della vita’ questo non può risiedere nel separare un concetto astratto di ‘vita’ dagli individui concreti, che hanno il diritto di vivere e morire con il minimo di sofferenza possibile. Il quarto principio è quello di garantire a ogni individuo un accesso a cure mediche che siano dello standard più alto possibile, relativamente alla società nella quale egli vive e alle risorse disponibili. Si tratta di una conseguenza di quell’idea di equità che ispira i rapporti sociali nelle democrazie moderne, e che rispetta sia i sentimenti di libertà sia i sentimenti di uguaglianza profondamente diffusi tra i cittadini. Noi siamo consapevoli che se all’equità non verrà dato un contenuto reale, i progressi delle tecnologie biomediche rischiano di non diventare accessibili ai membri più deboli della società. I principi sopra enunciati si fondano a loro volta su di un assunto implicito: la separazione della sfera morale da quella della fede religiosa. In modo analogo, è proprio della visione laica tenere distinti i piani della morale e del diritto. Per i laici, i principi morali si fondano sull’adesione volontaria da parte degli individui. La loro diffusione deriva dall’accordo consapevole che essi ricevono. Come tali, essi sono diversi dalle norme giuridiche, le quali inevitabilmente vincolano l’individuo in base a sanzioni imposte dall’esterno. Se è infatti vero che laddove non vi è consenso morale è pur necessario che esitano norme giuridiche che evitino quanto possibile il conflitto tra i diversi valori. Questa distinzione è particolarmente rilevante per l’ambito biomedico. Come ogni altra sfera dell’attività umana, anche questa ha bisogno sia di principi morali che di norme giuridiche. Ma il peso relativo delle una e delle altre è peculiare, e comunque diverso rispetto ad altre sfere, ad esempio quella delle attività economiche […]. La società nella quale viviamo è una società complessa. E’ una società nella quale convivono visioni diverse dell’uomo, visioni diverse della società, visioni diverse della morale. Per questo è impossibile pensare che in un campo come quello della bioetica, che tocca le concezioni e i sentimenti più profondi dell’uomo, possa esistere un canone morale a vocazione universale. La visione laica della bioetica non rappresenta una versione secolarizzata delle etiche religiose. Non vuole costituire una nuova ortodossia. Anche tra i laici non vi è accordo unanime su molte questioni specifiche. La visione laica si differenzia dalla parte preponderante delle visioni religiose in quanto non vuole imporsi a coloro che aderiscono a valori e visioni diverse. Là dove il contrasto è inevitabile, essa cerca di non trasformarlo in conflitto, cerca l’accordo ‘locale’, evitando le generalizzazioni. Ma l’accettazione del pluralismo non si identifica con il relativismo, come troppo spesso sostengono i critici. La libertà della ricerca, l’autonomia delle persone, l’equità, sono per i laici dei valori irrinunciabili. E sono valori sufficientemente forti da costituire la base di regole di comportamento che sono insieme giuste ed efficaci». Ho riportato questa lunga citazione, perchè mi è sembrato importante ricordare con le parole stesse degli estensori quei principi che suscitarono tanto interesse e tanto intense discussioni non solo su riviste scientifiche, ma anche sui giornali, discussioni che hanno segnato l’uscita del dibattito dall’ambito ristretto degli esperti e l’apertura al grande pubblico e hanno comportato un chiarimento del tanto contestato aggettivo “laico”, aggettivo al quale Francesco D’Agostino, tra i maggiori esponenti della “bioetica cattolica”, aveva proposto in tema di bioetica di rinunciare. Nella replica gli estensori del Manifesto ribadiscono che laico è sinonimo di atteggiamento razionale, critico, scevro da pregiudizi dogmatici, aperto al pluralismo delle varietà delle visioni del mondo – laiche o religiose che siano – e che la bioetica laica pluralista lo è nei fatti, quasi per definizione, per la natura stessa dei problemi di cui si occupa. Laico quindi è usato non in contrapposizione a religioso, bensì a dogmatico, ma anche nella sua accezione più forte sopra descritta. Tuttavia viene ribadito che il ragionamento “etsi Deus non daretur” non è volto a impedire che ognuno persegua liberamente le proprie convinzioni religiose. Una laicità, sotto questo profilo, quale è storicamente incorporata nelle giurisdizioni moderne, fondate sulla separazione tra religione e Stato e presente anche nella Costituzione italiana, come è stato riconosciuto, tra le altre, dalla sentenza n. 203 del 1989, nella quale la Corte Costituzionale afferma: «Il principio di laicità, quale emerge dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione, implica non indifferenza dello Stato di fronte alle religioni, ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo culturale». Una laicità oggi riconosciuta anche a livello europeo, dopo che la Carta di Nizza e il testo della Costituzione europea hanno scelto, anche se tra accese polemiche, di non fondare l’Unione sulle “radici cristiane” al fine di non accedere alla confessionalizzazione del testo costituzionale e di dare spazio al più ampio pluralismo. I valori e i principi della bioetica laica, sono principalmente, come abbiamo visto rileggendo il Manifesto, quelli dell’autonomia della persona e del pluralismo. Entrambi questi principi sono stati e sono oggetto di critiche aspre da parte della cultura cattolica. Quanto al primo, l’accusa è di libertarismo o arbitrarismo, vale a dire che gli individui sarebbero liberi di agire come meglio ritengono. I bioeticisti laici ribattono respingendo l’identificazione delle libertà individuale con una forma di “autonomismo selvaggio” e puntualizzando che la libertà individuale è soggetta a condizioni e limiti, a partire dalla responsabilità individuale. Demetrio Neri, ad esempio, evidenzia come sia la stessa autonomia ad assegnare ad ognuno di noi la responsabilità per ciò che decidiamo con la conseguenza che è propria la connessa responsabilità ad assegnare a tale principio rilevanza morale. Quanto al secondo, l’accusa è di relativismo. I bioeticisti laici ritengono indubbio che l’esigenza di universalizzabilità sia un aspetto essenziale dell’etica (in ossequio al principio kantiano che primo dovere morale dell’uomo è rinunciare alla pretesa di fare delle proprie personali credenze il modello del conoscere e dell’agire), con la conseguenza che i giudizi morali o sono universalizzabili o non sono morali, ma negano la loro assolutizzazione metafisica e metastorica. In altre parole, non essendo i valori morali oggettivi e conoscibili, preesistenti all’uomo, bensì sue creazioni, essi partecipano della sua storicità. La bioetica cattolica, per contro, come possiamo esemplificare citando Francesco D’Agostino, già indicato come uno tra gli esponenti più rappresentativi di essa, si fonda su altri principi: il principio della difesa della vita fisica, che sancisce l’inviolabilità della vita, in quanto la vita corporea, fisica, è “il valore fondamentale della persona”; il principio di libertà e di responsabilità, che implica sia la responsabilità di trattare il malato come persona sia la libertà del medico di non aderire a richieste ritenute inaccettabili dalla coscienza morale; il principio della totalità, che afferma che è lecito intervenire sulla vita fisica della persona solo se ciò è necessario per salvaguardarne la totalità unitaria e inscindibili di corpo-psiche-spirito; il principio di sussidarietà e solidarietà che impegna ogni persona in virtù della costitutiva e ontologica relazionalità a vivere partecipando alla realizzazione dei propri simili. Come hanno dimostrato esempi recenti – quali il referendum sulla procreazione medicalmente assistita e il caso Welby – il confronto tra le due prospettive, laica e cattolica, che, peraltro, non costituiscono blocchi unitari, ma sono estremamente diversificate al loro interno, ha dato spesso luogo a dispute ideologiche, cristallizzando e bloccando il dibattito sullo scontro tra principi: disponibilità o indisponibilità della vita; lo statuto dell’embrione, vale a dire se sia o non sia persona ecc. 5. L’etica della cura come approccio alternativo Per uscire da questa contrapposizione tra principi che risulta alquanto sterile, io credo sia utile guardare con attenzione ad una prospettiva, quella dell’etica della cura, nata negli stati Uniti nell’ambito del dibattito femminista degli anni Settanta-Ottanta, che comincia a circolare anche in Italia nel contesto degli studi di genere e tende, però, alla definizione di un approccio teorico generale, che tenga conto della importanza della diversità sessuale, ma non si limiti a questo ordine di considerazioni. L’etica della cura richiama la nostra attenzione in primo luogo sul fatto che siamo individui in relazione con altri individui, con cui condividiamo impegni, speranze, affetti. Questo punto di partenza indica che la semplice raffigurazione delle persone come atomi possessori di diritti, libertà e obblighi è una semplificazione che trascura completamente il lato della emotività e delle responsabilità. A partire dal pionieristico lavoro di Carol Gilligan (in a Differente Voice: Psychological Theory and Women’s Development, 1982; tr. it. Con voce di donna, Milano, 1987) - secondo cui le donne sono inclini a valorizzare il prendersi cura riferito ad un contesto specifico e alla particolarità delle relazioni umane mentre gli umani agiscono sulla base di principi - e con i successivi contributi dell’etica femminista e delle riflessioni di genere, si è affermata l’esigenza di pensare la vita morale non come conflitto e risoluzione razionale, ma come cura e responsabilità verso gli altri, come riconoscimento del carattere sempre contestuale delle nostre decisioni morali, su cui influiscono l’appartenenza di genere, le storie personali, culturali e sociali. Nonostante i limiti a cui è soggetto il lavoro di Gilligan e di altri studiosi sull’etica della cura e sulla riflessione di genere, bioeticisti e professionisti sanitari vi possono trovare una particolare pertinenza con le questioni della bioetica e dell’assistenza medica. In generale, all’etica della cura si richiede quindi lo sforzo di mettere in discussione certe categorie tradizionali senza tuttavia proporre un definitivo superamento della riflessione sui diritti, sui doveri e sulle libertà: la meta più appropriata sembra quella di un’integrazione tra un’etica della giustizia o dei principi e un’etica della cura. La crucialità dei problemi sollevati dalle nuove biotecnologie rende necessario che la riflessione contestuale sulla cura si rivolga non tanto a misurare la giustezza delle scelte, quanto le motivazioni che possono indurre a compiere una scelta invece che un’altra. La natura interdisciplinare della bioetica può senza dubbio risultare utile per enucleare dimensioni come il rapporto psiche-corpo, le raffigurazioni simboliche legate alla dimensione sociale di attività, pratiche e processi come la nascita e la morte oppure le discriminazioni nascoste in tecniche che solo apparentemente promuovono la libertà degli individui. Più in generale, l’ambito dell’etica della cura concentra l’attenzione su tutte quelle capacità che, pur non essendo direttamente conducibili alla “ragione”, sono tuttavia essenziali per la vita morale: fra tutte l’immaginazione, le emozioni e la fantasia, intese come facoltà che possono aiutarci a capire meglio i bisogni e le sofferenze dell’altro e ad orientare le nostre scelte. A proposito delle emozioni, ad esempio scrive M. Nussbaum: “Invece di vedere la moralità come un sistema di principi che può essere colto dal freddo intelletto e le emozioni come le motivazioni che favoriscono o sovvertono la nostra decisione di agire secondo i principi stessi, dovremmo considerarle come parte costitutiva del sistema del ragionamento etico … Dobbiamo misurarci con il caotico materiale del dolore e dell’ansia, della rabbia e della paura, e con il ruolo che queste tumultuose esperienze giocano nel pensiero riguardo al bene e al giusto”. Questa impostazione costringe a ripensare radicalmente la natura e il ruolo delle emozioni nel nostro ragionamento pratico. Esse non sono mere forze irrazionali da tenere a freno se si vuole condurre un’adeguata vita morale ma costituiscono forme di giudizio cognitivo e valutativo, in quanto sono strettamente correlate agli impegni e ai valori a cui aspira la persona che le prova. Soprattutto in situazioni tragiche – esperienze di malattia, morte, dolore che riguardano noi stessi o persone a noi vicine – le emozioni disvelano le cose a cui attribuiamo valore e che consideriamo essenziali perché le nostre vite siano completamente riuscite. Alcuni dei temi e delle questioni cruciali in bioetica, a titolo esemplificativo, le problematiche legate alla fecondazione artificiale, all’eutanasia e all’impatto delle biotecnologie sull’ambiente, subiscono mutamenti significativi quando vengono analizzati dal punto di vista della etica della cura. Per quel che riguarda la procreazione, le nuove tecnologie riproduttive si inscrivono attualmente in un processo di medicalizzazione in cui la relazione medico-paziente va ripensata proprio tenendo conto del fatto che è la figura medica a determinare il controllo della fecondità femminile e la soddisfazione del desiderio di maternità è in molti casi affidata alla tecnica. Vegetti Finzi ritiene, in merito a tale questione, che le donne oggi per affrontare in modo critico gli interventi tecnici in campo riproduttivo debbano innanzitutto allontanare l’esperienza della maternità dal terreno dell’ovvietà, ridefinendola in modo nuovo, esercitandone i limiti in un piano che ci renda capaci di responsabilità senza abbandono e di responsabilità senza assoggettamento. L’etica della cura in materia di procreazione si differenzia dalle tesi basate sui diritti e sulla negazione dello statuto personale del feto per riconoscere direttamente alla donna e al contesto delle sue relazioni la capacità morale di scegliere responsabilmente, riservando alla persona la discrezione di valutare il da farsi, per cui tale libertà di scelta in base alle relazioni concrete che si stabiliscono fra i soggetti coinvolti, se non è resa fittizia dal contesto sociale e politico, diviene un mezzo necessario ad integrare gli argomenti basati esclusivamente sull’autonomia e sui diritti. Questo tipo di relazionalità si estende anche ai giudizi morale su pratiche quali la fecondazione eterologa, la surrogazione di maternità e le manipolazioni genetiche, dal momento che comprensibili problemi morali sollevano anche le pratiche di diagnosi preconcezionale e prenatale. Anche qui il giudizio su tali pratiche non può essere stabilito a priori ma è rimandato alla sensibilità delle persone coinvolte e impegnate nelle relazioni di responsabilità e cura. In relazione a questo aspetto, il gruppo di studiosi bioeticisti del dottorato di bioetica, da me coordinato, ha inaugurato una iniziativa editoriale che ha visto la pubblicazione di una Antologia di scritti di ispirazione femminista sui temi bioetici, dal titolo Le nuove maternità. Riflessioni bioetiche al femminile, Edizioni Diabasis. L’antologia è una raccolta di sette saggi, incentrati sul tema della procreazione assistita, del controllo delle nascite e dell'interruzione volontaria della gravidanza, che forniscono una articolata mappa del dibattito femminista in materia e le autrici degli scritti sono studiose di fama internazionale: Hilde Lindemann Nelson, Laura M. Purdy, Susan Sherwin, Susanne Gibson, Anne Donchin, Rosemarie Tong, Ruth Chadwick. Sul tema dell’eutanasia, molti degli argomenti proposti nel dibattito contemporaneo sono stati formulati nel linguaggio dei diritti e in particolare del diritto di autodeterminazione. Tuttavia, tale prospettiva trascura la relazionalità che è costitutiva della personalità e della stessa autonomia del paziente che richiede l’assistenza al suicidio o l’eutanasia. Il dibattito sull’ipotesi di legittimare il suicidio medicalmente assistito e l’eutanasia si è sviluppato spesso tenendo conto di un paziente astratto, che non esiste, un paziente che non ha genere, razza, ecc. Questo è lo stesso paziente generico che figura nella maggior parte dei dibattiti bioetici. Solo una minima parte della discussione si è concentrata sul modo in cui le differenze tra i pazienti potrebbero alterare la loro eguaglianza. L’invasione estrema del proprio corpo, dovuta alla medicalizzazione della morte e del morire porta a sostenere da un lato, il diritto a non subire invasioni non volute del proprio corpo, ma dall’altro lato, induce a tener conto della vulnerabilità e dell’isolamento in cui si trova il soggetto in tali situazioni tragiche, le cui richieste di morte sono condizionate anche dal contesto sociale, dalla rete di relazioni in cui è inserito e dalle modalità e dai limiti della cura che gli è offerta. A questo livello il dibattito sull’eutanasia si intreccia con quello sulle cure palliative, intese non solo come insieme di interventi finalizzati all’eliminazione del dolore, ma come considerazione della situazione complessa del malato con tutte le sue esigenze psicologiche e problemi relazionali. Dopo tutto, il dibattito sul suicidio medicalmente assistito e sull’eutanasia ruota proprio attorno a questioni su cui si è focalizzata la riflessione della prospettiva di genere: cosa significa parlare dei diritti di auto-determinazione e di autonomia; la conciliazione di questi diritti con i doveri medici di beneficenza e del prendersi cura e come collocare questi aspetti in un contesto che include scarse competenze e talvolta mancanza di capacità di assistenza delle famiglie, dei professionisti e delle comunità, come pure effettive differenze e squilibri di potere e di risorse. Sulla base di queste riflessioni, l’etica della cura suggerisce di coniugare la specificazione rispetto al contesto con l’astrattezza dei principi. In quest’ottica, i bioeticisti del dottorato di bioetica intendono proseguire l’opera intrapresa con la precedente antologia con una raccolta di saggi sulle tematiche di fine vita, Riflessioni bioetiche al femminile. Eutanasia, trattamenti di fine vita e differenza di genere. Anche in questa occasione le autrici sono studiose di fama internazionale: Susan M. Wolf, Helga Khuse, Diane Raymond, Leslie Bender, Steven H Miles, Alison August, Jennifer Parks, Christine Overall, Margaret Battin. Un tale rimando vale e si applica anche al rapporto delle nuove tecnologie con l’ambiente. In relazione a questo contesto, il dibattito contemporaneo sulla responsabilità dell’uomo nei confronti della natura si configura in primo luogo come una indagine sui valori connessi alla integrità e alla tutela degli ecosistemi, alla conservazione della biodiversità e al benessere degli animali non umani, e come indagine volta all’individuazione dei limiti che è possibile ascrivere all’azione umana nei confronti delle entità naturali. La riflessione ecofemminista, in particolare, assume come portante concettuale che vi sia una profonda e non accidentale connessione tra la logica di dominio espressa nei confronti delle entità naturali e la logica di sottomissione delle donne perseguita nelle società patriarcali. La medesima logica di dominio favorisce ed esprime un sistema di oppressione che legittima ad un tempo la subordinazione della donna e della natura, giustificando in modo arbitrario lo sfruttamento e il dominio di entrambe. L’ecofemminismo, sebbene originato da alcune portanti concettuali comuni e condivise, comprende al suo interno un’ampia differenziazione di scuole e posizioni teoriche ed esprime attenzione per una differente molteplicità di tematiche connesse alla logica di dominio (di volta in volta concettuali, storiche, simboliche, epistemologiche), rispetto alle quali appare necessario un maggiore sforzo di sistematizzazione teorica ed una maggiore attenzione ai reali esiti pratici e alle possibili conseguenze trasformative sul piano etico, ambientale e sociale. Attualmente, è in via di pianificazione un ulteriore volume, da parte dei bioeticisti del dottorato di bioetica, che si occuperà sulla base di queste premesse di estendere l’etica della cura al mondo non umano. L’antologia, Riflessioni bioetiche al femminile. Aver cura della natura: un’etica per il mondo non umano, dovrebbe includere nove saggi e prevede una tripartizione storico-concettuale: nella prima parte, dedicata ai fondamenti dell’ecofemminismo, i saggi muovono una serie di osservazioni critiche alla logica di dominio e sfruttamento della natura insita nel pensiero occidentale e nella scienza moderna, delineando la necessità di ampliare i confini della rilevanza morale sulla base di un’etica della cura estesa a tutte le entità viventi. Nella seconda parte del volume, i saggi si concentrano sulla condizione animale e sulla possibilità di superare il paradigma dei diritti in direzione di un più ampio riconoscimento del valore morale degli animali non umani. La terza parte dell’antologia è dedicata alla riflessione ecofemminista sui problemi della giustizia ambientale. Resta da affrontare una domanda cruciale. Tutti questi complessi fenomeni che riguardano la bioetica e che hanno generato laceranti interrogativi morali concernenti soprattutto l’intervento sulla vita umana e non umana devono trovare una regolamentazione sul piano giuridico oppure il diritto deve astenersi dall’entrare in queste materie? E’ un discorso molto complesso e solo negli ultimi anni i giuristi hanno cominciato ad interrogarsi sull’adeguatezza del diritto vigente e delle categorie giuridiche tradizionali rispetto ai nuovi problemi creati dalla bioetica e oggi il tema del rapporto tra diritto e bioetica è al centro del dibattito internazionale e italiano.