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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI VERONA
FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
CORSO DI LAUREA IN FILOSOFIA
TESI DI LAUREA
L’AZIONE TRA STRATIFICAZIONE ONTOLOGICA
E STRATIFICAZIONE SOCIALE
NEL REALISMO CRITICO
DI MARGARET ARCHER
Relatore:
Ch.mo Prof. EMMANUELE MORANDI
Laureando:
SEBASTIANO TESTINI
ANNO ACCADEMICO 2008-2009
2
INDICE
Introduzione
p. 5
CAPITOLO 1. La nozione archeriana di “conflation” e la teoria
sociale contemporanea
1.1
Il ruolo dell’azione nella teoria sociale
e la nozione archeriana di “conflazione”
1.2
Un esempio di “conflazione verso il basso”:
Michel Foucault
1.3
1.4
p. 9
p. 31
Un esempio di “conflazione centrale”:
Pierre Bourdieu
p. 59
Esempi di “conflazione verso l’alto”
p. 75
CAPITOLO 2. Gli elementi fondamentali del realismo sociologico di
Margaret Archer
2.1
Stratificazione ontologica e stratificazione
sociale
p. 85
2.2
Primato della pratica e dualismo analitico
p. 94
2.3
La stratificazione della realtà: ordini
e differenziazione
p. 111
CAPITOLO 3. Una nuova concezione di azione
3.1
Stratificazione degli agenti: le emozioni
3.2
Interazione tra società e attore: la conversazione
3.3
p. 125
interiore
p. 137
L’azione umana nella società
p. 151
Conclusione
p. 177
Bibliografia di riferimento
p. 179
5
Introduzione
L’essere umano si trova a vivere nel mondo che lo circonda e si rapporta con esso,
con i suoi simili e con se stesso tramite l’azione. Quando camminiamo in una bosco,
nel piantare un chiodo in un’asse di legno, durante una conversazione con un amico
noi stiamo “agendo”, seppur in modi diversi, ma non per questo uno di essi è
superiore all’altro. Che cosa si deve quindi intendere con azione? Quali sono i
vincoli posti ad essa? L’uomo è libero di agire oppure sussistono degli ostacoli
insormontabili oltre i quali non è possibile andare?
Leggendo i giornali e guardando la televisione, ci viene spesso proposta l’idea
secondo la quale noi ci comportiamo come afferma la statistica, siamo ridotti ad
essere pedine dei pubblicitari e degli esperti di marketing, i quali delineano il
comportamento umano, come se nessuno avesse la capacità di decidere
autonomamente cosa fare e come farlo. Ma è veramente così, oppure esiste ancora la
libertà, la possibilità di intraprendere un proprio percorso deciso da noi stessi? Siamo
realmente il “popolo bue” o il gregge che obbedisce alle mode e alle trovate
pubblicitarie? Ci aggiriamo per gli scaffali dei supermercati comprando i prodotti che
abbiamo visto in televisione e proposti secondo regole che ci dovrebbero convincere,
oppure possiamo valutare personalmente quello che vogliamo e che ci serve?
Partendo da queste domande, e avendo come mezzo la teoria dell’agire di Archer, si
cercherà di delineare in primis quali sono gli errori fin qui commessi in merito alla
spiegazione dell’agire, per poi proporne una nuova visione, incentrata sul ruolo del
corpo, del sé e della pratica, affermando il fondamentale contributo di tutto l’ambito
del non-sociale nella formazione di quello che viene ad essere definito come essere
umano.
Nel primo capitolo affronteremo le “conflazioni”, termine adoperato da Archer per
definire le distorsioni della visione dell’agire che si sono proposte via via nella storia.
Esse partono sempre dal presupposto che nell’azione ci siano da una parte gli agenti
e dall’altra la società, mentre ciò che varia è la loro definizione di questo reciproco
rapporto, che tende sempre ad annullare le rispettive influenze. Il primo errore è la
cosiddetta “conflazione verso il basso”, nella quale sarebbe la società a imporsi sugli
individui che la compongono, i quali non potrebbero fare altro che obbedire e
6
adeguarsi a quello che è lo status quo, avendo così numerosi debiti con essa
(l’identità, il sé, ciò che siamo, tutto quello che sentiamo come nostro non sarebbe
altro che un dono sociale). L’esponente di tale visione che si è scelto di affrontare è
Michel Foucault, in particolare l’uso che egli fa del termine “dispositivo”,
emblematico concetto che rappresenta il controllo totale sull’uomo da parte della
società che ne annulla la libertà e l’aspetto attivo. Il secondo errore è la “conflazione
centrale”, nella quale uomo e società sarebbero due facce della stessa medaglia,
arrivando così a continui reciproci rimandi, cadendo in tal modo in un circolo vizioso
dove non si riescono a comprendere le peculiari caratteristiche degli aspetti in
questione e come possa avvenire un influenza tra di essi se li si considera così
aderenti. Il rappresentante di tale teoria è Pierre Bourdieu, il quale, pur ammettendo
un importante ruolo della pratica, arriva a negarne il potere innovativo incanalandola
in ciò che egli chiama “habitus”. Infine affronteremo la “conflazione verso l’alto”,
secondo la quale l’uomo sarebbe totale padrone del proprio destino, come se non
esistessero elementi a lui esterni che possano limitare il campo di azione e di
decisione. Dalla critica a queste visioni emerge l’esistenza di particolari poteri e
proprietà propri dell’essere umano e della società, come anche la possibilità di una
libertà per ognuno di noi, capace di decidere cosa è meglio per lui senza la
mediazione di costrutti sociali.
Nel secondo capitolo saranno trattati gli aspetti basilari della teoria archeriana, a
partire dall’idea di stratificazione, ovvero sostenendo l’esistenza di diversi livelli sia
nella realtà che ci circonda e sia nell’essere umano, in modo da poter poi affrontare la
loro relazione. Tale relazione deve essere intesa come reciproca influenza e non
come imposizione dell’uno sull’altro; è ben diverso affermare che noi agiamo poiché
siamo costretti a farlo in quel modo, piuttosto che sostenere la libertà di adeguarsi ad
una via suggerita. Sebbene l’effetto sia lo stesso, ossia il conformismo, nel secondo
caso abbiamo la possibilità di poter agire diversamente; dipende poi da ciascuno
scegliere e decidere come e cosa fare, in base a ciò che gli sta a cuore. Per poter
sfuggire alla preminenza della società Archer propone un recupero della pratica
incarnata, riferendosi a quanto Merleau-Ponty affermava, negando perciò il valore
estremo consegnato alla discorsività, così da recuperare altri aspetti quali il rapporto
con la natura e con gli oggetti, il tutto tramite l’agire pratico. Il ruolo che il corpo ha
7
è centrale per il formarsi di un sé, prerequisito per un agire in ognuno dei tre ordini di
realtà, ossia quello naturale, quello pratico e quello sociale, ognuno dei quali si
rapporta a noi in modo del tutto peculiare, dando il suo contributo a ciò che
diventeremo. Resti ben chiaro che esiste sempre un filtro personale; la realtà non ci
colpisce come fossimo inerti marionette, ma possediamo una identità tramite la quale
valutiamo ciò che ci capita e ci segna.
Nel terzo ed ultimo capitolo viene esposta la nuova teoria di azione, iniziando con
l’affrontare il motore che ci fa agire, ossia le emozioni. Abbiamo tutti una vita
interiore, la quale funge da stimolo per il nostro agire, tramite l’elaborazione di
priorità nei vari ordini di realtà. In base a ciò che decidiamo sia importante ci
ritroviamo a compiere determinate scelte e a intraprendere certi percorsi. Ad ognuno
dei tre ordini di realtà corrispondo diverse emozioni, grazie alle quali valutiamo le
reazioni al mondo e creiamo la nostra gerarchia di valori. Tale elaborazione avviene
con la “conversazione interiore”, un dialogo tra le parti di noi stessi dove soppesiamo
cosa ci accade, diamo ad esso un valore e poi creiamo la nostra scala di valori, in
questo processo in cui siamo noi a decidere cosa fare e come farlo. Infine si arriverà
a trattare l’uomo inserito nella società, dove arriva dopo aver già affrontato gli altri
due ordini, e quindi non essendo una tabula rasa su cui tutto si può imprimere, ma
piuttosto essendo in possesso di una propria identità e di propri valori che vuole
portare avanti. Arrivando nella società ognuno porta ciò che è, non si fa consegnare
bella e pronta una identità dall’esterno, come invece vorrebbero certe teorie
sociologiche. Pur essendo vero che l’iniziale collocazione dove nasciamo non
dipende da noi, e che molti degli eventi che ci capitano esulano dai nostri poteri,
resta il fatto che siamo noi a valutare l’influenza che essi possono avere sul nostro
modo di agire; non esiste una connessione causale se si parla dell’essere umano, il
quale è sempre capace di riflettere su ciò che lo circonda in modo da trovare la
propria peculiare soluzione al problema.
8
9
Capitolo 1
La nozione archeriana di “conflation”
e la teoria sociale contemporanea
1.1 Il ruolo dell’azione nella teoria sociale e la nozione archeriana di
“conflazione”
L’esistenza di ogni essere umano avviene sul mondo e nel mondo, con modalità e
percorsi differenti. Ciò che accomuna tutti noi è l’azione, il muoversi nell’ambiente
in cui ci troviamo, l’intessere relazioni con gli altri, con la società che abbiamo
attorno, l’interazione con la natura e la produzione di oggetti. Se restassimo fermi
dove siamo, nessuno si accorgerebbe della nostra presenza, del nostro esserci, fatto
che avviene palesandoci in primo luogo a noi stessi, e poi anche agli altri che ci
circondano. Il fatto che l’agire rivesta una tale importanza è dovuto al fatto che è
quello il tramite che abbiamo per poter lasciare un segno della nostra presenza, per
cercare di cambiare la situazione in cui ci troviamo, per perseguire i nostri scopi e i
nostri ideali. Il punto di contatto con la realtà esterna a noi (sulla quale agiamo,
contro cui cozziamo, che ci si oppone o ci facilita) avviene in tale modo, con
l’azione. Le componenti di quest’ultima sono la struttura (in quanto ambiente in cui
l'individuo si trova a poter\voler agire) e l'individuo (in quanto agente). Non si
possono però giustapporre così i due termini come fossero entità esistenti da sempre
o autosufficienti, ma bensì delinearne la genesi e i modi di esistenza.
L'agire è la modalità con cui l'individuo si rapporta col mondo che lo circonda, e la
struttura impatta sulla vita dell'agente solamente quando agisce. Per parlare di società
non possiamo pensare che bastino molte persone in uno stesso posto, che sia
sufficiente la contiguità spaziale, ma deve sussistere anche una interazione tra di
esse. Troviamo così che la componente dell'agire è fondamentale per parlare di
società e di individuo. Il termine agire non si applica solamente a livello sociale,
ossia nei rapporti con gli altri, ma pure a livello pratico, ossia di manipolazione e
creazione di oggetti, e a livello della natura in quanto di soddisfacimento i bisogni.
L'azione deve essere insomma intesa come l'espressione dell'intenzionalità umana.
1
0
L'interazione che abbiamo tra la società in cui ogni individuo vive (lo si voglia o
meno, alla nostra nascita siamo collocati in un sistema sociale che non abbiamo
scelto ma in cui cresciamo e con cui ci rapportiamo) e l'individuo stesso deve essere
affrontata tenendo ben presenti e separati i due poli dell'interazione, senza annullare
l'uno nell'altro. È questa infatti la scappatoia che spesso si è proposta come soluzione
a tale problema; come avviene il rapporto, la relazione, l'azione tra l'individuo e la
società (la struttura) in cui ci si viene a trovare? Invece di cercare di delineare gli
aspetti di influenza reciproca, le libertà e le limitazioni presenti, si è troppo spesso
preferito puntare solamente su una delle due componenti, lasciando l'altra in balia
della prima.
Simmel elabora una definizione di società, intesa come insieme di interazioni formali
prodotte dall’individuo e dal suo rapporto con gli altri individui e con essa, che la
rendono un complesso di relazioni che gli individui creano nel loro continuo
interagire; di conseguenza, il compito del sociologo è di studiare le forme di queste
interazioni così come esse si presentano concretamente, vale a dire all’interno di
determinati periodi storici e specifiche situazioni culturali1. Simmel afferma che
«nessuno potrà negare che si verifichi un’interazione delle parti entro ciò che noi
chiamiamo la società. La società non è un essere completamente conchiuso in sé,
un’unità assoluta, non più di quanto lo sia l’individuo umano»2 poiché «la società è
solo il nome con cui si designa la somma di queste interazioni»3 ed «esiste là dove
più individui entrano in azione reciproca»4.
Dal momento che le strutture sovra-individuali come lo stato, la famiglia, la città, i
partiti politici, e così via, sono per lui cristallizzazioni dei rapporti di interazione che
tengono uniti un insieme di individui, l'oggetto di studio della sociologia è dato dallo
Simmel ha il merito di non reificare la società ma di renderla “in azione”, ossia prodotta
dalla relazione degli individui, e quindi soggetta alla contingenza storica. «Il concetto di società ha
senso, evidentemente, solo se si contrappone in qualche modo alla mera somma dei singoli» (G.
Simmel, La differenziazione sociale, Laterza, Bari, 1995, p. 13). Nonostante ciò ne ricerca però le
costanti sotto le variabili esteriori, onde dare una base “scientifica” alla sociologia, non costretta in tal
modo a confrontarsi con un qualcosa sempre in movimento. Esistono dei modelli su cui gli individui
costruiscono le loro varianti, erodendo così la possibilità di un agire individuale scollegato dalle
imposizioni sociali e sempre riconducibile a delle leggi formulate.
2
G. Simmel, La differenziazione sociale, cit., p. 18.
3
Ivi, p. 19.
4
G. Simmel, Sociologia, Edizioni di Comunità, Milano, 1989, p. 8.
1
1
1
studio delle associazioni, vale a dire dall’analisi dei modelli e delle forme peculiari
attraverso cui gli individui si associano fra di loro e interagiscono: infatti la
sociologia dovrebbe studiare i comportamenti degli uomini e le loro regole di
condotta, non in quanto esistenze individuali considerate nella loro globalità, ma in
quanto essi si costituiscono in gruppi e risultano determinati nei loro comportamenti
dall’interazione che si sviluppa all’interno del gruppo stesso. Se è l’interazione che
condiziona gli individui, le forme dell’interazione rappresentano l’oggetto della
sociologia.
Sebbene il comportamento umano sia prodotto da individui singoli, la sua
spiegazione è possibile solo in quanto gli individui sono membri di un gruppo dal
quale derivano anche dei limiti riferiti a particolari forme di interazione. Spiega
Simmel: «ora, non ho dubbi che esista un solo fondamento che fornisca
un’oggettività almeno relativa all’unificazione: l’interazione delle parti. Noi
designiamo come unitario un oggetto proprio nella misura in cui tra le sue parti vi
siano relazioni reciproche dinamiche»5.
Nella sua sociologia Simmel distingue la forma dal contenuto dei fenomeni sociali.
Per quanto le passioni, i sentimenti, gli interessi e i fini che muovono gli individui
siano esteriormente differenti, al punto da spingerli a dar vita ad associazioni
specifiche, le forme sociali di interazione per mezzo delle quali si realizzano quegli
interessi e quei fini, sono le stesse.
È a partire dalle forme sociali che Simmel elabora i suoi tipi sociali6, ciascuno dei
quali è modellato a partire dalle reazioni e dalle aspettative degli altri individui: è
attraverso la sua relazione con gli altri, che gli attribuiscono una posizione particolare
e nutrono nei suoi confronti aspettative di comportamento, che il tipo diventa ciò che
esso è, essendo le sue caratteristiche attributi della struttura sociale. Il ruolo che è
chiamato a svolgere, così come le aspettative sociali connesse a quel ruolo, è diverso
da quello di ogni altro membro del gruppo stesso.
Nella visione di Simmel l’uomo non reca il proprio fondamento in sé o in qualcosa
5
G. Simmel, La differenziazione sociale, cit., p. 17.
La classificazione dei tipi sociali porta a vedere l'individuo come fosse da posizionare in uno
schema, invece di riconoscergli la possibilità e la capacità di agire “altrimenti” rispetto alle aspettative
e ai condizionamenti, che pur esistono. Si evince da qui la necessità di uno stabile riferimento per
l'uomo, quasi si avesse paura a lasciarlo padrone di se stesso e tirante le fila della propria vita.
6
1
2
che non sia la società; «è invece la somma e il prodotto dei più svariati fattori, dei
quali si può dire solo in senso molto approssimativo e relativo, tanto per la qualità
che per la funzione, che confluiscono in una unità»7. Come si può comprendere da
tali parole, l’individuo viene definito come un contenitore in cui confluiscono i vari
gruppi di cui fa parte, come se non avesse la capacità di selezionare gli cosa desidera
o fosse in possesso di pareri personali. «Quell’individualità dell’essere e dell’agire –
afferma Simmel - cresce, in generale, nella misura in cui si estende la cerchia che
circonda socialmente l’individuo»8.
Il debito che ognuno ha verso la società, sebbene quest’ultima sia definita come
creazione dell’interazione degli individui stessi (si cade qui in un circolo senza
scappatoia; pur non postulando l’esistenza della società se non nell’azione reciproca
degli individui, Simmel arriva poi ad affermare che è tramite essa che noi ci
formiamo), è assai elevato e pesante, dal momento che le dovremmo la nostra stessa
identità: noi abbiamo una «personalità che ha combinato in guisa individuale gli
elementi della civiltà»9.
La stessa affermazione secondo la quale è l’interazione a formare la società si sposta
poi di focalizzazione e Simmel giunge a dire che quest’ultima «indaga i processi che
si compiono in ultima analisi negli individui e che condizionano il loro essere-società
– non già come cause antecedenti rispetto a questo risultato, bensì come processi
parziali della sintesi che noi chiamiamo riassuntivamente società»10. Da costituenti
essenziali per la vita sociale, gli individui passano ad essere passaggi parziali della
società, con quest’ultima che si trova ad essere così una “struttura” in cui i singoli
trovano posto. Se all’inizio era l’interazione a formare la società, alla fine è la società
stessa a dare l’identità e il ruolo agli individui che la hanno creata. Simmel, infatti,
afferma che «ogni agire umano si svolge nell’ambito della società e che nessun agire
può sottrarsi alla sua influenza»11.
Tutta l’opera di Simmel ha a che fare con il rapporto fra individuo e società: egli si
sforza di mostrare sia i fattori di coesione che quelli di disgregazione. Mettendo al
7
8
9
10
11
Ivi, p. 15.
G. Simmel, Sociologia, cit., p. 601.
G. Simmel, La differenziazione sociale, cit., p. 123.
G. Simmel, Sociologia, cit., p. 29.
Ivi, p. 6.
1
3
centro della sua analisi l’individuo in quanto prodotto della società, Simmel enfatizza
che l’individuo è, allo stesso tempo, dentro la società e fuori di essa, ne è incorporato
eppure le si oppone, ne è determinato eppure è determinante, ne è modellato ma
anche si autorealizza. Se entrare a far parte di un insieme di relazioni sociali è il
destino degli individui, pure questo insieme di relazioni costituisce un oggettivo
impedimento a che l’individuo si autorealizzi; se la società moderna è la fonte
dell’individualità e dell’autonomia, essa presenta allo stesso tempo una serie di
ostacoli che si frappongono fra l’individuo e la sua realizzazione di sé12.
Anche Parsons aveva intuito quanto l'aspetto dell'agire fosse importante per il
rapporto tra l'individuo e la struttura che lo circonda. Il suo modello di individuo è
definibile solo partendo dallo schema di riferimento dell'azione, poiché nella sua
visione l'individuo è in quanto agisce socialmente, seguendo schemi riconoscibili,
poiché «esiste – secondo Parsons - una struttura comune a tutti i sistemi d’azione»13,
mostrando in tal modo fin da subito quanto sia lo spazio per la libera iniziativa nella
sua visione.
Al centro della riflessione parsonsiana sta il concetto di azione sociale (in parte tratto
dall'opera di Weber). Su un piano generale l'azione è per Parsons ogni
comportamento motivato, cioè promosso da determinate cause e finalizzato a
determinati
obiettivi.
Questa
prima
caratterizzazione
parrebbe
rinviare
implicitamente a un soggetto titolare di tale comportamento, e agente secondo certi
interessi e regole. «Un “atto” richiede – afferma Parsons - necessariamente i seguenti
elementi: 1) colui che compie l’atto, l’“attore”; 2) l’atto deve avere, per definizione,
un “fine”, ovvero una situazione futura verso la quale è orientato il processo
dell’azione; 3) esso ha inizio in una “situazione”, le cui linee di sviluppo
differiscono, in misura maggiore o minore, dalla situazione verso la quale è orientata
l’azione, il fine»14. In parte tale rinvio c'è effettivamente, nel senso che Parsons
dedica molta attenzione a tali referenti dell'azione (appunto soggetto, interessi, regole
come spinte personali che muovono ciascuno a modo suo). Per un altro verso occorre
12
Cfr. G. Simmel, Il conflitto della civiltà moderna, SE, Milano, 2008. Questo è l'esito cui
giunge Simmel, che non trova una specifica soluzione ma lascia aperto lo spazio a possibili
intendimenti di libertà per l'uomo, che riesce a vedere nella società un ostacolo, e non solo la fonte di
ogni verità.
13
T. Parsons, La struttura dell'azione sociale, Il Mulino, Bologna, 1970, p. 900.
14
Ivi, p. 66.
1
4
precisare ch'egli considera unilaterale un'analisi dell'azione in termini esclusivamente
soggettivo-motivazionali. L'azione che lo studioso americano ha in mente è in effetti
qualcosa di assai più oggettivo e complesso, includente molte altre componenti e
determinazioni che nulla hanno a che fare con la sfera dell'ego del soggetto e con le
sue spinte personali15.
Parsons, per spiegare in che modo l’attore agisca, prende in considerazione il solo
fattore conoscitivo, tralasciando le intenzioni, i desideri, la volontà. L’individuo
compie una determinata azione solamente in base alla conoscenza che ha della
situazione: l’informazione assume il ruolo di guida nei movimenti che ognuno
compie nella sua vita. Si deve «concepire l’attore – secondo Parsons - come colui che
viene a conoscere i fatti della situazione in cui agisce, e quindi le condizioni
necessarie e i mezzi disponibili per il conseguimento dei suoi fini»16. Si presuppone
perciò che si abbia libero accesso ad ogni notizia in merito alla situazione in cui si
trova, cadendo in tal modo in una onniscienza che però, nella realtà, non può
sussistere. Non sapremo mai ogni particolare degno di nota nelle scelte che
dobbiamo compiere, sia per nostra costituzione (siamo mentalmente limitati) sia per
caratteristiche dell’ambiente esterno (non tutto è umanamente conoscibile).
Ciononostante, Parsons prosegue affermando che «dal punto di vista dell’attore,
dunque, la conoscenza, scientificamente verificabile, della situazione nella quale egli
agisce diventa l’unico mezzo di orientamento significativo nel sistema d’azione»17.
Allargando il discorso, Parsons arriva a sostenere che «l’inter-azione dei singoli
soggetti agenti ha luogo in condizioni tali per cui è possibile considerare tale
processo come un sistema in senso scientifico, e sottoporlo allo stesso tipo di analisi
teorica applicata con successo ad altri tipi di sistemi di altre scienze»18. In questo
modo si passa dall’onniscienza limitata alla situazione in cui si sta decidendo a quella
insita nella visione dell’agire sociale nella sua totalità. I caratteri che appaiono qui
15
Si può già evincere in Parsons la presenza dei due caratteri che poi saranno fondamentali per
Archer, ossia le motivazioni personali (il modus vivendi) e la società circostante. Appare però
limitante la circoscrizione dell'agire al solo livello sociale, come se non si avesse azione se non in
riferimento alla società. Archer invece suggerisce un rapporto attivo anche con la natura e il sapere
pratico, come avremo modo di mostrare più avanti, ampliando così i confini della prospettiva
dell'attività umana.
16
Ivi, p. 83.
17
Ivi, p. 86.
18
T. Parsons, Il sistema sociale, Comunità, Milano, 1996, p. 11.
1
5
fondamentali nelle decisioni di ciascuno si riducono ad essere il raziocinio e
l’accesso alle informazioni, escludendo il contributo dei sentimenti e delle emozioni,
che invece in Archer hanno un ruolo basilare per quanto riguarda la scelta. Non è
solo valutando le informazioni in merito ad un evento che si pianifica come agire, ma
altri sono gli elementi che ci inducono a scegliere una possibilità invece che un’altra,
ed essi sono legati a quello che ci sta a cuore, il quale non è assolutamente una
informazione ma fa parte di noi, della nostra personalità, e si crea tramite il rapporto
con i tre livelli della realtà, sempre mediati da ciò che siamo. Lo stesso Giddens
appoggia la linea di azione suggerita da Parsons, sostenendo come esista un «chiaro
legame tra impulso all'azione e consapevolezza sociologica»19, e scadendo così
anch’esso nella limitatezza d una visione che da una parte afferma la sola società
come componente dell’azione, e dall’altra suggerisce come unico metro di azione la
conoscenza di informazioni.
Fondamentalmente l'azione ha per Parsons quattro principali termini di riferimento:
un soggetto-agente, che può essere un individuo, ma anche un gruppo organizzato,
un ceto, o una collettività20; una situazione che include gli oggetti sia fisico-naturali
che sociali coi quali il soggetto entra in rapporto21; un insieme di simboli, alla luce
dei quali il soggetto vede e valuta elementi della situazione e il proprio stesso agire;
infine un insieme di regole in rapporto alle quali l'azione si sviluppa e di determina.
Il fatto essenziale è che l'azione sociale presenta i caratteri di un sistema, e ciò
implica due cose congiunte: da una parte che l'azione è composta di elementi
relativamente stabili, costituenti una totalità o un insieme organico; e dall'altra che
tali elementi sono connessi tra loro secondo vincoli relativamente invarianti, e
obbedienti a una determinata logica. Più precisamente, per Parsons le condizioni
costituenti il sistema-azione sono tre, ossia la struttura, la funzione e il processo. La
prima si riferisce alla composizione del sistema: un sistema è (o ha) una struttura nel
19
A. Giddens, Identità e società moderna, Ipermedium, Napoli, 1999, p. 10.
Interessante tale definizione ai fini dell'analisi che Archer poi farà dell'agire a livello sociale:
anche nella sua visione l'azione si dipana a più livelli, dall'individuale al collettivo, mostrando in tal
modo che anche Parsons aveva intravisto l'importanza rivestita dai vari modi con cui si può entrare
nell'azione, ai fini dello studio sociologico.
21
Pur elencando il livello fisico-naturale tra i componenti che segnano i rapporti del soggetto,
Parsons non ne riconosce le peculiarità e nemmeno i contributi che invece riveste nella formazione del
senso del sé e della coscienza.
20
1
6
senso che i suoi elementi componenti devono rispondere a certe forme di
organizzazione interna. La seconda si riferisce alla modalità d'azione del sistema: gli
elementi di una struttura sono correlati tra loro in modo da rispondere a certi bisogni
del sistema, e in un modo tale che il gioco bisogni-risposte sia retto da leggi
accertabili. Il terzo si riferisce invece al modus operandi del sistema-azione nel suo
complesso; esso esprime il fatto che un sistema-azione produce delle attività e dei
mutamenti i quali obbediscono pure essi a determinati norme.
È all'esame delle funzioni dell'azione sociale che Parsons si è dedicato in modo
particolarmente approfondito. Le principali funzioni individuate da tale esame sono
quattro: l'adattamento, il conseguimento di scopi, l'integrazione e la latenza.
L'adattamento consiste nel rapportarsi del soggetto sociale all'ambiente in modo da
ricavarne le risorse di cui ha bisogno, e più in generale nel mediare le proprie
esigenze con l'ambiente: «l’azione – sostiene in merito Parsons - diventa un processo
di adattamento razionale a queste condizioni»22. Il conseguimento di scopi consiste
nell'elaborazione e nella messa in atto di strategie mirate di condotta, volte alla
conquista di determinati obiettivi23. L'integrazione consiste in un'opera di tutela e
difesa del sistema, attraverso il controllo dello “stato” dei suoi vari componenti e di
un loro appropriato coordinamento. La latenza allude infine alla funzione, o alla
necessità, che il sistema abbia una sorta di riserva di energia o di motivazione in
grado di alimentare i componenti del sistema stesso nell'espletamento dei loro
compiti. La caratteristica di fondo della società è per Parsons di tendere alla
costituzione e alla salvaguardia di una situazione di equilibrio, un'azione di
solidarietà per il mantenimento dello status quo.
Quello che emerge dalla relazione con altri individui (oggetti sociali) viene a
costituirsi come individuo, che però necessita di un altro prerequisito per la
formazione della sua personalità, ossia un orientamento normativo. Pur premendo
22
T. Parsons, La struttura dell'azione sociale, cit., p. 90.
Parsons propone qui un uomo in grado di delineare la soluzione ai propri problemi e una
capacità organizzativa per quello che decide di voler fare, ma subito dopo inserisce la presenza di uno
Stato che tenga le redini di tutto ciò, che coordini ciò che accade al suo interno, negando in tal modo
la libera scelta appena accennata. Non si può parlare di propria decisione se esiste un supervisore il
quale corregge le cose che non vanno in nome di un equilibrio. Tra le altre cose, in tal modo si arriva a
ritenere il sistema vigente come il migliore, quasi non fosse possibile fare di meglio. Reificando la
società viene meno la spinta individuale, e si trascende il singolo in questa entità di cui ognuno non
sarebbe che una parte funzionale. Cfr. T. Parsons, La struttura dell'azione sociale, cit.
23
1
7
sull'aspetto dell'azione, Parsons tira in ballo un sistema simbolico (chiamato cultura)
di riferimento: occorre cioè che l'individuo interiorizzi i modelli valoriali sottesi a
qualunque relazione sociale per poter agire in essa, poiché «relazione con le
rispettive situazioni, inclusive di ogni altra situazione, è definita e mediata – secondo
Parsons - nei termini di un sistema di simboli culturalmente strutturati e condivisi»24.
In questo senso il sistema della personalità è in rapporto di interdipendenza con il
sistema sociale (relazione sociale) e con il sistema culturale (orientamento
normativo). Senza questa interdipendenza non esisterebbe il sistema della
personalità, definita da Parsons come «la totalità degli atti elementari osservabili,
descritti nel loro contesto di relazione ad un singolo attore»25.
Infatti l'individuo, per la teoria dell'azione, esiste solo se esistono le condizioni
sociali, simboliche, morali, comunicazionali (quindi relazionali) capaci di
trasformare le premesse biologiche in una realtà sui generis: la personalità. Lasciato
da solo l'individuo rimarrebbe solamente col suo corpo senza evolversi verso un
livello superiore, rappresentato dall'acquisizione della personalità incontrata con
l'azione sociale, la quale però rientra in una cornice normativa che funge da
riferimento all'azione stessa. Sono le regole sociali che definiscono ciò che siamo:
«esse – afferma Parsons - non soltanto regolano la scelta, da parte dell’individuo, dei
mezzi adeguati ai suoi fini, ma persino i suoi bisogni e i suoi desideri ne sono in
parte determinati»26.
L’uomo non risulta completamente annullato nella visione di Parsons, poiché egli ha
modo di affermare che «fenomeni, cose ed eventi come appaiono dal punto di vista
dell’attore la cui azione è oggetto dell’analisi»27 sono ciò che conta per noi. Ma non
si limita a parlare di raziocinio, e affronta anche la questione della fisicità: «il corpo
– prosegue Parsons - costituisce per l’attore una parte della situazione dell’azione,
non diversamente dall’“ambiente esterno”»28. Mentre per Parsons il corpo sarebbe
una parte dell’azione, per Archer esso è la base su cui si costruisce la stessa azione,
poiché se non fossimo un corpo verrebbe a mancare non solamente la base materiale
24
25
26
27
28
T. Parsons, Il sistema sociale, cit., p. 13.
T. Parsons, La struttura dell'azione sociale, cit., p. 916.
Ivi, p. 469.
Ivi, p. 68.
Ivi p. 69.
1
8
per costituirci in quanto esseri umani, ma anche la stessa consapevolezza di noi non
ci sarebbe. Equiparare il corpo all’ambiente esterno lo rende un oggetto, un qualcosa
su cui sarebbe possibile agire deliberatamente, o semplicemente uno tra i fattori da
tenere in considerazione quando si parla dell’azione, invece che assegnargli la giusta
posizione che dovrebbe occupare. Con l’ambiente esterno ci confrontiamo, ci
relazioniamo con esso, ma non con il corpo, poiché noi siamo un corpo, non ci
relazioniamo ma lo “sentiamo”; non si tratta solamente di un tramite, di un mezzo
per arrivare a qualcosa, ma lo viviamo come ciò che siamo.
Il concetto di ruolo (il posto rivestito da ognuno in seno alla società) è significativo
in quanto, secondo Parsons, attraverso di esso si dà per scontato che esistano le
condizioni socio-culturali di formazione della personalità. Il ruolo, «processo di
socializzazione che concerne – in Parsons -
l’acquisizione dei modelli di
orientamento di valore»29, è fondato sull'orientamento normativo, su modelli di
valore che possono essere istituzionalizzati nel sistema sociale ed interiorizzati nel
sistema della personalità attraverso la socializzazione, tornando qui nuovamente
sull'aspetto attivo del raggiungimento di una identità tramite un agire. Per questi
motivi si può parlare di una individualità costituita attraverso l'appartenenza socioculturale30.
L'orientamento normativo assume una rilevanza fondamentale in quanto è sulla base
29
T. Parsons, Il sistema sociale, cit., p. 236.
Luhmann desidera allontanarsi dalla centralità dell’uomo nella sociologia, poiché ritiene che
«si resti fermi ad un concetto “umanistico” di società, cioè ad un concetto che ha nell’uomo il suo
riferimento essenziale» (N. Luhmann e R. De Giorgi, Teoria della società, Franco Angeli, Milano,
1996, p. 14). Egli ritiene che la personalità, per svilupparsi, necessiti di determinati presupposti socioculturali, i quali non sono propri di nessuno ma agiscono su tutti: la società «è tale perché presuppone
il concorso di un gran numero di sistemi di coscienza ma, proprio per questo, come unità, non può
essere imputata a nessuna coscienza singola» (N. Luhmann e R.De Giorgi, Teoria della società,
Franco Angeli, Milano, 1996, p. 26). Quindi, dal momento che c'è sempre più l'inclusione passiva di
tutti in tutti i sistemi, è sempre più difficile per l'individuo strutturarsi in base ad un'appartenenza socio
culturale (di classe, di ceto, di gruppo, ecc.), cioè sono sempre più problematici i processi di
identificazione e di socializzazione fondamentali nella teoria parsonsiana per la formazione di
specifici elementi della personalità. Da questa critica si può ben vedere come non si entri nel problema
di cosa l'uomo possa fare, ma si resta nel problema di cosa si possa fare all'uomo; «la società moderna
non è costituita da individui e non può più essere descritta come se fosse costituita da individui, ma
deve attribuire agli individui, in quanto esistenze mentali, corporali, una posizione esterna» (ivi, p.
376). Si sposta l’uomo da una ambito ad un altro, incasellandolo come non avesse coscienza di sé e
capacità di reagire, senza mai vedere, come suggerisce Archer, quali siano gli altri livelli in cui
l'individuo forma se stesso.
30
1
9
di un sistema di valori di riferimento che il soggetto, confrontandosi socialmente,
può riconoscersi in quanto individuo, personalità. L'orientamento normativo esprime
quindi l'importanza dell'appartenenza sociale per la costituzione dell'identità.
L'individuo (la “parte”) viene cioè considerato come appartenente ad un determinato
contesto socio-culturale in cui si identifica (il “tutto”). In questo senso l'individuo
(parte) si forma attraverso un processo di distinzione/assimilazione rispetto agli altri
(altre parti) siano questi individui o gruppi. Non si ritiene che l'individuo si realizzi
da sé ma che abbia bisogno di tutta una serie di rapporti in cui egli si immerge con il
suo agire. La capacità di agire attivamente e consapevolmente è ridotta al lumicino in
Parsons, per il quale il compito della sociologia è quello di «analizzare i processi
oggettivi che si può pensare influenzino l’azione, agendo sull’attore senza che egli
sia consapevole di ciò che sta “realmente” accadendo»31. Nella sua visione
esisterebbero quindi regole oggettive, e quindi valide per ognuno di noi, che si
applicano su individui inconsapevoli di quanto sta loro accadendo, negando in tale
modo la responsabilità e la possibilità stessa di un agire legato alla nostra decisione.
Attraverso la cultura, in Parsons, il sistema sociale "mette-in-forma" l'individuo, cioè
gli fornisce quelle informazioni necessarie per costituirsi, e grazie al concetto di
senso si esprime la possibilità di un legame co-costitutivo tra individuo e società, tra
sistema sociale e sistema della personalità. Senso e orientamento normativo sono
quindi condizioni necessarie per pensare ad una individualità che si costituisce nella
inter-azione sociale, nell'appartenenza sociale. Solo in quanto agisce in base al senso,
o in base all'orientamento normativo, l'individuo può essere inteso come parte di un
tutto.
Attraverso la socializzazione, secondo Parsons, l'individuo adegua la sua
autoimmagine al posto che occupa nella società. La socializzazione è sempre
socializzazione ad un ruolo che implica una componente normativa istituzionalizzata
nella società e interiorizzata dall'individuo.
Ritenendo che la struttura sia determinante di ogni comportamento umano e che sia
impossibile sfuggire al suo volere, si è giunti a quella che Archer definisce
“conflazione verso il basso”, ossia ad un appiattimento dell'uomo sulla società che
gli direbbe cosa fare e come farlo, togliendo in tal modo ogni valore alle scelte
31
T. Parsons, La struttura dell'azione sociale, cit., p. 93.
2
0
umane e ad un decidere per proprio conto. Sull'altro versante si è assistito ad una
eccessiva elevazione delle capacità umane, come se ognuno potesse fare ciò che
vuole con l'ambiente che lo circonda, disconoscendo in questo caso l'esistenza di una
resistenza da parte della struttura, che invece c'è e si fa sentire. Questo errore di
visione è la “conflazione verso l'alto”. Infine, altra scappatoia non meno dannosa, è
la “conflazione centrale”, in cui si evita direttamente il problema, facendo di
individuo e struttura due facce della stessa medaglia, in modo da non poter neanche
rilevarne i caratteri, ma chiudendosi in un circolo che alla fine non spiega niente,
cadendo nell'autoreferenzialità. Da qui la necessità di rivedere l'approccio nei
confronti dell'agire, per giungere a capire come effettivamente esso avvenga, senza
nulla togliere agli elementi in ballo.
All'interno della Gestalt più di una figura ha ritenuto importante evidenziare il
rapporto tra individuo e struttura, ritenendo tale rapporto fonte di crescita e di
stimolazione. Perls esplora il rapporto tra il sé ed il mondo: i confini dell'io vanno
negoziati perché c’è qualcosa all’esterno di cui abbiamo bisogno, evidenziando in tal
modo la nostra non autosufficienza32. Il processo attraverso il quale faccio passare
qualcosa attraverso i confini dell'io viene definito contatto, dato dalla capacità
dell’individuo di rispondere in modo creativo e flessibile con persistenza e chiarezza
all’interno di un ambiente che suscita interesse e corrisponde ai suoi bisogni.
Secondo Erving e Miriam Polster il contatto è di per sé un processo di crescita e di
cambiamento che coincide con l’esperienza33. Con il termine esperienza intendono
tutte quelle azioni, o sistemi di contatti, che l’individuo, posto all’interno di un
sistema, inevitabilmente sperimenta. Il contatto è lo scambio tra l’individuo e
l’ambiente, poiché avviene al confine e delimita il sé dal diverso da sé. Questa
rapporto con l'esterno implica, sempre in tale visione, l’introiezione, vale a dire una
32
Le ricerche della psicologia della Gestalt dimostrarono che ogni individuo è costantemente
bombardato da una serie di stimoli: nonostante ciò il sistema percettivo ne seleziona solo alcuni e li
organizza in strutture significative, o Gestalt. In termini psicologici questo significa che, come
individui, percepiamo noi stessi e il mondo come il risultato di un insieme di stimoli selezionati dal
nostro sistema percettivo. Gli stimoli non vengono percepiti in modo disgiunto gli uni dagli altri, ma
sono organizzati in modo da rispondere al bisogno di costruire significati basati sull’esperienza
percettiva dell’ambiente. Cfr. F. S. Perls, R. Hefferline e P. Goodman, Teoria e pratica della Terapia
della Gestalt. Vitalità e accrescimento nella personalità umana, Astrolabio, Roma, 1997.
33
Cfr. E. e M. Polster, Terapia della Gestalt integrata. Profili di teoria e pratica, Giuffrè,
Milano, 1986.
2
1
modalità con cui l’individuo si sente soddisfatto di sé se fa coincidere i propri
bisogni con quelli dell’altro o dell’ambiente. Attraverso le introiezioni, la cultura ci
trasmette le norme, i codici di comportamento, il linguaggio. Essa definisce dentro di
noi i “devo” e i “non devo”, che rendono accettabili o inaccettabili le nostre idee, i
nostri valori, le nostre azioni. La persona, quando usa l’introiezione, si adatta
passivamente all’altro e alle situazioni che ne derivano, utilizzando molte energie per
minimizzare le inevitabili differenze dall’altro e per spegnere l’aggressività che serve
per discriminare ciò che va assimilato da ciò che va rifiutato. Se gli altri agiscono in
un modo contrastante dal suo, l'individuo preferisce adeguarsi per non contrapporsi.
Il confine-contatto risulta così facilmente invaso dagli introietti e per rendere più
funzionali le introiezioni bisogna ripristinare il processo della scelta personale34.
Anche Giddens studia il rapporto tra struttura e individuo per mezzo dell'agire
quando si sofferma sulla lunga diatriba sociologica fra macro livello (ossia la
dimensione generale della società, come struttura e processi) e micro livello (la
dimensione pratica e quotidiana della vita sociale, le sue interazioni e i suoi
significati)35. Criticando l’approccio di Durkheim e l’irriducibilità della società agli
individui («riconoscere che la società ha un’esistenza propria, indipendentemente dai
singoli individui»36 è quanto Giddens rimprovera al sociologo francese il quale
compie il primo discrimine, reificando la società stessa. Così facendo postula che
essa possa sussistere anche in assenza di chi la agisca, cosa che invece in Archer non
appare possibile), Giddens propone una sociologia interpretativa che si sofferma sui
motivi e gli stimoli delle azioni individuali. Il sociologo inglese afferma l’interazione
tra i due elementi (realtà collettiva e individuo): in altre parole, le strutture della
società hanno effetti sulle persone che nelle loro azioni producono le strutture stesse.
Centrale è così la pratica sociale che dà forma al mondo sociale e che comprende sia
una
34
componente
strutturale
sia
una
legata
all’attore37.
Pur evidenziando la centralità della visione individuale, con la categoria di introiezione si
toglie quella che poteva essere l'attiva decisione su quanto ci circonda, poiché alla fine noi saremmo
liberi di mediare con noi stessi ma solamente riferendoci ad uno schema esterno al quale adeguarsi
perché troppo invasivo e fonte di condizionamento.
35
Cfr. A. Giddens, Nuove regole del metodo sociologico, Il Mulino, Bologna, 1976.
36
A. Giddens, Durkheim, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 32.
37
Come si vedrà, questa è la tipica definizione di quello che Archer definisce “conflazione
centrale” dove, evitando di studiare il rapporto tra individuo e società, si afferma una loro reciproca
costituzione, senza uscire da un circolo vizioso nel quale non si comprende chi faccia cosa.
2
2
Giddens formula la nota “teoria della strutturazione” legandosi a tale problematico
rapporto che intercorre tra individuo e struttura, cercando una sintesi fra forze sociali
e individuali nella formazione della realtà. Il punto centrale del suo pensiero è il
riconoscimento che così come le azioni individuali sono limitate dalle strutture, allo
stesso modo esse sono portatrici del cambiamento sociale. Le azioni agiscono sulla
realtà che è formata e forma poi le azioni stesse. Le strutture, quindi, sono
quell’insieme di regole e risorse che gli attori mettono in campo nelle pratiche che
producono la società stessa. Il concetto di dualità della struttura cerca di spiegare
proprio questo aspetto: le strutture impongono vincoli sulle azioni ma in pari tempo
le rendono possibili: sussiste una «autonomia d’azione che è resa possibile proprio
dall’appartenenza alla società»38. Nonostante la critica mossa allo strutturalismo,
anch’egli però si ritrova a dover affermare in un certo grado l’esistenza di una società
senza debiti agli individui, ricadendo in tal modo in quello che voleva negare.
Archer ha ben presente queste diverse risposte offerte al problema della realtà, che
sfociano nel rischio delle conflazioni, ossia nel sostituire alla realtà stessa una visione
della realtà, per forza di cose parziale, solamente per aggirare il problema e trovarne
a tutti i costi una soluzione “semplice”. Al posto di scorgere il reale così come si
presenta, ossia una situazione in cui noi possiamo agire di nostra spontanea volontà
ma facendo sempre i conti con i limiti strutturali, con i quali ci rapportiamo ma che
non ci formano né determinano, si preferisce dare tutto il peso ad un solo frangente,
mascherando in tal modo gli elementi che sono in discussione. È evidente la
possibilità di agire nella maniera che riteniamo adeguata, di assumere il
comportamento che pensiamo sia adatto a noi, come anche d'altra parte l'esistenza di
una struttura che ci precede e ci pone degli ostacoli non viene messa in discussione.
La difficoltà sta proprio nel combinare le due parti senza cadere in reificazioni,
Emblematica la definizione che Giddens propone di società: «una società è un insieme, o sistema, di
modi di comportamento istituzionalizzati. Parlare di forme di comportamento sociale istituzionalizzate
vuol dire riferirsi a modi di pensare e di agire che si ripetono con costanza – o, secondo la
terminologia della moderna teoria sociale, si riproducono socialmente – per un lungo periodo e in uno
spazio relativamente vasto» (A. Giddens, Identità e società moderna, cit., p. 15). Si tratterebbe quindi
di una mera ripetizione nel tempo dei medesimi schemi di comportamento, che eliminano in toto la
possibilità di una azione libera e consapevole. Giddens prosegue poi affermando l’esistenza di un
«reciproco condizionamento di individui e istituzioni: creiamo la società nel momento stesso in cui ne
veniamo creati» (ivi, p. 18). Il gioco è quindi fatto: gli individui sarebbero formati da ciò che creano, e
perpetuerebbero comportamenti delineati dalla società che essi stessi hanno creato.
38
A. Giddens, Durkheim, cit., p. 26.
2
3
poiché è proprio nell'agire, nella pratica, nella prassi che esse entrano in contatto.
Siamo noi con le nostre azioni ad attivare i vincoli e gli ostacoli da parte della
struttura, che non esiste se non agita da qualcuno.
Qui si tratta di «combinare la concreta individualità di ciascuno di noi con la nostra
indiscutibile socialità»39 poiché l’interazione tra gli uomini e la società è il fulcro
centrale della discussione della sociologia: per fare ciò si devono assegnare agli uni e
agli altri poteri e proprietà peculiari. Nel caso specifico dell’uomo, tali proprietà sono
di natura relazionale nei confronti dei tre ordini che costituiscono la realtà (naturale,
pratico e sociale) ma senza cadere in una razionalità strumentale (conflazione verso
l'alto) né assimilarlo ad una concezione di dominio della società (conflazione verso il
basso).
L’errore compiuto più diffusamente dalle conflazioni verso il basso è un
assoggettamento dell’umanità che diviene un epifenomeno delle forze sociali
trascurandone così il potere operativo come quello causale: l'individuo diventa
incapace di ogni benché minima resistenza, poiché l’esistenza di una resistenza
implicherebbe il fondamento dell’uomo in qualcosa che non sia la società. Si «nega
ai soggetti umani qualsiasi forma di dominio esterno sullo sviluppo e sulla forma
esterni della società»40 rendendoli al contrario dominati e formati dalla società. I
39
M. S. Archer, La conversazione interiore. Come nasce l'agire sociale, Erickson, Trento,
2006, p. 139. Spesso lo studio della società si compie cercando in essa delle connessioni costanti,
come accade anche negli esperimenti scientifici, perché dal punto di vista razionale la scoperta di
connessioni regolari rappresenta un traguardo. Il problema, per niente piccolo, ma che però è spesso
dimenticato consiste nel fatto che gli esperimenti scientifici sono eseguiti in laboratorio preparando un
ambiente adatto, ossia agendo su un sistema chiuso, mentre invece la società non è per niente un
sistema chiuso ma bensì aperto a molteplici influenze che, anche se non sono conosciute, producono i
loro effetti. Voler trovare regolarità in un sistema di cui non si conosce tutto (e mai si potrà conoscere
tutto in quanto gli individui hanno ognuno le proprie caratteristiche irriducibili ad una conoscenza
scientifica) è un compito che può essere portato a termine solamente riducendo le forze in questione,
ossia escludendo fattori che razionalmente non sono conosciuti e limitandosi, nell'analisi compiuta, a
quanto risulta funzionale. Per poter studiare la natura (sistema aperto) il ricercatore crea una
situazione innaturale, un esperimento (sistema chiuso) dove applica le sue teorie e i suoi schemi. La
regolarità empirica esiste solo perché si attua un esperimento: paradossalmente si cerca una legge
della natura ricreando un ambiente non naturale e compiendo in questo sistema eventi che solo in esso
accadono. Cfr. A. M. Maccarini, E. Morandi e R. Prandini, (a cura di), Realismo sociologico. La realtà
non ama nascondersi, Marietti, Città di Castello (Pg), 2008, pp. 55-84 e 225-257.
40
M. S. Archer, Essere umani. Il problema dell’agire, Marietti, Genova, 2007, p. 34. «Tutte le
convinzioni, i costumi, i gusti, le emozioni, gli atteggiamenti mentali che caratterizzano il nostro
tempo sono stati in realtà programmati al solo fine di sostenere la mistica del Partito e di impedire che
2
4
soggetti sarebbero costituiti da forze sociali al di fuori del loro controllo ma che a
loro volta li controllerebbero senza possibilità di scampo41. Anche Althusser afferma
che gli individui sono i supporti di una ideologia («struttura dominante sulle strutture
subordinate e i loro elementi»42) la quale fa di essi ciò che sono, plasmandoli in
funzione della posizione che rivestiranno, senza badare al fatto che le persone
possono scegliere cosa fare della loro vita e delle loro priorità. L’individuo, sostiene
Althusser, trova «la sua funzione concettuale nella struttura teorica che lo contiene,
poiché il suo significato teorico dipende interamente da questa funzione»43. Se tutti i
poteri umani, esclusi quelli derivanti dalla biologia, sono donati abbiamo «una teoria
del sé che è messa a disposizione dalla società. Quest’idea elide il concetto di sé con
il senso di sé: non siamo null’altro di ciò che la società fa di noi, ed essa ci plasma
così come siamo»44. Vengono messe a tacere le fonti del sé che si situano ad altri
livelli quali le pratiche incarnate, a favore di un ambiente ridotto a essere
comunicazione sociale. Si evince da queste posizioni lo scontro di tale visione con
quella di Archer, per la quale il fondamento dell’identità personale risiede in altri
strati, con la preminenza della pratica e sottolineando la possibilità di ognuno di
poter raggiungere gli scopi decisi da lui stesso.
Nella conflazione verso l’alto, al contrario, l’antropocentrismo raggiunge il suo apice
poiché la totalità del campo sociale è definita da una specifica proprietà delle persone
e non ne ha di proprie. Abbiamo in questo caso una negazione della capacità di
influenza e di poteri propri della struttura, per cui l’uomo si ritrova ad essere asociale
e padrone di ciò che lo circonda: «questo io – secondo Archer - si colloca fuori dalla
natura come suo padrone, ma si colloca fuori dalla storia come l’individuo solitario
venga colta la vera natura della società contemporanea» (G. Orwell, 1984, Oscar Mondadori, Cles
(TN), 2006, p. 216).
41
«Era come nuotare contro una corrente che vi spingeva all'indietro a dispetto degli sforzi più
disperati, dopodiché decidevate all'improvviso di girarvi e, invece di opporre resistenza, di
abbandonarvi ad essa. Nulla era mutato, se non il vostro atteggiamento. L'evento prestabilito si
compiva comunque. Non riusciva a capire per quale motivo si fosse ribellato. Era tutto così facile,
eppure...» (G. Orwell, 1984, cit., p. 284).
42
L. Althusser e E. Balibar, Leggere il Capitale, Feltrinelli, Milano, 1971, p. 105.
43
Ivi, p. 223.
44
M. S. Archer, Essere umani, cit., pp. 7-8.
2
5
le cui relazioni con gli altri non sono in alcun modo costitutive del sé»45. Un siffatto
io appare universale e non frutto delle situazioni in cui si è ritrovato a vivere e dei
rapporti con la natura. Altresì non si deve vedere nella contingenza il motore
dell’identità umana: esiste un fondamento stabile che resta tale nello svolgersi degli
eventi, che ci fa riconoscere sempre come noi stessi (senso di sé opposto al concetto
di sé). In breve in una tale visione raziocinante che posiziona l’uomo al vertice
«manca proprio quell’elemento guida per acquisire una identità personale peculiare,
che consiste nel determinare le premure fondamentali e nell’accomodarvi le altre»46.
Esiste anche un terzo tipo di conflazione, definita centrale, che nega il riduzionismo
in favore di una inseparabilità tra parti e persone. Nessuno dei due livelli mantiene la
sua autonomia perché essi si costituiscono reciprocamente, per cui non possono
essere analizzati separatamente limitando in tal modo la loro conoscenza. Si giunge a
una non meglio definita via di mezzo che oscilla tra determinismo e volontarismo
senza arrivare a una conclusione. Nel reciproco rimando tra individuo e società non
si comprende “chi” influenzi “chi”, sopprimendo la differenza temporale e non
riconoscendo proprietà proprie a nessuno dei due ambiti. Il volontarismo umano si
infrange sulla struttura che guida le nostre azioni, ma a sua volta la struttura sarebbe
creata dalla libera azione umana. Ci troviamo davanti ad un circolo vizioso senza
risposta alcuna: «nessuno di noi – scrive Giddens - potrà mai formulare (o anche solo
concepire) un determinato progetto, senza misurarsi con circostanze esterne che
esulano dalla sua volontà»47. La società esiste, lo si voglia o meno, e dobbiamo
rapportarci ad essa. La svolta risiede nel ricercare un punto di vista umano che si
opponga a visioni troppo riduttive o troppo privilegianti le sue proprietà. La diretta
percezione umana abbraccia solamente l’attuale (e nemmeno tutto), limitando la
nostra conoscenza sia a quanto ci tocca da più vicino sia alla capacità di penetrazione
discorsiva. Contrariamente a quanto afferma Giddens48 non possediamo una perfetta
45
Ivi, p. 32.
Ivi, p. 7.
47
M. S. Archer, La conversazione interiore, cit., p. 209.
48
Nella sua visione Giddens sostiene che l'attore ha sempre una totale conoscenza
dell'ambiente che lo circonda e delle conseguenze del suo agire, affermando così una capacità di
conoscenza pressoché illimitata sulle strutture, unita anche al potere che si avrebbe per agire su di
esse: «quasi ogni paesaggio è soggetto al coordinamento e al controllo dell'uomo» (A. Giddens, Le
46
2
6
conoscenza di ciò che ci circonda e neanche delle conseguenze dei nostri atti; non
possiamo sapere ogni cosa che ci riguarda o che viene implicata in ogni nostro gesto.
«Il realismo sociale – nella definizione che ne dà Archer - attribuisce un peso
considerevole ai nostri io incarnati reali che vivono nel mondo reale. Costituisce un
resoconto naturalistico della coscienza senza considerare quest’ultima come una
dotazione aprioristica»49. Il debito verso la natura non si limita alla costruzione di
una coscienza ma anche all’autoriflessività, fatto che però i sostenitori della
conflazione centrale negano con veemenza ritenendo ogni prassi basata su proprietà
sociologiche. Un altro elemento importante e spesso trascurato è la volontà, non
intesa nel senso di Schopenhauer per cui noi saremmo guidati ciecamente da essa al
solo fine di riprodursi, ma considerata come decisione personale in base alla quale
stabiliamo cosa vogliamo fare e le nostre priorità di vita, come «interessi pratici dei
soggetti coinvolti»50.
Molte definizioni sono applicate sull’uomo come se egli fosse malleabile ad ogni
intervento esterno, mentre invece «occorre sapere chi si è per determinare se si sia
stati o meno arricchiti da qualcosa»51. Le teorie presuppongono necessariamente un
uomo su cui realizzarsi ma non spiegano da dove provenga questa stabilità propria di
ciascuno sulla quale avere poi presa. Non può essere la teoria stessa a creare il suo
oggetto: chi è colui che ha creato la teoria se non un soggetto che dovrebbe a sua
volta essere intrappolato in essa? Come in Schopenhauer: come è possibile che
l’umanità sia schiava della Volontà e che essa si nasconda perfettamente a tutti per
poter agire, Schopenhauer escluso? Possedere poteri e proprietà esterni alla teoria
conseguenze della modernità. Fiducia e rischio, sicurezza e pericolo, Il Mulino, Bologna, 1994, p.
67).
49
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 30. L’importanza che la natura riveste per l’esistenza
dell’uomo e che la contraddistingue dalla società è il fatto che mentre quest’ultima necessita sempre di
uomini per esistere (sia che essa sia combattuta, sia che sia appoggiata, la presenza umana è
fondamentale. Intendendo la società come la relazione tra gli uomini non la possiamo pensare come
una struttura esistente anche senza di essi, cadendo in tal modo nella reificazione di qualcosa che
invece ha esistenza solamente in atto nell’interazione tra uomini), la natura esiste tranquillamente
anche senza uomini. La società è stata creata dagli uomini che si sono rapportati tra loro, ma ognuno
nasce nella natura in quanto essa c’è, con o senza qualcuno che la viva come tale. Cfr. A. M.
Maccarini, E. Morandi e R. Prandini, (a cura di), Realismo sociologico. La realtà non ama
nascondersi, cit., pp. 43-54.
50
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 38.
51
Ivi, p. 51.
2
7
dovrebbe essere la condizione minima per permetterle di applicarsi su qualcosa e non
sul vuoto. L’incarnazione umana viene tenuta in secondo piano troppo spesso quando
invece dovrebbe essere la base su cui costruire il rapporto tra uomo e mondo, del
quale pare essere decisivo solo il livello sociale.
I conflazionisti negano la stratificazione della realtà non riconoscendo l’esistenza di
poteri e proprietà indipendenti appartenenti sia alla società che alle persone, trovando
come unica e ultima soluzione il considerare o le parti o le persone i costituenti
ultimi della realtà. Contro tutto ciò si scaglia il realismo sociale trattando di parti e
persone «senza ammettere nemmeno per un istante che le loro rispettive proprietà e
poteri possano essere ridotte le une alle altre, o debbano essere considerate come
inseparabili e reciprocamente costitutive»52. Da ciò risulta evidente come la ricerca
debba vertere sulle proprietà e i poteri umani e sulla loro emergenza da un mondo
inteso in ogni suo livello e non ridotto alla società, al dispositivo o alla
comunicazione.
I poteri umani hanno una base nella coscienza di sé che non deve essere derubricata
come semplice epifenomeno delle azioni esterne (“internalismo”), per il quale non
esisterebbe null'altro che il corpo e le azioni. Da rigettare è anche la visione
dell'“esternalismo” per il quale «il cervello di ognuno di noi si ridurrebbe a una sorta
di elaboratore meccanico di dati, privo di contenuti propri, che raccoglie i significati
che circolano nell'habitat sociale»53. In entrambe queste visioni l'interiorità e la
riflessione che ci sono proprie vengono negate, e con esse tutte le possibilità di una
consapevolezza di sé e di quanto si sta facendo.
Il nostro senso di sé precede la socialità e si acquisisce tramite esperienze pratiche,
poiché «il potere di conoscere noi stessi in quanto esseri nel tempo, dipende – nel
pensiero di Archer - dall’esperienza pratica fatta nell’ambiente»54. La nostra
individualità sorge da come ci rapportiamo con il mondo e da come organizziamo le
nostre premure riguardo ai tre livelli che costituiscono il reale. È solo all’ultimo
passaggio che entriamo nella società, ma vi giungiamo con un bagaglio e un senso di
52
Ivi, p. 11.
M. S. Archer, La conversazione interiore, cit., p. 84. Non mancano le analogie, nella storia
della psicologia, tra la mente umana ed un calcolatore, quasi che il nostro cervello e la nostra stessa
iniziativa fossero ridotti all'analisi di dati cui trovare una soluzione. Cfr. Vicario G. B., Psicologia
generale. I fondamenti, Laterza, Milano, 2001, pp. 176-206.
54
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 12.
53
2
8
sé già presente, grazie al quale decidiamo come agire nei vari livelli. Sono gli
incontri incarnati che ci permettono di formare il senso di sé dal momento che le
persone sono necessariamente sempre in rapporto con l’ambiente naturale; nasce così
una memoria incarnata la quale conferisce senso alla continuità che percepiamo.
Siamo sempre consapevoli di essere i medesimi anche nel trascorrere del tempo
grazie al nostro corpo e alla sua memoria, poiché possediamo «un senso continuo di
sé, che è unico per ogni individuo e che pertanto ancora la sua specifica identità di
sé»55. Il richiamo al corpo non deve essere inteso come un ancoraggio alla
percezione diretta, ma come fondamento materiale della nostra identità personale e
della conoscenza incarnata.
Nessuno mette in dubbio il fatto che siamo esseri riflessivi: riconoscersi tali nel
tempo implica un saper pensare. Archer sottolinea il fondamentale ruolo che la
pratica riveste nello sviluppo del pensiero stesso: «le dimostrazioni sperimentali di
Piaget – afferma Archer - del fatto che sono le attività pratiche del bambino a
instillare i principi logici di identità e non-contraddizione, mostrano che i nostri
poteri di pensiero e di ragionamento non sono né predefiniti né sono il portato della
società, ma che debbono essere fatti propri nella e attraverso l’esperienza pratica»56.
Le relazioni pratiche ci accompagnano durante tutto lo svolgersi della vita perché
siamo sempre in rapporto con i tre ordini della realtà. L’esperienza pratica filtra la
conoscenza che ricaviamo dalla natura e dalla società, mostrandosi così
fondamentale per la formazione di una identità personale, definita in primis dal
continuo senso di sé. Essa riflette sui tre ordini di realtà in cui si è presi e stabilisce le
nostre premure fondamentali accomodando le altre. Ovviamente stabilire delle
priorità comporta delle conseguenze precise legate alle emozioni dei diversi ordini: il
benessere fisico nell’ordine naturale, il successo nelle prestazioni in quello pratico e
il valore in quello sociale.
La nostra decisione rispetto ai tre ordini è compiuta in base a ciò che più ci sta a
cuore e ci conferisce la nostra propria identità come persone particolari. Tale
organizzazione avviene attraverso la “conversazione interiore”, che «implica
l’elaborazione delle costellazioni d’impegni con cui ciascuno di noi si sente di poter
55
56
1973.
Ivi, p. 13.
Ivi, pp. 13-14. Cfr. J. Piaget, La costruzione del reale nel bambino, La Nuova Italia, Firenze,
2
9
vivere»57; in seguito a ciò si elabora un modus vivendi che è peculiarità di ogni
persona.
Sebbene sia vero che siamo noi a decidere cosa vale di più, il campo in cui scegliamo
di investire noi stessi, ciò per cui vale la pena impegnarsi e spendere il nostro tempo,
«non creiamo le nostre identità personali in circostanze di nostra scelta. La nostra
collocazione nella società si ripercuote su noi stessi»58. È questo il punto focale in cui
Archer mette in contatto e reciproca influenza la società e l’individuo, senza negare
uno nell’altro. Mentre Foucault addebita al potere della società e ai suoi dispositivi
sia l’identità che le scelte dell’agire umano, Archer premette la formazione
dell’identità all’entrata nella società, legandola agli altri strati della realtà, pur
riconoscendo l’influenza della nostra collocazione nella società sulla formazione
dell’identità sociale. Non si devono confondere però identità personale e identità
sociale dal momento che «la prima deriva dalle nostre relazioni con tutti e tre gli
ordini della realtà, mentre i sé sociali sono definiti soltanto in termini sociali»59.
Esiste un percorso portante alla formazione di una identità sociale che inizia col
nostro ruolo di Agenti Primari collocati involontariamente alla nascita in una
collettività che condivide le medesime possibilità di vita: l’Io, ossia il soggetto
dell’autocoscienza, conosce il Me inteso come oggetto societario indipendente dalla
scelta personale. La trasformazione di tale iniziale posizione non scelta dipende solo
in parte dalla riflessività e dall’attività degli Agenti Primari; il successo è collegato
all’azione collettiva che si può organizzare e che tramuta gli Agenti Primari in Agenti
Societari. Resta il fatto che le configurazioni socio-culturali possiedono proprietà e
poteri propri e non si può agire su di esse senza difficoltà. Il Me si evolve, sempre
entro i limiti esistenti nelle strutture socio-culturali, fino a divenire un Noi che agisce
strategicamente in tali strutture.
All’interno della struttura, prosegue Archer, ci sono dei ruoli intesi non come quasi-
57
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 16.
Ibidem. Da notare il termine usato da Archer, ossia “ripercussione”. Non si parla qui di
determinismo da parte della struttura sull'individuo, di un gioco manovrato da altri in cui noi saremmo
solo agiti, e nemmeno di una dipendenza dal sociale per quello che riguarda ogni nostra scelta. Non
c'è dubbio sul fatto che la struttura esista e si faccia sentire, ma ci si distanzia in ogni caso da una
visione come quella di Foucault, in cui ciò che siamo è definito dalla struttura, e di Bourdieu, per il
quale la nostra libertà è delimitata da quanto è permesso dall'habitus.
59
Ivi, pp. 16-17.
58
3
0
identità cui un individuo si adegua, ma da assumere in modo attivo e creativo e
sempre portando in essi la propria identità personale: «i ruoli adottati ridurranno il
divario tra l’“Io”, che un individuo cerca di divenire, e il “Me”, che è
precedentemente stato costretto a essere»60. Da ciò deriva che il consolidamento di
una identità personale è collegato alla definizione di una identità sociale, che resta
però un sottoinsieme della prima. Anche qui sta alla personale scelta di ognuno
quanto impegnare di sé nell’ordine sociale a scapito degli altri due. Non dobbiamo
pensare che la scala dei nostri impegni sia fissata una volta per tutte perché è
presente sempre un monitoraggio interno che permette un cambio di priorità.
«L’“Io” che sono diventato, ri-visita periodicamente il “Me” e valuta le sue
caratteristiche acquisite (di recente) e oggettive. Il giudizio che ne risulta, influenza
quindi i “Noi”, con cui uno lavorerà in modo solidale per provocare ulteriori
trasformazioni sociali. Infine, il “Tu”, il creatore del futuro, è costantemente soggetto
alla deliberazione interiore, rispetto alla stabilità dei suoi impegni. Insieme, l’“Io” e il
“Tu” possono riconfermare, rivedere o rinnegare in qualsiasi momento le loro
premure fondamentali»61. In questo continuo viaggio interiore sia la società che
l’individuo giocano il loro ruolo di influenza reciproca, sebbene la preminenza spetti
al secondo che decide cosa fare della propria vita in base a ciò che ritiene giusto e
valevole di attenzione, perché «la società entra in noi, ma esiste la possibilità di
riflettervi sopra, proprio come riflettiamo sulla natura e sull’esperienza pratica»62.
La peculiarità della conversazione interiore, che la distingue da qualsiasi altro
ragionamento interiore, è il suo fine pratico. Solitamente, parlando di riflessione, si
intende un gesto cognitivo, con finalità speculative e non legate alla messa in atto di
quello che riguardano. Al contrario, Archer, con la conversazione interiore, propone
il mezzo con cui l'individuo può prendere atto di quello che lo circonda dal proprio
singolare punto di vista; la riflessione che ne segue sfocia infine nel modus vivendi,
ossia in un esito pratico, che prende in considerazione e addirittura si esplicita
solamente nell'agire nel mondo. Usando la parola “interiore” non si deve cadere
nell'idea secondo la quale ciò che è interno è limitato alla sfera personale e quindi
non avrebbe effetti sull'ambiente esterno; anzi, è proprio grazie alla riflessione
60
61
62
Ivi, p. 18.
Ivi, p. 19.
Ivi, p. 20.
3
1
interna che ognuno è poi capace di decidere cosa fare e come agire nei confronti dei
livelli costituenti la realtà. Un meditare che si realizza nell'agire; un soppesare le
proprie idee e intenzioni per dare poi loro uno sviluppo pratico; un capire e decidere
come impiegare le proprie forze; la conversazione interiore è la via che abbiamo per
segnare il mondo che ci circonda.
1.2 Un esempio di “conflazione verso il basso”: Michel Foucault
Gli errori cui si assiste nella sociologia, come si diceva, sono denominati
“conflazioni”.
La conflazione verso il basso presenta un uomo che deve tutte le sue proprietà e i
suoi poteri alla società, escludendo in tal modo i contributi provenienti dagli altri due
livelli che Archer ritiene fondanti nella formazione dell'identità, ossia quello naturale
e quello pratico. La realtà e l'uomo stesso si presentano stratificati nel suo pensiero,
senza ridurre un livello ad un altro ma considerandoli ognuno nella relazione che si
crea in una autonomia permettente una reciproca efficacia causale. Proprietà e poteri
emergono dal nostro rapporto con i vari livelli seppur con modalità ed effetti diversi.
Un caso emblematico di tale visione è il pensiero di Foucault, per il quale la struttura
si impone all'individuo assumendo le forme del dispositivo. Sotto tale parola si
possono inserire le prigioni, la sessualità, la clinica, la ragion di stato, la malattia
mentale, la pastorale cristiana e molto altro, risultando così evidente quanto sia
variegato il contenuto di tale termine. Una simile parola risulta ricca di esplicitazioni
ulteriori nella definizione datale da Agamben, per cui si può definire «dispositivo
letteralmente qualunque cosa abbia in qualche modo la capacità di catturare,
orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le
condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi»63. Parlare di “qualunque cosa”
suggerisce l'idea di una fitta rete, di una trama invisibile se vogliamo, che avvolge
ogni nostro gesto quotidiano e “spontaneo” e non si svela solamente nelle pubbliche
manifestazioni del potere. Non possiamo nemmeno affermare che sia riconoscibile
uno “stampo” per tutti questi mezzi, dal momento che il dispositivo «è un insieme
eterogeneo, che include virtualmente qualsiasi cosa [...] è la rete che si stabilisce tra
63
G. Agamben, Che cos'è un dispositivo?, Nottetempo, Roma, 2006, pp. 21-22.
3
2
questi elementi»64. Il collegamento che esiste tra questi diversi strumenti pervade
l'esistenza stessa come qualcosa che dall'esterno si applica sugli uomini facendo loro
fare ciò che risulta utile e vantaggioso. In tale ottica risulta utopico voler anche
solamente tentare di opporsi a questo potere, negando così delle capacità umane che
derivino non dalla società ma da qualcosa d'altro. La ricerca di una forza e di una
consapevolezza di sé che non sia dono del mondo sociale ma che giunga da altre
fonti, lasciando in tal modo uno spazio per l'azione autonoma e non prestabilita,
risulterebbe essere l'unica soluzione per permettere una reazione. Una simile
soluzione non è però praticabile, dal momento che in questa visione si rende merito
solamente alla società per quel che concerne la formazione dell’individuo,
togliendogli così ogni scappatoia. Viene meno l'intenzionalità del singolo, ridotta
oramai a comportamento stabilizzato da un apparato, come pure l'autonomia che non
ha proprio posto in un sistema nel quale tutto il lecito e il fattibile già è delineato da
altri: secondo Foucault è evidente che «lo stato possa a sua volta stimolare,
determinare e orientare l'attività dell'uomo in una maniera effettivamente utile allo
stato stesso»65.
La preminenza consegnata alla struttura non è una novità perché fin dall'esordio della
sociologia questo è stato l'approccio più diffuso, a partire da Durkheim, il quale
definisce i fatti sociali come regole che sono in grado di generare obblighi. I caratteri
principali di tali fatti sono per l'appunto il grado di coercizione, la generalità e
l'esteriorità rispetto a coloro sui quali si (im)pongono: sussistono fuori dalle
coscienze
singole
per
poter
così
essere
presenti
in
più
coscienze
contemporaneamente. In tal modo l'obiettivo che Durkheim si propone di studiare è
definito coscienza collettiva, intesa come «una forza in grado di svolgersi da sé, con
una certa indipendenza dalle condizioni dell'ambiente sociale interno»66. In tal modo
la realtà sociale non si trova ad essere ciò che circonda l'individuo ma si tramuta
nella fonte di ogni valore. Le stesse scelte su come soddisfare i bisogni fisici,
biologici e psicologici sono dettati dalla società: si arriva a definire l'uomo come
64
Ivi, p. 7.
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978),
Feltrinelli, Milano, 2005, p. 23.
66
E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico. Sociologia e filosofia, Edizioni di comunità,
Milano, 1979, p. XXV.
65
3
3
colui che si comporta secondo le norme sociali. Per ammettere questa potenza
impositiva della società Durkheim deve certamente affermare che le strutture non
sono modificabili a nostro piacimento e che esse, essendosi formate prima di noi,
hanno le loro cause in qualcosa d'altro67.
L'uso del termine “coercizione”, riferito alla struttura sociale, è il più ricorrente nel
metodo di Durkheim, che abbraccia così il presupposto secondo cui gli individui non
saprebbero gestirsi da soli, sarebbero succubi di quello che accade loro e in debito
con la società per ogni cosa. Tale incombenza agisce su di noi con o senza il nostro
consenso, eliminando così un apporto positivo agli eventi che paiono già predisposti
da qualcun altro. Ma non si assiste nemmeno ad una ribellione, calandosi così
secondo Durkheim in un circolo per cui «se le istituzioni si impongono a noi, noi
teniamo pure ad esse: esse ci obbligano e noi le amiamo; esse ci costringono e noi
troviamo il nostro tornaconto nel loro funzionamento e perfino nella loro
costrizione»68. Un altro aspetto è che i modi collettivi sarebbero dotati di esistenza
propria, come se non dovessero essere agiti da qualcuno per esistere effettivamente, e
inoltre da essi deriverebbero rapporti necessari.
Il massimo che è disponibile per l'individuo sono delle sfumature ristrette all'ambito
limitato offerto dalla società, società che, come afferma Bauman, « deve legittimarsi,
dimostrando i servizi resi alla libertà del singolo»69. Quale che sia l'espressione
individuale del fatto sociale esso esiste al di fuori di noi e possiamo solamente darne
una interpretazione sfalsata. «Si tratta – secondo Foucault - di dare agli individui una
67
Precisamente Durkheim afferma che, dal momento che le strutture esistono precedentemente
a noi, la loro causa non è riscontrabile in noi stessi. Fino a qui non ci sono problemi, si tratta solo di
precedenza temporale; ma egli non si ferma a ciò e ritiene anzi che tale precedenza implichi anche uno
scarto ontologico per cui se una struttura non la abbiamo fatta noi allora deve esistere di per sé, come
se le generazioni passate non avessero poteri costruttivi ma solo riproduttivi. Si toglie ogni possibilità
di azione nuova all'uomo così intendendo lo svolgersi degli eventi.
68
Ivi, p. 18. «I modi collettivi di agire e di pensare hanno al di fuori degli individui una realtà a
cui essi si conformano in ogni istante: essi sono dotati di esistenza propria» e «essi sono dotati, in
grado diverso, della supremazia morale e materiale che la società esercita sui suoi membri» (ivi, p.
19). Con queste due definizioni Durkheim pare essere il precursore di quella che sarà la definizione
data da Foucault al dispositivo. Per entrambi i pensatori l'uomo necessita di una struttura esterna per
avere un senso, un senso che da solo non saprebbe trovare. L'amore per ciò che ci costringe risuona in
entrambe le visioni, come se non ci fosse consapevolezza nell'individuo di ciò che si impone a lui.
Durkheim inoltre parla della desiderabilità che risiede nei fatti sociali, altro carattere costitutivo di essi
al pari della coercizione. Cfr. E. Durkheim, La divisione del lavoro sociale, Einaudi, Torino, 1999.
69
Z. Bauman, Il disagio della postmodernità, Bruno Mondadori, Milano, 2002, p. 265.
3
4
certa rappresentazione, una certa idea, di imporre loro qualcosa»70: ci si muove
insomma in un ambiente chiuso i cui limiti non dipendono da noi e su cui non
abbiamo la facoltà né di agire né di cambiarli; Foucault prosegue affermando che
«una buona disciplina è quella che vi dice, in ogni momento, che cosa dovete fare»71.
In tale sistema le leggi sono dettate dall'esterno e la nostra assimilazione di esse non
potrà che essere corrispondente al volere della società stessa.
Passando al piano storico, come fa Foucault, non si deve pensare forzatamente ad un
potere che si impone in pompa magna, poiché i mezzi attraverso i quali esso agisce
sono molto più “morbidi”72. Mentre all'inizio si assisteva ad una magniloquenza
dell'esibizione del potere stesso, nel tempo esso ha trovato vie più sottili per
continuare ad esercitarsi pur nell'ombra ma sempre raggiungendo il proprio
bersaglio. Il nuovo carattere che assume nei confronti del soggetto è la pervasività di
«un'autorità che si esercita continuamente intorno a lui e su di lui e ch'egli deve
lasciar funzionare automaticamente in lui»73. Si arriva addirittura a comportarsi come
il dispositivo ci “invita” a fare, non solo per quello che riguarda il fine ma pure per il
mezzo: «una coercizione ininterrotta, costante, che veglia sui processi dell'attività
70
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 204.
Ivi, p. 46.
72
Sapere e potere sono indisgiungibili, in quanto l'esercizio del potere genera nuove forme di
sapere e il sapere porta sempre con sé effetti di potere. Per potere però non si deve intendere quello
che proviene da un soggetto cosciente, un sovrano, e si traduce in leggi positive; si tratta invece del
potere impersonale, onnipresente, che non ha dimora fissa, ma opera tramite meccanismi anonimi in
ogni anfratto della società. Sotto questa luce, il potere è un insieme di rapporti di forza, diffusi
localmente, non riconducibili ad una sola sede e così Foucault contrappone la propria microfisica del
potere, mirante all'analisi delle molteplici e diffuse strategie di soggiogamento, alla macrofisica,
propria della teoria di Marx. Per poter donare uno spazio di autonomia “vera” al soggetto egli elabora
una teoria basata su quelle che definisce le tecnologie del sé, volte all'autocostituzione di un soggetto
padrone di sé. Così facendo, sembra riportare in auge proprio quella dimensione umanistica sempre
osteggiata.
73
M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino, 2006, p. 141.
Bauman usa la parola “liquidità” per definire la situazione caratterizzante della modernità in cui
sussiste una labilità e una crisi delle cornici normative. Dopo lo scioglimento però non assistiamo ad
una nuova condensazione in qualcosa di stabile: è il permanente stato di incertezza a resistere e che
conduce ad una soluzione per via privata a dei problemi di ordine pubblico per cui «l'esito del breve
termismo è che lo sciame si trascina senza meta, in modo sconclusionato e con scarsa ragione da un
prato all'altro, senza mai fermarsi a lungo» (Z. Bauman, Homo consumens. Lo sciame inquieto dei
consumatori e la miseria degli esclusi, Erickson, Gardolo, 2007, p. 146). Mancano i referenti sociali
così la soluzione si ricerca in sé. La distanza che Bauman pone tra sé e Foucault è riferita all'epoca
contemporanea: mentre per il primo non c'è più un riferimento stabile (riferendosi all'istituzione, e non
all'influenza esercitata dal sociale sugli individui), per il secondo il dispositivo sussiste e persiste
comunque, sebbene in forme diverse e riconoscibili. Cfr. Z. Bauman, Vita liquida, Laterza, RomaBari, 2006.
71
3
5
piuttosto che sul suo risultato»74. Inerti marionette nelle mani di un potere che tira le
fila per una auto sussistenza la quale pare escludere ogni possibile cambiamento
sociale o una sferzata rispetto allo status quo. «Noi apparteniamo – secondo Foucault
- a dei dispositivi e agiamo in essi»75, come a dire che non saremmo nulla senza di
loro e che ogni istante del nostro esistere avviene in essi. Non ci sono i soldati per le
strade, sono sparite le esecuzioni pubbliche, non giungono dei diktat da seguire pena
l'eliminazione o l'esilio, ma lo stesso modo di pensare è canalizzato in una certa
direzione, i nostri movimenti possono essere ricostruiti senza troppe difficoltà grazie
alle tracce che lasciamo nei computer o con le carte di credito, la soglia della
normalità è stabilita e si impossessa di noi senza che ci si possa fare niente. Il quadro
così descritto lascia ben poche speranze per una presa di coscienza diversa da quella
che ci è data dalla società, relegando l'innovazione e la resistenza fuori dal mondo. Si
tratta di «individualizzazione mediante assoggettamento», afferma Foucault, per cui
saremmo quello che siamo, con la consapevolezza di esserlo, solamente in virtù della
74
M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 149. «Dalla nascita alla morte ogni membro del
Partito vive sotto l'occhio della Psicopolizia. Anche quando è solo non può mai essere sicuro di essere
solo. Dovunque si trovi, che dorma o sia sveglio, che lavori o riposi, che sia in bagno o a letto, può
essere scrutato senza preavviso, addirittura ignorando di essere spiato. Nulla di quello che fa è privo di
importanza. Le sue amicizie, gli svaghi, il suo modo di comportarsi con la moglie e i figli,
l'espressione del volto quando si trova da solo, le parole che mormora nel sonno, perfino i movimenti
del corpo che gli sono più abituali, sono minuziosamente analizzati. Non vi sono dubbi che arrivino a
scoprire non solo ogni trasgressione autentica, ma qualsiasi gesto eccentrico, per quanto infimo,
qualsiasi mutamento delle abitudini, qualsiasi tic nervoso che potrebbe essere il sintomo di un
conflitto interiore. Il membro del Partito non ha alcuna libertà di scelta, in nulla. D'altra parte, le sue
azioni non sono regolate dalla legge o da qualsiasi codice di comportamento chiaramente formulato.
[...] Pensieri e azioni che, una volta scoperti, si traducono in morte sicura non sono proibiti in maniera
esplicita: in realtà, i continui arresti, epurazioni, torture, incarcerazioni e vaporizzazioni non sono
inflitti per punire delitti effettivamente commessi, ma per spazzar via persone che forse, in un futuro
imprecisato, potrebbero commettere un crimine. Un membro del Partito non deve avere solo le
opinioni giuste, ma anche gli istinti giusti» (G. Orwell, 1984, cit., p. 217).
75
G. Deleuze, Che cos'è un dispositivo?, Cronopio, Napoli, 2007, p. 27. La nostra stessa
esistenza sarebbe racchiusa in un contenitore da cui non possiamo uscire e dove saremmo sotto gli
occhi del dispositivo ogni istante, perché non ci sarebbe via di scampo. «Se Winston avesse emesso un
suono anche appena appena più forte di un bisbiglio, il teleschermo lo avrebbe captato; inoltre, finché
fosse rimasto nel campo visivo controllato dalla placca metallica, avrebbe potuto essere sia visto che
sentito. Naturalmente, non era possibile sapere se e quando si era sotto osservazione. Con quale
frequenza, o con quali sistemi, la Psicopolizia si inserisse sui cavi dei singoli apparecchi era oggetto di
congettura. Si poteva persino presumere che osservasse tutti continuamente. Comunque fosse, si
poteva collegare al vostro apparecchio quando voleva. Dovevate vivere (e di fatto vivevate, in virtù di
quell'abitudine che diventa istinto) presupponendo che qualsiasi rumore da voi prodotto venisse
ascoltato e qualsiasi movimento – che non fosse fatto al buio – attentamente scrutato» (G. Orwell,
1984, cit., pp. 6-7).
3
6
società che ci permette di esserlo.
«La maggior parte delle nostre idee e delle nostre tendenze – afferma Durkheim non vengono elaborate da noi, ma ci vengono dal di fuori»76. L'educazione stessa
servirebbe per imporre al bambino modi di vedere e di sentire che altrimenti non
sarebbero mai suoi, disconoscendo così il contributo che la natura e il sapere pratico
possono invece avere nella formazione dell'essere umano, nonché nella sua
consapevolezza di sé. Una resistenza pare esulare dal punto di vista di Durkheim, per
il quale ogni forza è imponibile su ognuno senza problemi; non si trova niente che si
opponga all'imposizione esterna, ma saremmo malleabili e definibili da altri senza
alcuna difficoltà. D'altra parte, proponendo l'uguaglianza per cui «sociale, cioè
vincolante»77 non sembrano esserci molte alternative all'obbedienza.
Senza alcuna remore egli pensa bene di staccare i fatti sociali dai soggetti coscienti,
per poterli così considerare in se stessi: non sono prodotti della nostra volontà ma
piuttosto appaiono a Durkheim come «gli stampi in cui siamo costretti a versare le
nostre azioni»78. Nel suo procedere si viene anche a definire il “tipo medio”, ossia
quello che è più generale e diffuso, basandosi sulla statistica per arrivare a tale
traguardo, facendo in tal modo della maggior frequenza la prova della superiorità e
della normalità. L'errore cui qui si assiste è il confondere l'aspetto quantitativo con
quello qualitativo, considerando i numeri come portatori di valori che invece non gli
appartengono. Addirittura parla di volume e densità della società, in termini
prettamente fisici, quasi fosse questione di leggi pari a quelle della termodinamica
quelli che invece sono il comportamento e l'agire sociale.
«La realtà sociale – afferma Archer - entra oggettivamente nel nostro agire, ma uno
dei più grandi poteri umani sta nella capacità di concepire, soggettivamente, la
possibilità di ri-costruire la società e noi stessi»79. Non si può evitare di vivere nella
società, come non si può tacere sul fatto che essa abbia poteri che agiscono su di noi;
non per questo dobbiamo però considerarci succubi perché il nostro senso di sé ha la
facoltà di organizzare come vivere nella realtà che ci circonda, elaborando strategie
per agirla. Assodato che si debba fare i conti con quanto abbiamo intorno, il nostro
76
77
78
79
E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, cit., p. 27.
Ivi, p. 31.
Ivi, p. 45.
M. S. Archer, La conversazione interiore, cit., p. 51.
3
7
potere e la nostra libertà risiedono in come scegliamo di rapportarci senza annullarci.
Ciononostante Durkheim afferma che «tutto ciò che è vincolante – lo abbiamo
dimostrato – ha la sua fonte al di fuori dell'individuo»80, come se le decisioni che
prendiamo dentro di noi non avessero la capacità di obbligarci a perseguire un
determinato stile di vita o a guidare le nostre scelte in una direzione piuttosto che in
un'altra. Durkheim ragiona come se la capacità riflessiva dell'individuo fosse ristretta
all'accettazione di quanto gli arriva dal di fuori, e come se le deliberazioni interiori
che invece accompagnano ogni nostro gesto non avessero voce in capitolo in quello
che si rivelerà poi essere il nostro comportamento. «Tutto è fondato nella natura della
società»81 e tanti saluti all'intenzionalità umana. L'obbedienza stessa è dovuta in
quanto la società possiede una autorità cui ci si può solo sottomettere, disegnando
così gli esseri umani alla stregua di marionette che si fanno guidare in tutto e per
tutto da qualcosa di esterno a loro, annullando perciò il contributo che ognuno
potrebbe dare grazie alla propria riflessività interna, anch'essa negata.
Il nostro status di uomini proverrebbe, secondo Durkheim, dalla società: «ciò che fa
di noi un essere veramente umano è il fatto di riuscire ad assimilare parte del
complesso di idee, di sentimenti, di credenze, di precetti di condotta che si chiama
civiltà»82. Non facciamo parte della società, non agiamo in essa ma semplicemente la
impariamo adeguandoci a qualcosa di già definito. La bravura dell'individuo sta nel
grado di aderenza che riesce a raggiungere rispetto alle linee sociali esistenti, e non
all'innovazione che potrebbe portare o alla riflessione che gli è propria. Anche
Foucault assente con tale affermazione, evidenziando come, a parer suo, «le
discipline di potere applicate ai corpi abbiano fatto emergere da questi corpi
assoggettati qualcosa come un'anima-soggetto, un “io”, una psiche»83. Vale di più chi
si fa ammaestrare rispetto a chi agisce con la sua testa; non c'è iniziativa ma un solco
in cui stare e da cui non pare possibile uscire. Anche riuscissimo a uscire dalla
società, ci ricorda Durkheim, non saremmo però nemmeno più uomini, perché solo in
essa possiamo trovare quei tratti che ci rendono tali. È un errore riferirci alla nostra
capacità di giudizio perché si deve badare alla ragione collettiva e non a quello che
80
81
82
83
E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, cit., p. 102.
Ivi, p. 115.
Ivi, p. 182.
M. Foucault, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano, 1998, p. 161.
3
8
noi pensiamo individualmente.
Due domande cui sarà necessario rispondere sorgono impellenti: chi sarebbero questi
esseri viventi su cui cade il dispositivo (la ragione collettiva di Durkheim) e chi ne
sarebbe il manovratore? La risposta alla prima domanda ci viene da una definizione
di Agamben secondo il quale i dispositivi sarebbero «un insieme di prassi, di saperi,
di misure, di istituzioni il cui scopo è di gestire, governare, controllare e orientare in
un senso che si pretende utile i comportamenti, i gesti e i pensieri degli uomini»84.
Gli esseri viventi divengono qui uomini, con un salto qualitativo non indifferente,
poiché sembra quasi che sia il dispositivo stesso a fare del vivente un uomo o un
soggetto. Così è, infatti, poiché è «soggetto ciò che risulta dalla relazione e, per così
dire, dal corpo a corpo fra i viventi e i dispositivi»85. L'uomo quale noi lo
conosciamo deve il suo riconoscersi tale, ciò che gli permette di essere ciò che è, al
dispositivo in cui si trova immerso e senza il quale rimane un essere vivente non
meglio definito poiché «i dispositivi – per Agamben - devono sempre implicare un
processo di soggettivazione, devono, cioè, produrre il loro soggetto»86. Se il soggetto
è creato dal dispositivo, chi è che sta dietro al dispositivo stesso? O si cade in un
circolo vizioso in cui il soggetto costruisce il dispositivo che a sua volta forma il
soggetto, oppure deve introdursi una scansione temporale, per cui l'uno precede
l'altro. Foucault abbraccia questa seconda posizione dal momento che è la società, il
84
G. Agamben, Che cos'è un dispositivo?, cit., p. 20. Lo strutturalismo è una negazione
dell'autonomia del soggetto davvero radicale: non siamo noi che pensiamo, ma sono i pensieri che ci
fanno pensare; non siamo noi a parlare, ma sono le parole che parlano in noi; non siamo noi ad agire,
ma sono le azioni apprese dal sistema di strutture che ci circonda a farci agire. Gli strutturalisti
oscillano fra un’interpretazione realistica e un’interpretazione metodologica della struttura. Secondo la
prima essa è ciò che costituisce ontologicamente l’uomo, il mondo o la società. Secondo quella
metodologica, la struttura è un modello ipotetico in grado di riconoscere relazioni controllabili tra fatti
e di formulare il quadro generale di esse, ai fini di una previsione statistica delle loro trasformazioni.
Cfr. AA. VV., Sociologia in azione, Paravia, Torino, 1996.
85
G. Agamben, Che cos'è un dispositivo?, cit., p. 22.
86
Ivi, p. 19. In Foucault la storia non è in prima istanza il risultato delle azioni coscienti degli
uomini e il vero campo della ricerca storica è dato non da quel che gli uomini hanno fatto o detto, ma
dalle strutture epistemologiche che di volta in volta determinano quale sia il soggetto e l'oggetto della
storia; pure l'uomo è un oggetto effimero, generato nel quadro di una precisa episteme. Il soggetto,
ritenuto fondamento sicuro, è invece da sempre penetrato da relazioni di potere che lo fanno essere
quello che è, che lo plasmano nei pensieri e nei comportamenti, nei desideri, nel corpo, nei bisogni;
quel soggetto è prodotto dai saperi che con esso nascono e dalle pratiche disciplinari che gli fissano
una identità. L'uomo è stato decentrato come soggetto, portando alla luce le leggi inconsce che
presiedono ai suoi desideri, al suo linguaggio, alle sue stesse azioni e i meccanismi di produzione dei
discorsi. Questi temi hanno convinto Foucault ad avvicinarsi allo strutturalismo.
3
9
dispositivo, a precedere l'uomo il quale riceve la propria identità da esso e da niente
altro (volendo risalire nelle cause si dovrebbe ammettere un qualcuno che abbia
creato il primo dispositivo). «Questa nuova tecnica di potere non disciplinare –
afferma Foucault in merito alla sua visione - si applica alla vita degli uomini, o
meglio, investe non tanto l'uomo-corpo, quanto l'uomo che vive, l'uomo in quanto
essere vivente»87. Da quando veniamo al mondo siamo coinvolti e cresciamo in una
società la quale possiede caratteristiche proprie, usanze, modi di pensare, scale di
valori, ruoli, e che ci offre addirittura, anzi, ci impone una soggettività e una identità
che siano ad essa funzionali. Si assiste, nell'ottica di Agamben, alla «creazione di
corpi docili, ma liberi, che assumono la loro identità e la loro “libertà” di soggetti nel
processo stesso del loro assoggettamento»88. Il fatto di essere liberi e di maneggiare
la libertà risiede nella strategia del dispositivo. Siamo liberi grazie al potere, e lo
possiamo essere anche contro di esso, pur senza uscire dal dispositivo. Il potere
necessita di un punto di contrasto con cui misurarsi senza mai giungere ad un esito
positivo, quasi gli servisse sempre scindersi per combattere contro se stesso al fine di
potenziarsi. Chiusi nel dispositivo non possiamo che muoverci e trovare noi stessi in
quello che ci viene proposto senza avere la possibilità di sfuggire. Le basi stesse della
conoscenza di sé, della stabilità di un io che ci permette di rapportarci con ciò che ci
circonda, il fondamento delle nostre scelte, i ruoli che andiamo ad assumere nella
nostra vita non sono alla fine che passaggi obbligati e costruiti da qualcosa d'altro;
come afferma Beck, i dispositivi «estorcono individualizzazioni: istituzionalizzazione
dell’individualizzazione»89, come se da solo l’uomo non fosse in grado di trovare la
propria identità. La perpetuazione del potere, in Foucault, tratta gli individui «sia
come oggetti sia come strumenti del proprio esercizio»90 dal momento che attraverso
essi può esistere ed è quindi suo interesse non eliminare l'uomo ma piuttosto
formarlo a suo piacimento senza lasciargli margini di resistenza. Se «l'individuo –
secondo Foucault - è senza dubbio l'atomo fittizio di una rappresentazione ideologica
della società, ma è anche una realtà fabbricata da quella tecnologia specifica del
87
M. Foucault, Bisogna difendere la società, cit., p. 209.
Ivi., p. 29.
89
U. Beck, I rischi della libertà. L’individuo nell’epoca della globalizzazione, Il Mulino,
Bologna, 2000, p. 16.
90
M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 186.
88
4
0
potere che si chiama “la disciplina”»91 non ci rimane pressoché nulla in mano per
poter deviare il corso degli eventi, già scritti dalla società stessa che li riproduce in
noi92. Messa così, la posizione di ognuno si riduce a ingranaggio perfettamente
sostituibile della macchina societaria, ingranaggio cui viene consegnata una identità
funzionale e su cui egli non può agire; l’individuo «funziona sia come oggetto di
meccanismi che mirano a produrre un certo effetto, sia come soggetto cui si chiede di
agire in questo o quel modo»93. Ci ritroviamo con una identità dataci da fuori,
prestabilita e preparata in modo da non permetterci di scalfirla: estrema passività
umana nei confronti della società che inscrive in ognuno ciò che le aggrada. La
sottigliezza della creazione dell'identità è che essa ha avuto uno sviluppo nel tempo
non restando tale e quale a se stessa ma mutando, seguendo il corso degli eventi. In
ogni epoca si è imposta l'identità più adatta, con l'individuo sempre a recitare una
parte non sua ma in cui pare riconoscersi perfettamente e contro cui non può fare
niente. «Questa forma di potere è quella che viene esercitata sulla vita quotidiana
immediata, che classifica gli individui in categorie, li designa in virtù della loro
specifica individualità, li fissa alla loro identità, impone loro una legge di verità che
dovrà poi venire riconosciuta in essi. Si tratta insomma di quella forma di potere che
91
Ivi, p. 212.
Bourdieu mostra una vicinanza con Foucault su questo punto. Affinché le strutture possano
funzionare gli agenti ne devono essere complici interiorizzandole. In tal modo essi stessi
contribuiscono a produrre l'efficacia di ciò che li determina: una persuasione occulta che viene fatta
dalla classe dominante al fine di mantenere lo status quo. Il mezzo principale con cui ciò avviene è la
scuola come portatrice di ideali delle classi dominanti che si legittimano agli occhi del mondo.
Proponendo una giustificazione dell'ordine esistente come parte integrante dell'habitus non si fa che
mantenere una stabilità sociale evitando problemi e reazioni: si costringono i dominati a collaborare
attivamente alla loro dominazione. Bourdieu, oltre a quanto detto, suggerisce anche un effetto di
naturalizzazione, ossia il considerare come un dato “naturale” e immodificabile lo status quo e il
dominio: «apportano il proprio specifico contributo alla riproduzione delle relazioni di potere di cui
essi stessi sono il prodotto» (P. Bourdieu., La distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino,
Bologna, 200, p. 480). Dal punto di vista economico egli ritiene che i desideri, i gusti, la domanda e
l'offerta dipendano da fattori politici, capaci di guidare gli individui verso obiettivi a loro funzionali.
Anche qui si mostra l'effetto di naturalizzazione per cui viviamo come “naturale” il sistema
economico, quello che vogliamo, quello che cerchiamo, quando invece è frutto dell'habitus costruito
artificialmente per l'affermazione dello status quo sociale. Lo Stato ne è l'emblema, considerato come
centro e concentrazione del capitale simbolico tramite il quale decide cosa sia giusto, cosa sia
valevole, e proponendo l'ottica con cui guardare al mondo sociale sotto forma di pensieri comuni, di
senso storico comune: lo Stato è dentro di noi in questo senso sotto forma di strutture mentali,
convinzioni e credenze.
93
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 43.
92
4
1
trasforma gli individui in soggetti»94: in tale ulteriore specificazione di come il potere
si inserisca nelle esistenze e in quali modi, Foucault ne sottolinea i caratteri
fondamentali, ossia la pervasività e l'identità donata, come pure il problema insito in
una siffatta visione. L'uomo troverebbe in sé la verità che il potere stesso ha posto in
esso; come è possibile una resistenza se le cose stanno così? È lampante il fatto che
quello che viene definito il “fatto irritante della società” è insito in ognuno di noi ma
Foucault pare negarlo riconducendo tutto a una preminenza della società che
schiaccia l'individuo in essa, individuo che non dovrebbe nemmeno porsele certe
domande se l'apparato sapere-potere funzionasse come descritto dal pensatore
francese, ossia come parte di una «popolazione in quanto elemento correlato al
potere e come oggetto di sapere»95. L'istanza stessa di un io e di una soggettività
arriva a far parte dell'uomo solo grazie a queste tecniche di assoggettamento, senza le
quali saremmo ben poca cosa e non ci riconosceremmo nemmeno come portatori di
una identità.
Ci troviamo, afferma al contrario Archer, in un mondo materiale dove l'attività
pratica è sempre presente e «non attende e non può attendere un'istruzione sociale,
ma dipende da un processo di apprendimento attraverso cui emerge il nostro senso
permanente di sé»96. Il corpo che siamo e che ci fa da tramite con l'ambiente guida il
riconoscimento di sé come i medesimi nel tempo senza alcun bisogno di una
mediazione sociale97. Il ciò risiede il distacco da Foucault, nel definire altri fattori cui
94
M. Foucault, L'ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982),
Feltrinelli, Milano, 2003, p. 490.
95
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 69.
96
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 175.
97
In Touraine la forza della società sul soggetto andrebbe scemando in modo da far nascere
una presa critica di distanza che permette varie visioni non conformi allo status quo fuggendo da
visioni che «presuppongono l’onnipotenza di un potere centrale, quello dello Stato o quello della
classe dirigente, tesi prossima alla rappresentazione, assai superficiale, della storia come complotto»
(A. Touraine, Critica della modernità, Il Saggiatore, Milano, 1993, p. 197). Il soggetto deve trovare la
propria dimensione in un ambito non sociale: il riferimento privilegiato su cui fondarsi diventa il
corpo come sede della resistenza e dell'opposizione alla presa della società. Il soggetto esiste a partire
da un corpo che resiste all'appropriazione tentata dalla società. Grazie allo sguardo verso se stesso si
acquista una libera presa di distanza che permette di non essere invasi: ognuno si trova perciò in una
solitudine esistenziale che non deve essere eliminata perché il soggetto si perde nell'alienazione del
rapporto con se stesso e nella manipolazione sociale, e non se mantiene contatto con ciò che è. La
comunità tende a proporre una omologazione che toglie la fecondità del rapporto col diverso, base del
riconoscersi soggetto. Per questa reciproca convivenza “aperta” servono principi comuni tra soggetti
liberi e autoriflessivi, collocati in un mondo che vorrebbe massificarli e insegnare loro la logica
4
2
l’individuo può fare riferimento per fondare la sua libera scelta. «L'azione – in Harrè
- è considerata come risultante delle prescrizioni sociali»98 e non intesa come
espressione della personalità di ciascuno. Siamo quindi in una società che ci dice
cosa fare e a cui non si può fare altro se non obbedire? Secondo Harrè la risposta è
affermativa, poiché egli intende ogni «attività come un adeguamento deliberato a
regole»99. Ecco qui l’unico spiraglio di libertà possibile, quella di assentire con le
imposizioni esterne. Non esiste solamente la società, ma anche gli uomini, i quali
devono vedersi riconosciuta la possibilità di incidere sugli eventi, di decidere per
cosa combattere, e soprattutto di essere attivi e scegliere quali siano le loro priorità.
La presenza insistente di una società sembra anche suggerire la necessità di una
visione da parte di terzi per renderci ciò che siamo. «Una persona – afferma Harrè non avrebbe alcuna idea di se stessa come individuo cosciente, se gli altri non si
riferissero ad essa come tale»100: ogni individuo capirebbe di essere un sé solamente
perché un altro lo definisce come tale. Questa dipendenza dalle altre persone
disconosce il contributo proveniente dall’ambiente sul sé individuale; come afferma
Archer, ancor prima che si entri in contatto con la società e gli altri individui noi
siamo in grado di riconoscerci come noi stessi, in virtù del nostro corpo e delle
dell'inclusione/esclusione. In una società che non riesce più a comprendere in essa gli individui
l'importanza passa tutta al rapporto del singolo con se stesso, un singolo che non si riconosce più in
ciò che lo circonda e che nonostante ciò cerca di classificarlo. Il dilemma che si pone è che, non
essendoci più mediazioni a livello sociale verso quel che ci accade intorno ben presto ci rendiamo
conto dei nostri limiti e degli scarsi poteri che abbiamo per influire sugli eventi. La risposta è lavorare
sul rapporto con se stessi, proprio lì dove la socialità non può arrivare, eliminando le proposte di
universalizzazione. Si assiste alla ricerca di uno spazio “altro” dove poter trovare chi si è, uno spazio
non sociale dove la struttura non possa interferire con l'espressione della propria individualità e non
controlli l'uomo: «la normalizzazione e l’oggettivazione dell’uomo producono il Sé (self), mentre l’Io
[Je] si costituisce per resistenza a centri di potere percepiti come repressivi» (ivi, p. 200). Abbiamo un
uomo che si forma da solo, un self-made man che non deve niente a nessuno, in modo da
rappresentare una resistenza alla società, dal momento che ad essa non dovrebbe niente. Il dualismo
tra soggetto e struttura si approfondisce poiché l'unicità di ognuno riesce ad emergere solamente
staccandosi dal sociale e tornando a se stessi. In questo caso Touraine non riesce a implementare la
reciproca influenza che società e individuo hanno, sebbene il ritorno al rapporto con sé grazie al corpo
mostri l'esistenza di un qualcosa di intoccabile dal sociale: «il soggetto è lo sguardo sul corpo
individuale, non sociale, solamente vivente e sessuato» (A. Touraine, Dialogo sul soggetto, Il
Saggiatore, Milano, 2003, p. 47).
98
R. Harrè e P. F. Secord (a cura di), La spiegazione del comportamento sociale, Il Mulino,
Bologna, 1977, p. 51.
99
Ivi, p. 52.
100
Ivi, p. 142.
4
3
interazioni con i livelli naturale e pratico. Non risulta fondata l’affermazione secondo
cui «affinché un individuo percepisca se stesso come “persona”, è necessario che
altri individui siano in grado di riconoscerlo come tale»101: io mi percepisco (si noti
l’uso di tale verbo, legato ai sensi e quindi al corpo) autonomamente in quanto sono
un corpo, a prescindere dal fatto che mi si possa definire una persona o meno. So di
essere sempre lo stesso non perché ogni mattino qualcuno mi ricorda che anche il
giorno prima ero io, ma perché “sento” di esserlo, in virtù della continuità di
coscienza che mi è propria.
Durkheim afferma che «l'individuo si sottomette alla società, e questa sottomissione
è la condizione della sua liberazione»102. Dalla società ci proviene ciò che serve alla
nostra vita mentale, come se non fossimo capaci di fare esperienze non inerenti ad
essa o imparare qualcosa di non sociale (natura, ambito pratico). Invece che ricercare
la libertà in noi stessi la si regala alla struttura che ci dice cosa fare, e solo allora
saremmo liberi, immergendoci in un mare magnum dove spariamo nella “media”
tanto agognata e che ci definirebbe normali, quindi adatti alla società del nostro
tempo. Non si parla qui di compiere gesti eclatanti per staccarsi dal gruppo ma di
riconoscere le peculiarità di ognuno, grazie alle quali la società è quella che è e dove
è possibile fare qualcosa di diverso da quelli che sono i comportamenti prestabiliti
che Durkheim vorrebbe imposti su ognuno. Foucault afferma che è stata «inventata
una “tecnologia specifica di potere” per mezzo della quale è potuta apparire quella
“realtà fabbricata” che è l'individuo»103. La libertà non è quindi un dato a sé,
autonomo, consistente, ma anch'essa è costruita, fabbricata e soprattutto controllata,
nonostante l'evidente ossimoro. Sussiste per Foucault «una fisica del potere o un
potere che si pensa come azione fisica nell'elemento della natura, e un potere che si
pensa come regolazione, incapace di operare senza trovare nella libertà di ognuno il
proprio sostegno»104. Il potere si adopera al fine di rendere la libertà possibile, e per
fare ciò elabora dei dispositivi di sicurezza: il connubio libertà-sicurezza appare
fondamentale nella società odierna. Un altro aspetto di questa sicurezza è legata al
ruolo che assume l'individuo in quanto oggetto di sapere e non più soggetto: per
101
Ivi, p. 42.
E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, cit., p. 199.
103
M. Foucault, Discipline, poteri, verità. Detti e scritti 1970-1984, Marietti, Genova-Milano,
2008, p. 228.
104
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 48.
102
4
4
poter esercitare la propria libertà individuale si deve essere registrati, seguiti,
controllati.
Foucault sostiene la potenza di questo sistema dolcemente coercitivo che si mostra
ancor più nel fatto che esso arriva a regolare e definire in ogni minimo aspetto non
solo la vita quotidiana, ma la stessa soggettività degli uomini. Ogni individuo è
«soggetto di un sapere che è “opinione” e un oggetto di un sapere di tutt'altro tipo.
Per questo sapere di stato, infatti, che ha l'opinione come oggetto, si tratta di
modificarla o di servirsene, di strumentalizzarla»105. Ciò che facciamo, pensiamo, la
creatività stessa, tutto quanto rientra nel piano strategico del dispositivo che pare non
lasciare scampo pur non negando la libertà: necessita di essa per poter funzionare, e
quindi la crea. «La nuova ragione di governo – nella visione di Foucault - ha dunque
bisogno di libertà, la nuova arte di governo consuma libertà. Se consuma libertà è
obbligata anche a produrne, e se la produce è obbligata anche a organizzarla. La
nuova arte di governo si presenterà pertanto come l'arte di gestione della libertà»106.
Nella storia umana, in nome della libertà, si sono compiute le rivoluzioni, si è cercata
una maggior responsabilità per l'uomo, si è fuggiti dalle soffocanti istituzioni che si
applicavano sugli uomini per tenerli a freno o usarli. Ma ora anche lo stesso obiettivo
del cambiamento, una maggiore libertà, rientra nei mezzi del dispositivo e l'uomo
pare quindi non solo incapace ma pure impossibilitato a uscire da esso107. La stessa
105
Ivi, p. 202.
M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli,
Milano, 2005, p. 65. Bauman parla di habitat come territorio senza logiche deterministiche in cui
l'agente umano è calato: sue caratteristiche peculiari sono l'indeterminatezza e l'imprevedibilità. Senza
supporto istituzionali ognuno sarebbe libero di auto-determinarsi avendo come riferimento stabile il
proprio corpo: anche l'agire si trova così ad essere gestito in modo autonomo senza referenti sovraindividuali. Per poter agire sul mondo l'uomo ha la “cultura” definita come la capacità di
riappropriarsi in modo creativo del mondo: essa assume il ruolo di vettore di trasformazione. Bauman
nega l'esistenza di una realtà sociale pre-strutturata a cui adattarsi, ma consegna al potere umano la
facoltà di costruirla: «per operare nel mondo (anziché essere da questo manipolati) occorre conoscere
come il mondo opera» (Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari, 2000, p. 251),
affermazione da cui si evince che solamente tramite la conoscenza si può essere in grado di compiere
un’azione. Pur evidenziando un margine di libertà per l'individuo non riferisce in che modo ci si possa
riappropriare in modo creativo della cultura. Pur sostenendo che «la voce della responsabilità
annuncia la nascita dell’individuo umano, e da quel momento lo accompagna per tutta la vita,
testimoniandone l’esistenza» (Z. Bauman, Il disagio della postmodernità, cit., p. 259), come avviene
la trasformazione, grazie a che facoltà? Bauman intravvede una via di reazione allo status quo, ma non
riesce a definire esattamente su cosa ci si possa basare per tale nuovo agire.
107
L'influenza che la pastorale cristiana ha nella visione del potere in Foucault è riferita all'idea
secondo cui ogni individuo, per tutta la vita e per quel che riguarda ogni sua più piccola azione, deve
106
4
5
libertà reclamata come arroccamento della dignità umana, l'emblema dell'autonomia
del singolo che può dare una scossa al sistema o cercare la propria via di
realizzazione è qui ridotta a creazione del dispositivo stesso che giunge così ad
escludere ogni minima possibilità di una scelta personale. Anche quando si pensa di
agire per una decisione propria in realtà si sta decidendo entro gli schemi proposti dal
dispositivo: proprio in questo risiederebbe la sua forza. Nessun barlume di uscita si
prospetta, perché «la libertà non è che il correlato della messa in opera dei dispositivi
di sicurezza»108. A cosa si potrebbe appellare il soggetto inteso come agente, e non il
soggetto inteso come assoggettato, se volesse reclamare il proprio ruolo e la propria
dignità?
Un altro appoggio che tale conflazione riceve è dato da una eccessiva fiducia nelle
capacità umane, da alcune eccessive pretese che sono consegnate all'individuo che
appare così troppo potente, dando così fondamento a chi invece lo vorrebbe negare in
nome della struttura. In primo luogo si afferma che l'agente sia infallibile nel
giudicare le proprie azioni, consegnandogli in tal modo una onniscienza che non ha
modo di esistere e una irremovibilità impossibile da portare avanti poiché,
confrontandosi con le circostanze, ci si può accorgere di sbagliare o di stare
perseguendo una via errata, per cui si deve modificare il proprio agire. In seconda
battuta l'agente non sarebbe mai preda del dubbio poiché non avrebbe mai motivo di
mettere in discussione quanto crede. Infine si ritiene che non sia possibile mostrare
gli errori che l'agente compie. Avvalorando tali posizioni per affermare dei poteri nel
soggetto non si fa che sostenere l'idea opposta nella quale il soggetto non avrebbe
essere governato, anzi, deve lasciarsi governare: «l'uomo occidentale viene individualizzato mediante
il pastorato poiché il pastorato lo guida verso la salvezza che fissa la sua identità per l'eternità, lo
assoggetta a una trama di obbedienza incondizionata, gli inculca le verità di un dogma nel momento in
cui gli estorce il segreto della sua verità interiore» (M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione,
cit., p. 169). Ogni singolo governato si presta ad essere orientato complessivamente per rispettare il
binomio obbedienza-salvezza: se ci si comporta in un certo modo allora ci sarà un riconoscimento. In
questo sistema Foucault cerca di determinare a quali condizioni, in che modi concreti l'individuo
possa esprimere, se ci riesce, una certa autonomia. Tale autonomia non è però correlata all'essenza del
soggetto ma piuttosto emerge dal rapporto tra me che sono governato e colui (il potere) che mi
governa. «Il potere pastorale [...] produce una modalità di individualizzazione che non solo non passa
attraverso l'affermazione dell'io, ma implica la sua distruzione» (ivi, p. 137): dietro la facciata della
donazione di una identità si nasconde invece la negazione della stessa. La si potrebbe quasi definire il
grado di sottrazione all'azione di governo che si esercita su di lui. Cfr. anche M. Foucault,
L'ermeneutica del soggetto, cit.
108
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 48.
4
6
alcuna di tali eccessive proprietà ma tutto sarebbe donato dalla società. Se si vuole
scappare dal soffocamento dell'individuo nel mare sociale sono altre le vie da
percorrere rispetto al designare l'uomo come possessore di tali esagerate capacità.
Si tratta per Archer di recuperare «quel senso permanente di sé condiviso da tutti gli
esseri umani, che credono di essere sempre gli stessi nel tempo»109, poiché la visione
della conflazione verso il basso, al contrario, «ritiene che questo senso di sé sia una
teoria che apprendiamo partecipando alla conversazione della società: è un
significato che ci viene assegnato»110. La fisicità, che in Archer riveste un ruolo assai
importante, è trasformata qui nel veicolo di una identità donata dalla società o in un
oggetto su cui applicare un potere, nel caso di Foucault; oggetto che passivamente
accetta tutto senza poter o saper resistere111. Ogni idea è impressa senza difficoltà
anche se nella vita quotidiana si ha più di un esempio di come la nostra corporeità
non sia così indifferente a ciò che le viene fatto. Sebbene Foucault sostenga che i
nostri sono «quei corpi che gli effetti di potere costituiscono come soggetti»112,
Archer si discosta da tale visione, affermando al contrario quanto il corpo e la carne
che siamo, e non che possediamo, siano le fondamenta del nostro essere umani, ma
non in virtù di applicazioni da parte del potere su di essi, bensì perché ci “sentiamo”
noi grazie ad essi, senza mediazioni di sorta alcuna.
Nella Creatura della Società quello che sentiamo far parte di noi in realtà proviene
dal di fuori e la nostra vita interiore risulta svuotata di senso e di autonomia, come
anche le motivazioni che ci spingono ad agire, come se la «forma più caratteristica
del comportamento umano consiste[sse] nell'adeguamento consapevole alle regole e
nella realizzazione intenzionale dei piani»113, arriva a dire Harrè. Parlare di un “io”
equivarrebbe a esplicitare un senso di sé che non ci è proprio ma che è stato definito
in noi e attraverso di noi dalla società in cui viviamo. Ci sarebbe un apporto nullo al
contesto in cui siamo se fossimo realmente plasmati in ogni nostro aspetto dal solo
109
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 126.
Ivi, p. 127.
111
In Merleau-Ponty tramite il corpo e la sua gestualità si crea il mondo dell'uomo sopra il
mondo naturale. Le emozioni traspaiono all'esterno grazie al corpo e ai suoi gesti, staccandolo in tal
modo dall'essere un semplice supporto biologico. Pur essendo un prodotto della natura esso si può
prestare ad essere fonte di molti saperi, tutti d'egual valore a quello discorsivo. Cfr. M. Merleau-Ponty,
Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano, 2003.
112
M. Foucault, Bisogna difendere la società, cit., p. 33.
113
R. Harrè e P. F. Secord (a cura di), La spiegazione del comportamento sociale, cit., p. 143.
110
4
7
livello sociale. Lo stesso pensiero privato risulta stampato dall'ordine pubblico, dal
dispositivo di cui parla Foucault, non permettendoci in tal modo di incidere sul
mondo che ci circonda114. L'errore sta nel non riconoscere che «l'agency umana è
anch'essa stratificata, con diverse proprietà e poteri emergenti a diversi livelli, e non
tutti originati dalle nostre relazioni socio-culturali»115, come ci ricorda Archer.
Restringendo al solo livello sociale il contributo per la formazione della nostra
identità personale e dell'agire si minimizza l'impatto che possiamo avere sul mondo.
Non c’è possibilità di innovazione e di creatività, cosa che invece è tangibile e
visibile, se la sola società è la fonte di tutto ciò che siamo, per cui esiste un’altra
origine che apporta il suo contributo alla nostra identità e che non è sociale, in modo
da consentire di entrare nella società non come una tabula rasa ma già carichi di un
bagaglio e di una consapevolezza di sé la quale permetterebbe un agire intenzionale.
«La nostra singolarità – ci mette in guardia Archer - in quanto individui si riduce alla
nostra specificazione sociale»116: l'aderenza dell'individuo alla sola identità sociale
non rende merito alle sfaccettature che invece sono proprie di ognuno. Il fatto stesso
che ci si ponga domande sulla società presume un possibile distacco critico dalla
stessa, distacco che non appare applicabile nel caso in cui le fosse dovuto ogni nostro
pensiero. Non ci si può distanziare da qualcosa che ci definisce in ogni aspetto; la
114
«Con la crescita del potenziale della razionalità rivolta allo scopo (Zweckrationalität)
cresce anche l’incalcolabilità delle sue conseguenze» (U. Beck, La società del rischio. Verso una
seconda modernità, Carocci, Roma, 2000, p. 29). Beck scorge un mondo che sembra essere fuori
controllo a causa delle continue trasformazioni tecnologiche ed economiche che sopravanzano il
potere che la politica dovrebbe avere su di esse: si prospetta un mondo sociale che non è più nelle
mani degli individui ma gode di una sua autonomia poiché «nel processo di modernizzazione con la
crescita esponenziale delle forze produttive, si liberano rischi e potenziali autodistruttivi in dimensioni
fino ad oggi sconosciute» (ivi, p. 25). L'accesso stesso alla informazioni e alla verifica personale è
scemato per cui ci si affida ad una presunta autoregolazione che però non esiste. In questa situazione
però gli individui possono agire e segnare la realtà poiché hanno la facoltà di organizzarsi in pratiche
sociali e politiche adatte per contrastare la deriva cui si va incontro. Ciononostante l'impatto
individuale resta irrisorio: la spinta verso l'individualizzazione è suffragata da eventi storici con una
produzione di percorsi biografici plurimi e non più inseribili in una tradizione, poiché soggetti ad
influenze assai numerose. La mancanza di riferimenti certi può portare da una parte ad una passività
come impoverimento dell'esperienza di vita e di maggiore insicurezza ma dall'altra la stessa situazione
può disvelare libertà e possibilità di impegnarsi. La mancanza di mediatori verso la società permette
quindi una immediatezza del rapporto che però fa pesare sui singoli problematiche di respiro politico.
Beck non spiega da dove derivi questa capacità umana di organizzarsi per reagire, ma resta il fatto che
non siamo succubi a quanto accade e possiamo “remare contro”.
115
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 136.
116
Ivi, p. 137.
4
8
criticità non sorgerebbe se avessimo come metro di paragone e come interlocutore
cui rapportarci solamente l'ambito sociale: il “passo indietro” grazie al quale si può
osservare l'ambiente sociale è fondato su qualcosa d'altro.
«Nessuna società, o organizzazione sociale, possiede davvero consapevolezza di sé,
laddove invece ogni singolo membro della società, in condizioni normali, è un essere
autoconsapevole»117. Secondo Archer ciascun individuo è in grado di deliberare
mentalmente rispetto a ciò che lo circonda, riferendo quanto elabora solamente a se
stesso. Benché sia difficile comprendere, nelle visioni della sociologia classica, come
sia possibile riflettere criticamente sulle proprie condizioni o sul proprio contesto,
non si deve cadere nella conflazione centrale dove agire e struttura sono ridotti a
rappresentare due facce della stessa medaglia. «E' solo a condizione che – afferma
Archer - gli agenti siano sufficientemente distinti dai propri contesti sociali, che
diventa loro possibile riflettere su tali contesti come soggetti che si rapportano a un
oggetto»118. L'unica via che permette di soddisfare tale condizione è considerare
agenti e struttura portatori di poteri e proprietà peculiari che entrano in contatto.
Foucault insiste molto sul sapere che si crea attorno e su di noi, ma troppo spesso
indica come esempi solamente dei saperi di tipo discorsivo. Esistono invece varie
forme di sapere che non operano su di noi, ma che in prima persona sperimentiamo,
seppur non limitatamente alla società. Per essere parte della conoscenza non serve
assumere una forma linguistica, che appare necessaria invece nel livello sociale della
realtà. Se negli altri livelli le esperienze avvengono tramite mezzi diversi non per
questo esse risultano essere meno importanti ai fini della formazione di ciò che
siamo. Le varie fonti del nostro sapere non sono concorrenti ma complementari per
la nostra conoscenza. Sembra che il modo stesso con cui ci appropriamo dei ricordi
sia diverso poiché, come ha modo di sostenere Archer, «i ricordi procedurali,
diversamente da quelli dichiarativi, non sembrano venir dimenticati allo stesso modo,
il che suggerisce che sono sia appresi che ricordati mediante un meccanismo assai
diverso da quelli dichiarativi»119. Forse il segnare il corpo arriva più in profondità
rispetto all'insegnare verbalmente? La conoscenza procedurale persiste per tutta la
vita e mantiene le sue capacità per sempre, ogni volta che la si mette alla prova. Al
117
118
119
M. S. Archer, La conversazione interiore, cit., p. 46.
Ivi, p. 48.
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 204.
4
9
contrario la memoria “artificiale” è codificata e collocata in un Sistema Culturale e
«l'accesso ad essa dipende da un nuovo livello di capacità nell'avere accesso agli
artefatti, dai libri ai computer, e il controllo su di essa costituisce un potere collettivo
plasmato da agenti societari piuttosto che primari»120. Se prendessimo in
considerazione solamente queste parole ci troveremmo molto vicini alla posizione di
Foucault per cui il sapere è potere; il sapere che egli intende è appunto questo, quello
del Sistema Culturale, col quale si può manipolare l'individuo fino in ogni minimo
dettaglio. Chi detiene il sapere ha, con esso, anche il potere su chi fa parte del
Sistema Culturale. Lo slittamento che però Archer qui propone è che il Sistema
Culturale ha solamente una parte limitata nella formazione umana e che quindi,
anche nel caso ci fosse un monopolizzatore di esso, in ogni individuo, grazie al suo
sé già formato negli altri livelli (naturale e pratico) e alle conoscenze acquisite in altri
modi (pratica e memoria incarnata), esiste uno spazio di libertà e di reazione a quello
che viene imposto dal suddetto sistema. Con ciò resta evidente che il Sistema
Culturale in Archer possegga «la priorità temporale rispetto agli individui,
l'autonomia relativa da essi e l'efficacia causale su di essi»121. Noi nasciamo entro un
sistema che ci precede e influenza le possibilità che abbiamo in esso nonché la nostra
identità sociale, ma non essendo appiattiti su di essa un margine per il cambiamento
resta sempre. Non si può negare che la società abbia un impatto su di noi e produca
degli effetti ma il punto su cui premere è che solo attraverso la nostra mediazione la
società ci tocca: non si tratta di calare schemi precostituiti sugli individui che li
accetterebbero senza problemi, come invece ritiene Foucault, secondo il quale «la
storia dello stato deve potersi fare a partire dalla pratica degli uomini, a partire da ciò
che fanno e dal modo in cui pensano: lo stato come modo di fare e di pensare»122. Il
punto di vista personale e il sentire individuale sono lo schermo attraverso cui
vediamo ciò che ci circonda e le nostre deliberazioni interiori ci fanno decidere come
agire nella società senza adattarci passivamente. O, nel caso di un adeguamento,
anche quello sarebbe frutto di una scelta e non di un obbligo.
Il soggetto ha potere causale su quanto lo circonda e non è riducibile al proprio
contesto sociale dal momento che la sua identità personale porta con sé altri livelli
120
121
122
Ivi, p. 205.
Ivi, p. 206.
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 262.
5
0
del reale. «E' come se ciascuno di noi assumesse – nella visione di Archer - una
posizione di “distacco referenziale” dal mondo, basata sul riconoscimento dei nostri
poteri e delle nostre proprietà, in relazione (e in contrapposizione) a quella delle cose
(naturali o artificiali che siano)»123. Quello che viene definito come il fatto irritante
della società (il sentirsi al contempo liberi e prigionieri nel nostro vivere) trova
risposta in questa distinzione analitica tra poteri personali e poteri societari che sono
irriducibili gli uni agli altri. Riconoscendo ad entrambi le loro facoltà si può trovare il
proprio spazio e la libertà di agire responsabilmente, perché molto dipende da noi e
dalle nostre personali scelte. Entrando i diversi poteri in contatto tra loro si ha una
reciproca influenza ma da parte nostra c'è la possibilità di una visione distaccata, la
quale ci permette di giudicare nella nostra ottica quando vediamo. In quanto uomini
possiamo giungere fino ad un certo punto nel poter mutare le cose; anzi, invece di
pensare che l'unica via per cambiare il sistema vigente sia quella della modifica
strutturale possiamo considerare la gerarchia delle nostre premure (peculiarità di
ognuno) come il segno inimitabile della nostra esistenza e delle nostre idee.
Non tutti però ammettono tali poteri umani. Infatti l'opera di Michel Foucault,
almeno per una parte della sua riflessione, affronta come tema centrale tutti quei
meccanismi, procedure e mezzi che si possono riassumere con il nome di
“dispositivi”. Grazie ad essi il sistema congiunto di potere e di sapere delinea e
controlla la vita degli individui, con uno svolgimento storico e una evoluzione (nel
senso di cambiamento ma anche di affinamento tecnico) che si protrae fino ad oggi.
Il filo conduttore che collega i libri dati alle stampe con i corsi tenuti al Collège de
France è questa poliedricità dell'apparato sapere-potere, capace di mutare se stesso
pur volendo sempre raggiungere il medesimo fine.
È l'apparato potere-sapere124 quello che costituisce il dispositivo e che permette di
123
M. S. Archer, La conversazione interiore, cit., p. 166.
Il rapporto tra potere e sapere emerge anche in altri due pensatori, quali Beck e Giddens.
Tutto il pensiero di Beck è riferito alla nozione di rischio. Con l'evolversi della società industriale al
fine di produrre ricchezza si producono anche rischi, sia legati all'attività umana consapevole sia quelli
che non sono messi in conto ma che ci esistono comunque (effetti collaterali). La portata di tali rischi
pesa su tutte le classi sociali ed è esteso a tutto il globo; inoltre il calcolo dei loro costi risulta spesso
impossibile perché troppo elevato. Il carattere dei rischi porta alla domanda di tecnici e scienziati che
li sappiano valutare in modo da impedire ricadute dannose ma in questa situazione sorgono problemi:
la determinazione degli standard di sicurezza, la richiesta di rassicurazioni e gli interessi economici
che stanno dietro. «Si rimane comunque fondamentalmente dipendenti dal sapere altrui» (U. Beck, La
124
5
1
avere presa sugli individui rendendoli ciò che sono ai loro stessi occhi. In Foucault
«potere e sapere si implicano direttamente l'un l'altro; [...] non esiste relazione di
potere senza correlativa costituzione di un campo di sapere, né di sapere che non
supponga e non costituisca nello stesso tempo relazioni di potere»125. Il sapere che si
società del rischio, cit., p. 70) e ciò non rappresenta necessariamente un vantaggio. Se da una parte
affidarsi a degli esperti può trasmettere un senso di sicurezza, poiché si immagina che quello sia il loro
lavoro e la loro “vocazione”, presumendo sempre che esista un controllo disinteressato su quanto ci
riguarda così da non incappare in problemi, dall’altra parte non sappiamo esattamente chi siano questi
esperti che lavorano per noi. Eticamente questi ultimi dovrebbero ammettere una linea di fallibilità
assai ampia sulle possibilità di previsioni, dal momento che molte conseguenze non sono
nell'immediato: ciò però non avviene sempre, mostrando così quanto ci sia di politico in tutto ciò, dal
momento che secondo Beck «il ricatto economico induce ad una maggiore tolleranza» (ivi, p. 46).
Inoltre sussiste una differenza assai profonda tra razionalità scientifica e razionalità legata ai criteri
della vita sociale afferma Beck: «l’effetto sociale delle definizione del rischio non dipende dalla loro
validità scientifica» (ivi, p. 43). Quello che può essere un rischio trascurabile a livello di numeri può
esserlo assai meno per le persone che incarnano tale numero. Il problema qui è quello di considerare
gli uomini come numeri, come statistica, eliminandone l’importanza che invece dovrebbero avere;
come afferma Foucault «emerge così la nozione di caso, che non corrisponde al caso individuale, ma a
un modo di individualizzare il fenomeno collettivo» (M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione,
cit., p. 53). L'ambito dei rischi però non si limita alle industrie e all'inquinamento ma anche al
capitalismo finanziario nella sua dimensione globale che impedisce un adeguato controllo delle
dinamiche e quello legato al terrorismo internazionale che porta in campo il problema bellico. Cfr.
anche U. Beck, I rischi della libertà, cit. Avvicinandosi a Beck, Giddens afferma che «nel scegliere di
uscire in macchina accettiamo questo rischio, ma ci affidiamo alle predette competenze che ne
garantiscono il massimo contenimento. Sappiamo poco o niente degli aspetti tecnici» (A. Giddens, Le
conseguenze della modernità, cit., pp. 37-38): si sottolinea qui il tecnicismo che ha il sopravvento
sulle persone, le quali loro malgrado non possono conoscere ogni specialismo, dal momento che,
preso atto del progresso che avanza più velocemente delle conoscenze che abbiamo a disposizione,
«più gli “specialismi” diventano parcellizzanti, minore diventa il campo in cui un individuo può
reclamare competenza» (A. Giddens, Identità e società moderna, cit., p. 162). Nella vita di tutti i
giorni, e non solamente nei centri di ricerca all’avanguardia, Giddens ci ricorda che «entriamo in
ambienti completamente pervasi di sapere esperto» (A. Giddens, Le conseguenze della modernità, cit.,
pp. 37-38) e, pur non sapendo quasi nulla di come funzionino le cose, ognuno di noi «si fida di fatto di
pratiche e meccanismi sociali dei quali ha scarsa o nessuna conoscenza tecnica» (ivi, p. 93). Questo
porta ad una fiducia donata agli esperti e alle istituzioni che sono elevati a portatori di “verità”: in tal
modo perdiamo il contatto diretto con la realtà avviando da una parte una socializzazione della natura
e dall'altra mediando ogni rapporto col reale: «la natura delle istituzioni moderne è profondamente
legata ai meccanismi della fiducia nei sistemi astratti» (ivi, p. 89) di cui abbiamo poco o nulla
conoscenza. La ricerca dell'autonomia è insita nella democrazia che porta all'individualità e alla
ricerca di un senso della propria esistenza poiché assumiamo su di noi il nostro destino, visto che una
conoscenza diretta del reale ci è impossibile. Monitoriamo noi, gli altri e la società, con la completa
conoscenza di quanto ci riguarda, restando in bilico tra anonimato dovuto alla scarsa presa sul reale e
la personalizzazione che possiamo raggiungere con la riflessività. In queste due posizioni si mostra la
centralità della conoscenza discorsiva, sia essa statistica o razionale, rispetto a quella incarnata, come
se i numeri e il raziocinio fossero gli unici strumenti nelle mani dell'uomo.
125
M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 31. Riprendendo le parole di Orwell che in 1984
propone delle descrizioni assai adatte per il dispositivo delineato da Foucault, «tu pensi che la realtà
5
2
organizza attorno agli individui, pur potendo essere di varie forme, ha come
presupposto il tentativo di incasellare ognuno secondo canoni stabiliti, in modo da
creare categorie in base alle quali poi applicarsi. Si assiste al sorgere di tutto un
apparato di studio, controllo, registrazione da parte di istituzioni finalizzate a tale
scopo, che sfociano nello stabilire una norma alla quale riportare ogni individuo o
secondo cui valutarne il grado di normalità126. Un simile apparato toglie
l'immediatezza dell'incontro con il mondo esterno, negando che ciò possa avvenire
tramite altri mezzi quali la corporeità, poiché «il soggetto che conosce, gli oggetti da
conoscere e le modalità della conoscenza sono altrettanti effetti di queste
implicazioni fondamentali del potere-sapere»127. Quanto sappiamo e come lo
sappiamo non fa direttamente parte di noi, non è qualcosa che abbiamo dentro, ma ci
sia qualcosa di oggettivo, di esterno, qualcosa che abbia un'esistenza autonoma. Credi anche che la
natura della realtà sia di per se stessa evidente. Quando inganni te stesso e pensi di vedere qualcosa, tu
presumi che tutti gli altri vedano quello che vedi tu. Ma io ti dico, Winston, che la realtà non è
qualcosa di esterno, la realtà esiste solo nella mente, in nessun altro luogo. Non nella mente
individuale, che è soggetta a errare ed è comunque peritura, ma bensì in quella del Partito, che è
collettiva e immortale. La verità è solo quello che il Partito ritiene vero. Non è possibile discernere la
realtà se non attraverso gli occhi del Partito» (G. Orwell, 1984, cit., p. 256).
126
Esistendo un nesso tra la sfera pubblica e quella personale, Bauman tenta di scovare come la
prima influenzi la seconda, in modo da permettere una più ampia conoscenza agli individui su come il
potere pubblico si eserciti su di essi. Il ruolo della prassi e della conoscenza è basilare in quanto solo
tramite la conoscenza del mondo si può operare su di esso. L'errore che la modernità compie è di
considerare il mondo come un campo governabile con l'ausilio del razionale: fede nella scienza,
fiducia nel diritto e nella morale dettata dalla ragione che sfociano in un mito del progresso continuo.
Per raggiungere tali obiettivi i compiti più importanti sono quelli legati al controllo e alla dimensione
dell'ordine sociale in modo da perfezionare sempre l'uomo e la società. Con il monitoraggio, la
supervisione e la sorveglianza si raggiunge un simile obiettivo dando così vita ad un mondo legato al
calcolo in cui la massima efficienza è ricercata in ogni settore. Chi decide (o non riesce) a rispettare la
razionalità strumentale viene automaticamente escluso e si trasformano così in un gruppo pericoloso
da tenere sotto controllo tramite le istituzioni della legalità: vigono regole generali e non più legate al
contesto socio-culturale. «Il livello di vita considerato dignitoso (e costantemente innalzato) viene
stabilito ben oltre i confini del quartiere, dai giornali e dalla pubblicità trasmessa continuamente dalla
televisione» (Z. Bauman, Lavoro, consumismo e nuova povertà, Città Aperta, Troina, 2004, p. 65)
afferma Bauman, come se gli individui non sapessero decidere da soli per cosa vale la pena vivere ma
necessitassero sempre di un input esterno. Si ha una vicinanza con Foucault quando Bauman espone
il controllo dei corpi e la sorveglianza quali tecniche predilette per produrre condotte a comando per
vie disciplinari. La società avrebbe la capacità di atrofizzare il senso morale e la responsabilità degli
individui, che sarebbe recuperabile nella capacità di stare con gli altri. Esiste uno spazio per la
solidarietà e la libertà dei singoli che si assumono responsabilità in questo contesto ricercante da una
parte l'ordine (sistematizza, classifica, monitora e controlla) mentre dall'altro deve prendere atto della
provvisorietà dei saperi che non permette ancoraggi. Cfr. anche Z. Bauman, Il disagio della
postmodernità, cit., e Z. Bauman, Una nuova condizione umana, Vita e Pensiero, Milano, 2003.
127
M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 31.
5
3
viene dato dalla società in una mediatezza che poi le permette di fare di (con) noi ciò
che desidera. Non è questione di giungere al cuore delle cose, al noumeno kantiano,
oppure di poter definire una conoscenza perfetta di quanto abbiamo intorno; piuttosto
si parla di mezzi per arrivare a conoscere il mondo in una immediatezza che sia solo
nostra e non schermata dalla società. Abbiamo secondo il pensatore francese «un
dispositivo di sapere-potere che imprime effettivamente nel reale ciò che non esiste e
lo sottomette legittimamente alla distinzione tra vero e falso»128: quello che appare
degno di essere studiato e valutato non spetta alla nostra decisione ma è già stabilito.
Gli stessi valori di verità non possono fare appello ad un nostro sentire ma sono
mediati anch'essi dall'apparato sapere-potere dal quale non si riesce a sfuggire in
nessun ambito del reale, dal momento che il reale stesso è già deciso. Il coronamento
di tale insistente lavorio sotterraneo è la nascita di «un soggetto assoggettato
attraverso reti ininterrotte di obbedienza e soggettivato estraendo da lui stesso la
verità che gli viene imposta»129. La dignità umana e la capacità di un agire personale
sono cancellati con un colpo di spugna130, rendendo l'individuo un portatore di verità
non sue, un esecutore di altrui volontà, il combustibile della macchina del potere cui
non viene richiesto altro se non di ripetere nozioni che gli sono state insegnate per
farlo stare tranquillo: «la stessa caratterizzazione degli individui quali soggetti è
perciò ricevuta in dote dalla società e fondata alla loro sottomissione a forze di tipo
sociale: ciò che pensano di sapere è ciò che gli è stato imposto di credere»131 (questa
affermazione, pur restando valida nel caso del primo Foucault, si può estendere a
molte altre visioni in cui il singolo si ritrova a dovere tutto alla società). Per riuscire a
comprendere e posizionare gli individui nella maniera più efficace possibile, si
128
M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit., p. 31.
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 141. «Era come se una qualche forza
immensa vi schiacciasse, qualcosa che vi penetrava nel cranio e vi martellava il cervello, inculcandovi
la paura di avere opinioni personali e quasi persuadendovi a negare l'evidenza di quanto vi
trasmettevano i sensi» (G. Orwell, 1984, cit., p. 85).
130
«Ma questa conoscenza, dove si trovava? Solo all'interno della sua coscienza, che in ogni
caso sarebbe stata presto annientata. E se tutti quanti accettavano la menzogna imposta dal Partito, se
tutti i documenti raccontavano la stessa favola, ecco che la menzogna diventava un fatto storico,
quindi vera» (G. Orwell, 1984, cit., p. 37); «gli eventi trascorsi, si argomenta, non posseggono
un'esistenza oggettiva, ma sopravvivono solo nei documenti scritti e nella memoria degli uomini. Il
passato è quanto viene riconosciuto dai documenti e dalla memoria dei singoli individui. Ora, poiché
il Partito detiene a un tempo il controllo integrale di tutti i documenti e delle menti dei suoi affiliati, ne
consegue che il passato è ciò che il Partito decide essere tale» (ivi, p. 219).
131
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 44.
129
5
4
creano delle classificazioni e si estrapola un campo di regolarità dalla vita in maniera
del tutto artificiosa ma che fa sentire tutto il suo potere sulla società stessa che a tale
suddivisione si adegua.
Ma il sé, sostiene a più riprese Archer, non è una teoria che ricaviamo dalla società: il
fatto di poter, saper e voler agire presuppone un riconoscersi la capacità di agire. Il
debito alla società arriva inoltre ad oscurare il nesso che si ha con la natura: anche il
rapporto con essa sarebbe mediato dalla teoria del sé che ci viene imposta
dall’esterno, come afferma Foucault, il quale si sforza di «mostrare come siano le
relazioni effettive di assoggettamento a fabbricare dei soggetti»132. Il livello del
“sentire” e della corporeità sarebbe culturalmente definito per cui non sapremmo
immediatamente relarci alla natura, anche se è il primo livello con cui abbiamo a che
fare alla nascita. Si giunge quasi ad un innatismo per cui riconosceremmo come
artefatto culturale ogni cosa che ci circonda già dalla nostra venuta al mondo, invece
che affrontare passo dopo passo gli eventi e l'ambiente, per gradi, formandoci in tale
maniera attraverso le esperienze che affrontiamo.
Già Locke riconosceva il debito del nostro sé all'incarnazione e ai ricordi, ma nella
Creatura della Società si ha a che fare solamente con il livello sociale il quale nega la
possibilità stessa di altri rapporti. Il privato segue il pubblico poiché solamente dopo
che la società si è inscritta in noi abbiamo la possibilità di riconoscerci come
individui che possiedono quindi una intimità133.
132
M. Foucault, Bisogna difendere la società, cit., p. 44.
La forza di produzione della società, in Touraine, non deve essere vista come un ripetere
sempre se stessa e imponente un dominio assoluto perché al suo interno ci sono anche opposizioni e
rivolte contro tali meccanismi. La mediazione dei soggetti con la loro soggettività evita il perpetuarsi
anonimo della struttura e apre degli spiragli all'attività di un uomo cosciente del suo agire e non
passivo. La sfida alle dinamiche di dominazione è collocata non nella vita quotidiana ma nella
capacità di mobilitarsi, nel lavoro e nella veste del singolo perché anche la socializzazione tende a
tramutarsi in de-soggettivazione. Il soggetto lotta per la sua autonomia che si mostra a livello del suo
agire ma senza finalità nell'utilità e nel calcolo mercantile, come invece la società contemporanea
vorrebbe. Il campo nuovo (o recuperato) su cui esplicitare la propria individualità e che funge anche
da base per un nuovo agire sarebbe quello morale, con un importante prospettarsi sulla vita pubblica,
criticata tramite la soggettività che non resta così chiusa in se stessa. La forza del soggetto sta nella
resistenza e nell'opposizione alla società che lo vorrebbe controllare e assimilare a se stessa, in seno ad
uno scarto sempre più grande tra soggettivo e oggettivo. Per staccarsi da tale situazione il soggetto si
trova isolato e affidato solamente a se stesso: in tal modo si formano due correnti, l'una legata
all'oggettivo e al mercato razionale, mentre l'altra bada ai bisogni del singolo di trovare la propria
identità nella comunità. Cfr. A. Touraine, La società postindustriale, Il Mulino, Bologna, 1970, e A.
Touraine, Libertà Uguaglianza Diversità, Il Saggiatore, Milano, 2002.
133
5
5
In un quadro così desolato sia per il nostro sé che per la nostra possibilità di agire in
base a ciò che riteniamo valido, Archer delinea un appiglio cui aggrapparci per
sfuggire alla riduzione dell'individuo ad uno schema sociale ossia alle «relazioni
socialmente non mediate con la natura (compresi gli artefatti) nelle nostre azioni
pratiche»134. In questo senso il corpo riveste un ruolo centrale nell'affrontare
l'ambiente che ci circonda e la conseguente formazione di una identità. Partendo dal
livello fisico, prosegue Archer, «la nostra incarnazione stessa gestisce tale processo
di differenziazione attraverso il confine della pelle che fornisce una distinzione
avvertita tra sé e alterità, che poggia sulla significazione fisiologica»135. Con ciò non
si passa ad un organicismo ma alla sottolineatura del fatto che ogni livello dà il suo
preciso contributo al fine di permettere una costruzione di sé. L'apporto dato dalla
fisicità del corpo non è assolutamente da sottovalutare poiché è da lì che si parte per
“sentirsi” consapevoli e sempre gli stessi nel tempo. Non ci si imprime nulla di
esterno ma, al contrario, riconosciamo ciò che siamo grazie a noi stessi e al nostro
corpo che si contrappone a ciò che ci capita e ci “tocca”, sia in senso tattile che di
emozioni. Il legame col corpo non è limitato all'incarnazione, all'essere un corpo
invece che a possedere un corpo, ma si estende anche alle sue capacità che sono
indipendenti dalla loro definizione in seno alla società. Ci muoviamo, mangiamo e
rifuggiamo situazioni ostili in quanto corpi e non in quanto esseri sociali. Tali
capacità si sviluppano grazie all'incarnazione, senza dovere nulla alla società; anzi,
noi entriamo e ci rapportiamo alla società con queste capacità che da essa non
derivano e che ci permettono di lasciare qualcosa di nuovo, di metterci del nostro nel
contesto in cui ci veniamo a trovare.
Quello che ci viene proposto da una descrizione socio-pubblica non abbraccia tutte le
possibilità che l'incarnazione ci offre e con la quale ci relazioniamo al mondo.
Condividere il peso della creazione del sé con altri livelli della realtà non deve essere
visto come uno svilimento dell'uomo sociale, quell'uomo che proprio grazie alla
socialità si distingue dagli animali. Sarebbe al contrario riduttivo eguagliare la
socialità all'identità personale perché si escluderebbero poteri e proprietà derivanti da
altro ma che contribuiscono a fare dell'individuo ciò che è, ossia consapevole di sé e
134
135
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 149.
Ivi, p. 150.
5
6
con la possibilità di incidere sul mondo in cui vive e che non lo possiede totalmente.
Foucault, al contrario, sostiene che «ognuno si comporta come membro di questo
insieme che si vuole gestire nel miglior modo possibile, la popolazione per
l'appunto»136. Archer ricerca un recupero della libertà e dell'intenzionalità, dal
momento che rimangono aperti spazi di azione propri di ciascuno e non già definiti
dalla società stessa nella quale non veniamo negati.
Nell'egemonia del sociale l'individuo che nasce si appropria di un senso di sé che gli
viene proposto e che si limita a trasportare col suo corpo per tutto il corso della vita,
normalizzandosi ad esso e non avendo la capacità di modificarlo: dobbiamo alla
società ciò che sappiamo di essere. Si innesta in tal modo un circolo nel quale non si
capisce “chi delinei cosa”: la società è fatta da individui che portano una identità e si
comportano come la società vuole. Ma chi ha costruito la società? «Credo – sostiene
Foucault - che il potere non si costruisca a partire da volontà (individuali o
collettive), così come non deriva da interessi. Il potere si costruisce e funziona a
partire da poteri, da una molteplicità di richieste e di effetti di potere»137. Abbiamo
un perpetuarsi continuo dello status quo senza alcuna via di trasgressione e si entra in
una struttura che ci incasella e che ci produce come adatti ad essa senza alcuna via di
fuga.
«Gli esseri umani – secondo Harrè - vengono concepiti, secondo la tradizione
meccanicistica, come entità passive il cui comportamento è il prodotto di forze subite
passivamente»138: contro la desolazione che emerge da una descrizione così rarefatta
delle capacità dell'agire umano e della sua pressoché nulla incidenza sul mondo
sociale, come pure sulla propria vita personale, si costruisce in fondo la critica che
Archer compie nei confronti di quella che definisce “conflazione verso il basso”,
dove la società gioca un ruolo preminente nel rapporto con l'individuo, il quale
sarebbe debitore in tutto alla società a partire dalla sue stessa individualità e
soggettività. Ciò avviene poiché secondo Archer «si tende talvolta a enfatizzare la
portata dei fattori strutturali che ci condizionano, come se questi agissero senza
136
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 44.
M. Foucault, Discipline, poteri, verità, cit., p. 98.
138
R. Harrè e P. F. Secord (a cura di), La spiegazione del comportamento sociale, Il Mulino,
Bologna, 1977, p. 33.
137
5
7
alcuna consapevolezza da parte nostra»139. Sottolineando solo uno dei due poli in cui
si forma la vita, la società, e negando l'altro, l'individuo, non si può che avere una
visione distorta poiché parziale di tutta l'esistenza.
L'errore commesso spesso in questo tipo di conflazione è il confondere il senso di sé
con il concetto di sé. Mentre il concetto può mutare tra una società e l'altra in base
alle usanze, alle tradizioni e alla storia peculiare, il senso di sé permane identico a se
stesso: la consapevolezza di persone diverse di essere sempre le medesime nello
svolgersi del tempo permette loro successivamente di sapersi tali mentre assumono
ruoli o si identificano in questo o quel concetto di persona. Solamente il riconoscersi
come gli stessi consente di abitare diverse realtà e adattarsi alle varie situazioni, e
non viceversa. Non è il ruolo a definire l'identità di un individuo, o il concetto. Per
far mio un concetto devo sapere che sono proprio io a farlo mio, e quindi la
precedenza di un senso di sé si mostra come necessaria. Non ci insegnano a pensare
che siamo un sé ma lo sentiamo tramite il contatto con i vari livelli della realtà. Se
fosse questione di insegnamento ci troveremmo nella situazione in cui l'individuo
diviene pasta modellabile nelle mani del foucaultiano dispositivo invece che
considerarci attivi fautori della realtà e delle nostre vite tramite il nostro peculiare
modus vivendi e il nostro sé che portiamo nell'ambito sociale.
La stessa coscienza non è la semplice interiorizzazione del rimprovero da parte della
società ma ciò che noi sentiamo sbagliato e che evitiamo di fare. Siamo i primi
giudici di noi stessi e rendiamo i conti in primis sempre a noi. La sanzione sociale
non impedisce di agire nel modo che riteniamo più opportuno o più “giusto”. Siamo
pronti a pagare le conseguenze di ciò che decidiamo di fare anche se la società non lo
permette perché non è da essa che proviene la coscienza.
La centralità del corpo deriva da molti fattori140. Non ci riconosceremmo come noi
stessi se non sentissimo il nostro corpo, e attraverso esso affrontiamo la differenza
139
M. S. Archer, La conversazione interiore, cit., p. 57. «Ma siamo noi a crearla, questa natura
umana. Gli uomini possono essere manipolati in tutti i modi» (G. Orwell, 1984, cit., p. 276).
140
Merleau-Ponty suggeriva già questa centralità considerando la peculiarità di ognuno
delineata dal suo punto di vista sul mondo, il quale è rappresentato dal corpo che siamo, non dal corpo
che abbiamo. Tale corpo ha dei fili intenzionali che lo legano all'ambiente circostante e che fanno di
esso ciò che è. Per capire ciò che è il corpo vivente non me lo posso far raccontare ma devo metterlo
in azione io stesso e levarlo verso il mondo riconoscendolo come struttura invariabile nel mutamento
delle prospettive. Il corpo oppone resistenza alle variazioni del mondo; non è un prodotto del mondo
ma il mezzo con cui entriamo in contatto con esso, l'orizzonte delle nostre esperienze.
5
8
con gli altri e con l'esterno. La mediazione con l'ambiente non è di tipo sociale o
discorsivo ma corporea e fisica. Lo stesso apprendimento per tentativi ed errori
proprio del corpo è la prima fonte di conoscenza: prima di comprendere
discorsivamente l'effetto di causalità per cui mettendo la mano sul fuoco ci si brucia,
un bambino ritrae istintivamente la mano dalla fiamma ma non perché pensa alla
causalità insegnata; piuttosto percepisce che fa male a livello corporeo. Anche se non
ci avessero insegnato i danni provocati dalle ustioni il ritrarre la mano sarebbe un
gesto che comunque faremmo. Molte delle scoperte sensoriali che si fanno in
rapporto a se stessi avvengono nel privato e non nel sociale con il senso del tatto a
farla da padrone nella formazione della coscienza. Ci si tocca sentendosi per prima
cosa un essere vivente e poi proprio se stessi. Non è la medesima sensazione quella
che abbiamo se tocchiamo noi stessi o qualcosa d'altro.
Inoltre il corpo non è qualcosa su cui fare presa da parte del potere ma «è dunque la
base di partenza ed è quello che resta al soggetto quando tutto il resto è andato
perduto: il soggetto si scopre innanzitutto a partire dalla sua corporeità, nel momento
in cui esiste una resistenza davanti all'appropriazione tentata dalla società nei
confronti di questo stesso corpo»141. Se si vuole evocare e cercare una resistenza a
questo soffocante sistema che ci imbriglia, Archer suggerisce di trovare la soluzione
nel «soggetto umano, dato che esso si è rivelato indispensabile per la resistenza al
potere, lo sviluppo di un potenziale politico progressista e della creatività, doti che
prese collettivamente presuppongono che le persone determinino le cose piuttosto
che lasciare che gli capitino»142. Un recupero dell'attività si accompagna al sorgere di
un sé non socialmente costituito che si forma per altre vie, in altri strati, giungendo
solo in un secondo tempo a confrontarsi col sociale.
141
M. Ghisleni e W. Privitera, (a cura di), Sociologie contemporanee. Bauman, Beck, Bourdieu,
Giddens, Touraine, UTET, Torino, 2009, p. 179. Il potere ha il suo punto di appoggio nel corpo. Nel
tempo i meccanismi del potere si sono trasformati: il diritto sovrano di appropriarsi dei beni, del
lavoro, della vita dei sudditi, non è più la forma principale del potere, che s’impegna ora a gestire la
vita. Il nocciolo del potere è il biopotere, il potere che si esercita positivamente sulla vita, nel senso
che la gestisce, la potenzia, la plasma riuscendo a regolarla e a controllarla in modo sempre più
capillare e preciso. Suo oggetto è il corpo dell’individuo e il corpo della popolazione; le discipline del
corpo e i saperi che mirano a regolare la popolazione costituiscono i due poli attorno ai quali si è
sviluppata l’organizzazione del potere sulla vita. L’effetto storico è una società normalizzata, in cui i
corpi sono plasmati, gli individui irreggimentati nella scuola, nella caserma, nell’ospedale, nella
fabbrica. Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit.
142
M. S. Archer, Essere umani, cit. p. 47.
5
9
Buona parte del linguaggio nasce inoltre come vano tentativo di descrivere le
sensazioni corporee senza mai raggiungere il traguardo. Non si sa cosa sia il dolore
perché ce lo descrivono a parole ma perché lo proviamo sulla nostra pelle nella vita
quotidiana nel rapportarci all'ambiente che ci circonda. La stessa società quale mezzo
avrebbe per donarci una identità e un senso di sé se non il linguaggio? E se, come
abbiamo visto, il linguaggio segue la corporeità come tentativo di descriverla, non è
forse ad essa che dobbiamo andare per trovare il fondamento della identità e del sé?
La successione pare essere corporeità-linguaggio-società e non viceversa.
Lungo tutta la vita è la conoscenza pratica che continua a crescere, lo si voglia o
meno, essendo fondamentale per restare fisicamente al mondo. Al di là delle
costruzioni speculative del nostro essere nel mondo, del modo di vivere la vita e del
rapportarci con gli altri, un altro è l'aspetto che precede tutti questi: la correttezza
dell'attività corporea come base per l'esistenza. L'azione pratica è inscritta nel corpo
stesso, è il modo del corpo di entrare in contatto con l'ambiente prima dell'avvento
della parola e anche dopo l'avvento della parola; spesso ci dice di più una sensazione
“a pelle” che mille discorsi143. Col movimento accediamo al mondo e agli oggetti
nonché alle altre persone e gli automatismi che si acquistano a livello pratico non si
dimenticano nel tempo. Forse c'è un altro modo di rapportarsi che non sia quello
discorsivo ed esiste un'altra memoria che non sia quella razionale.
1.3 Un esempio di “conflazione centrale”: Pierre Bourdieu
Un altro errore delle teorie sociologiche moderne è la conflazione centrale, la quale
considera reciprocamente costituiti le persone e le strutture, senza lasciare spazio allo
studio dei due elementi separatamente, in modo da riconoscerne le caratteristiche
proprie e le proprietà di ognuno. Prendiamo in esame le visione di Bourdieu e di
Giddens per mostrarne gli aspetti importanti e gli eventuali errori.
L'intento di Bourdieu è quello di sottrarsi sia alla filosofia del soggetto, senza
sacrificare l’agente, sia alla filosofia della struttura, senza rinunciare a tener conto
143
«D'ora in avanti non doveva limitarsi ad avere pensieri corretti, doveva sentire in maniera
corretta, sognare in maniera corretta» (G. Orwell, 1984, cit., p. 287). Anche qui si mostra come il
“sentire” sia basilare nella formazione del sé. Solo giungendo a controllare anche quello si potrebbe
affermare di avere il potere totale sull'individuo, ammesso che ciò sia possibile.
6
0
degli effetti che essa esercita attraverso e sull'agente. La sua visione sociologica è
basata fondamentalmente su due concetti (il campo e l'habitus) che si incontrano
tramite l'interiorizzazione dell'esteriore e l'esteriorizzazione dell'interiore. Il campo
rappresenta le strutture oggettive, le posizioni, la distribuzione delle risorse che
influiscono esternamente sulle interazioni e rappresentazioni degli individui.
L’habitus è invece l’esperienza immediata degli individui e le loro categorie di
percezione e di valutazione che strutturano dall’interno le loro azioni e le loro scelte.
Altro punto focale è che le divisioni sociali e gli schemi mentali sono analoghi e i
secondi sono l'incorporazione dei primi, quasi bastasse l’estrazione sociale per
definire il modo di pensare di un individuo.
In Bourdieu le relazioni di dominio vengono incorporate tramite meccanismi
strutturanti prodotti dall'interiorizzazione delle strutture sociali oggettive. Da qui si
evince il suo monismo: non c'è separazione tra società/strutture e individuo ma esse
rappresentano due facce della stessa medaglia. Volendo oltrepassare sia
l'oggettivismo, che disconosce ogni potere all'attore sociale reificando le strutture, sia
il soggettivismo, che al contrario fa appello solamente all'attore, egli scova questa
terza via dove le rappresentazioni che i soggetti hanno della realtà stessa ne sono
parte costitutiva e costituita.
Dal punto di vista metodologico egli ritiene che i concetti siano solo delle
momentanee ipotesi stabilizzate perché solo attraverso il lavoro empirico si giunge a
capire come vanno veramente le cose. Lo stesso concetto deve essere inteso nel suo
uso “vissuto” e non staccato dalla pratica per farne un a-priori o disincarnandolo dal
suo contesto. È l'uso effettivo che se ne fa a delinearne la validità e l'importanza:
staccandolo dal contesto la sua comprensione si fa ardua.
A livello epistemologico Bourdieu sostiene l'impossibilità della comunicazione tra
teoria e pratica, dividendo così i due ambiti in settori stagni. Il campo del vissuto non
è descrivibile dalla teoria perché solamente vivendola si può capire in cosa consista
una pratica, dal momento che «una teoria adeguata della pratica [...] costituisce la
pratica in quanto pratica (in contrapposizione tanto alle teorie esplicite o implicite
che la trattano come oggetto quanto a quelle che la riducono a un'esperienza vissuta
suscettibile di essere percepita attraverso un ritorno riflessivo)»144. Il tentativo non
144
P. Bourdieu, Per una teoria della pratica. Con tre studi di etnologia cabila, Raffaello
6
1
deve consistere nel trasfigurare la pratica in altri livelli descrittivi o pensare che le
parole possano veicolare come si agisce. Non si tratta nemmeno di osservare dal di
fuori quello che accade per darne un resoconto oggettivo, dal momento che tale
oggettività toglie ciò che qualifica le pratiche in quanto tali, ossia il contesto e il
momento peculiare in cui avvengono. Senza la possibilità di una oggettificazione
della pratica viene anche meno la definizione e l'esistenza della regola: nel sapere
pratico ci sono al massimo tendenze ma non regole prestabilite cui conformarsi. «La
pratica – nel pensiero di Bourdieu - non deriva dal principio della regola»145 che si
scopre sempre a posteriori, avendo poi la pretesa indebita di spostarne la temporalità
e porla prima dell'azione stessa, la quale ne sarebbe l'effetto. Il desiderio di avere un
canone cui riferire l'agire è il motivo di tale tentativo che però non porta a nulla di
concreto. «La teoria, lo dice la parole, è spettacolo che si può contemplare solo a
partire da un punto di vista esterno»146: questa visione dall'esterno viene ritenuta più
autorevole di quella che invece muove ognuno ad agire in una certa maniera.
Tuttavia, essendo appunto dal di fuori, essa non si può calare nell'ottica nel singolo,
la quale è quella che più conta se si vogliono trovarne le motivazioni. L'aura che il
distacco critico possiede fa sì che si sacrifichi il soggettivo in favore dell'oggettivo
creando così una conoscenza che, pur presentandosi come veritiera, non è altro che
una astrazione dal reale. Il ruolo della teoria diventa preponderante poiché afferma di
possedere «il monopolio del punto di vista totale sul tutto e si dichiara capace di
trascendere i punti di vista parziali e particolari dei gruppi particolari»147. Il fatto
Cortina Editore, Milano, 2003, p. 181. Nella modernità sussiste un evidente errore che però spesso
non è riconosciuto: si pensa che siano gli scienziati a creare il reale, confondendo in tal modo
epistemologia e ontologia. Il fatto che qualcosa sia conosciuto lo porta all'evidenza ai nostri occhi, ma
non tutto ciò che esiste è conosciuto dal nostro sapere. C'è anche differenza tra ciò che c'è e ciò che
sappiamo a riguardo di ciò che c'è, che è frutto dei nostri schemi mentali e del nostro modo di
conoscere le cose. Per esserci e avere conseguenze la realtà non ha bisogno di un uomo che la studi.
Per essere, alla realtà l'umanità non serve, ma per essere conosciuta invece il ruolo umano è
preponderante. Cfr. A. M. Maccarini, E. Morandi e R. Prandini, (a cura di), Realismo sociologico, cit.
145
P. Bourdieu, Per una teoria della pratica, cit., p. 108. Il reale è spesso ridotto a ciò che è in
atto e a ciò che è osservabile. Si tralasciano così proprietà non in atto, proprietà contrastate e proprietà
in atto ma non osservabili, per non parlare delle conseguenze che non sono nell'immediato. Il reale è
più ampio dell'empirico che vorrebbe invece ridurlo a se stesso.
146
P. Bourdieu, Il senso pratico, Armando Editore, Roma, 2005, p. 29.
147
Ivi, p. 48. Ciò che deve essere spiegato (explanandum) è logicamente dedotto da ciò che
compie la spiegazione (explanans). Adattando tale schema al “se-allora” (la scoperta di premesse
valide affinché una conseguenza sia sempre certa) lo scienziato si trova a cercare delle leggi di co-
6
2
stesso di voler trascendere le peculiarità risulta per Bourdieu un errore; questa fiducia
nelle grandi spiegazioni non fa che togliere il valore che invece possiedono la prassi
e l'agire umano in una determinata situazione particolare, mai riducibile ad una
regola generale. Si tratta di una «logica che, come ogni logica pratica, non può essere
colta che in atto»148. Cogliere nell'atto non significa però osservazione di quanto
avviene da cui estrapolare una spiegazione, bensì colta nel momento in cui la si
compie, date le circostanze in cui avviene e il momento preciso in cui accade.
Bourdieu, prendendo come esempio gli studi compiuti in Cabilia, critica le riduzioni
compiute dai suoi colleghi sulle regole di matrimonio, dove essi tentano di trovare
una spiegazione valevole dappertutto, quando invece il pensatore francese sostiene la
casistica peculiare di ogni matrimonio in sé. Se da una parte una linea di tendenza è
riscontrabile, questa non permette di anteporre la regola all'azione: da una regolarità
non si può passare alla regola che avrebbe effetto retroattivo in quanto, scoperta alla
fine del processo, viene fatta risalire a ciò che lo ha provocato149.
Bourdieu insiste molto sul contributo della pratica, e anche Archer la ritiene basilare
nella formazione del senso di sé che si forma concettualmente anche se con modi che
non sono linguistici. Come pure Bourdieu suggerisce, esistono altre vie di
conoscenza che non sono quelle della didattica linguistica, ma tutte quelle pratiche
incarnate che si fanno proprie solamente agendole e non studiandole su un libro. La
pratica e il corpo sono gli elementi che segnano questa capacità di conoscenza e di
formazione del sé, scappando dalla riduttiva visione per la quale i concetti sono solo
variazione, oltre che la conferma della legge stessa. Si passa quindi alla ricerca di una
generalizzazione e al passaggio degli esperimenti da prova a spiegazione. Ricostruendo in laboratorio
un ambiente non esistente in natura e mostrando cosa succede, tale esperimento non è la prova
dell’esistenza di una legge ma la spiegazione stessa della legge. «Gli scienziati formulano le loro
ipotesi per realizzare i loro esperimenti e poi usano questi esperimenti per verificare le loro ipotesi»
(H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Bergamo, 2005, p. 213). Volendo
accontentarsi di una legge statisticamente valida, dal momento che di leggi onnicomprensive nella
società non ce ne sono, il discorso della forzatura non cambia. Non ci può essere una statistica forte
all’interno delle scienze sociali perché la società è un sistema aperto e nulla è così fisso da permettere
l’elaborazione di una legge. La statistica non dovrebbe essere una forma privilegiata di spiegazione,
ma una forma di verifica di una spiegazione adeguata. Il fatto stesso che nelle scienze sociali
l’obiettivo di studio sia l’uomo mette fuori gioco il determinismo (e quindi la presenza di leggi o
dell'habitus, in questo caso) perché ognuno agisce secondo i propri canoni e i propri metri, non c’è una
unità di misura comune.
148
P. Bourdieu, Il senso pratico, cit., p. 143.
149
Cfr. M. Ghisleni e W. Privitera, (a cura di), Sociologie contemporanee, cit.
6
3
di natura linguistica. Con la pratica si inscrivono nel corpo delle conoscenze non
altrimenti acquisibili ma che sono però fondamentali per il nostro sviluppo sul
mondo. Il sé si sviluppa in un ambito in cui le relazioni sociali non hanno alcun peso,
ossia in un ambiente di oggetti indifferenziati150. La differenziazione sociale
sopraggiunge più tardi ed essa stessa è stabilita tra un sé che già ci deve essere e gli
oggetti sociali che sono riconosciuti come tali dal soggetto. Così non fosse non
sapremmo vedere la differenza tra noi e gli altri, tutti definiti dal sociale e tutti
espressione di esso. Un immenso marasma di ripetizioni della società in cui l'identità
va a perdersi a favore di un prestabilito ruolo regalato a priori e che non possiamo
nemmeno agire da dentro ma solamente interpretare.
Tornando ai concetto basilari di Bourdieu, il “campo” è inteso come una
configurazione di relazione oggettive tra posizioni, che impongono a chi le occupa
dei condizionamenti: gli uomini avrebbero diversi «punti di vista che dipendono
dalla posizione che occupano»151, legando solo ad esso la scelta, invece che
permettere il libero perseguimento dei propri ideali, decisi tra ciò che più ci sta a
cuore. Una siffatta affermazione postula la passività degli individui, che sarebbero
ciò che sono in base alla fortuita posizione che occupano, invece che grazie ad un
percorso di vita, delle esperienze e delle scelte che implicherebbero la capacità di
pensar e di valutare, nonché di “sentire” cosa vale per ciascuno. Il campo è
storicamente strutturato e non dipende da chi siano gli occupanti delle posizioni
presenti in esso. I diversi mondi sociali e le sfere produttive si organizzano,
storicamente, come universi relativamente autonomi, con proprie forme di
funzionamento: modelli di percezione e valutazione, tradizioni, tecniche, gerarchie di
legittimità, regole di gioco, problematiche e istituzioni specifiche. Ogni campo
particolare ha invarianti comuni ad altri campi e proprietà specifiche che richiedono
le ricostruzioni del processo storico attraverso il quale si sono prodotte e definite. Il
150
Merleau-Ponty pone la differenza appunto tra oggetti di cui si deve avere una conoscenza
rispetto a noi e noi stessi che già ci “sappiamo”. Non impariamo la coordinazione tra le parti del corpo
ma sappiamo fin da subito dove è la nostra mano e i gesti da fare per salire una scala. Non
pianifichiamo di alzare la gamba destra mentre la mano regge lo scorrimano: tutto avviene
“spontaneamente” senza bisogno di deciderlo. Il corpo non è oggetto per un “io penso” di stampo
cartesiano ma un insieme di significati vissuti tramite cui il corpo comprende ciò che è e permette la
formazione di un io cosciente di sé. Cfr. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit.
151
P. Bourdieu, La distinzione, cit., p. 173.
6
4
campo offre una gamma di possibilità che possono essere adottate o meno; in seguito
a ciò si propone a chi le abbraccia un habitus rendendo così merito ad entrambi gli
elementi nella costituzione di un individuo.
La singolarità degli attori si comprende meglio grazie al campo poiché se ne può
capire il punto di vista, basato sulla posizione che occupano e che costituisce la loro
particolare visione del mondo e del campo stesso (come se tutti gli appartenenti allo
stesso campo avessero lo stesso modo di vedere e di pensare, legato alla semplice
appartenenza): «le pratiche di un medesimo attore sociale – secondo Bourdieu - e, in
termini più generali, le pratiche di tutti gli attori sociali di una stessa classe, sono
debitrici dell’affinità di stile, che fa di ciascuna di esse una metafora di una qualsiasi
delle altre, al fatto di essere il prodotto del trasferimento degli stessi schemi da un
campo all’altro»152. Quest'ultimo è definito anche come un sistema strutturato di
forze oggettive che sono imposte ai soggetti e a chi penetra in esso; c'è una implicita
accettazione dei valori, delle norme e dei mezzi che presiedono la logica del campo.
Si assiste ad una specie di senso comune a causa del quale abbiamo un mantenimento
dell'ordine costituito, anche se Bourdieu, affrontando l'habitus, tenta di spiegare
invece come l'innovazione sia possibile. Si può ritenere un «modo di pensare
relazionale che, rompendo con il modo di pensare sostanzialista, conduce a
caratterizzare ogni elemento tramite le relazioni che lo uniscono agli altri in un
sistema, dal quale deriva il suo senso e la sua funzione»153. Il concetto di campo non
indica, dunque, un semplice aggregato di individui, ma costituisce un sistema di linee
di forza. Si presenta come uno spazio di individui sociali concorrenti, che occupano
posizioni collocate in vari punti del campo e che, diversamente legittimati,
determinano, in un momento dato e con le loro alleanza reciproche, la struttura
particolare dei rapporti di forza all’interno del campo stesso. Ogni individuo è
immerso ed è agente in più campi contemporaneamente: «come ogni campo
magnetico è un sistema strutturato di forze, così i campi di cui è costituito lo spazio
sociale sono configurazioni di relazioni oggettive tra posizioni dotate di gravità
specifiche»154. Bourdieu prende in prestito il concetto di “campo” dalla fisica, sia
come campo elettromagnetico o campo gravitazionale, in cui entrano i concetti di
152
153
154
Ivi, p. 178.
P. Bourdieu, Il senso pratico, cit., p. 13.
M. Ghisleni e W. Privitera, (a cura di), Sociologie contemporanee, cit., p. 91.
6
5
forza, relazione, funzione, sia come operatore che incorpora in sé stesso tutti i
processi di retroazione con gli agenti su cui opera e da cui è costituito.
Un campo è, come i campi magnetici, un sistema strutturato di forze oggettive e di
relazioni, dotato di una sua “forza di gravità” specifica che s’impone a tutti gli
elementi che lo compongono. L'equilibrio che si stabilisce è solamente temporaneo
perché l'avvento di nuove forze suscita un riassestamento di quelle già presenti: non
abbiamo una predeterminazione ma l'avvento di nuovi attori che credono nel campo
e vi penetrano di loro spontanea volontà, abbracciandone l'insieme di disposizioni
assunte tramite l'interiorizzazione di un determinato tipo di stratificazione sociale. Lo
sviluppo del soggetto non è il prodotto di una logica immanente alla struttura ma il
risultato di conflitti interni tra i soggetti e i soggetti di altri campi, che funzionano
indipendentemente ma in maniera omologa. In una simile lotta si prova anche a
mutare le forze in gioco lasciando così spazio al cambiamento.
Le differenze sociali sono incorporate nel singolo e fungono da spinta al
cambiamento della società stessa: questo avviene grazie all'habitus e al campo.
L'habitus, presente nella storia filosofica, indica un insieme di comportamenti
acquisiti e di disposizioni durevoli, il tutto appreso storicamente. È un concetto
disposizionale che permette di integrare l'individuo con la società e le sue pratiche;
derivando dalla società stessa tende
a perpetuarla ma, essendo legato
all'interiorizzazione che ognuno ne fa, lascia spazio all'innovazione (sebbene non
spieghi in cosa consisterebbe questo margine. Ovvero: quale è quella facoltà o
capacità umana che non è intaccabile dall'habitus e che permette quindi di elaborarlo
dal nostro punto di vista così da non essere semplici esecutori di comportamenti
prestabiliti ma invece attivi fautori della nostra vita?). In altri punti Bourdieu parla
dell'habitus come di una razionalità che trascende la coscienza individuale anche se
rimane aperto all'innovazione. Ma se l’habitus per Bourdieu è «struttura strutturante
che organizza le pratiche e anche la loro percezione, l’habitus è anche una struttura
strutturata: il principio di divisione in classi logiche, che organizza la percezione del
mondo sociale, è a sua volta il prodotto dell’incorporazione della divisione in classi
sociali»155. Risulta difficile da queste ulteriori precisazioni comprendere la possibilità
di libertà che comunque viene concessa a parole, dal momento che sembra di essere
155
P. Bourdieu, La distinzione, cit., p. 175.
6
6
un circolo vizioso dove non si comprende quale sia il termine che influenza altro.
Una siffatta difficoltà è mostrata dalla varianti che il termine habitus ha assunto
dell’opera di Bourdieu, ridefinito più volte per cercarne la definizione più esatta.
Esso è, al contempo, una dimensione collettiva e individuale in quanto ciò che si
deve normativamente dire, fare, esprimere e desiderare riguardo ai mondi oggettivo,
sociale o soggettivo rimanda a un sapere comune implicito ed esplicito interiorizzato
dai soggetti nelle loro cognizioni, nei comportamenti, fino alle posture del corpo e ai
sentimenti.
«Il rifiuto delle teorie meccaniciste – afferma Bourdieu - non implica assolutamente
che [...] si accordi a un libero arbitrio creatore il potere libero e arbitrario di costituire
in un istante il senso delle situazioni proiettando i fini che mirano a trasformarlo né
che si riducano le intenzioni soggettive e i significati costituiti delle azioni e delle
opere umane alle intenzioni coscienti e deliberate dei loro autori. La pratica è al
contempo necessaria e relativamente autonoma rispetto alla situazione considerata
nella sua immediatezza puntuale perché è il prodotto delle relazione dialettica tra una
situazione e un habitus, inteso come un sistema di disposizioni durature e trasferibili
che, integrando tutte le esperienze passate, funziona in ogni momento come matrice
delle percezioni, delle valutazioni e delle azioni»156.
Dal punto di vista di coloro che partecipano, l’intesa su qualche cosa si svolge nel
contesto di un mondo vitale costituito da convincimenti più o meno diffusi, una
specie di orizzonte aproblematico di presupposti, e a Bourdieu pare evidente che «le
pratiche si uniformino alle regolarità insite in una condizione»157; questa costruzione
sociale è tanto un processo orientato dagli schemi astratti di percezione, di pensiero,
di comportamento e di espressione quanto un prodotto concreto frutto della relazione
tra quegli schematismi e la molteplicità delle esperienze in cui si realizzano
specifiche forme di vita individuale e sociale. L’habitus è, quindi, una “struttura
strutturante” che organizza i vissuti, le pratiche e le rappresentazioni del mondo degli
attori sociali, individuali e collettivi, ma anche la “struttura strutturata” in quanto
quei modelli interpretativi, valutativi ed espressivi rimandano a specifiche coordinate
spazio-temporali, a spazi sociali e a tempi storici. «L'habitus come un sistema
156
157
P. Bourdieu, Per una teoria della pratica, cit., p. 211.
P. Bourdieu, La distinzione, cit., p. 181.
6
7
soggettivo ma non individuale di strutture interiorizzate, schemi di percezione, di
concezione e di azione, che sono comuni a tutti membri dello stesso gruppo o della
stessa classe e che costituiscono le condizioni di qualsiasi oggettivazione e
percezione»158 è proprio di ognuno di noi.
Il potere che l'habitus possiede non è però costrittivo, o almeno questo è il tentativo
che Bourdieu fa per sfuggire alle accuse di determinismo e di impossibilità di un
mutamento. Esiste una capacità generatrice, per non dire creatrice, inscritta nel
sistema delle disposizioni, intesa come arte nel senso forte di padronanza pratica.
L’habitus è una capacità di generare in “libertà controllata” dei prodotti che hanno
come limiti le condizioni storicamente e socialmente date della sua produzione.
Si delinea un processo di formazione e di sviluppo dell’habitus, al contempo prodotto
della storia collettiva di un gruppo d’appartenenza e della biografia individuale dei
suoi membri, e capace di produrre storia tramite la riattualizzazione più o meno
innovativa degli schemi di pensiero, comportamento ed espressione codificati nella
tradizione. In questo senso, egli ritiene che l’habitus mobiliti degli schemi pratici
derivati dall’incorporazione, attraverso la socializzazione di strutture sociali, a loro
volta derivate dal lavoro storico di generazioni successive.
«Habitus, sistemi di disposizioni durature e trasmissibili, strutture strutturate
predisposte a funzionare come strutture strutturanti, cioè in quanti principi generatori
e organizzatori di pratiche e rappresentazioni che possono essere oggettivamente
adatte al loro scopo senza presupporre la posizione cosciente di fini e la padronanza
esplicita delle operazioni necessarie per raggiungerli, obiettivamente “regolate” e
“regolari” senza essere affatto prodotte dall'obbedienza a regole e, essendo tutto
questo, collettivamente orchestrate senza essere prodotte dall'azione organizzatrice di
un direttore d'orchestra»159. Poiché la pratica è il prodotto di un habitus, che è a sua
volta il prodotto dell’incorporazione delle regolarità e delle tendenze immanenti del
mondo, essa contiene in sé un’anticipazione di quelle regolarità e tendenze, cioè un
riferimento non ipotetico a un futuro inscritto nell’immediatezza del presente.
L’habitus non è un destino, poiché un prodotto messo incessantemente a confronto
con esperienze nuove e da queste incessantemente modificato. Si tratta, quindi, di un
158
159
P. Bourdieu, Per una teoria della pratica, cit., p. 231.
P. Bourdieu, Il senso pratico, cit., p. 84.
6
8
sistema di disposizioni durevole ma non immutabile. Anche se, va detto, la maggior
parte delle persone sono molto spesso orientate a trovare delle circostanze consone a
quelle che hanno originariamente plasmato il loro habitus, cioè a fare esperienze che
rafforzeranno le loro disposizioni. Tutti gli stimoli e tutte le esperienze condizionanti
sono in ogni momento percepiti attraverso categorie già costruite dalle esperienze
anteriori.
L’idea di un attivismo da parte degli agenti è centrale nella teoria sociale di Bourdieu
e per tale ragione non vi è, dunque, l’adesione al modello deterministico anche se
l’agire individuale e collettivo è sempre mediato attraverso delle categorie di
percezione, valutazione ed espressione già socialmente e storicamente determinate
(abbiamo forse un attivismo vincolato in certi limiti? Siamo liberi dentro gli schemi
proposti dall’habitus, come un pesce in una boccia di vetro). Esiste, in altri termini,
una dialettica tra i condizionamenti oggettivi delle strutture dei campi e le
disposizioni soggettive delle strutture dell’habitus. Il campo struttura l’habitus che è
il prodotto dell’incorporazione della necessità immanente di quel campo o di un
insieme di campi. Ma è anche una relazione di conoscenza o di costruzione
cognitiva: l’habitus contribuisce a costituire il campo come mondo significante,
dotato di senso e di valore, nel quale vale la pena di investire la propria energia. «Le
disposizioni interiori, interiorizzazione dell'esteriorità, permettono – afferma
Bourdieu - alle forze esterne di agire, ma secondo la logica specifica degli organismi
in cui sono incorporate, cioè in maniera duratura, sistematica e non meccanica:
sistema acquisito di schemi generatori, l'habitus rende possibile la produzione libera
di tutti i pensieri, di tutte le percezioni e di tutte le azioni inscritte nei limiti inerenti
alle condizioni particolari della sua produzione, e solo di quelli»160.
Il “saper fare” non dipende dal linguaggio o dalla spiegazione che ne diamo ma si
situa ad un altro livello, a quello della coscienza pratica. Abbiamo quasi una mappa
del nostro corpo abituale e “sappiamo fare” determinate cose in quanto ne
possediamo la padronanza pratica e non il libretto di istruzioni da leggere. Nasce dal
rapporto con le cose, da come le maneggiamo, e il tutto si deposita in quella che
viene chiamata “memoria incarnata”, «la sedimentazione corporea degli atti
160
Ivi, p. 87.
6
9
compiuti»161, come la chiama Archer.
Entrando nell'ambito sociale tale memoria permane e si accresce ancora con l'uso.
Avremo sempre a che fare col mondo naturale e questo sapere incarnato non verrà
mai meno. La persistenza della memoria incarnata supera di gran lunga quella della
memoria razionale; quanto si studia nozionisticamente viene ben presto dimenticato
mentre quello che si impara a fare resiste per sempre. Inoltre anche il livello cui
giunge la memoria incarnata è ben diverso: si “sente” il motore della macchina
mentre si guida e lo strumento mentre lo si suona non solamente a livello uditivo ma
anche a livello “corporeo”. Il fatto rilevante è che se poi si tenta di esprimere a parole
queste sensazioni si ricade in descrizioni metaforiche che alla fine non dicono un bel
niente proprio perché è ad un altro livello, rispetto a quello discorsivo, che si situa la
pratica incarnata. Bourdieu, però, introducendo il concetto di habitus, arriva a
disconoscere questa immediatezza del rapporto col corpo e con il mondo,
anteponendo ai nostri sensi e al nostro senso di sé il filtro delle disposizioni durevoli
consegnateci dalla società, e legate alla nostra posizione sociale al campo in cui ci
troviamo.
Un campo può funzionare solo a patto che ci siano degli individui socialmente
predisposti a ricercare certi obiettivi che contano in quel campo, dato che essi si
fondano sulla relazione di complicità tra l’habitus e il campo che sta alla base
dell’entrata in quest'ultimo. Un habitus è un insieme di relazioni storiche presenti
negli individui sotto forma di schemi mentali e corporali. E’ un meccanismo
strutturante che agisce dal di dentro degli individui, pur non essendo strettamente
individuale, e rende possibile la regolarità e la prevedibilità della vita sociale.
L’habitus è un insieme di disposizioni interiorizzate, capaci di trasformarsi e di
adattarsi alla realtà sociale, la quale fa la stessa cosa: nuove informazioni modificano
161
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 188. Il corpo è a disposizione come potenza
dell'individuo che non necessita di una chiara e netta percezione di esso per poter agire. Mettendosi a
camminare l'individuo non deve percepire in ogni dettaglio quale sia il proprio corpo ma “sa” di
averlo e lo usa di conseguenza (il corpo abituale che abbiamo senza magari rendercene conto è sempre
con noi. Il darlo per scontato non significa che non sia importante ma piuttosto che lo sentiamo così
nostro da non suscitare in noi, ogni qualvolta agiamo tramite esso, una esplicita presa di coscienza.
Non lo cerchiamo nell'ambiente circostante per spostarlo ma è grazie ad esso che ci possiamo
spostare). In tal modo esso è il veicolo dell'essere al mondo poiché permette di unirsi ad un ambiente
definito; con veicolo non dobbiamo però pensare a un io che abiti il corpo, ma piuttosto ad un io che è
corpo e alla corporeità come via privilegiata di approccio col mondo.
7
0
le future disposizioni ad agire. Prodotto dell’interiorizzazione delle strutture esterne,
reagisce alle sollecitazioni del campo in modo generalmente sistematico e coerente.
È la dimensione sedimentata, virtuale, situata nel profondo del corpo e dell’individuo
sociale. L’insieme delle disposizioni lo costituisce: un concetto, come si vede, double
face, perché è il prodotto di combinazioni che a sua volta condiziona.
L’habitus deve essere compreso come generatore di comportamenti conformi alle
strutture oggettive, «è il prodotto delle strutture che tende a riprodurre e implica la
sottomissione “spontanea” all'ordine stabilito»162. La circolarità che presiede alla sua
formazione e al suo funzionamento rende conto, da un lato, della produzione delle
regolarità oggettive del comportamento (dimensione oggettiva, struttura) e dall’altro
delle modalità dei comportamenti basati sull’improvvisazione e non sulla sola
esecuzione di regole. «La teoria dell'habitus afferma – per Bourdieu - che l'attore
sociale costruisce il mondo sociale impiegando gli strumenti incorporati dalla
costruzione cognitiva. Ma asserisce anche, contro il costruttivismo, che questi
strumenti sono essi stessi dati dal mondo sociale. L'habitus fornisce così, al tempo
stesso, sia un principio di sociazione che un principio d'individuazione»163. Gli
individui non seguono passivamente regole invarianti ma utilizzano le regole
dell’habitus come principi di orientamento delle loro pratiche sociali, a seconda del
campo di appartenenza. In questo modello di riproduzione sociale le strutture non si
riproducono automaticamente e deterministicamente ma attraverso l’habitus il quale,
prodotto dalle strutture, mette in grado gli individui sociali di compiere pratiche
sociali, adatte alle strutture ma non dipendenti direttamente da queste. «La simbiosi
tra strutture cognitive e strutture sociali, che opera attraverso l'incorporazione
dell'habitus, si fondi sulla dialettica descrizione-prescrizione»164.
Anche la dimensione temporale rappresenta un’ulteriore elaborazione nella teoria
della riproduzione di Bourdieu, che considera le società anche con una loro storia. In
questo senso le strutture generano un habitus che può essere adatto o non adatto alle
circostanze storiche. Nelle modalità di funzionamento del processo riproduttivo si
introduce un concetto della fisica: l’effetto di isteresi. L'isteresi è un fenomeno per
cui nei campi magnetici l’effetto si prolunga anche dopo che le cause che hanno
162
163
164
P. Bourdieu, Il senso pratico, cit., p. 247.
M. Ghisleni e W. Privitera, (a cura di), Sociologie contemporanee, cit., p. 87.
Ivi, p. 97.
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1
scatenato il magnetismo non sono più presenti. Forme di isteresi sociali si possono
dare quando l’habitus produce delle disposizioni che continuano a influenzare delle
pratiche anche se le condizioni che hanno prodotto l’habitus non ci sono più o stanno
cambiando. In questo caso sorgono le istanze di cambiamento per adeguarsi al
contesto storico.
Le critiche che si possono muovere nei confronti della visione di Bourdieu portano
direttamente alla conferma della proposta di Archer. Da una parte, se si afferma che
struttura e agire sono reciprocamente costituiti, non si riesce a capire come li si possa
esaminare separatamente. Al fine di definire le proprietà dell'uno e dell'altro si
dovrebbe poter separare tali componenti, altrimenti si rientra in un circolo vizioso
senza scappatoie per cui le strutture “fanno” gli uomini che “fanno” a loro volta le
strutture. Bourdieu, affermando come l’habitus sia «necessità incorporata,
trasformata in atteggiamento generatore di pratiche dotate di un senso e di percezioni
capaci di dare un senso alle pratiche in tal modo generate»165, oltre a negare
l’intenzionalità umana e il libero agire, sembra ricadere nello strutturalismo, che pure
nega, proponendo a tal fine l'effetto di isteresi e la possibilità di innovazione da parte
di ogni individuo.
Non si riesce nemmeno a comprendere in cosa risieda questa capacità umana di
opporsi all'ordine costituito. Se l'habitus arriva a definire addirittura la percezione
dell'uomo, il margine di libertà si riduce al lumicino. Bourdieu, sebbene affermi la
preminenza della pratica nella sua indagine, nega proprio la libertà insita
nell'approccio pratico al mondo che avviene col corpo. In quanto siamo corpi
entriamo nel mondo e il nostro incontro con esso non è mediato da alcuna influenza
sociale. Sia che ce lo spieghino oppure no, sentiamo freddo e abbiamo sete. Non è
apprendendo l'habitus che impariamo come si sta al mondo, ma piuttosto è l'habitus
stesso ad essere una definizione di quelli che sono i comportamenti più diffusi. Come
Archer dimostra, il potere della società non è che uno dei tre ambienti con cui
impattiamo nella nostra esistenza. La stessa valutazione delle azioni non ci può
venire dall'esterno altrimenti tutti percepiremmo come “giuste” le stesse cose,
quando invece così non è. Pur tentando di restituire un po' di dignità all'individuo,
quella dignità che Foucault gli toglie tramite il dispositivo, Bourdieu arriva invece a
165
P. Bourdieu, La distinzione, cit., p. 174.
7
2
proclamare sì un recupero del valore della pratica, ma tale pratica non sorge dal
nostro libero approccio con l'ambiente, bensì risulta codificata dall'habitus.
Definendo poi il campo come un insieme di forze, al pari del campo magnetico, non
indica però la presenza di vincoli interni ad esso, ma tratta l'avvento degli individui
come se potessero tutto senza confrontarsi con qualcosa che non dipende da loro.
Esistono infatti dei limiti a quanto si riesce a fare e il campo non si adegua ad ognuno
dei nuovi attori che entrano in scena. Bisogna fare i conti con la struttura che ci
precede, e qui sopraggiunge un'altra critica a livello temporale: l'individuo che entra
in un campo impara cosa ci sia da fare per stare nel campo, ma il campo è fatto
dall'individuo stesso. La società deve essere agita per avere dei poteri, non li ha in
atto ogni momento ma solamente in potenza. In Bourdieu al soggetto basta entrare
nel campo per attivare tutti i poteri, mentre in Archer essi si attivano in base alle
scelte degli individui. Dipende sempre da dove ognuno decide di investire se stesso
l'attivazione di vincoli o facilitazioni al suo scopo.
Volendo focalizzare la critica in un unico punto ci si potrebbe chiedere dove risiede
nell'uomo la capacità o il potere di sfuggire all'habitus per creare delle risposte
alternative. Bourdieu non risolve questo problema: pur ammettendo l'innovazione
(seppur non si capisca bene i mezzi che potremmo avere per ribellarci) la sede di essa
non è designata. Se riteniamo l'individuo capace di incidere e non solo di essere
inciso dalla società dovrebbe esserci uno spazio non tangibile dall'habitus, una fonte
di alternative allo status quo. La capacità umana di rispondere alle situazioni in modo
innovativo da dove potrebbe attingere le nuove risposte se tutto il materiale di
conoscenza gli deriva dall'habitus? L'habitus perpetua il passato di cui è prodotto e ci
indica come soddisfare i parametri sociali; un nuovo agire dove si fonda quindi? Il
potere di rispondere diversamente alle situazioni in una maniera non contenuta
nell'insegnamento (costrizione) dell'habitus dove lo si può trovare? Postulando
l'innovazione senza delinearla non si esce dallo strutturalismo. La via solamente
suggerita sta nella pratica ma egli si limita ad affermare l'intraducibilità della stessa
in una teoria discorsiva, proponendo così una risposta a livello epistemologico e non
fondando la pratica nel corpo, ad un livello diverso da quello su cui agisce
l'habitus166.
166
Giddens elabora una teoria sociale chiamata “teoria della strutturazione” nella quale «i
7
3
principi strutturali possono essere intesi come quei principi d'organizzazione che consentono forme
riconoscibilmente coerenti di distanziamento spazio temporale sulla base di meccanismi definiti di
integrazione» (A. Giddens, La costituzione della società. Lineamenti di teoria della strutturazione,
Edizioni di Comunità, Milano, 1984, p. 178), che descrive il rapporto tra azione e struttura,
contrastando la visione dualistica che le separa e tentando di mettere assieme i due aspetti. Da una
parte attacca lo strutturalismo secondo cui ci sarebbero strutture inconsce indipendenti dalla
consapevolezza dei singoli e per questo sarebbero impersonali nonché autonome dai comportamenti.
Si cade qui in un anti umanesimo dove gli individui si ritrovano ad essere maschere con delle parti da
interpretare senza che se ne rendano conto. Dall'altra si scaglia anche contro il funzionalismo dove c'è
il primato del tutto sul singolo con la società intesa come un tutto organico governato da leggi
impersonali. Il problema da risolvere è il recupero dell'uomo in questa situazione che pare
soverchiarlo e non lasciargli libertà di iniziativa. «La socializzazione è anche alla base della nostra
stessa individualità e libertà. Nel corso della socializzazione ciascuno di noi sviluppa un proprio senso
di identità e la capacità di pensare e agire in modo indipendente» (A. Giddens, Fondamenti di
sociologia, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 50). Sfuggendo dall'intenzionalità intesa come un
adattamento della volontà a quanto previsto dal piano normativo Giddens propone una azione che
incarna continui interventi sul mondo, legata alla possibilità di monitorare i propri e gli altrui
atteggiamenti. L'attore che egli propone è un attore competente su tutto quello che lo circonda e che sa
usare la coscienza pratica (riferita ai saperi pratico-morali), la coscienza discorsiva (sapere le ragioni
di quanto accade) e l'inconscio che sfugge ad una presa da parte della memoria. Resta il fatto che
l'azione è sempre ritenuta intenzionale poiché si confida nella competenza assoluta degli attori. Anche
le conseguenze non volute sono intenzionali perché sarebbero comunque intese dagli attori che sono a
conoscenza di tutto ciò che riguarda il loro agire e sanno che agendo in comunità non si può tenere
sotto controllo tutto quello che ci riguarda. Questo postulato proposto da Giddens cozza in maniera
lampante con quella che è la realtà delle cose. Come si può sapere quali saranno le conseguenze di
ogni nostro atto? Potessimo avere questa facoltà saremmo onniscienti, e quindi non umani. Inoltre,
come Archer sottolinea, l’accesso alle informazioni è legato alla posizione sociale in cui siamo
collocati nostro malgrado alla nascita, per cui la conoscenza è un discrimine fondamentale che poi
influenzerà le scelte compiute da ognuno. Tornando alla visione di Giddens, la vita quotidiana è
l'ambiente in cui avvengono le azioni e la routine assume un ruolo importante perché segna il
fondamento materiale della natura ricorsiva della vita sociale: la ripetitività di modelli standardizzati
ci propone una rassicurazione e una stabilizzazione perché le cose “vanno così”. La routine consolida
la realtà che ci circonda e permette alle strutture di resistere in quanto ripetute ogni giorno, poiché
«l'aspetto ripetitivo di attività intraprese in modo sempre uguale, giorno dopo giorno, costituisce il
fondamento materiale di quella che chiamo natura ricorsiva della vita sociale» (A. Giddens, La
costituzione della società, cit., p. XXI). Con tale stratagemma struttura e azione si trovano ad essere
due facce della stessa medaglia perché le strutture si trovano ad essere l'interpretazione soggettiva di
rapporti intersoggettivi. Le regole sono schemi che indicano come comportarsi in situazioni specifiche
e per potersene servire si deve averne una conoscenza, dal momento che «non possiamo intendere la
meccanica della personalità a prescindere dalle routine della vita di ogni giorno» (ivi, pp. 60-61).
Anche Archer affronta il tema della routine, ma in maniera più problematica. «Ogni singolo giorno –
afferma - noi rivisitiamo i nostri impegni di ruolo e dobbiamo compiere un atto di re-impegno» (M. S.
Archer, Essere umani, cit., p. 428): l'“Io” e il “Tu” si confrontano per determinare quale sia il “Tu”
futuro che si pone come obiettivo dell'agire attuale. Investiamo noi stessi nel ruolo con un processo
attivo e riflessivo che può divenire una routine in quanto le premure possono essere abitudinarie. È in
una siffatta stabilizzazione che si mostra la personificazione dei nostri ruoli e che sorgono aspettative.
Tale routine non deve essere frutto di una ripetizione vuota ma carica di impegno ogni qualvolta la si
affronta. Può avvenire che la certezza verso il nostro modus vivendi si infranga quando l'abitudine
risuona come qualcosa che non ci appartiene più e che non sentiamo come espressione di ciò che
7
4
Al di là delle critiche delimitate alla specifica teoria, quel che risulta evidente da
questo caso è che senza separare gli elementi in ballo ci si trova in un circolo senza
avere la possibilità di capire “chi” influenzi “chi”, e dove risieda la libertà di ognuno,
nonché quali siano i precisi poteri che abbiamo in mano e dove siano. Con facilità si
può affermare che esista una libertà, il problema risiede nel fatto di spiegarla e
articolarla; pur concedendo a Bourdieu il merito di cercarne un recupero, non risulta
chiaro in che punto finisca la libera iniziativa innovatrice di ognuno di noi e inizi ad
operare l’habitus, costringendoci a rimanere nello stabilito e riconosciuto come
valevole dal sistema che ci circonda. Fondare nella pratica la via di fuga
dall’oppressione della struttura, per come la delinea anche Foucault, è la strada che
Bourdieu intraprende, ma che non sfrutta al massimo, ritrovandosi alla fine costretto
ad affermare questa reciproca costituzione di azione e struttura, tramite la quale
risulta difficile comprendere i poteri dell’una e dell’altra. Per sfuggire a questo
problema Archer, recuperando in gran parte il valore della pratica, afferma il
siamo. Il problema può risiedere in un nostro cambiamento o in un cambiamento del ruolo in
questione. Anche decidessimo di cambiare ruolo, ciò non può avvenire come niente fosse poiché su di
noi gravano aspettative e limitazioni oggettive nonché dei costi di opportunità. La nostra identità
personale si deve trovare espressa in quella sociale: se così non è, ecco che sorgono i problemi. Per
risolvere tale difficoltà la conversazione interiore dovrà trovare un nuovo equilibrio tra le premure per
riallineare le due identità, anche a costo di tagliare privilegi sociali. Se crediamo veramente in
qualcosa nessun prezzo sarà troppo alto da pagare per perseguire il nostro sogno. La ricerca del nuovo
modus vivendi soddisfacente secondo Archer non è esente da difficoltà ma «l'“Io”, modificato da e
modificante il “Me” e il “Noi” deve collaborare con il futuro “Tu” per determinare come saremo in
società e che parte della società formerà il nostro essere» (ivi, p. 431). È questa perenne fonte di
cambiamento e innovazione quello che regaliamo alla società in quanto esseri umani. Per sfuggire al
determinismo, invece, Giddens afferma che l'uso di una regola genera pratiche che a loro volta creano
altre regole e altre pratiche: abbiamo una reiterazione in cui è insito il cambiamento, sia che l'agire sia
collettivo sia che riguardi l'individuo. Le strutture possono anche essere fuori dal tempo e impersonali,
ma senza individui che le adottino e le attualizzino servono a poco in quanto entità sovrastanti.
Nonostante ciò Giddens deve postulare l'irriducibilità delle istituzioni alla coscienza che ne possono
avere i singoli, intendendole come principi strutturali che coordinano la compresenza fisica. Il potere
che sta nell'individuo è nell'interpretazione che può dare alle strutture sebbene si permanga in una
continua azione e retroazione tra interpretazione e struttura: io monitoro la struttura che a sua volta
agisce sul mio monitoraggio. Sebbene Giddens proponga questa emancipazione che ci permette di
assumere la scelta, resta il fatto che da una parte le strutture sociali sono considerate tutte sullo stesso
piano mentre dall'altra deve postularne una certa autonomia dall'azione umana altrimenti non si
capirebbe come potrebbero influenzare l'agire stesso. Si cade così ancora nel dualismo che all'inizio
del ragionamento si voleva invece evitare. «La struttura non è “esterna” agli individui; come traccia
mnestica, e in quanto esemplificata nelle pratiche sociali, essa è in un certo qual modo più “interna”
che esterna, in senso durkheiminiano, alle loro attività» (A. Giddens, La costituzione della società,
cit., p. 27).
7
5
dualismo analitico: è necessario poter separare le componenti dell’agire per poter
definirle, e quindi gettare un po’ di luce su come avvenga la vita sociale, nonché
recuperare la dignità umana, stretta nelle conflazioni. Se l’uomo esistesse solamente
in funzione della società, come una sua faccia, lo si priverebbe della libera iniziativa,
relegandolo a parte della struttura, a sua volta sua emanazione. Ed è esattamente
questo l’errore fondamentale di questo tipo di conflazione.
1.4 Esempi di “conflazione verso l'alto”
L’uomo nella conflazione verso l’alto, secondo Archer, «rappresenta un essere la cui
costituzione fondamentale non deve nulla alla società»167. La razionalità diventa
l’attributo principe attraverso la quale l'uomo impone l’ordine alla società senza mai
essere deviato dagli eventi perché è lui che li manovra. Non possiede tradizione
perché si riconosce solamente nelle scelte che compie, le quali sono personalissime e
finalizzate al raggiungimento di uno scopo come se la società non esistesse e non
avesse poteri: «è la struttura sociale ad essere passiva, come semplice conseguenza
dell'aggregazione delle attività degli individui»168.
Fin da subito si mostra il limite di tale visione, la quale trascura i poteri e le influenze
che la struttura sociale ha nei confronti di ognuno di noi. Lo stesso Elster afferma:
«voglio solo notare l’estrema parzialità della teoria della razionalità con cui abbiamo
a che fare»169, sottolineando in tal modo quanto poco essa tenga in considerazione
tutti gli aspetti che sono invece riconoscibili nell’essere umano. È necessario saper
valutare bene il contesto in cui avviene il proprio agire, e non porsi in esso come se si
potesse fare tutto. In Archer la capacità dell'individuo rispetto alla riuscita del
progetto risiede in una certa possibilità di previsione circa le conseguenze di ciò che
167
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 73. «Noi controlliamo la materia perché controlliamo la
mente. La realtà si trova nella scatola cranica» (G. Orwell, 1984, cit., p. 272); «tutte le cose che
accadono sono contenute nella mente e accade veramente solo ciò che è nella mente di tutti» (ivi, p.
285).
168
M. S. Archer, La morfogenesi della società. Una teoria sociale realista, Franco Angeli,
Milano, 1997, p. 14. La società non è solo la somma degli individui che la compongono ma ha
caratteri propri che influenzano in parte l'identità stessa di chi ne fa parte. Il ruolo dei singoli sta nel
fatto che è il perdurare delle loro relazioni a permettere l'esistenza della società stessa anche se le sue
caratteristiche non sono direttamente spiegabili a partire dagli individui che fanno parte di essa. Sono
strati diversi della realtà insomma, ognuno con proprie capacità e poteri.
169
J. Elster, Uva acerba. Versioni non ortodosse di razionalità, Feltrinelli, Milano, 1989, p. 11.
7
6
farà, nonché la capacità di elaborare strategie per affrontare gli ostacoli trovando
delle alternative (capacità riflessiva). Un punto focale è che vincoli e facilitazioni,
pur esistendo in potenza, devono essere agiti per attivare il loro potere di causazione.
Quando un progetto entra in contatto con la struttura essi entrano in azione dopo
essere rimasti latenti. Tale causalità sarà solamente tendenziale poiché il soggetto ha
la facoltà di aggirarli o di sfuggirvi grazie alla riflessione. Dipende dal progetto
intrapreso quello che si attiverà, in particolare da quale sia la sua finalità. L'iniziale
libertà con cui si pianifica un agire deve quindi fare i conti con la struttura e i suoi
poteri, dalla quale il progetto stesso risulterà influenzato ma non predeterminato. Se
tali influenze sono oggettive, il grado di impedimento o di facilitazione che sarà
sentito dall'agente è quello che conta ai fini del proseguimento dell'opera intrapresa.
«Il loro effetto è solo condizionale: non forzano nessuno, ma stabiliscono un prezzo
per agire contro i propri interessi riconosciuti e un premio per seguirli»170 conclude
Archer. Inoltre dalla collocazione iniziale dipendono anche gli interessi acquisiti,
ossia quelle influenze legate al peculiare livello in cui si è collocati. Senza nulla
togliere alla capacità di delibera propria di ognuno di noi, c’è una tendenza
riscontrabile in ogni strato sociale. Se, ad esempio, alla nascita siamo collocati in un
rank sociale elevato, si avrà la tendenza a mantenere lo status quo e a non attivarsi
per modificare le cose. Viceversa, essendo sfavoriti dalla collocazione iniziale
indipendente da noi, si assisterà ad una maggior attività verso un cambiamento.
Al contrario di tutto ciò, nella conflazione verso l’alto l’aspetto razionale dell’uomo,
specialmente il calcolo finalistico (come ci ricorda Elster, «nella teoria della scelta
razionale spesso si richiede che le preferenze siano tanto complete quanto
coerenti»171, presupponendo perciò da una parte la completa conoscenza degli eventi
e dall’altra l’infallibilità dell’agire, i quali sono entrambi fattori che consegnerebbero
all’uomo poteri e capacità troppo elevati. Le scelte che si compiono sono invece
frutto delle circostanze in cui ci troviamo, nelle quali no si ha e mai si avrà la
conoscenza completa dei fattori in gioco; in quanto alla completezza, anch’essa
rimane al massimo una aspirazione, essendo gli esseri umani limitati e non essendo
essi in possesso di poteri così ampi da poter definire “complete” le loro scelte), pare
170
171
M. S. Archer, La morfogenesi della società, cit., p. 109.
J. Elster, Uva acerba, cit., p. 17.
7
7
avere il sopravvento, permettendogli ogni azione in seno alla realtà ma, in Hume, la
razionalità resta collegata ai sentimenti e alle passioni e, anzi, è da essi guidata.
L’egoismo è insito in tale uomo che persegue la sua gerarchia di passioni con
l’ausilio della razionalità, ma si affida comunque al “calore” emotivo per compiere le
sue scelte. Ben presto però si sente la necessità di raffreddare tale calore in favore di
un uomo più “freddo” dove si taglia il legame tra emozione e desiderio per
raggiungere delle preferenze misurabili piuttosto che delle nascoste qualità emotive.
Per poter organizzare una simile teoria antropocentrica deve essere possibile
decifrare ciò che l'uomo fa, per cui dalla decisione interna espressa dalle passioni
delle persone, che ha però il difetto di essere invisibile, si passa a valutarne le scelte
esterne e quindi osservabili, ossia le preferenze. Qualunque scelta sia compiuta, il
fatto di essere proprio quella la fa definire come la migliore per l’uomo, senza
avvedersi del fatto che può esistere uno scarto tra preferenza e felicità. Questa
difficoltà viene taciuta perché ciò che interessa è il poter misurare e non l’effettiva
motivazione personale di ognuno172.
Si arriva all’estremo in cui si parla di “preferenze ideali” ossia purificate da passioni
e interferenze emotive, anche se le difficoltà in merito non sono poche. Chi agisce ha
sempre un buon motivo per farlo e, dal momento che non siamo macchine ma
abbiamo un cuore e dei sentimenti173, scindere emotività e ragione appare alquanto
gravoso per non dire impossibile. Ponendo il caso che ciò sia possibile si arriva,
secondo Archer, ad avere una perfetta conoscenza razionale e scevra da offuscamenti
emotivi di ciò che ci circonda per cui «le condizioni sociali dovrebbero essere trattate
172
Una azione è ricostruibile in termini di una razionalità non strumentale ma riferita ai valori
che stanno a cuore all’agente e che egli ha deciso di porre come base del suo vivere. Non si può
tacciare di irrazionalità ciò che non è strumentale, come anche non si può limitare al razionale inteso
come “strumento per” il mezzo con cui l’uomo compie delle scelte. Non può esistere una razionalità
pura poiché sussiste sempre una mancanza o una incompletezza di informazioni rispetto a ciò che ci
circonda e ai fattori che contano in merito ad una situazione che affrontiamo, ed inoltre anche la nostra
capacità di calcolo non è infallibile.
173
Le decisioni che si compiono in ogni situazione, secondo la critica mossa da Elster contro la
teoria della scelta razionale, sarebbero quindi legate al «il tasso di conoscenza che ne ha l’attore» (ivi ,
p. 22) e non alle priorità che egli assegna ad esse, e che spesso non dipendono dalla razionalità ma da
ciò che si ritiene più importante. Nella teoria della scelta razionale si dà per scontato che la soluzione
più “logica”, quella che produce più profitto, sia quella preferibile dall’individuo, quando invece non è
sempre così che vanno le cose, dal momento che ognuno di noi ha le sue gerarchie personali peculiari,
legate a ciò che per lui è più degno di considerazione.
7
8
dagli agenti come inevitabili»174. Mancando la percezione del possibile e del
desiderio di qualcosa di diverso non rimane che chinare il capo di fronte a quanto ci
si para davanti, perché le scappatoie non ci sono. La stessa utilità massima175
dovrebbe essere organizzata attorno a ciò che è davvero possibile e non legandosi a
percezioni di possibilità, cadendo così in un conservatorismo e in una accettazione
dello status quo. Se l’azione migliore è da trovare all’interno dei limiti odierni viene
a mancare l’innovazione e la creatività, nonché la volontà che sarebbe ridotta a mera
esecutrice di azioni “certe”. Le emozioni, in una tale visione, devono essere calcolate
come dei costi-benefici e valutate in termini economici o numerici che non
esprimono nulla se relazionate al “sentire”176. La proposta parrebbe essere quella di
un indottrinamento in favore delle emozioni “utili” ma così facendo si verrebbe a
perdere il carattere stesso delle emozioni che fanno parte di noi e sorgono in seguito
ad altri tipi di valutazioni di carattere non societario.
Contro tale strumentalizzazione delle emozioni Archer sostiene che le emozioni sono
una parte importante di quella che è la nostra vita interiore e non sono da considerare
174
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 85.
La perdita di potere dello stato come garante dell'uguaglianza in favore dell'economia ha
portato ad abbracciare come valori, anche secondo Bauman, quelli del neoliberismo che collega tutto
il mondo nella rete economica. Egli si augura la creazione di una nuova istituzione sovranazionale che
sappia opporsi alla forza prorompente di questo sistema commerciale. L'ago della bilancia pende
verso questi poteri finanziari ed extra-politici per cui anche l'individuo passa ad essere un semplice
consumatore invece che un cittadino con legami sociali quale era prima. Il parametro in base al quale
si giudicano le attività è il consumo, mezzo anche per acquisire identità e che propone delle scale di
priorità sociali. Chi non può comprare passa in una classe inferiore, come lo sono gli scarti del
mercato. Eguagliare il benessere e il progresso al consumo rende chi non può partecipare a questo
gioco un oppositore che rema contro il bene comune, e che quindi è da escludere. Anche Beck
riconosce questa dominanza del settore economico. Per lui la forza delle compagini economiche arriva
a prevalere sugli stati e sulla politica che non possono più mantenerne il controllo. In tal modo ci
ritroviamo in un cosmopolitismo che crea confini politici transnazionali dove tuttavia il primato
economico mantiene la sua leadership. Ciò che serve è un organismo che possa porre freno
all'indiscriminato proliferare dell'economia selvaggia che non trova ostacoli nel suo dispiegarsi. In
entrambe le visioni l'individuo si dovrebbe affidare a qualcosa di esterno e superiore per poter tornare
padrone di se stesso, senza riconoscergli capacità di azione e reazione, e come se l'economia fosse il
solo ambito con cui egli si possa confrontare. Cfr. Z. Bauman, Il disagio della postmodernità, cit., e U.
Beck, I rischi della libertà, cit.
176
Elster sottolinea l’«ambiguità della nozione di comportamento razionale, connessa alla
distinzione tra un’azione che è un modo e un’altra che è il miglior modo di realizzare il mio
desiderio» (J. Elster, Uva acerba, cit., p. 21). Nella conflazione verso l’alto si tratta l’essere umano
come fosse una macchina a conoscenza di tutti i fattori in gioco, incapace di sbagliare e sempre
finalizzata al miglior risultato. Ogni sua scelta sarebbe la migliore, concedendogli in tal modo una
infallibilità che non si riscontra assolutamente nella vita.
175
7
9
un avvilimento della razionalità che ci dovrebbe costituire, e nemmeno un dono
sociale. L'obiettivo, nell'opinione di Archer, è «di riunificare il pathos umano con il
logos umano e di mostrare la loro interconnessione con la conversazione
interiore»177. Le emozioni interagiscono con la razionalità e grazie alla conversazione
interiore entrano nella socialità ma col ruolo di proprietà irriducibili dell'essere
umano che agisce su quanto lo circonda.
Osservando i caratteri dell'uomo e gli ambiti in cui agisce si è arrivati a suddividerlo
in tre “anime”:

un’anima razionale legata al calcolo utilitaristico dei propri fini;

un’anima normativa che riconosce la necessità di un rapporto con gli altri e
quindi una regolarizzazione di tali rapporti;

un’anima emotiva basata sulla solidarietà o la volontà di condividere con gli
altri.
Si moltiplicano gli abitanti dell’uomo partendo dai suoi comportamenti e facendo di
esso una organizzazione ma non si risolve niente perché non si sa come stiano in
rapporto tra loro tali anime e quali siano i confini di ognuna di esse.
Secondo Harrè «anche un automa sufficientemente complesso o uno scimpanzé
parlante possono essere considerati “persone”»178, dal momento che la definizione di
“persona” sarebbe riducibile a un mero essere calcolatore oppure a un comunicatore,
togliendo in tal modo ogni valore al “sentire” e alla pratica incarnata. Serve una
spiegazione diversa su come agisca l’uomo e sul suo modo di rapportarsi con il
mondo. Non basta incorporargli le istanze sociali che gli si presentano davanti e che
appaiono, ma solo a posteriori, importanti alla sua formazione; risulta difficile che
qualcuno ancor prima di sperimentare qualcosa sappia già l’utilità del suo incontro. È
nello svolgersi della vita che si entra in contatto con vari eventi e circostanze che ci
segnano in base alla nostra identità personale. Grazie a quest’ultima si soppesano le
scelte da fare e si prendono in considerazione determinati elementi a scapito di altri.
Tutto ciò è proprio di ognuno e non si può risalire alle motivazioni che ci spingono
177
178
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 277.
R. Harrè e P. F. Secord (a cura di), La spiegazione del comportamento sociale, cit., p. 42.
8
0
semplicemente annotandosi l’esito finale, come invece sostiene Harrè, secondo il
quale «questa entità, che coscientemente auto-controlla le proprie prestazioni ed è
capace di commentarle in anticipo»179 sarebbe l’uomo. Il punto nodale verte
sull’anticipazione: nessuno può sapere, prima di compiere un’azione, quale sarà il
riscontro di essa; è peculiarità di questo genere di conflazione investire gli individui
di poteri e capacità troppo elevati, disconoscendo in tal modo la possibilità che
sussistano eventi indipendenti dalle nostre scelte, i quali però avrebbero influenza (e
non poca) su quanto accade.
In tutta questa situazione, propone Archer, «la base è costituita da un’abilità umana
di cui siamo dotati, in unione con gli stimoli relazionali provenienti dalla natura»180 o
dagli oggetti artificiali che vengono posti sul nostro cammino. Il fatto che esista una
abilità umana deve essere tenuto in considerazione per mostrare che sono già in noi
le potenzialità per le nostre capacità. Possediamo una dotazione che, se incontriamo
gli stimoli adeguati, trova la possibilità di esplicitarsi e di divenire un sapere pratico
attuabile e applicabile. Si deve comunque fare i conti con quello che siamo in quanto
esseri umani; se anche la natura ci offre dei suoni che noi non possiamo percepire
risulta ovvio che non potremo orientarci seguendo la fonte di tale suono o cercarne il
mittente. All’interno del nostro essere umani c’è tutto un ventaglio di possibili
capacità da scoprire in base agli incontri che facciamo, anche se non tutti sono
riconoscibili come tali a causa della nostra costituzione. Resta il fatto che la presenza
di una realtà esterna, la quale ci segna, rimane fondamentale nella formazione di
quello che siamo.
«L'individualista – per Archer - crede tuttavia nell'atomismo sociale, cioè nella
pretesa che gli aspetti fondamentali delle persone possano comunque essere
identificati indipendentemente dal contesto sociale»181. Troppo individuo e troppo
poca società quindi; fautori del proprio destino, self made man sotto ogni aspetto
diventiamo i Robinson Crusoe per antonomasia, non avendo debiti con nessuno che
non sia noi stessi. Possiamo agire e formarci in seno alla società, anzi, è la società
che viene formata da noi e che non ha possibilità di incidere su quello che siamo.
Negazione di ogni proprietà indipendente della struttura ma potere totale al singolo
179
180
181
Ivi, p. 41.
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 257.
M. S. Archer, La morfogenesi della società, cit., p. 47.
8
1
che non trova impedimenti sulla sua strada di sorta alcuna, senza nemmeno fare caso
alla preesistenza delle strutture rispetto alla sua venuta al mondo. «Una persona –
afferma Harrè - può scegliere differenti sistemi di regole e convenzioni in conformità
alle quali essa controlla le sue azioni, e così si presenta secondo questo o quello
stereotipo di persona sociale»182: ognuno potrebbe quindi decidere il sistema sociale
che preferisce, al contrario di quanto afferma Archer, per la quale esso dipende dalla
collocazione iniziale involontaria in cui ci veniamo a trovare. I poteri assegnati
all’uomo nella conflazione verso l’alto lo rendono assoluto padrone della realtà,
come se non fosse influenzabile o non esistessero fattori esterni a lui che potrebbero
fargli cambiare idea.
Archer sostiene la «teoria del realismo sociale, che considera le limitazioni e le
abilitazioni che nascono dalla distribuzione delle risorse nella società come mediate
dagli agenti attraverso le situazioni in cui si confrontano e i costi delle opportunità
associate con diversi corsi d’azione rispetto a quelli che si trovano in condizioni
diverse. Il realismo, però, richiede la presenza di un agente attivo che soppesi
riflessivamente le proprie circostanze»183. Non c’è l’uomo passivo che sceglie
razionalmente in base ad un utile ma un individuo che, a seconda del proprio sentire,
delle proprie priorità, dell’importanza che dà alle cose, agisce assecondando se stesso
e non una qualche teoria esterna.
Ampliando l’analisi al campo societario non si capisce come l’Uomo della
Modernità, che dovrebbe aver bisogno solo di se stesso in quanto padrone del proprio
destino, decida di unirsi ad altri per passare ad un agire collettivo. Se la società è
frutto solamente del volere del singolo non è giustificabile il suo aggregarsi per poter
raggiungere un obiettivo. Una semplice spiegazione a questo problema viene
proposta da Archer, la quale definisce l’agire societario come l’evoluzione dell’agire
primario; gli agenti si ritrovano alla nascita in una collocazione involontaria e, per
poter mutare la propria disponibilità di risorse, sono costretti ad ampliare i loro
rapporti e aggiungersi ad altri agenti primari per divenire così agenti societari, i quali
possono effettivamente agire a livello della società. Ciò che manca quindi all’Uomo
della Modernità sono gli interessi (Archer afferma che «egli è pre-programmato da
182
183
R. Harrè e P. F. Secord (a cura di), La spiegazione del comportamento sociale, cit., p. 153.
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 101.
8
2
uno schema fisso di preferenze ed è privato della capacità di riflettere moralmente sul
proprio insieme di preferenze»184) e la consapevolezza della sua identità personale,
che formandosi nei tre livelli della realtà non può essere esistente dalla nascita.
Nell’assunzione di ruoli nella società le persone investono se stesse e sono pressate
da aspettative sociali. In seguito a ciò non abbiamo un agire meccanico per rispettare
ciò che ci si aspetta da noi in base alla posizione che rivestiamo ma piuttosto una
personale scelta di quanto investire in tali ruoli, nonché un apporto di creatività. Una
pressione dovuta ad un ruolo è vissuta non in quanto forza sociale ma poiché è
l’attore stesso che, a livello personale, la vive come tale. «E’ meglio pensare agli
individui – suggerisce Archer - come a personificazioni dei ruoli, ossia impegnati a
monitorare se stessi al fine di generare il personaggio, piuttosto che a eliminare se
stessi impersonando semplicemente personaggi»185. Entrando in un ruolo assumiamo
su di noi le responsabilità insite in esso ma vi apportiamo anche del nostro, ossia
l’identità personale: si tratta di interpretare un ruolo in base a ciò che siamo e non di
replicare un canone già stabilito. Il ruolo è situato al livello sociale e quando noi
giungiamo ad esso abbiamo già alle spalle i rapporti col livello naturale e quello
pratico: è questo quanto apportiamo e che designa l’innovazione, un sé personale con
cui affrontiamo anche il livello sociale.
«Abbiamo così bisogno di sapere chi sia questo “sé”, che non deve nulla alla società,
ma è così capace di conversarvi»186. Le persone devono poter agire seguendo ciò che
sentono grazie al loro sé il quale non deriva né dalla società, la quale ne farebbe
comportamenti normalizzati, né dal guadagno personale, che impedirebbe la
solidarietà e i comportamenti disinteressati. Serve quindi una personalità che sappia e
voglia assumersi degli impegni, li mantenga e sia coinvolta nella società. Ognuno
adopera i propri pesi e misure nel perseguire gli obiettivi che ritiene validi e questo
riguarda anche i rapporti con le altre persone e l’influenza che esse hanno nella
nostra vita, mostrando anche in tal caso quello che più ci sta a cuore. L’impegno che
mettiamo nel ruolo e nel perseguire le nostre priorità riflette delle deliberazioni
interiori, nelle quali l’emotività ha un ruolo importante. Contrariamente alla ricerca
di una razionalità che ci liberi delle passioni, Archer sottolinea il ruolo di queste
184
185
186
Ivi, p. 112.
Ivi, p. 110.
Ivi, p. 113.
8
3
ultime nell'espressione di noi. «Le persone possiedono premure fondamentali che
sono espressione della loro identità»187: la componente affettiva fa ineluttabilmente
parte di noi e delinea ciò che siamo. Essendo il fine che si prefiggono di raggiungere,
«quando un impegno sta attivamente guidando il corso della vita di queste persone,
sarà la sua visione a condizionare le decisioni»188. L’importanza di quello che si
decide di perseguire si riflette non solamente sul fine in sé ma anche su tutto l’agire e
la vita che sta attorno ad esso: l’intera esistenza si organizza in funzione di quello che
ha la priorità per noi non solo dal punto di vista razionale ma anche, e soprattutto, da
quello emotivo. E in tutto questo il confronto con la società deve essere tenuto ben
presente.
187
188
Ivi, p. 119.
Ivi, p. 121.
84
Capitolo 2
Gli elementi fondamentali del realismo sociologico
di Margaret Archer
2.1 Stratificazione ontologica e stratificazione sociale
Archer, nel suo pensiero, adopera il concetto di stratificazione sociale, riprendendo
l'opera di Bhaskar, il quale ha appunto affermato l'esistenza di livelli nel reale, dai
quali emergono poteri e capacità. Nella storia sociologica, comunque, non è stata la
prima ad usare tale termine mutuato dalla geologia, dove indica la modalità di
formazione di alcune rocce. Fu introdotto per la prima volta da Sorokin nel suo
studio sulla mobilità sociale189 per designare la differenziazione di una data
popolazione in classi gerarchicamente sovrapposte, sulla base di una distribuzione
diseguale di diritti e privilegi, doveri e responsabilità, di valori sociali e privazioni, di
potere sociale e di influenze, tra i membri di una società. In altre parole la
stratificazione sociale indica la disuguaglianza del sistema sociale a due livelli: uno
distributivo, in merito all’ammontare di risorse e ricompense materiali e simboliche
ottenuto da individui e gruppi, e l’altro relazionale, ossia legato ai rapporti di potere
esistenti tra individui e gruppi.
L’approccio funzionalista190 ha sviluppato gli aspetti distributivi del concetto di
stratificazione: nella sua analisi reddito, prestigio e potere sono attributi quantitativi
che misurano la collocazione delle diverse posizioni sociali lungo un continuum, in
un ordine gerarchico determinato dalla relazione funzionale con i bisogni e i valori
centrali in quella data società storica, che quindi mutano nel tempo. Per i suoi
189
Cfr. P. Sorokin, La mobilità sociale, Edizioni di Comunità, Milano, 1981.
Con funzionalismo si intendono quegli autori come Parsons, Spencer, Durkheim,
Malinowski, Merton e Radcliffe-Brown. Al di là delle peculiarità proprie del pensiero dei diversi
autori, i principali presupposti possono essere così schematizzati: una società è un sistema di parti tra
loro interrelate; i sistemi sociali tendono a essere stabili, perché sono dotati al loro interno di
meccanismi di controllo e di integrazione; le disfunzioni esistono, ma tendono a risolversi o
comunque a essere integrate nel sistema nel lungo periodo; il mutamento è di solito graduale;
l'integrazione sociale è prodotta dal consenso di gran parte dei membri della società rispetto a un certo
insieme di valori; sistema di valori che costituisce l'elemento più stabile del sistema sociale.
190
85
sostenitori tale teoria spiega l’esistenza universale della stratificazione sociale,
perché questo è uno strumento utile per collocare e motivare tutti gli individui nella
struttura. L'esistenza della stratificazione sociale è per i funzionalisti un fatto non
solo inevitabile, ma anche necessario al buon funzionamento della società stessa,
poiché questa svolge delle funzioni vitali, indispensabili alla sopravvivenza del
sistema sociale. All'interno di ogni società esistono alcune mansioni che richiedono
speciali capacità e che hanno una maggiore importanza funzionale di altre, perché
appunto contribuiscono più di altre all'equilibrio e al funzionamento del sistema
sociale nel suo insieme. A ciò si aggiunga che non solo esistono poche persone dotate
dei requisiti necessari per svolgere le mansioni indicate sopra, ma che queste stesse
mansioni possono essere ricoperte a prezzo di un oneroso addestramento (con i
relativi sacrifici). Ora, per spingere alcune persone capaci a compiere tali sacrifici,
bisogna che a queste persone siano corrisposte delle ricompense adeguate; occorre
cioè fare in modo che le posizioni (funzionalmente importanti) che queste persone
occuperanno godano di un livello di reddito e di prestigio maggiore rispetto alle altre.
Secondo questa prospettiva la stratificazione si struttura come un'offerta differenziale
di varie posizioni, ciascuna dotata di una propria misura di prestigio, la quale fa sì
che gli individui, a seconda della posizione in cui si collocano, diventino socialmente
diseguali. Il sistema dei valori sociali diventa così anche il fondamento del sistema
della stratificazione, in quanto contiene al suo interno anche i criteri per la
definizione e l'assegnazione delle posizioni sociali191.
Al contrario, per i sociologi che ritengono centrale nell'analisi della società il
fenomeno del potere, la stratificazione non è altro che il risultato storico dell'azione
sociale di individui e gruppi in conflitto e competizione, sulla base di disuguaglianze
nelle relazioni di potere. All'interno di tale visione si sono posti Marx e Weber.
Secondo Marx la base delle classi risiede nella sfera economica e dipende dal modo
di produzione (che include la tecnologia, la divisione del lavoro, le relazioni tra gli
individui e il sistema produttivo), il quale a sua volta determina l'organizzazione di
191
In una siffatta visione si considera l'uomo suscettibile solamente a sollecitazioni esterne:
basterebbe dargli un riconoscimento per spingerlo ad agire, come se l'interiorità e la decisione
personale fosse solo legata ad incentivi e non inerente al sentire proprio di ciascuno. Definire il
sistema di valori sociali così importante per l'individuo non fa che disconoscerne la capacità di
valutazione personale: ciò che rende di più viene accolto come auspicabile.
86
ogni struttura sociale in una certa fase storica. In ogni tipo di organizzazione
economica una classe dominante controlla i mezzi di produzione (le fabbriche, le
materie prime ecc.) e, conseguentemente, la vita di un'altra classe sociale: in una
società di tipo feudale i nobili controllano i servi della gleba; in una società
capitalistica la borghesia (che possiede i mezzi di produzione) controlla il
proletariato (gli operai). In particolare, la società industriale e borghese è
caratterizzata dal contrasto fra capitale e lavoro salariato, ossia fra proletariato e
borghesia. I proprietari dei mezzi di produzione (i capitalisti) sfruttano i lavoratori
salariati e, in misura crescente, anche altri gruppi sociali, costituitisi per effetto della
dinamica del sistema industriale. Come conseguenza il contrasto interno alla società
capitalistica viene polarizzandosi come conflitto fra due classi antagoniste. Va
precisato che il concetto di classe in Marx si riferisce a raggruppamenti omogenei di
persone, vale a dire che hanno lo stesso livello di istruzione, lo stesso livello di
consumo, le stesse abitudini sociali, gli stessi valori e le stesse credenze, la stessa
concezione della vita e del mondo. Le classi sono potenzialmente dei soggetti
collettivi che vivono e pensano in modo simile e che costituiscono delle forze sociali,
degli attori storici, capaci in certe condizioni di condurre un'azione unitaria.
Da ciò discende che la struttura fondamentale del rapporto tra classi dominanti e
subordinate in qualsiasi fase della storia è costituita dallo sfruttamento delle une sulle
altre, mentre la forma assunta da questo sfruttamento è determinata dal modo di
produzione prevalente in una data società192.
Nella sua visione Weber ritiene che le fonti delle diseguaglianze e i principi
fondamentali della stratificazione sociale vadano ricercati non solo nell'ambito
dell'economia, ma anche nella sfera della cultura e in quella della politica. Mentre
nella sfera economica gli individui si uniscono sulla base di interessi materiali
comuni, formando le classi sociali, nella sfera della cultura essi seguono comuni
interessi ideali e danno origine ai ceti; nella sfera politica, infine, gli individui si
associano in partiti o in gruppi di potere per il controllo dell'apparato di dominio.
192
Cfr. K. Marx, Il capitale, Newton Compton, Roma, 2008. La creazione del concetto di classe
rischia di essere una astrazione della realtà dal momento che implica una omogeneizzazione dei suoi
componenti, quasi bastasse l'appartenenza ad un certo sistema produttivo per definire i caratteri di chi
ne fa parte. Senza nulla togliere al fatto che nella società siano presenti conflitti, assai più discutibile
appare questa classificazione sociale, riduttiva nei confronti delle capacità umane considerate
solamente in riferimento ai rapporti produttivi.
87
Dunque, secondo Weber, non solo la classe, ma anche il ceto e il gruppo di dominio
sono fattori essenziali per la comprensione dei processi di stratificazione.
Il concetto di ceto, e più in particolare di condizione di ceto acquista perciò
fondamentale importanza. Un ceto è composto da individui che hanno in comune un
medesimo stile di vita ed è quindi espressione del grado di partecipazione individuale
al prestigio sociale. Questo prestigio, però, non è dato solo dalla ricchezza, cioè dal
possesso di beni materiali, ma anche da altri fattori quali il prestigio sociale del ruolo
rivestito.
Secondo Weber, solo la condizione di ceto può assicurare una comune base all'agire.
L'attenzione va quindi posta sui fattori anche psicologici, che determinano sia le
condizioni dell'agire individuale, sia la suddivisione stessa delle persone in gruppi
sociali di diverso rango e prestigio; ciò, beninteso, senza trascurare la struttura
economica, che resta pur sempre la base per la comprensione della stratificazione
sociale. L'elemento costitutivo dell'essere sociale non è insomma per Weber
semplicemente l'appartenenza di classe, quanto piuttosto l'insieme di tradizioni,
abitudini e idee che ogni individuo, quale appartenente a un ceto, si vede indicate
come fondamento del proprio agire. Ciò, d'altra parte, non significa che la condizione
di ceto vada pensata come indipendente da quella di classe, giacché condizione di
ceto e condizione di classe stanno fra loro in un rapporto che si gioca a più livelli193.
In entrambi i modelli il processo di differenziazione sociale costituisce l'aspetto che
segna l'evoluzione delle società storiche; nel caso dell'approccio funzionalista la
produzione di disuguaglianza deve venire regolata, e la stratificazione sociale, intesa
come insieme di ruoli e status, ne costituisce appunto la codificazione normativa che
impedisce la disgregazione dell'ordine sociale. La considerazione della funzione del
potere, nei suoi aspetti coercitivi e consensuali, offre una diversa soluzione al
problema di modelli stabili di interazione sociale e consente quindi alla riflessione
teorica e alla ricerca empirica di analizzare la stratificazione sociale come i diversi
193
Cfr. M. Weber, L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze, 1945.
Anche qui l'individuo si ritrova incasellato in un ceto, il quale gli offre dei limiti e delle condizioni per
raggiungere il prestigio, senza però lasciare spazio alla libera iniziativa. Si passa da una descrizione di
come stanno le cose all'affermazione che le cose devono essere nel modo descritto. È pur vero che
all'interno di una società esiste un prestigio e ci sono dei mezzi per ottenerlo, ma da qui a dire che
l'uomo si basa solo su questi fattori esterni per definire il proprio agire il passo è problematico per
quel che concerne la riflessione propria di ognuno e le sue priorità personali.
88
modi in cui le varie disuguaglianze tra gli uomini si sono cristallizzate nelle società
storiche.
Entrambe queste visioni ragionano per macro categorie, proponendo comportamenti
umani alquanto omogenei e soprattutto descrivibili una volta per tutte. Il valore
dell'individuo si perde in un'azione vincolata a interessi o fattori esterni, come se non
si avesse la possibilità di decidere da soli cosa sia meglio fare. Anche nelle
successive visioni si riscontra bene o male la stessa idea di fondo: l'uomo agirebbe
perché dall'esterno gli si dice quali sono i valori degni di essere rispettati;
l'appartenenza ad una classe ne determinerebbe la visione del mondo; per ognuno
varrebbero le stesse gerarchie. Sebbene sia una comoda scappatoia per spiegare la
società, si annulla in tal modo l'apporto che l'uomo può dare, e con evidenza
quotidiana dà, al mondo stesso.
L'approccio evolutivo proposto da Lenski194 cerca di combinare elementi propri sia
della teoria del conflitto, sia della teoria funzionalista, nel tentativo di spiegare
perché alcuni tipi di società siano più stratificati di altri. A suo parere hanno ragione i
funzionalisti quando sostengono che le risorse fondamentali per la sopravvivenza di
una società vengono prodotte e conservate collocando nei ruoli sociali più importanti
gli individui più dotati. Ma Lenski sostiene anche che le risorse che eccedono le
necessità della sopravvivenza sono distribuite attraverso un conflitto tra gruppi in
competizione. Per esemplificare come ciò avvenga Lenski ricostruisce l'evoluzione
della stratificazione sociale mostrando come le sue forme dipendano dai mezzi di
produzione economica. Nel passaggio storico dalle società di caccia-raccolta a quelle
orticole a quelle pastorali e infine a quelle agricole, si assiste a un progressivo
accumulo di surplus produttivo. Emerge quindi progressivamente un'élite dominante
che avanza pretese su queste risorse eccedenti e per effetto di ciò la società si divide
in strati che hanno un accesso differenziato alla ricchezza e alle altre ricompense. Le
rigide divisioni iniziali, tipiche delle società agricole, vengono successivamente
indebolite dall'industrializzazione, la quale non solo richiede una forza lavoro
qualificata e mobile, ma esige anche, in linea di principio, che non sussistano
impedimenti
194
all'utilizzazione
dei
talenti
individuali.
Nelle
prime
fasi
Cfr. G. Lenski, Power and privilege: a theory of social stratification, McGraw-Hill, New
York, 1966.
89
dell'industrializzazione, quando i contadini si trasformano in forza lavoro operaia, le
differenze tra ricchi e poveri sono profonde. Nelle società industriali avanzate,
invece, si sviluppano numerose nuove occupazioni e il tasso di mobilità sociale
cresce: diminuiscono così le dimensioni della classe inferiore, mentre la classe media
si allarga rapidamente, perché tutta la società partecipa, sia pure in misura diseguale,
alla divisione della crescente ricchezza prodotta dall'industrializzazione. Con ciò gli
Stati diventano più democratici e nuove istituzioni sociali, come l'assistenza pubblica
e la tassazione progressiva, limitano l'eccesso di diseguaglianze nella ricchezza.
La teoria di Lenski non è rigida: variabili indipendenti, come le minacce provenienti
dall'esterno o il ruolo particolare di certi leader, possono influenzare il modo in cui i
sistemi di stratificazione si sviluppano. Comunque, egli pensa che in generale la
tendenza di lungo periodo di tutte le società industriali porti a una diminuzione delle
diseguaglianze sociali. La sua teoria spiega inoltre come mai le diseguaglianze siano
spesso più marcate di quanto occorra perché esse siano funzionali: una volta che la
stratificazione si è installata in una società, infatti, i gruppi privilegiati si valgono dei
loro privilegi per acquisirne altri195.
Tutte le teorie esaminate finora sostengono che la stratificazione sociale sia il
risultato degli aspetti economici e sociali della realtà. La teoria di Warner196 è invece
basata sul metodo reputazionale, per il quale l'appartenenza di una persona a una
particolare classe è determinata in base alla posizione che alla persona è assegnata da
altri membri della comunità. Altri ricercatori si sono concentrati sui motivi del
prestigio accordato a particolari occupazioni. Treiman trae la conclusione che i criteri
di valutazione del prestigio relativo al lavoro sono molto simili in tutto il mondo e
che un'elevata divisione del lavoro è molto simile in tutte le società. A causa di ciò
alcune persone possiedono e controllano un maggior numero di risorse rispetto ad
altre, dando luogo a gerarchie di potere. Ora, in tutte le società al potere sono
associati dei privilegi: le persone che occupano posizioni di rilievo godono spesso di
195
Nella sua analisi dell'evoluzione della stratificazione Lenski non scende a interrogare
l'individuo ma resta a livello macro, trattando di gruppi e classi, come se il singolo fosse riassumibile
nel gruppo in cui viene definito far parte. Non ci si chiede cosa permetta a ciascuno di essere dove sta,
o i motivi che lo spingono; tutto verrebbe da fuori, e l'interesse, anche in questo caso, viene a rivestire
il motore unico dell'agire.
196
Cfr. W. L. Warner, Il sistema sociale della fabbrica moderna. Lo sciopero: un'analisi sociale,
ETAS, Milano, 1969.
90
influenza politica, che possono usare più o meno direttamente a loro vantaggio.
Perciò, poiché al potere e al privilegio è dovunque attribuito un alto valore, le attività
che forniscono potere e privilegi godono di un elevato prestigio in tutte le società197.
Anche Archer parla di stratificazione della realtà e dell’essere umano, in cui ogni
strato possiede proprietà emergenti e caratteristiche diverse, ma staccandosi dalle
teorie sopra elencate e cercando invece in recupero dell'intenzionalità. Per lei gli
strati emergenti sono le entità da mettere in relazione per comprendere come sorga il
loro potere causale, tenendo presente che tali strati non sono entità fisiche di una
qualche grandezza. Si parla di stratificazione quando uno strato è ontologicamente
dipendente da un altro ma non riducibile a esso. La vita parte quindi dallo strato
naturale come base (inteso non come livello infimo ma come fondamenta che
permettono l'esistenza di tutti gli altri): essa è un sistema aperto in cui le leggi non si
possono definire costanti ma tendenziali.
L’agire e la struttura sono in una connessione fondamentale e le rispettive proprietà
operano e sorgono solo attraverso l’interazione sociale poiché è importante, secondo
Archer, «connettere l’azione e i suoi ambienti»198: nessuna azione avviene fuori
dall’ambito sociale e l’ambito sociale esiste in quanto ci sono agenti che agiscono in
esso. Considerare come “non riducibili” gli strati implica delle conseguenze: ognuno
di essi è separabile dall’altro; si profila una scansione temporale tra loro in termini di
precedenza e antecedenza nonché di temporalità, dal momento che ogni relazione è
immersa nel fluire del tempo; esiste una relativa autonomia tra gli strati che comporta
differenti poteri causali. Il punto importante risiede nello studiare l’interazione che
permette a questi strati di attuare i propri poteri adoperando come mezzo il dualismo
analitico.
In tale dualismo la struttura precede l’azione influenzandola e l’elaborazione
strutturale avviene successivamente alle azioni che la generano. La reciproca
influenza che quindi si stabilisce tra agire e struttura si può esemplificare nel ciclo
morfogenetico con le tre fasi che lo compongono ossia «condizionamento strutturale,
197
Si parla di potere e di prestigio come se ciascuno recepisse le due cose quali i valori
fondamentali che lo spingono a muoversi in una certa maniera. È su questo che Archer insiste più
volte: ognuno ha i suoi motivi per agire, ha il suo sistema di misura riguardo ai valori presenti nella
società, e questo dipende non solo dalla società ma anche da altri aspetti del reale.
198
M. S. Archer, La morfogenesi della società, cit., p. 22.
91
interazione sociale ed elaborazione strutturale»199. Una volta giunti all’elaborazione
strutturale essa fungerà da condizionamento strutturale al ciclo morfogenetico
successivo tenendo sempre ben presente che l’esito dell’elaborazione non
corrisponde mai alla volontà precisa di qualcuno in particolare. Siamo in un sistema
aperto quando si parla del sociale per cui una prevedibilità perfetta non ci può essere.
Lo svolgimento di un ciclo morfogenetico si svolge nelle tre fasi sopra elencate: il
condizionamento strutturale, precedente a livello temporale, condiziona ma non
determina l’interazione sociale che sorge anche per conseguenze non insite nel
sistema sociale. Ciò porta ad una perpetuazione o ad un cambiamento strutturale, e
da qui il ciclo riprende daccapo.
Affinché ci sia un condizionamento deve esistere qualcuno da condizionare; affinché
ci sia interazione serve alla società un interlocutore con cui essa possa interagire;
affinché ci sia una elaborazione deve sussistere qualcuno che elabori; l’essere umano,
con la sua identità e le sue capacità non derivanti dal sociale è questo “altro” che può
agire nella società stessa perseguendo i propri fini poiché le strutture sociali «sono
operative – afferma Archer - solo dentro e attraverso il mondo delle persone; ciò
tiene la porta sempre aperta poiché l’azione umana è caratterizzata dalla possibilità di
innovazione»200. Sono necessari i due termini di paragone, la società e l’individuo,
per poter parlare di interazione: «senza alcuna spinta esterna (strutturale) all’azione,
e senza alcun impulso interiore (psicologico), le pratiche sociali sembrano avere
origini casuali e risultati caleidoscopici»201.
Nello svolgersi dell’agire non muta solamente la struttura ma l’agire stesso, che entra
in contatto con l’agire di altri agenti: questa è la doppia morfogenesi. Ci si riferisce a
strutture precedenti su cui si applica l’azione degli agenti: l’elaborazione che ne esce
è risultato delle influenze precedenti e del potere causale degli agenti, in seguito al
quale sorge qualcosa di nuovo e non pronosticabile. Tramite la riflessione delle
persone facenti parte di una società, la quale però non ha la facoltà di determinare
cosa ognuno pensi (riflettere sulla società e non grazie alla società) si attua la
modificazione: si incontrano i poteri di altri strati e scaturisce qualcosa che prima
non esisteva nella stessa forma. La ricerca della spiegazione di come avvenga tale
199
200
201
Ivi, p. 27.
Ivi, p. 86.
Ivi, p. 154.
92
rapporto conduce ad un modello morfogenetico/morfostatico (M/M) in cui le forme
sociali non sono condizione necessaria di ogni azione intenzionale, tributando così
un importante onore alla natura e alla pratica. Le proprietà relazionali tra i due livelli
possiedono una loro autonomia e causalità senza le quali non si potrebbe nemmeno
parlare di interazione. Morfogenesi e morfostasi riguardano sempre ciò che le
precede perché la trasformazione o la perpetuazione è sempre riferita a una struttura
precedente, a sua volta risultato di una interazione passata. Il fattore temporale deve
essere tenuto in conto nello spiegare questo rapporto che nel tempo appunto si svolge
(elemento che invece viene trascurato nelle conflazioni). La cornice temporale deve
essere allargata per includere le influenze temporali passate e le aspettative future. Il
passato pesa sul presente degli attori, volenti o nolenti che siano, per quel che
riguarda la situazione in cui si trovano loro malgrado e nelle aspettative che gravano
su di loro, nonché per vincoli e costi di opportunità. Il condizionamento strutturale
non deve però essere inteso come un sistema idraulico poiché «l'agire – sostiene
Archer - si distingue dalla struttura grazie all'intenzionalità»202. Se un contesto
fornisce le ragioni per un agire piuttosto che per un altro la scelta di quale sia la via
da intraprendere risiede tutta nel volere dell'individuo che soppesa dentro di sé cosa
vuole e poi lo attua nella situazione in cui si è venuto a trovare. La precisazione
necessaria è che qui si tratta di influenze e costi di opportunità, e non di
determinismo o costrizione. La struttura e la cultura hanno dei poteri e delle proprietà
ma tutto dipende dalla percezione che le persone ne hanno grazie alla loro
riflessività.
Quello che qui si vuole proporre è un «riemergere dell'umanità, il riconoscimento
dovuto alle proprietà e poteri delle persone reali plasmate nel mondo reale»203: la via
attraverso la quale le persone entrano in contatto con la società è la conversazione
interiore; il processo nel quale agire e struttura interagiscono è la morfogenesi, in cui
la struttura condiziona l'agire che, a sua volta, elabora la struttura in uno svolgimento
temporale (evitando la conflazione centrale in tal modo). Noi in quanto uomini
sentiamo di poter agire sulla società che però a sua volta ci plasma; ma una resistenza
esiste e ci è data dai poteri che assumiamo nei diversi livelli della realtà stratificata. I
202
203
Ivi, p. 177.
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 433.
93
poteri che la cultura e la struttura possiedono sono differenti da quelli degli agenti,
sebbene sussista una interdipendenza. Ogni nuova generazione di agenti sceglie se
modificare o perpetuare la struttura che eredita, ma quest'ultima, essendo appunto
ereditata, apporta delle influenze sugli agenti stessi che nascono e crescono in essa.
Ogni essere umano ha il potere di riflettere sul contesto sociale in cui si trova e
sull'agire che può attuare in esso: è solamente grazie a questo potere che si può
incidere su quanto ci circonda in modo attivo. Egli può riflettere criticamente
sull'ambiente sociale e ridisegnarlo, facendo sempre i conti con le sue proprietà. I
poteri umani con cui possiamo agire sulla realtà sono tutti legati alla presenza in noi
di un'autocoscienza che permette appunto ad essi di avere una base su cui
svilupparsi. Dal momento che l'autocoscienza sorge grazie alla nostra incarnazione, il
primato del corpo e del suo agire pratico risulta fondante nella formazione di ciò che
saremo.
2.2 Primato della pratica e dualismo analitico
«Il realismo – per come lo delinea Archer - costruisce la nostra umanità come la
proprietà emergente cruciale della nostra specie, che si sviluppa attraverso l’azione
pratica nel mondo. Il senso permanente del sé, o auto-coscienza, è proposto come
emergente dai modi in cui siamo costituiti biologicamente, dal modo in cui il mondo
è e dalla necessità della nostra interazione umana con il nostro ambiente esterno»204.
Quanto è importante la pratica incarnata in Archer?
Innanzitutto lo è più delle relazioni sociali «per l'emergere dell'ipseità, ovvero per il
senso permanente di sé e per lo sviluppo delle sue proprietà e poteri»205. Queste
204
Ivi, p. 71. Anche alienandoci i rapporti umani e le relazioni con i nostri simili il nostro corpo
non diventa mai una cosa del mondo: l'esistenza corporea è la potenza di essere al mondo, la
possibilità di una esistenza che non ci abbandona mai, come ci ricorda Merleau-Ponty. L'esistenza
coincide con il corpo, non sono aspetti separabili dal momento che la prima si realizza
necessariamente nel secondo. Pur apparendo come un “oggetto per l'altro” il mio corpo è, per me,
soggetto. Il modo umano di esistere non è frutto di un innatismo ma si forma seguendo i voleri del
corpo e la mediazione che noi facciamo con quanto affrontiamo. La presenza di un corpo è necessaria
per l'esistenza di una coscienza: essendo essa individuale, e riconoscendomi come tale grazie al mio
corpo che vivo (che vive), quest'ultimo si rivela essere la condizione basilare per ogni individualità
intesa non come agglomerato di organi, retaggio della scienza. Cfr. M. Merleau-Ponty,
Fenomenologia della percezione, cit.
205
Ivi, p. 173.
94
parole sono necessarie per poter spiegare l'esistenza stessa di una società: deve
esserci un senso di sé che preceda la formazione sociale. La stessa intenzionalità
deve scaturire da un sé che la possiede, «l'autocoscienza corporea e l'azione causale
intenzionale – sostiene Archer - sono fatti che abbiamo in comune con le specie
animali superiori, e pertanto non possono essere doni della società»206. L'uomo non è
solo un animale sociale ma primariamente è un animale, e con tale parola ci si
riferisce al suo corpo, alla pratica che gli appartiene e alla carne su cui la socialità
non può fare presa. Il debito che abbiamo con la fisicità è molto maggiore di quanto
non si voglia far credere, e solamente il suo recupero, unito a quello della pratica, le
può consegnare il posto che le spetta. Abitiamo in un mondo materiale dove la
pratica non attende istruzioni sociali per attivarsi, ma è operativa di per sé in quanto
parte integrante del corpo. È sufficiente essere il corpo che siamo per rapportarsi con
quanto ci circonda, in una immediatezza che invece la società tende a negare
ponendosi illusoriamente come filtro. O, almeno, così è quanto affermano i
sostenitori della conflazione verso il basso.
Solamente in tale modo si fa emergere la base su cui fondare la resistenza e
l'intenzionalità evitando di cadere nella passività. Il sé non è dato come entità o come
teoria ma è definito da Archer come una «proprietà relazionale emergente, la cui
realizzazione si attua attraverso le relazioni necessarie tra la pratica incarnata e
l'ambiente non discorsivo»207. Emergente perché si forma tra i vari livelli che entrano
in rapporto tra loro, e pratico perché è l'agire che ci rende ciò che siamo. Un agire
però che si stacca dal comportamento prestabilito dettato da un ruolo, dalle
imposizioni sociali o insegnato didatticamente: all'inizio della nostra vita il saper
agire nel modo corretto implica la stessa sopravvivenza. Un'adeguata consapevolezza
di chi si è permette di rapportarsi con l'ambiente in quanto soggetti attivi. Ad ogni
azione segue una reazione insegna la fisica, e da questa reazione comprendiamo
praticamente di essere stati proprio noi a compiere deliberatamente un gesto. Tramite
questa linea che si traccia tra noi e il mondo sorge il sé, quello che sta dentro, il quale
necessita di quanto sta fuori per riconoscersi come tale. Non si insegna a “sentirci”
noi stessi, ma solo provando spontaneamente sul proprio corpo l'alterità del mondo
206
207
Ibidem.
Ivi, p. 175.
95
cogliamo l'aderenza a noi stessi, il fatto di essere proprio noi a ricevere tali
impressioni. Il formarsi del sé risulta quindi legato al riconoscimento di una alterità,
indispensabile per una prima consapevolezza. Non ci fosse l'altro, in base a cosa ci
riconosceremmo come un io? Per sopravvivere non attendiamo certo che la società ci
insegni un sé, ma fin da subito agiamo nella realtà seguendo quanto riteniamo esatto
dal nostro punto di vista fisico. Una volta poi che si giunge nella socialità, ciò che si
aggiunge all'identità personale sarà quella sociale che la arricchisce ma che non la
definisce. La formazione del senso di sé non segue vie linguistiche, ma un agire
pratico che si impara solamente vivendolo e non studiandolo nozionisticamente. Solo
in un secondo momento interviene il riconoscimento dell’altro da sé, quando appunto
un sé è già presente e riconosciuto come tale dall’individuo. Questo percorso si
stacca da quanto proposto dalle conflazioni, in quanto contrariamente alla
conflazione verso il basso è l'azione ad ogni livello della realtà a darci modo di
riconoscerci, e non solo la società, mentre diversamente dalla conflazione verso l'alto
viene riconosciuta l'importanza dell'ambiente e dell'altro da sé nella formazione di
chi siamo.
In Merleau-Ponty la singolarità emerge percependosi tali nell'esercizio dei propri
poteri corporei nella natura. È la differenza tra sé e ambiente che ci rende
consapevoli di noi. Altro fattore da non sottovalutare è la memoria incarnata che
implica il corpo e un senso continuo del sé in favore di un “sapere” non discorsivo
ma più profondo sebbene non imparato a livello sociale. I due principi fondamentali
su cui si basa la comunicazione discorsiva, ossia quello di identità e di noncontraddizione, ci derivano dal rapporto pratico col mondo e non per un
insegnamento. In seguito a questo fatto lo stesso ragionamento non può essere inteso
come un dono della società, ma come un mezzo per poter ragionare sulla società da
un punto di vista esterno ad essa e che pressoché nulla le deve. La fonte della criticità
risiede in questa fondazione in qualcosa d'altro di ciò che siamo e che ci permette di
non riconoscerci in ogni nostro aspetto con la società, così da poterla descrivere.
La stessa socializzazione dipende dal fatto che tutti i membri sappiano distinguersi
dagli altri perché altrimenti ci sarebbe una identificazione reciproca e non una
socializzazione propriamente detta. Inoltre ogni essere umano deve possedere una
memoria di sé e una capacità performativa per poter agire nella società e assumere
96
dei ruoli in essa. Per non parlare della comunicazione: nel caso in cui i principi di
identità e non-contraddizione non fossero già parte dell'uomo che entra nella
comunità discorsiva come si potrebbe insegnargliele se sono presupposte nella
comunicazione stessa? Da questa difficoltà risulta motivata la proposta di una
comprensione della logica a livello delle relazioni con gli oggetti naturali. Foucault,
nella sua visione, insiste molto sul valore della parola e del discorso in quella che
sarebbe la “normalizzazione” dei corpi e degli individui, come se quelli fossero gli
unici modi che l'uomo possiede per rapportarsi col reale. È pur vero che a livello
sociale la comunicazione avviene linguisticamente, ma tutto ciò che siamo è ben
lungi dall'essere ridotto a parole e discorsi, evitando in tal modo di menzionare
l'apporto dato dall'azione fisica e dalla corporeità.
Pur rendendo merito alla natura di essere il primo livello con cui abbiamo a che fare,
e che dunque ci permette di riconoscerci come “i medesimi”, non si deve pensare che
essa si imprima in noi come fossimo malleabili e totalmente passivi. «La coscienza
vissuta (la percezione per Merleau-Ponty) – scrive la Archer - è necessariamente
prospettica»208 e tale prospettiva è data dal nostro corpo grazie al quale siamo esseri
208
Ivi, p. 181. Merleau-Ponty afferma che nel movimento riconosco l'unità del soggetto che io
sono grazie al corpo che permane uguale a se stesso in tutte le azioni. Anche l'unità dell'oggetto è
riferibile al corpo che si può muovere attorno ad esso e osservarlo da diverse visuali: un oggetto è
riconosciuto come tale perché in esso risiedono tutte le prospettive che io, soggetto incarnato, posso
avere nei suoi confronti. Tale riconduzione all'unico non avviene per mezzo di un ragionamento
geometrico ma nella connessione vivente tra il mio corpo che si muove e, osservando lo stesso
oggetto, porta tutti i punti di vista in cui si ritrova a ridursi al medesimo obiettivo. Tale unità
espressiva del corpo non la insegnano ma la si conosce solamente assumendola e “sentendo” il proprio
corpo. Le sensazioni sono riconoscibili in quanto riconducibili ad un unico Io che le prova; la stessa
coscienza di esse si ha dall'interno vedendosi come punto centrale del sentire vissuto da dentro.
Questo non deve però far pensare ad un unico sentire valevole per tutti perché ognuno, in quanto
corpo peculiare, si rapporta al mondo e allo spazio in maniera diversa. Il fatto che ci siano atti
sensoriali non deve far credere che essi siano comuni: sono semplicemente il mezzo con cui ineriamo
all'ambiente circostante, ciascuno a suo modo. Il passo fondamentale della nascita di un sé legato al
corpo risiede non nel vedere con lo sguardo o nell'afferrare con la mano un oggetto, ma il sapere di
star facendo tali cose, la consapevolezza di essere proprio noi a compiere tali gesti, a rivestire il ruolo
centrale delle sensazioni. Non si tratta di riflessione scientifica tra oggetto e soggetto ma di vivere la
comprensione della cosa come essa ci si presenta nell'esperienza. Cogliamo dall'interno di noi l'unicità
della cosa e la sua collocazione spaziale; termini come “dritto” o “storto” non sono riferiti a degli
assoluti ma alla situazione dell'oggetto in questione nei confronti della presa che ne dobbiamo fare.
Una sedia è definita capovolta non perché esista un “dritto” valido a priori ma perché, per sedersi su di
essa, ovvero per averne una presa funzionale, è necessario che essa stia con le quattro gambe posate a
terra e non verso il cielo. Quanto esiste nello spazio non è un insieme di cose giustapposte ma che
coesistono in virtù della presa che ne facciamo con il nostro corpo: esse sono presenti al medesimo
97
unici. «Il mondo naturale – scrive Merleau-Ponty - è l'orizzonte di tutti gli orizzonti
[...] che, al di sotto di tutte le rotture della mia vita personale e storica, garantisce alle
mie esperienze un'unità data e non voluta, e il cui correlato è in me l'esistenza data,
generale e pre-personale delle mie funzioni sensoriali»209. Emerge con evidenza il
primato che spetta alla natura e alle relazioni con essa, per quel che riguarda il senso
di sé. Il mondo naturale giunge a noi non attraverso una riflessione ma tramite il
corpo che tocca e si fa toccare in modo da comprendersi come una unità. Tale
possibilità non è determinabile a priori, o in ambito discorsivo, ma solo nella
effettiva relazione tra capacità personali e ambiente che si congiungono nella pratica.
Un individuo incarnato scopre la natura e, anche se non entrasse mai nella società,
rimarrebbe comunque col suo corpo e con il senso di sé che grazie ad essa
possiede210.
soggetto. L'orientamento spaziale è costituito dall'atto del soggetto percipiente che ordina il mondo
attorno a lui in base al proprio schema corporeo. C'è una certa presa sul mondo da parte del corpo che
ha intenzioni e un campo percettivo i quali, per poter funzionare ed essere attivi, necessitano
dell'ambiente esterno ad essi. In fondo, l'essere è un essere situato in un certo contesto e non una entità
trascendente senza appigli nella vita vissuta. Il punto di vista che ci è proprio non deve essere inteso
come una limitazione alla conoscenza totale ma come la via per introdurmi nel mondo stesso di cui
scoprirò ciò che è legato alla mia individualità. Non ci fosse il mio personale punto di vista ma tutti i
punti di vista simultaneamente non ci sarebbe possibilità di avere contatto col mondo il quale sarebbe
un contemporaneo tutto da cui non si riuscirebbe a districare nulla di definito. Lo stesso fluire del
tempo è radicato nel soggetto che esperisce gli eventi dalla sua collocazione spaziale e temporale: le
cose e il mondo non esistono se non vissuti da me (non si intende qui parlare di una creazione da parte
nostra ma di un avere presa su quello che ci circonda). Cfr. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della
percezione, cit.
209
M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 429. Valore fondamentale per
l'esperienza è la vicinanza, dal momento che non si può prendere conoscenza a distanza di qualcosa.
La prossimità degli oggetti e della natura con cui ci relazioniamo è il primo passo per una
comprensione di noi in quanto sé. La via dell'accentramento delle diverse prospettive e lo scoprire,
dietro al flusso delle impressioni, una invariante che struttura le esperienze ci rende individui. La
coscienza non ha questo potere ma è questo preciso potere: la coscienza è sempre di qualcosa.
Parliamo di vita individuale riferendoci al corpo proprio perché essa non lo trascende, ma lo nutre e
gli dà forza essendo esso il suo presente.
210
Il mondo che ci circonda esiste al di là dell'esperienza che possiamo farne: la natura non ha
bisogno di essere percepita per esistere. Nonostante ciò quello che per noi è la natura è quello che di
essa percepiamo, ciò che veniamo a costituire come l'ambiente in cui agiamo. Ad un primo livello
siamo toccati dagli aspetti biologici del nostro corpo, legati ai bisogni fondamentali come la sete e la
fame e alle percezioni che necessariamente ci segnano tramite i sensi. Solamente in un secondo
momento subentrano la socialità e le relazioni umane: il corpo e i sensi non sono solamente un punto
di transito per arrivare all'esistenza personale la quale, al contrario, riconosce in sé la corporeità come
parte integrante della sua formazione. Al di là di come noi la percepiamo, dei mezzi che abbiamo per
giungere ad essa e dell'uso che ne possiamo fare, ogni cosa ha la sua grandezza e la sua forma che si
mostrano davanti a me. Il mio corpo sta davanti alle cose per percepirle e avere così presa sul mondo:
98
Il riferimento alla realtà che ci circonda come “certezza” per le nostre sensazioni è
importante anche nella visione di Arendt, la quale sostiene che «nonostante le
differenze di posizione e la risultante varietà di prospettive, ciascuno si occupa
sempre dello stesso oggetto»211. Con ciò si avvalora l’esistenza di diversi punti di
vista, propri di ciascuno di noi, ma riferiti ai medesimi oggetti, affermando al
contempo l’esistenza di un referente comune che ci permette di entrare in contatto.
Nella peculiarità delle singole visioni sugli stessi obiettivi emerge la differenza che ci
contraddistingue e l’esistenza di un mondo comune, non sociale, con cui ci
rapportiamo. Inoltre, potendoci sempre raffrontare con gli oggetti nel nostro
ambiente, possiamo riconoscerci come gli stessi. «Gli uomini, malgrado la loro
natura sempre mutevole, possono ritrovare il loro sé, cioè la loro identità, riferendosi
alla stessa sedia e allo stesso tavolo»212 sostiene Arendt.
La stessa distinzione tra sé ed alterità deriva dall'incarnazione nel mondo e non da un
insegnamento poiché «l'immagine corporea – nella visione disegnata da Archer - ci
dà ineluttabilmente un parametro su cui calibrare la natura»213. In base alla nostra
corporeità entriamo in contatto con l'ambiente, siamo già in possesso di qualcosa
quando ci rapportiamo e non si può imprimere in noi quel che si desidera senza
difficoltà. Per poter essere metro di qualcosa non si può far parte di quel qualcosa:
una autonomia da ciò con cui ci si rapporta è necessaria per non perdersi nell'altro.
Il corpo è incapace di non vedere il mondo: si trova sempre in esso con i propri poteri
attivi. Tali poteri si volgono anche al corpo stesso (soddisfacimento di bisogni,
movimento..) ed è da questa differenziazione che sorge l'identità, poiché gli obiettivi
con cui è impossibile non rapportarsi sono il sé e il mondo. La prerogativa del corpo
umano è che oltre a sentire l'esterno sa anche sentire se stesso. Sorge così
l'autocoscienza che mi costituisce in quanto soggetto214. Posso toccare il limite fisico
la costanza percettiva delinea il rapporto tra il mondo, i suoi fenomeni e il mio corpo che li vive dal
suo punto di vista. Questa capacità è fondamentale per la possibilità di adattamento del corpo stesso, il
quale riesce così a ricavare ovunque dei “punti fermi” in base ai quali stabilire come muoversi. La
vicinanza tra Archer e Merleau-Ponty è evidente da questi riferimenti al corpo come base del sé e del
rapporto col mondo, oggi appiattito alla socialità. Cfr. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della
percezione, cit.
211
H. Arendt, Vita activa, cit., p. 43.
212
Ivi, p. 98.
213
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 184.
214
Merleau-Ponty insiste in più punti sul fatto che la percezione sia sempre percezione di
99
tra me e il mondo, vedo gli oggetti esterni a me che si muovono mentre io sto fermo
o viceversa, sento di stare sentendo quello che tocco. Non sono giri di parole ma una
ulteriore prova che le parole non sono che meri tentativi di esprimere un qualcosa
che esiste solo a livello corporeo: il discorsivo è solo un sottoinsieme delle
potenzialità proprie dell'uomo in quanto corpo215. Il mio corpo mi segue, sta con me,
lo sento mio costantemente, e la sua forza è l'essere al contempo soggetto e oggetto
delle percezioni, il che lo rende riconoscibile a me stesso come mio. Oltre a sentirle,
le azioni che faccio le posso vedere, toccare, guardare.
L'alterità, gli oggetti che ci circondano, si rapportano all'uomo in quanto
manipolabili216. Non sono a disposizione dell'uomo, sia ben chiaro, perché anche il
qualcosa e non un'azione fine a se stessa. Questo ovviamente implica l'essere situato in un mondo
dove da una parte ci siano oggetti da esperire e dall'altra ci sia qualcuno in grado di esperirli che abbia
la necessaria autocoscienza per rendersi conto di quello che sta esperendo. Cfr. M. Merleau-Ponty,
Fenomenologia della percezione, cit.
215
La società in quanto sistema autopoietico è quindi una delle condizioni ecologiche della vita
e della coscienza umana. L'interpenetrazione implica quindi il collegamento di tre tipi di autopoiesi: la
vita organica, la coscienza e la comunicazione. Tale collegamento è possibile sulla base della
ricchezza di rinvii, di possibili così e altrimenti, forniti dal senso. È il senso come forma di
rappresentazione della complessità che consente l'interpenetrazione tra sistemi psichici e sociali. Ciò
che rende possibile la formazione di sistemi sociali tramite i quali l'uomo può avere una coscienza e
vivere, è la ricchezza di rinvii che caratterizza il senso, non già una qualche proprietà che
contraddistingua un particolare tipo di esseri viventi. L'interpenetrazione è possibile in base al senso e
ciò significa che l'autopoiesis del sistema organico (la vita) riveste per Luhmann, come per Parsons,
una posizione ancillare rispetto alla autopoiesis della coscienza e della comunicazione. La distinzione
parsonsiana che relegava il sistema organico fuori dallo schema dell'azione è ritenuta necessaria anche
da Luhmann. Il concetto d'interpenetrazione riguarda il modo in cui la complessità dell'esistenza fisica
e del comportamento fisico viene impegnata nel sistema sociale per conferire ordine a specifici
contesti interni ad esso. Dovremo inoltre chiederci in che modo il corpo debba risultare disciplinabile
a livello psichico perché ciò sia possibile. La corporalità è e resta un presupposto generale (e come
tale, teoricamente banale) della vita sociale. In altre parole: la differenza fra corporalità e incorporalità
non ha alcuna rilevanza sociale. Cfr. N. Luhmann, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale,
Il Mulino, Bologna, 2001.
216
Gli oggetti, essendo maneggevoli, interrogano la mano che deve impattare su essi in modo
da comprenderne l'uso. Noi siamo con gli oggetti e non accanto agli oggetti perché quanto abbiamo
intorno è sempre ricondotto alla nostra visuale. Il mondo circostante si presenta come un insieme di
possibili punti di applicazione della nostra potenza di azione e così facendo lo spazio si trasforma in
spazio antropologico come paesaggio delle nostre azioni. A seconda dell'obiettivo che ci poniamo una
stessa cosa che incontriamo riveste diversi ruoli e in tale maniera strutturiamo il mondo. Lo spazio
non ci colloca in coordinate ma disegna attorno a noi l'ambiente in cui possiamo agire e che muta di
consistenza a seconda di quello che vogliamo raggiungere. È attraverso il corpo che abbiamo un
mondo poiché radichiamo l'esistenza in uno spazio ma non come oggetti in uno spazio, bensì inerendo
ad esso. Io sono gettato nella natura ma essa non è solamente fuori di me perché rimane al centro del
mio essere e delle mie percezioni. Pure gli oggetti non stanno di fronte a me ma recano su di essi i
segni dell'azione umana, e grazie ad essi comprendo l'esistenza della cultura e di altri uomini che li
10
0
livello naturale ha la sua autonomia e le sue proprietà, ma grazie ad essi sappiamo di
essere un sé perché abbiamo un mondo con cui ci riconosciamo come agenti attivi.
La coscienza nella Archer è «essenzialmente un coinvolgimento in una serie di
situazioni concrete»217 e non come una realtà insegnata e insegnabile. Ognuno ha la
propria coscienza a seconda della propria costituzione fisica e degli incontri che
compie nel corso della vita intera, il tutto mediato solamente dal corpo e da niente
altro. Il senso di ciò che ci riguarda spesso balza agli occhi senza che siamo noi a
cercarlo o costituirlo, evidentemente perché lo possiede di suo e non dipende da noi.
Non tutto ci viene spiegato, insegnato o definito; entrando in contatto diretto con le
cose esse ci parlano. Il recupero dell'immediatezza risulta insito nella visione di
Archer, visione che restituisce anche intenzionalità e libertà all'individuo non più
succube di teorie opprimenti. Anche in questo caso ci si allontana da un intendere la
coscienza come un qualcosa che si può insegnare o che la società ci regala (ci
impone, nel caso di Foucault), evidenziando invece come solo vivendo la realtà si
diventa chi si è. Quando nasciamo non ci spiegano come si fa a sentirsi noi stessi ma
è nel prosieguo delle esperienze che proviamo sulla nostra pelle (sia in senso figurato
che letterale) che scopriamo di essere proprio noi, e da lì in poi siamo anche capaci di
riconoscere l'altro da sé e di scoprire i nostri poteri su quanto ci circonda. Se ci
formiamo da soli, se capiamo di esistere in maniera peculiare grazie al corpo e alla
pratica, staccandoci in tal modo da un cognitivismo cerebrale, anche l'intenzionalità
trova fondamento nell'azione nella società.
Gli altri ci riconoscono in primo luogo in quanto portatori di un corpo, come noi
riconosciamo loro; partendo da questa distinzione corporea si passa alla socialità
compiendo un ulteriore cambiamento di livello, ossia aggiungendo la relazione alla
semplice co-presenza di corpi. Resta il fatto che il corpo è il presupposto che
costruisce la società stessa, e non il contrario come vorrebbe Foucault, in cui la
società costruisce il corpo a suo piacere, come se fosse carne morta.
hanno creati. Nella manipolazione della natura per i nostri fini comprendiamo i nostri poteri e
mostriamo la nostra presenza al mondo. Il mondo che esiste intorno a noi non è un insieme di oggetti
di cui facciamo la sintesi ma piuttosto un insieme di cose verso cui possiamo proiettarci con l'ausilio
del nostro corpo, fonte delle percezioni. La coscienza è coscienza percettiva di qualcosa quindi
esperiamo una partecipazione al mondo e non il mondo in sé che non è una accozzaglia di oggetti ma
un campo per le esperienze che possiamo intraprendere.
217
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 187.
10
1
Esposito afferma che con il termine persona si voglia riunire anima e corpo, diritto e
vita in una unica entità, presupponendo quindi una doppia falda biologica, l’una
inconsapevole di tipo vegetativo e l'altra cerebrale e razionale. Esisterebbe, sempre
secondo le sue parole, «il “dispositivo” delle persona, per sottolinearne il ruolo
performativo, cioè produttivo di effetti reali. Esso si basa sulla separazione
presupposta, e continuamente ricorrente, tra persona come entità artificiale e uomo
come essere naturale»218. Stando a queste parole si verrebbe a limitare (se non
addirittura ad escludere) il peso che invece la componente naturale e corporea ha
nella formazione dell’individuo. La «persona – secondo Esposito - qualifica ciò che,
nell'uomo, è altro e oltre rispetto al suo corpo. Tutt'altro che identificare nella sua
integrità l'essere vivente in cui pure s'inscrive, essa corrisponde piuttosto alla
differenza irriducibile che lo separa da se stesso»219. Anche a livello di concetto si
cerca di tenere separate le componenti, minimizzando l’apporto della carne, che a
quanto pare deve fare molta paura. D’avviso contrario è Levinas, il quale, per
sfuggire al dualismo tra mente e corpo (permettente la biopolitica), ha definito la
nostra identità come aderente al corpo. Non c'è più distinzione tra anima e corpo, e
quest'ultimo, da luogo dell'anima e dell'io, ne diventa l'essenza. Il corpo si tramuta in
carne su cui la politica non può avere presa, in quanto essa è la parte più nostra che ci
sia. Non ci costituisce, ma lo siamo; non è un attributo, ma è la condizione del nostro
esserci220. Tornando al concetto di persona, Esposito afferma che in esso è insita
l’idea per la quale possedere un corpo equivale non a coincidere con esso, ma
piuttosto esserne a distanza: «l'uomo è persona precisamente perché, e se, mantiene
piena padronanza sulla propria natura animale»221 e «già qui il corpo – su cui la
persona esercita il proprio dominio proprietario – è pensato come cosa, cosa corporea
o corpo reificato»222, ci ricorda Esposito. Il distacco dalla visione di Archer non
potrebbe essere più ampio: nella sua visione il corpo è basilare per la formazione del
senso di sé, fondamento della consapevolezza necessaria all’esistenza di un individuo
capace di fare delle scelte e di agire criticamente nella società; nel termine “persona”,
218
R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell'impersonale, Einaudi, Torino,
2007, p. 13.
219
Ivi, p. 94.
220
Cfr E. Levinas, Dall'esistenza all'esistente, Marietti, Genova, 1986.
221
R. Esposito, Terza persona, cit., p. 109.
222
Ivi, p. 113.
10
2
invece, per come lo propone Esposito, si cerca in ogni modo di nascondere tale
componente, quasi fosse avvilente ammettere di essere un corpo, cosa che è
un’evidenza.
La mia coscienza è creata tramite l'incarnazione, la quale è solo mia poiché una intraincarnazione non può esistere; in seguito ci apriamo verso l'altro e verso il mondo,
ma sapendoci un sé già esistente. La relazionalità è sì parte dell'uomo, ma non è essa
che lo costituisce in quanto tale: «i gesti costituiscono attività pratiche attraverso cui i
nostri corpi mediano le nostre risposte all'ambiente immediato che ci circonda»223, ci
ricorda Archer. Non basta la parola per agire nel mondo, ma ci deve essere la pratica
attiva e gestuale che attualizza le nostre intenzioni e le rende “vere”. È il passaggio
dalla parola ai fatti che forma la pratica significativa ai fini dell'attività nel mondo. Il
linguaggio non esiste prima del sé e della pratica ma ne è una conseguenza:
«ciascuno di noi deve seguire la stessa traiettoria personale di scoperta, attraverso la
pratica privata e in virtù della nostra comune incarnazione, la distinzione tra sé e
alterità e poi quella tra sé e altre persone, che solo allora può cominciare a essere
espressa nel linguaggio»224, afferma Archer. Niente ci può venire insegnato dal
linguaggio, poiché esso stesso segue la formazione di un sé. È solo uno strumento
che adoperiamo una volta che abbiamo consapevolezza di noi e della differenza
dall'altro; in tal caso serve qualcosa che ci permetta di comunicare ed ecco che sorge
il linguaggio come prodotto dell'uomo, e non un uomo prodotto dal linguaggio. Tutta
la conoscenza che da esso ci deriva è seguente a quella proveniente da altre fonti
quali il corpo e il “sentire”, ovvero dagli altri livelli della realtà225.
223
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 192.
Ivi, p. 194. Il corpo in Merleau-Ponty è il nostro mezzo di comunicazione con il tempo e con
lo spazio, ci permette di assumere atteggiamenti e fabbricarci così dei pseudo-presenti, proietta in
movimento effettivo l'intenzione che abbiamo. Il tutto senza bisogno di mezzi discorsivi: la parola che
incontriamo nel mondo è istituita poiché arriviamo in un mondo già parlante e già parlato, per cui solo
successivamente al corpo apprendiamo, vivendo in tale ambiente, l'uso della parola. Comprendendo la
parola mi catapulto in un mondo condiviso da chi mi circonda, necessario per poter parlare con gli
altri. Cfr. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit.
225
Le definizioni che vengono date o assunte dalle persone non sono categorie in cui esse
ritrovano se stesse perché non c'è alcuna categoria che possa prescindere da un soggetto che la viva
secondo ciò che lui è. Tutte le definizioni e le schematizzazioni sono possibili a partire dalla
condizione umana, e non la formano. Ogni parola o concetto prima la si vede, la si tocca, la si vive, la
si sente, e poi la si nomina. Ci possono anche spiegare cosa sia l’ira, ma solamente nel momento in cui
siamo colti da essa arriviamo ad impadronircene. La vita mentale deriva da quella naturale a cui deve
le proprie strutture: il soggetto pensante deve essere basato sul soggetto incarnato. Per conoscere il
224
10
3
George Orwell nel suo libro 1984 ben presenta questa concezione di una lingua che
avrebbe quasi vita propria e saprebbe guidare, nonché formare, quello che gli
individui pensano. Addirittura pare l'unico mezzo per esprimere quello che ciascuno
sente, come se non fosse possibile elaborare in proprio l'espressione adatta a
manifestare un disagio o un pensiero. Non siamo più noi a formare una lingua che
dovrebbe esprimere e rendere pubblico qualcosa che ci è proprio, ma essa ci dice
cosa e come pensare. Si rovescia così la concezione di Archer per cui prima si
passano i livelli naturale e pratico, dove il linguaggio non c'è, per giungere poi al
livello sociale (e quindi discorsivo); al contrario, qui si avrebbe una lingua che si
impone su chi la usa e ne limita le capacità espressive per il semplice fatto che non ci
sono parole di uso corrente per esprimere quel che la mente elabora. Così fosse, la
lingua esisterebbe prima di noi e sarebbe il veicolo del sapere, l'unico veicolo adatto
a portare delle informazioni. «Fine specifico della neolingua – nel mondo creato
dall'immaginazione di Orwell - non era solo quello di fornire, a beneficio degli adepti
del Socing, un mezzo espressivo che sostituisse la vecchia visione del mondo e le
vecchie abitudini mentali, ma di rendere impossibile ogni altra forma di pensiero»226.
Addirittura si arriva a trattare il discorso come qualcosa che non dipende dall'idea
che noi ne abbiamo, come se fosse il potere o qualche altra forza estranea che parla
attraverso di noi: «l'intento, infatti, era quello di rendere il discorso – specialmente
quello relativo a oggetti non neutri da un punto di vista ideologico – il più possibile
indipendente dall'autocoscienza»227 prosegue a scrivere Orwell. Quando parliamo
esprimiamo qualcosa che abbiamo dentro, non si tratta di ripetere una filastrocca
insegnataci. Anche se lo stato controllasse quanto diciamo ciò non toglie che si abbia
consapevolezza di ciò che fuoriesce dalla nostra bocca. «La speranza – per lo Stato
opprimente protagonista dell'opera orwelliana - era di riuscire infine a far fluire il
discorso articolato direttamente dalla laringe, senza alcuna implicazione dei centri
cerebrali superiori»228. Resta appunto una speranza perché i poteri umani possono
esulare dalla loro espressione vocale e discorsiva, essendoci propri altri mezzi
mio corpo lo devo vivere e non posso scomporlo in componenti fisiche e cerebrali. Si ha esperienza
del corpo a partire dalla quale sorge l'attività riflessiva, non viceversa.
226
G. Orwell, 1984, cit., p. 307.
227
Ivi, p. 316.
228
Ivi, pp. 316-317.
10
4
espressivi. Le potenzialità della nostra mente non sono dipendenti dalle parole
disponibili ad esprimerle. Come sarebbe stato possibile descrivere il progresso se le
parole fossero sempre state quelle? I neologismi sono stati effetti di creazioni
materiali umane: anche se non c'era una parola per esprimere la lampadina forse essa
non è stata creata? Il vincolo espressivo non è un vincolo ideazionale o ad creativo.
La nozione di memoria può esistere se possediamo un corpo e una continuità di
coscienza che sono più originarie di qualsiasi socializzazione. Tale continuità non
deve essere intesa come perfetta, ma piuttosto come sufficiente. Nel tempo è
impossibile che ci si ricordi perfettamente di tutto, per cui tale esigenza è legata più
al fatto di poter ricondurre i ricordi ad un unico soggetto piuttosto che avere a mente
ogni evento trascorso. Ci si stacca qui dalla visione della conflazione verso l'alto,
spesso riconducibile a quella che oggi viene definita la “scelta razionale”, in cui
ognuno avrebbe la totale conoscenza di quanto lo circonda e agirebbe di conseguenza
per raggiungere i suoi scopi, quasi che la realtà non potesse agire su di lui. Inoltre
così facendo si riduce l'individuo a colui che compie scelte proposte da altri, e
valutate in base alla razionalità, “raffreddandone” in tal modo i sentimenti e le
emozioni, quasi che non avessimo un cuore e non badassimo anche a dei valori legati
a ciò che “sentiamo” e non a ciò che è proficuo o logico. «E’ il conformismo stesso, afferma Arendt - e cioè l’assunto per cui gli uomini “si comportano” e non agiscono
gli uni rispetto agli altri, che si trova alla radice della moderna scienza
economica»229, per la quale «gli esseri umani non sono più che animali capaci di
ragionare, di “calcolare le conseguenze»230.
Un'altra obiezione è legata al fatto che non esistono solo memorie dichiarative, ma
anche di altri due tipi: la memoria eidetica, legata alle immagini visive e che
permettono il riconoscimento, e la memoria (o capacità) procedurale, il “sapere
come”. Riusciamo a riconoscere una faccia conosciuta o un ambiente in cui siamo
stati solo guardandolo, senza bisogno di parole, perché l'attenzione per quanto
abbiamo intorno è sempre attiva anche senza esserne consapevoli. È a fini di
sopravvivenza che le immagini si imprimono in noi e grazie alle quali decidiamo
come muoverci nelle situazioni. Il corpo si “abitua” a compiere determinate azioni
229
230
H. Arendt, Vita activa, cit., p. 31.
Ivi, p. 210.
10
5
che poi risultano come inscritte nel nostro fare, poiché le compiamo senza “farci
caso”. Con queste ultime due memorie possediamo una sufficiente continuità che ci
permette di riconoscerci come noi stessi. Il ricordare è un'azione attiva in funzione
dell'ambiente che ci circonda, dove risulta di vitale importanza tale capacità, e i
ricordi incarnati possiedono una resistenza maggiore di quelli linguistici. Succede
spesso che, invece di insegnare una capacità, si interviene dicendo “lascia fare a me”:
questo avviene perché la lingua talvolta non ha nemmeno la possibilità di farsi
veicolo di determinati modi di conoscenza che esistono solamente a livello pratico e
di esperienza diretta. La pratica non sussiste dunque solamente a livello pubblico ma
anche, e soprattutto, a livello privato, dove la si impara “sul campo”: la vicinanza con
Bourdieu è qui evidente, se si pensa che anch'egli sostiene la necessità di vivere le
pratiche per poterne capire il funzionamento, e non descriverle dall'esterno con
occhio distaccato. Il passo indietro del ricercatore è, per il pensatore francese, nocivo
alla comprensione perché le pratiche si possono intendere solo nell'atto.
«Attraverso la pratica passiamo al setaccio ciò che è più rilevante»231 afferma Archer
sottolineando così l'importanza che essa riveste nel nostro rapporto al mondo. Da
bambini si è più curiosi e si ritengono importanti elementi che ad un occhio adulto
appaiono insignificanti proprio perché solo nel tempo si arriva a comprendere cosa
serva e cosa sia superfluo per sopravvivere. Non ci viene consegnato un sapere sul
mondo già bello e pronto da adoperare, ma lo creiamo relazionandoci con l'ambiente
un giorno dopo l'altro, a seconda di quello che riteniamo importante per perseguire i
nostri obiettivi.
Prima che a livello linguistico ci spieghino cosa produca dolore corporeo, il nostro
corpo lo comprende da solo ed impara ad evitare le fonti nocive grazie alla
conoscenza pratica dal momento che «le nostre percezioni sensoriali – suggerisce
Archer - sembrano giocare un ruolo nel ricordare ed essere efficaci nonostante siano
prive di supporti verbali»232.
231
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 201.
Ivi, p. 203. Luhmann ritiene che la comunicazione non passi da coscienza a coscienza: non è
l'uomo che può comunicare, solo la comunicazione può comunicare. Essa costituisce una realtà
emergente sui generis. Il termine persona indica quindi, secondo Luhmann, esclusivamente un
riferimento della comunicazione rispetto all'ambiente costituito dal sistema psichico e non rimanda a
nessuna caratteristica peculiare del sistema psichico. Mentre per Parsons il concetto di personalità era
legato ad un vero e proprio modello di individuo, secondo la teoria di Luhmann la persona designa
232
10
6
Nonostante i nostri poteri entrino in contatto con la realtà, non la esauriscono e
perciò rimane sempre qualcosa di peculiare che non può essere raggiunto e
compreso. Siamo consci della nostra fallibilità ma, essendo questa la nostra
costituzione, solo con l'esperienza abbiamo la possibilità di entrare in contatto con
quanto ci circonda. Il ponte che unisce la realtà e la nostra costituzione è lo sviluppo
della pratica incarnata la quale porta con sé i poteri del pensiero. Anzi, è la fonte del
pensare ad oggetti distinti e alle loro proprietà: arriviamo ad essere consapevoli di
tutto questo ben prima dell'acquisizione del linguaggio. Non subiamo passivamente
quello che il mondo ci offre ma lo filtriamo tramite le interpretazioni che si formano
a livello dell'azione pratica e con cui comprendiamo l'alterità dell'ambiente
circostante. La stessa consequenzialità ci viene da una esperienza attiva e scopriamo
di avere poteri e proprietà umani che emergono tra i tanti altri poteri e proprietà con
cui
ci
troviamo
a
rapportarci
nell'esperienza
quotidiana.
Non
si
cade
nell’antropocentrismo: non facciamo dipendere la realtà da ciò che siamo, ma la
osserviamo e dal confronto con essa ci rendiamo conto di possedere nostre
potenzialità. La formazione di spazio, tempo e causalità è insita in questo rapportarsi
pratico con le cose e con l'ambiente: si crea una rete spazio-temporale con relazioni
di causa ed effetto, necessarie a collocare il nostro agire e quello con cui ci
relazioniamo.
La nostra azione nell’ambiente avviene grazie al corpo che siamo, per cui rivestiamo
la parte di centro spaziale: le cose sono in alto o in basso, distanti o vicine rispetto
alla nostra posizione. La stessa causalità è legata alla pratica poiché nel rapporto con
gli oggetti comprendiamo quali siano le azioni da fare per produrre una certa
conseguenza su quanto manipoliamo. Sebbene esista l'orario dell'orologio scandito e
uguale per tutti, il trascorrere delle ore è parte di noi in quanto lo sentiamo sulla
nostra pelle e nel nostro corpo nonché quando agiamo233.
esclusivamente l'identificazione di un individuo in quanto partecipa alla comunicazione. Cfr. N.
Luhmann, Organizzazione e decisione, Bruno Mondadori, Milano, 2005.
233
L'interno del mio corpo non è quell'assembramento di organi che la scienza ci propone. O,
meglio, quello che noi “sentiamo” come interiorità non è esaurito dall'elenco degli organi che sono
racchiusi nella pelle. Anche solo tenendo presente il punto di vista spaziale il nostro corpo si configura
come uno schema in base al quale la nostra postura funge da organizzazione del mondo. So sempre
dove si trova il mio corpo rispetto a me, e partendo da questa sicurezza delineo l'ambiente in cui vivo.
L'alto e il basso sono sempre rispetto a dove che sono io e alle parti del mio corpo, per cui non esiste
uno spazio assoluto: la mia corporeità e la mia collocazione fisica (in quanto carne non in quanto
10
7
«Oggettificazione, come processo di distacco referenziale, significa – afferma Archer
- perciò concepire gli oggetti come in possesso di loro proprietà permanenti peculiari
e soggetti a poteri causali di tipo specifico»234. Per poter riconoscere qualcosa che
non siamo noi ci si deve poter allontanare, e qui il senso di sé risulta fondamentale
per non cadere in una fusione col mondo. Una volta riconosciuta l'alterità si evince
dal rapporto incarnato con l'oggetto che esso resiste ai nostri tocchi, e non possiamo
farne ciò che vogliamo poiché possiede delle sue caratteristiche che non dipendono
da noi. L'identità dell'altro, e la distinzione tra mondo interno ed esterno, non è innata
ma sorge dalla pratica, grazie alla quale facciamo nostri anche i principi logici di
identità e non contraddizione. Possiamo comprendere la spiegazione verbale su tali
principi solamente perché già li conosciamo in senso incarnato, poiché da essi ne va
della nostra esistenza quando ancora il linguaggio non è parte di noi.
La logica non è solamente linguistica ma già a livello pratico mostra la sua esistenza
ed è possibile farla propria: il linguistico nel pensiero di Archer non è una barriera
oltre la quale si dischiude un campo nuovo di conoscenze perché «vi è un primato
reale della pratica che produce una conoscenza ragionata dal punto di vista nondiscorsivo e sottesa anche alla destrezza pratica nell'ambito linguistico»235. Tutta la
nostra conoscenza gira intorno alla pratica che si svolge nell'ambito privato e
individuale, come anche Bourdieu ha modo di affermare, sebbene poi cada in una
codificazione delle stesse pratiche tramite l'habitus, negando in tal modo la libertà
insita nell'azione che invece Archer difende a spada tratta. È lì che sorge il sé,
attraverso le relazioni incarnate col mondo naturale e che nulla devono alla
conversazione con la società. La memoria procedurale resiste per tutta la vita e
ricorrendo ad essa non facciamo che confermare la nostra ipseità, nonché la
continuità della coscienza. Gli stessi principi logici che saranno poi utilizzato
nell'ambito verbale e quindi sociale trovano la loro scoperta in questo settore
oggetto della scienza fisica) mi danno modo di avere una idea di spazio e di posizioni, perché esse
sono la base da cui parto per esperire il mondo. Il mio corpo non è un frammento di spazio ma non
avrei uno spazio se non avessi un corpo, anche perché una esistenza spaziale è la condizione
preliminare di ogni percezione. Non avrei la possibilità di fare esperienze se non fossi collocato in uno
spazio di cui mi rendo conto. Il corpo inerisce le cose ed è necessariamente qui e ora, ossia collocato
temporalmente e spazialmente, entrando in contatto con il mondo immediatamente e senza bisogno di
rappresentazioni o funzioni simboliche. Cfr. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit.
234
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 211.
235
Ivi, p. 215.
10
8
individuale, sempre grazie alla pratica. Non restiamo fermi dove siamo, ma col
tempo pur mutando continuiamo a riconoscerci sempre come noi stessi medesimi:
non si arriva mai ad essere Creature della Società dal momento che permangono
queste attività individuali e private su cui il pubblico non ha effetti. Sappiamo di
essere noi stessi in qualsiasi società ci troviamo, qualunque lavoro facciamo, in ogni
momento. Non ci uniamo semplicemente alla conversazione sociale ma vi
apportiamo la nostra individualità: è questo che ci definisce come agenti e attori
diversi perché, come conferma Archer, «non perdiamo mai la nostra genesi nel senso
permanente di sé che si forma in maniera non-discorsiva attraverso la nostra azione
pratica nel mondo»236.
«Più che parlare consapevolmente una data lingua, - afferma Esposito - essi [gli
uomini] ne sono inconsapevolmente “parlati” in una forma che scava uno iato nella
loro identità soggettiva. Anziché soggetti, gli uomini nascono assoggettati ai vincoli
oggettivi di un linguaggio che li precede e li determina in tutta la loro attività
consapevole»237 e si assiste, prosegue, ad una «continua riduzione, quantitativa e
qualitativa, del lessico a un'unica funzione coincidente con la subordinazione di un
intero popolo alla volontà criminale di coloro che lo avevano reso schiavo»238. In
questa visione l’uomo appare come inerme nei confronti di una lingua che sarebbe
capace di fargli fare ciò che desidera, riducendo al contempo il lessico ad arma e non
lasciandogli il suo ruolo di veicolo delle informazioni a livello verbale. Pur essendo
vero che la lingua riveste nella nostra esistenza un ruolo assai esteso, questo non
deve far pensare ad un suo potere su coloro che la usano. Rimaniamo attivi anche nei
suoi confronti, capaci di ponderare cosa e come dire, in base a quelle che sono le
nostre idee. Non viviamo solamente a livello speculativo, ma anche nell’azione.
«Il realismo insiste sul fatto che nessuna delle nostre proprietà e poteri soggettivi
risultano comprensibili se isolati dalla realtà»239. Quando siamo coscienti, lo siamo
nei confronti di qualcosa: non si ha un'esperienza senza un secondo termine240. La
236
Ivi, p. 218.
R. Esposito, Terza persona, cit., p. 52.
238
Ivi, p. 74.
239
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 219.
240
Il sapere risiede nell'orizzonte che è alla portata dei nostri sensi poiché è con essi che
aderiamo al mondo il quale a sua volta ci aggredisce e investe la nostra soggettività. Le sensazioni
sono legate a ciò che noi siamo in grado di esperire: quello che ci può colpire è una esperienza data e
237
10
9
presenza di una realtà esterna è insita nello sviluppo dell'uomo e dei suoi poteri
nonché nel riconoscersi come un sé, evidenza non riconosciuta dalla conflazione
verso l'alto. Si evita così di dare eccessiva preminenza alla componente personale nel
formarsi dell'identità; abbiamo a che fare in tutta la nostra vita con un ambiente
circostante, non siamo isolati dal mondo e dai suoi oggetti. Immersi in una situazione
ci rapportiamo con quanto incontriamo e in base alla formazione della nostra identità
decidiamo poi cosa ci sta a cuore e lo perseguiamo.
Il linguaggio sorge a livello sociale, è una parte del mondo pubblico con cui abbiamo
a che fare, ma le sue radici stanno nella pratica. Non si parla solamente di pratica in
quanto manipolazione di oggetti ma anche di pratica emotiva intesa come sentimenti
che solo in un secondo tempo saranno espressi a parole tramite il linguaggio. Come
si evince da ciò il linguaggio è referenziato dalla realtà intesa come ambiente ma
anche come pratica umana nei due sensi esposti sopra.
Il linguaggio è un tentativo di esprimere ad altri quello che ci è proprio, o di
descrivere quanto ci circonda. Le stesse metafore, le similitudini e altre figure
retoriche similari non fanno che confermare quanto detto, poiché si cerca un appiglio
in qualcosa d'altro che non sia la parola per riuscire ad esprimere qualcosa di
prettamente pratico. «Mentre il linguaggio – sostiene Archer - è una pratica, le
pratiche degli agenti non hanno la medesima estensione del linguaggio, ma si
estendono al di là di sé. Esiste un ordine pratico che è più esteso di quello
linguistico»241. Il linguaggio non può parlare in nome delle esperienze perché esse lo
inglobano, lo superano: fanno parte di un altro livello più esteso. Non servono le
parole che definiscono gli oggetti per renderli importanti ai nostri occhi: trovandoci
davanti ad un ostacolo ci rapportiamo ad esso qualunque sia il nome che ha; dovendo
usare un attrezzo di cui ignoriamo il nome proviamo a capirne il modo di funzionare
tramite un approccio pratico; una tastiera di un pc è importante in quanto ci permette
di scrivere e non perché la chiamiamo “tastiera”. Prima si utilizzano le cose, poi si dà
loro un nome che comunque non cambia la loro importanza per noi, che rimane
legata al rapporto pratico.
non creata da noi. Nonostante ciò una sensazione non è registrata da noi come un qualità che colpisce,
modificandolo, un corpo inerte, ma la sentiamo nella nostra esistenza come evento attivo che ci cala
nell'ambiente. Cfr. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit.
241
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 226.
11
0
Noi, in quanto esseri umani, siamo sistemi aperti perché tutte le nostre capacità
emergono dal rapporto con la contingenza dell'ambiente. All'inizio quello che sorge è
un saper fare, un “know-how” (sapere come) dipendente dalla natura e da noi. Poteri
e responsabilità incarnate hanno sì effetti causali ma devono sempre tener conto delle
limitazioni poste dalle cose. A seconda della natura degli oggetti, inoltre, si possono
veicolare diverse pratiche. Noi agiamo in un determinato modo entrando in relazione
con un oggetto, dal momento che non possiamo farne tutto quello che vogliamo: ci
sono vincoli indipendenti da noi cui ci si deve adeguare (ogni oggetto ha le proprie
caratteristiche da assecondare per poterne ricavare un uso proficuo).
Altre sono anche le differenze che esistono tra il sapere pratico e quello linguistico
nella tesi sostenuta da Archer, come il modo in cui si impara, poiché «la forma e la
struttura del sapere pratico sono completamente diverse, che giungono a blocchi o
stoccaggio piuttosto che in sequenze lineari quali le frasi, che sono immagazzinate
attraverso la loro incorporazione materiale, piuttosto che nella memoria dichiarativa
e che tutti i sensi possono accedervi»242. Se diverse sono le modalità di acquisizione
dei diversi saperi, è lecito affermare che il sapere pratico non è facilmente
esprimibile con le parole. Sebbene sia possibile descriverlo, ciò non implica che esso
sia discorsivo. Spiegando come si guida un'auto, anche scendendo in ogni minimo
particolare, non si insegna effettivamente a “guidare”: solo con un approccio pratico
tale capacità diviene parte di noi. Il sapere pratico apre un campo di realtà più ampio
e ci definisce: le «nostre relazioni umane con le cose (animate e inanimate, naturali e
artificiali) aiutano a renderci quello che siamo come persone»243.
2.3 La stratificazione della realtà: ordini e differenziazione
«Tutto il sapere – propone Archer - comporta un’interazione tra proprietà e poteri del
soggetto e proprietà e poteri dell’oggetto, che questo consista in ciò che possiamo
imparare a fare in natura (sapere incarnato), nelle capacità che possiamo acquisire
nella pratica (sapere pratico) o le elaborazioni proposizionali che possiamo fare nel
Sistema Culturale (sapere discorsivo). Qualsiasi forma di sapere risulta così dalla
242
243
Ivi, p. 229.
Ibidem.
11
1
confluenza tra i nostri poteri umani (Poteri Personali Emergenti, PPE), e i poteri della
realtà: naturale, pratica e sociale»244. Raggiunta la consapevolezza del sé e
riconoscendoci come i medesimi nel tempo avviene un secondo incontro con ciò che
ci circonda e che necessariamente interagisce e segna la nostra esistenza. Come noi
siamo stratificati anche la realtà presenta diversi livelli con cui abbiamo a che fare
per tutto il corso della nostra vita, e tra cui dobbiamo stabilire delle priorità.
Ciascuno dei tre livelli plasma le situazioni in cui si trova il soggetto fornendo
limitazioni o abilitazioni: sta poi ad ognuno, conseguentemente ai suoi progetti,
stabilire a quale consegnare maggiore importanza.
L’ordine naturale
Ogni essere umano possiede un sapere incarnato che non è distinto da quello degli
animali. Il fattore di diversificazione nell'opera di Archer risiede nello «sviluppo
della cultura materiale che rappresenta allo stesso tempo la sedimentazione
dell’ordine pratico»245. Il sapere incarnato ha tre caratteristiche:

è fondato sull’interazione a livello senso-motoria con la natura intesa come
animata e inanimata;

lo si possiede senza averne contenuto cognitivo, il quale non è separato dalle
operazioni fisiche;

è esercitato solo nel contatto diretto con la natura246.
Attraverso la scoperta corporea si arriva ad acquisire questo sapere che non è scritto
sui libri e non è spiegabile linguisticamente; corrisponde più ad un “know-how”
piuttosto che a un “sapere che” tipico del pensiero. Ben diverso è saper fare una
determinata azione piuttosto che averne la conoscenza linguistica. La “frustata” del
244
Ivi, p. 252.
Ivi, p. 231.
246
Anche secondo Merleau-Ponty solo partendo da un mondo generale a cui tutti apparteniamo
possiamo poi ritirarci nella sfera particolare poiché molte delle ragioni che ho non sono create da me
ma dipendono dalla mia collocazione. Il sociale non è un oggetto che incontriamo come gli altri
oggetti oppure che sta in noi come oggetto di pensiero ma esso è già esistente indipendentemente da
noi quando lo incontriamo e ne abbiamo coscienza e funge da sollecitazione e da modo di coesistenza
che stimola gli individui. Cfr. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit.
245
11
2
giocatore di basket quando tira il pallone può essere scritta, descritta e narrata a
parole fin in ogni suo minimo dettaglio da ogni manuale sportivo: «bisogna sapere
che la forza del tiro non proviene dalle braccia, bensì dal polso e dalle gambe, quindi
queste ultime hanno un ruolo importantissimo nella possibile realizzazione di un
canestro. La mano debole (ovvero quella che non tira) va tenuta di fianco al pallone;
tuttavia molti giocatori usano metterla sotto per avere maggiore stabilità. I pollici
della mano debole e della mano forte devono formare una T, anche se questa non è
una regola generale, infatti, per i giocatori dotati di grandi mani risulta faticoso,
quindi spesso tralasciano questo particolare. Indice e medio devono formare una V, e
mentre si sta per tirare bisogna assicurarsi che l'indice della mano forte passi davanti
all'occhio dello stesso lato e quando si vede sotto la palla, il ferro del canestro, si può
dare il via alla cosiddetta frustata, ovvero quello scatto del polso della mano forte che
permette di avere la giusta parabola e la giusta rotazione. Altra cosa importante è
questa: il tiro non va effettuato con la mano intera (infatti la palla non deve toccare il
palmo della mano), bensì con i polpastrelli che, come detto precedentemente,
assicurano una giusta rotazione ed una giusta parabola. Molto importanti per
indirizzare il tiro a canestro sono l'indice e l'anulare; infatti hanno un ruolo
fondamentale per non mancare il canestro. Da ricordare che il gomito del braccio
forte (ovvero quello da cui parte il tiro), deve essere piegato a 90 gradi e anche il
polso, a sua volta, deve avere questa angolatura. Per garantire un maggiore
equilibrio, le gambe devono essere aperte quanto la larghezza delle spalle e il gomito
della mano forte deve essere allineato con la gamba dello stesso lato.
Ora passiamo ad un descrizione più completa della meccanica di tiro: mentre le
gambe si piegano, la mano forte e la mano debole iniziano a disporsi come sopra
descritto, e quando il piegamento delle gambe sarà terminato si sentirà nella mano la
forza necessaria per effettuare il tiro; con la frustata del polso della mano forte si
sfrutta questa forza in modo tale da ottenere un tiro più che rispettabile»247. Anche se
tale descrizione la si conosce a memoria ciò non farà si che nel prossimo draft della
NBA noi saremo la prima scelta. Il possesso incarnato di un sapere pratico si crea in
altro modo che non sia la lettura o lo studio: lo si deve “sentire” il tiro. Se ci
mettessimo a posizionare le mani come descritto sopra, badando anche alle gambe, e
247
http://it.wikipedia.org/wiki/Pallacanestro#Tiro
11
3
osservando il braccio mentre si alza per scoccare il tiro, ci impiegheremmo cinque
minuti solo per essere nella posizione esatta. Come sempre accade quando ci si
impone una postura che non “sentiamo” come nostra, molto probabilmente avremmo
una rigidità e una scarsa fluidità dei movimenti perché solamente esercitandole e
“sentendole” come proprie certe azioni risultano sciolte. Quante volte davanti ad un
gesto che non conoscevamo la domanda non è stata “spiegami come si fa” ma
piuttosto “fammi vedere come si fa”? Le parole non riescono a veicolare una pratica
perché nascono esse stesse come un sottoinsieme delle pratiche che quindi non
possono esaurirsi nel discorsivo.
Fin da subito la pratica riveste un ruolo importate nella nostra formazione. Le
pratiche che si imparano da bambini non rimangono legate a quella particolare fascia
di età ma sono riprodotte poi anche da adulti e nelle generazioni successive.
L’importanza di tale rapporto incarnato con l’ambiente è tale che per Archer «uno
degli effetti dell’intercomunicazione tra i saperi, pratico e incarnato, è che i manufatti
materiali (“girelli” per insegnare ai bambini a camminare, campi giochi e giocattoli,
come le tavole delle attività Fisher-Price) sono ora inseriti nell’ambiente del bambino
per accelerare l’apprendimento incarnato»248. Invece che attendere l’incontro nel
mondo naturale con determinate situazioni si immettono artificialmente dei manufatti
nella vita pratica del bambino in modo da permettergli di compiere esperienze il
prima possibile poiché risulteranno fondanti per la formazione del sé e del suo sapere
incarnato. Non si attende che la natura ci presenti dei problemi ma li creiamo noi
anche se il ruolo da essa rivestito rimane sempre importante: «la natura – ricorda
Archer - veicola le informazioni relative alla pratica possibile, dato il modo in cui
essa è e noi siamo, che viene rivelato nelle nostre relazioni»249. Tramite la relazione
arriviamo a capire ciò che siamo e ciò che è l’altro da noi, e come l’altro sia
rapportabile al nostro agire. Azione e reazione sono insite nella conoscenza pratica e
nella vita esperienziale come mezzo per il sapere incarnato. Il sapere incarnato è
spesso tacito senza nulla togliere all’intenzionalità poiché il fatto di compiere delle
azioni “senza pensarci” implica un sapere che è nel corpo e non nella mente e che
quindi non necessita di una formulazione interiore consapevole.
248
249
M. S. Archer, Essere umani, 2007, cit., p. 232.
Ibidem.
11
4
Michael Jordan quando tirava un pallone a canestro e metteva a segno dei punti (fatto
che si è ripetuto per un certo numero di volte) non pensava alla posizione della mano
o dei piedi, ma sentiva che si faceva così e calibrava il tiro senza calcolare l’angolo
di partenza del pallone o la forza impressa alla sfera: tirava e faceva canestro perché
“sapeva come” si fa. Si fosse messo a badare alla sua postura sarebbe probabilmente
apparso impacciato e goffo perché non “naturale”: il senso dell’azione è
incomunicabile a parole ma può essere inteso solamente nella pratica stessa250.
Esiste un modo scorretto di fare le cose che segnala di rimando la presenza di un
modo giusto e quindi di una norma incarnata. Gli errori o i passi falsi, nella visione
di Archer, si presentano alla nostra coscienza «a partire dalle reazioni dei corpi e
non, viceversa, perché la mente ce lo dice»251; il corpo ci fa sapere cosa vada bene e
cosa no senza bisogno delle parole ma semplicemente “facendoci sentire”
l’adeguatezza o meno. È la fallacia che esibisce la regola: solamente sbagliando ci
rendiamo conto che stiamo seguendo delle regole. Non dobbiamo ridurre la
conoscenza degli errori solamente al rimprovero fattoci da altri quando notano che
stiamo sbagliando. Noi stessi agendo e sbagliando capiamo che la cosa non va fatta
in quel modo ma in un altro e comprendiamo così l'esistenza di una forma adeguata
di agire.
«A partire dalla sperimentazione corporea che costituisce le nostre relazioni naturali,
nasce l’atteggiamento teorico incarnato»252, ha modo di affermare Archer. C’è una
gradualità nella conoscenza che passa dal livello pratico a quello teorico. Nel
rapporto con la natura abbiamo a che fare con molteplici incontri i quali segnano la
nostra conoscenza dell’ambiente. Non si sviluppa solo una associazione del tipo
stimolo-reazione ma anche la consapevolezza dell’esistenza di diversi tipi di oggetti.
Attaccandomi ad un ramo e cadendo al suolo per la sua rottura non si elabora solo
l’associazione appendermi-cadere ma anche quella dell’esistenza di vari rami e di
varie consistenze. Ciò mi porta al “provare” il ramo la volta successiva che mi si
presenta la medesima situazione. Così da una esperienza pratica limitata estendo la
stessa connessione causale ad altri eventi simili, quasi elaborando una teoria in
250
251
252
Cfr. P. Bourdieu, Il senso pratico, cit.
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 234.
Ivi, p. 235.
11
5
merito253. Il pratico funge da base al teorico che lo utilizza a fini di conoscenza
discorsiva.
Secondo Archer «le capacità senso-motorie implicate in tutte queste pratiche,
possono esse stesse diventare incarnate come una seconda natura»254. Assumendo la
padronanza di un gesto esso arriva a far parte di noi per cui lo si compie senza
nemmeno pensarci ma “viene naturale”. Il diverso livello in cui avviene questa
conoscenza è dimostrato dal fatto che non si riesce a spiegare ad un’altra persona
come si possa fare lo stesso gesto, se non a livello imitativo. Con le parole non si
trasportano le pratiche incarnate ma le si descrive solamente, rendendo impossibile
l’insegnamento a livello linguistico.
C’è stata una prima spiegazione su come si facesse una cosa, ci hanno spiegato come
ci si veste prima che diventasse una cosa “ovvia” (ora come ora risulta una domanda
senza senso quella sul “come ci si veste”). Prima di scendere nel livello incarnato
l’azione è passata dal livello pratico, e quindi esiste «un’interfaccia tra l’ordine
naturale e quello pratico e tra le loro rispettive forme di sapere»255. Archer, contro
Bourdieu, sostiene la possibilità di un passaggio delle conoscenze tra i vari livelli del
reale anche se ovviamente ognuno con le sue modalità.
Nel momento in cui un individuo compie per la prima volta una impresa
performativa, dall’esterno il pubblico ne richiede una ripetizione permanente,
inserendo così nella pratica l’ordine discorsivo che la desidera ancora. Questo
avviene perché il pubblico esterno percepisce l’utilità della prestazione incarnata e
quindi la perpetua e la diffonde in chi si applica in essa. Per favorire ciò si assiste
anche all’intervento della cultura materiale con l’elaborazione di manufatti che
stimolino proprio quelle pratiche che si ritengono importanti. Senza attendere che la
natura offra il pretesto per lo sviluppo di un atto performativo lo si richiede
artificialmente per favorirne la scoperta e l’incorporazione.
Merleau-Ponty sostiene l'esistenza di un “mondo di pensieri” inteso come sedimentazione
dei nostri concetti e giudizi acquisiti, e pure una mondo come duplice struttura di sedimentazione e
spontaneità che formerebbero la coscienza. La sedimentazione può essere vista come una acquisita
capacità di rispondere a certe situazioni in certi modi validi e ancorati nel corpo. La vita della
coscienza è intesa come un insieme di proiezioni del passato, del futuro, dell'ambiente; ci situa sotto
tutte questi aspetti che l'unità dei sensi riconduce a noi. Cfr. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della
percezione, cit.
254
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 236.
255
Ibidem.
253
11
6
La presenza di strumenti, propri della cultura materiale ed emblema delle capacità
umane, non fa che amplificare capacità già insite in noi, oppure integrare atti che
possiamo compiere. Lo stesso apprendistato avviene mediante la codificazione
materiale degli oggetti con cui siamo in contatto. «Non vi è pertanto bisogno di
speculare circa le dimostrazioni incarnate che sono afferrate e tradotte nella cultura
materiale dall’ordine pratico»256 dice Archer. Riconoscendo il ruolo fondante che il
sapere incarnato riveste per noi lo si stimola appositamente attraverso la messa in
opera, da parte dell’ordine pratico, di quegli strumenti che sono necessari per attivare
le nostre potenzialità.
Rimane da spiegare la modalità con cui si può applicare il sapere discorsivo alla
pratica. Quando si assiste alla nascita di una nuova teoria l’effetto iniziale che si ha è
quello di una messa in dubbio delle basi, sempre a livello teorico, della teoria
precedente, la quale sottende alle pratiche che sono già stabilite e utilizzate. La nuova
teoria è tale perché elabora a livello del sapere discorsivo una alternativa, ma non
dice cosa fare al posto della pratica esistente che sarebbe superata. Da parte nostra
non troviamo motivazioni plausibili per abbandonare un agire funzionale e stabilito:
serve dunque un passaggio intermedio. Le nuove teorie, secondo Archer, entrano
nell’ordine pratico «mediante la loro applicazione quali aggiunte funzionali alla
cultura materiale. […] Le scienze applicate e la tecnologia sono meccanismi
materiali di transizione dal sapere discorsivo a quello pratico»257. Tramite i nuovi
manufatti con cui ci veniamo a rapportare siamo costretti, volendoli utilizzare, a
capire come funzionano e quindi a compiere una sorta di nuovo apprendistato con
essi in modo da appropriarci del loro utilizzo. Il semplice fatto però di imparare ad
usare nuovi oggetti non implica forzatamente un progresso, che si ha invece
solamente nel caso in cui il sapere discorsivo applicato arriva ad eguagliare le
pratiche precedenti o a superarle. Giunti a ciò salta all’occhio l’insufficienza delle
vecchie pratiche, le quali vengono progressivamente superate in favore di quelle
nuove, più funzionali. Anche in questo caso l’ordine pratico è il vertice del sapere
che si forma negli altri due ordini.
Una importanza fondamentale è assunta per l'uomo dal rapportarsi col fare e non con
256
257
Ivi, p. 259.
Ivi, p. 260.
11
7
i significati. Questo risulta evidente dal fatto che molta della conoscenza che noi
abbiamo non ci viene dall'ordine discorsivo e nemmeno è esprimibile o traducibile
tramite esso. «Sono le nostre azioni nel mondo che ancorano i significati e non
viceversa»258, come dice Archer. Gran parte dei nostri caratteri vedono la luce
solamente grazie all'esperienza e il loro emergere è necessario per poter agire con
successo anche nei livelli successivi (successivi non in senso di importanza ma
temporalmente successivi). L'essere umano che risulta capace di ermeneutica deve
conoscere molto di sé, del mondo e del reciproco rapporto, ottenendo ciò con la
prassi.
«L'essere umano precede, tanto logicamente quanto ontologicamente, l'essere
sociale»259. Nasciamo a livello naturale e grazie alla pratica ci avviciniamo al livello
sociale dove sorgerà la nostra identità sociale, ma solo successivamente a quella
personale. La nostra unicità emerge dalla costellazione di premure che ci è propria, la
quale è raggiungibile dopo un'esperienza consapevole nei tre ordini della realtà,
possibile solamente avendo un continuo senso del sé creante memoria e sapere
procedurale.
L’ordine pratico
Il sapere pratico, nella definizione che ne dà Archer, «è regolato dalle proprietà
oggettive della cultura materiale»260 e si acquisisce nel rapporto pratico con la cultura
materiale, fatto che lo contraddistingue dal sapere incarnato che non necessita che del
corpo per esistere. Qui invece entrano in gioco altri fattori quali i manufatti e tutte le
creazioni della cultura materiale. Quattro sono le caratteristiche di questo tipo di
sapere:

implica un processo attivo nell’operare essendo esso performativo. Si
presenta come procedurale dando il suo contributo nella formazione del sé;

è implicito in quanto incorporato come capacità. Il punto di vista referenziale
con cui si relaziona con l’oggetto è il corpo;

258
259
260
rappresenta la realtà compresa tramite l’attività e la manipolazione dei
Ivi, p. 270.
Ibidem.
Ivi, p. 236.
11
8
manufatti quindi risulta tacito. Inoltre nel rapportarsi con le cose le
problematizza riguardo al loro funzionamento, alle loro potenzialità e ai loro
limiti, e dalle risposte si sviluppa una capacità;

si presenta come una estensione del corpo e dei suoi poteri.
Questo ultimo punto «ha gli effetti di più lunga portata, dato che i manufatti implicati
comprendono in definitiva i macchinari di produzione, i mezzi di trasporto, i
laboratori scientifici, la televisione e così via, e portano così all’elaborazione
progressiva delle capacità che costituiscono il sapere pratico nel tempo»261. Mentre il
sapere incarnato risulta lo stesso nel tempo, dal momento che abbiamo a che fare col
corpo e con la natura sempre nei medesimi modi, il sapere pratico si evolve e cambia
assieme alle innovazioni tecnologiche. Si giunge al sapere pratico tramite
l’apprendistato, legato all’oggetto di cui si impara l’uso262, e non con la scoperta
individuale come nel sapere incarnato. Le cose con cui ci si rapporta possiedono
poteri e proprietà non riducibili a quelle umane, che sorgono dai rapporti che
costituiscono i manufatti in sé. Il potere di una vite sta nel suo essere una vite: la
filettatura che permette il suo fissaggio girandola in senso orario; il fatto che la si
possa avvitare con un cacciavite a stella o liscio; la sua lunghezza che le permette di
reggere determinati pesi; la sua conformazione che la rende adatta al legno, al ferro o
ad altri materiali. Tutto questo è vero indipendentemente da noi, e se vogliamo usare
una vite dobbiamo adeguarci a queste caratteristiche.
I manufatti possiedono l’intenzione di farli funzionare ma nulla altro per quel che
riguarda chi li ha creati. Non sono portatori di sensi ulteriori ma solo del loro essere
attivati per fare qualcosa. Una volta costruito, il manufatto si stacca dal suo creatore
producendo anche conseguenze non previste. «La cultura materiale “sfugge” ai
propri creatori. I manufatti – prosegue Archer - diventano indipendenti dai propri
261
Ivi, p. 238.
Heidegger affronta il tema del rapporto con le cose, affermando che l’oggetto si mostra
solamente tramite il suo uso, in seguito al quale chi agisce entra nell’oggetto. Addirittura sostiene che
la contemplazione sia una via degradata per accostarsi alle cose, poiché solamente usandole si
arriverebbe a farne parte. Ciononostante la funzionalità di esse resiste oltre a noi; ogni oggetto
interroga la mano di chi si rapporta ad esso, chiunque esso sia. L’utilizzabile incontrato nel mondo
permette di entrare in contatto con esso; la descrizione delle cose viene riferita a chi le deve usare
come essere umano. Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 2005.
262
11
9
creatori, perché i significati pratici sono veicolati dagli oggetti stessi e i loro poteri
causali vi sono inscritti e possono non essere stati avvertiti, o avvertiti solo in parte,
dal loro primo inventore»263. In breve i manufatti hanno in sé degli indizi e delle
caratteristiche disposizionali che ci fanno comprendere come li si usa oltre quello che
poteva essere il volere del loro creatore. Ci “invitano” ad usarli in una determinata
maniera, suggerendo come li si deva maneggiare per essere funzionali.
Anche il sapere pratico, come ogni altra forma di sapere, è segnato da limitazioni e
abilitazioni. In base ad essi il nostro rapporto con le cose cambia e siamo guidati in
una direzione data dall’oggetto stesso. Il sapere pratico, in quanto estensione del
corpo umano, è incoraggiato poiché aumenta e amplifica le nostre capacità. Via via
che acquisiamo la padronanza delle pratiche esse si accumulano in noi e «l’effetto
cumulativo – nella visione di Archer - consiste nel far avanzare sempre di più il
nostro sapere pratico, allontanandolo dall’ordine naturale, nel momento in cui i nostri
poteri corporei estesi sono indirizzati in maniera crescente verso la canalizzazione e
il dominio della natura»264. Lo scarto cui si assiste riguarda il legame con la natura:
mentre nel sapere incarnato essa è la fonte della conoscenza, nel sapere pratico essa
diventa l’obiettivo dell’azione manipolatoria umana che tenta di plasmarla a seconda
dei suoi fini. Ma, come si diceva poco fa, anche l’ambiente naturale ha le sue
proprietà e i suoi vincoli per cui ci si deve confrontate con essi quando si agisce; non
abbiamo la possibilità di fare quello che ci pare con il livello naturale.
Entrando nell’ambito pratico acquisiamo conoscenza e padronanza di sé che sono
diverse da quelle che emergono dal rapporto con la natura. Mentre il sapere incarnato
entra in noi attraverso la ripetizione, quello pratico ha bisogno del duplice
meccanismo di assimilazione e accomodamento di Piaget265: da una parte l’ambiente
esterno deve essere assimilato alla sua struttura cognitiva (affrontando manufatti che
non si conoscono a nulla serve il sapere discorsivo; è necessario piuttosto “prenderci
la mano”) e dall’altra la struttura cognitiva esistente si deve adattare alla novità
dell’ambiente in cui sono presenti i manufatti. Un mulettista che da molto fa il suo
lavoro non deve guardare ogni volta che compie una manovra con le forche quale sia
la leva esatta da tirare o da spingere: sa cosa deve fare. Inoltre ha “occhio” per
263
264
265
Ivi, p. 239.
Ivi, pp. 241-242.
Cfr. J. Piaget, La costruzione del reale nel bambino, cit.
12
0
quando deve infilare le forche sotto il bancale e in una manovra si trova già nella
posizione adatta. Stesso discorso vale per la semplice guida del mezzo: avendo
spesso le ruote sterzanti posteriori l’angolo di curva è diverso da quello delle
automobili e noi ci troveremmo in difficoltà a manovrare il carrello elevatore in
piccoli spazi.
«Una volta che una capacità performativa sia stata acquisita, se essa non viene
impiegata come se fosse una seconda pelle, ne segue allora un comportamento
goffo»266 afferma Archer. Mentre le pratiche incarnate rimangono parte di noi per
sempre, essendo esse appunto “incarnate”, il sapere pratico ha bisogno di essere
mantenuto vivo oltre che di essere imparato tramite apprendistato. Ma una volta che
si è “allenati” nel compiere una certa azione essa ci risulta spontanea e anzi diventa
controproducente mettersi a pensare a quello che si sta facendo mentre lo si fa poiché
si rischia di inceppare il “meccanismo”. È tutta una questione di apprendistato
pratico e non di nozioni da fare proprie.
Sebbene nella pratica si assista ad un profondo inserimento dei soggetti nelle attività
e nell’oggetto non si deve cadere nella negazione della differenza tra soggetto e
oggetto. Non si ha una commistione perfetta: il realismo critico coinvolge il dualismo
analitico secondo il quale, come dice Archer, «vi sono proprietà indipendenti dal
soggetto e dall’oggetto, alcune delle quali risultano assolutamente irrilevanti per
l’attività e altre che rappresentano condizioni di possibilità della pratica»267. Il colore
di un foglio o del pallone da basket non influiscono sul fatto che gli si possa scrivere
sopra o sulla possibilità di finire a canestro, come invece influiscono il tipo di carta o
le dimensioni del pallone. A seconda dell’ambito in cui ci si relaziona agli oggetti si
hanno una serie di caratteristiche che ci serve conoscere e risultano rilevanti mentre
altre che, pur essendo parte integrante dell’oggetto in questione, non influiscono
sull’uso che ne facciamo. L’esito con cui tentiamo un’azione e l’impegno che ci
mettiamo sono frutto della riflessività umana che dà il proprio contributo ad una
buona prestazione. Se riteniamo importante imparare a giocare a golf ci metteremo
più impegno per far nostra la pratica che sta insita nel gioco, in caso contrario ben
presto lasceremo perdere perché gli scarsi risultati non suffragati dall’impegno non ci
266
267
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 242.
Ivi, p. 245.
12
1
faranno proseguire su tale strada.
L’ordine sociale
Affrontando l’ordine sociale è importante, ricorda Archer, «attenersi strettamente al
dualismo analitico tra il corpus, che costituisce la cultura proposizionale, e le
relazioni discorsive tra i suoi utilizzatori umani, perché è la loro azione reciproca a
provocare l’elaborazione del sapere discorsivo stesso»268. Il sistema culturale (SC) ha
una sua esistenza oggettiva e relazioni logiche autonome tra i suoi elementi, distinte
da quelle a livello socio-culturale (s-c) ossia al livello dei diversi gruppi di pensatori,
che sono influenzate dalle prime. In seguito a ciò gli incontri culturali di relazione tra
soggetto e soggetto sono da distinguere in tutto il processo e ne deve essere
analizzata l’azione reciproca. Esiste sempre una relazione a livello causale tra i due
livelli che deve essere studiata in quanto rivelatrice di proprietà e poteri.
In Lockwood abbiamo una divisione tra integrazione sistemica e integrazione
sociale, ognuna coi suoi poteri. Il sistema culturale SC è un sottoinsieme della cultura
in generale intesa come elementi capaci di essere compresi da qualcuno. La
peculiarità del SC è che i suoi elementi rispondono al principio di noncontraddizione e sono indipendenti da un soggetto conoscente (il codice di
Hammurabi, prima di venire scoperto, era comunque parte del SC). C’è poi il livello
socio-culturale che dipende dall’uniformità prodotta tramite l’influenza ideazionale
di un gruppo di persone su un altro. Ai due sistemi sono dunque associate due diverse
nozioni: il SC ha una coerenza culturale che bada alla logica, mentre il s-c riguarda
pratiche uniformi a loro volta legate ad un consenso causale. SC è il prodotto del s-c
attuale, il quale solo mettendo in atto le idee del SC lo rende efficace. Tali idee si
confrontano coi progetti degli individui e possono sussistere differenze
nell'omogeneità dei due livelli.
Le logiche dei diversi SC creano situazioni molto diverse tra loro plasmando i
contesti delle relazioni discorsive e a loro volta condizionano i diversi modelli di
sviluppo dell’ideazione. L’agente trovandosi in situazioni diverse reagisce in maniere
diverse a seconda del suo credo e delle pressioni che riescono a toccarlo. Rimane
sempre il presupposto che l’agente non entra nelle logiche situazionali senza portare
268
Ivi, p. 247.
12
2
niente con sé, ma possiede già quanto acquisito negli altri due livelli.
Gli esseri umani hanno degli interessi materiali e sono coinvolti nel piano
dell’ideazione della cultura proposizionale del proprio tempo. Quale che sia la
posizione nei confronti del SC vigente, l’individuo sceglie se appoggiare lo status
quo o tentare un cambiamento: la decisione di ognuno conta per il risultato, anche se
le trasformazioni maggiori, siano essere a favore di una morfostasi o di una
morfogenesi, avvengono a livello di agire collettivo e non a livello di agire primario.
Ovviamente il SC ha delle proprietà sue e nessuno può esserne immune, ma è proprio
dalla posizione che si assume nei suoi confronti che sorgono le varie differenze in
seno alla società.
Relazioni tra tipi di sapere
La comunicazione tra i tre tipi di sapere (naturale, pratico e discorsivo) è continua nel
corso dell’esistenza, viste le loro differenti capacità che permettono un variegato
rapporto con la realtà. Resta il fatto che, nonostante le possibili vicinanze tra i tre tipi
di sapere, persiste sempre il bisogno di un mezzo per permettere loro di entrare in
comunicazione, essendo ognuno dotato di capacità e poteri diversi. Sapere incarnato
e sapere pratico sono orientati per lo più verso una conoscenza strumentale,
chiedendosi il funzionamento della cosa che si ha davanti, mentre il sapere discorsivo
passa al livello dell’astrazione per definire i poteri causali implicati, volendo fornire
una spiegazione.
In questo rapporto tra teoria e pratica il peso sta tutto dalla parte della pratica poiché
secondo Archer gli agenti «non cederanno una pratica ben-collaudata solo in cambio
di una nuova teorizzazione sperimentale (e fallibile). Piuttosto è l’ordine discorsivo a
dover dimostrare il proprio valore accrescendo la pratica»269. La scienza e le nuove
teorizzazione devono dimostrare la loro funzionalità prima di entrare nella pratica, la
quale non viene ceduta tanto facilmente. Essendo essa in noi tramite l’apprendistato
sarebbe lungo il processo per imparare un nuovo modo di agire che alla fine si
potrebbe anche rivelare inutile o limitante. Perciò non basta rimanere a livello
discorsivo per poter incidere nella pratica degli individui, la quale è ancorata ad una
comodità intesa come un essere funzionale per raggiungere determinati obiettivi.
269
Ivi, p. 253.
12
3
Quando di presentano nuove opportunità legate ad una pratica discorsivamente
informata si apre un nuovo campo fenomenico, come nel caso delle innovazioni
tecniche: sorgono sfide per l’incorporazione di queste nuove
procedure. Anche
novità all’interno del sapere pratico portano al medesimo problema per quel che
riguarda il sapere incarnato, ossia «che esso possa – sostiene Archer - essere
padroneggiato in maniera incarnata»270, rendendo naturale un processo di attività
manuale che con l’apprendistato si impara.
Può anche accadere che un nuovo “senso per”, parte di una certa attività, possa
essere trasmesso in maniera soddisfacente fino a giungere al sapere discorsivo, dove
viene acclarato e definito anche in tal maniera.
Il centro di tutti questi rapporti risiede nella pratica che fa da fulcro per tutto il resto,
essendo tra l’altro anche a metà nella totalità dell’azione (incarnazione-praticateoria). Parlando di tecnologia elaborata a livello discorsivo, la pratica fa da tramite
verso il sapere incarnato e consente l’accrescimento pratico di una elaborazione
teorica.
Bourdieu non sarebbe d’accordo con questa formulazione271. Egli ritiene infatti che
l’ambito pratico e il sapere scientifico non possano essere reciprocamente traducibili,
rimanendo ognuno stretto nel proprio settore, basandosi sul fatto che operano con
“logiche” diverse e incompatibili. Il punto focale è che, mentre per Bourdieu la
difficoltà sottolineata è inerente alla questione epistemologica, in Archer la
comunanza tra i livelli di realtà è segnata a livello ontologico. Così solamente la
seconda può parlare di comunicazione tra i vari strati del sapere, mentre il primo no.
In Bourdieu la pratica è propria degli strati sociali che non hanno potere, il quale si
esprime a livello discorsivo, relegandola così ad un livello inferiore. L’errore qui è
evidente se si considera il fatto che tutti entriamo in contatto con l’ambito pratico, e
che esso risulta fondamentale non solamente all’interno dei rapporti di potere ma
anche nella definizione di chi siamo.
270
271
Ivi, p. 254.
Cfr. P. Bourdieu, Per una teoria della pratica, cit.
12
4
Capitolo 3
Una nuova concezione di agire
3.1 Stratificazione degli agenti: le emozioni
Delineata la formazione di un senso del sé duraturo, il quale ci permette di
riconoscerci come individui in possesso di poteri e capacità, resta da spiegare come
avvenga l'agire a livello sociale. Esistono numerose proprietà delle persone che, pur
essendo intrecciate alla socialità, non sono riducibili ad essa. Nonostante (o forse
grazie a) ciò tali proprietà formano l'identità personale. Per il nostro essere umani
abbiamo una vita interiore, una comunione ininterrotta con noi stessi e una continua
riflessione su quanto ci accade attorno. Ci rendiamo inoltre conto del monitoraggio
che compiamo nei confronti delle situazioni esterne. Oltre alle semplici risposte che
ci diamo nell'affrontare un evento, si presentano dei “commenti emotivi” legati ad
esse: sono parte integrante dell'azione. Tale vita interiore che ci appartiene gode di
una relativa autonomia e per questo si può analizzare come proprietà emergente delle
persone (PEP), la quale genera l'identità personale. Solo in un secondo momento
entra in contatto con la socialità sotto più aspetti, ma preesiste e non è riducibile ad
essa.
Tale vita interiore è costituita dalle emozioni che sorgono nei confronti dei livelli del
reale, e ci permette di elaborare il nostro modus vivendi. Sulle reazioni che quanto ci
circonda suscita in noi organizziamo come agire e quali sono le nostre priorità, ma
per arrivare a ciò passiamo attraverso la conversazione interiore che media, elabora,
affronta e raffina le emozioni. Schematizzando la connessione che avviene tra
emozioni e conversazione interiore al fine di passare dal primo al secondo ordine si
possono estrapolare tre punti:

i vari gruppi di emozioni rappresentano commenti alle nostre premure e
sorgono dai rapporti che costruiamo con i tre ordini della realtà, vale a dire
quello naturale, pratico e discorsivo;

in virtù della nostra riflessività rielaboriamo tali emozioni, passando dal
primo ordine al secondo ordine, ossia con l'uso della riflessività grazie alla
12
5
quale ordiniamo le premure;

questo passaggio avviene tramite la conversazione interiore, che nella
definizione di Archer «rappresenta una discussione incessante circa la
soddisfazione delle nostre premure fondamentali e un monitoraggio del sé e
dei suoi impegni in relazione alle osservazioni ricevute»272.
«Si tratta poi di discriminare, tra gli interessi di “primo ordine”, quelli che assumono
maggiore importanza nel definire le attività della nostra vita. È questo specifico
modus vivendi che definisce, in modo diverso per ciascuno di noi, la nostra identità
individuale. Tale identità sarà l'esito della configurazione assunta dai nostri interessi,
mediata dalle nostre idee personali sui modi in cui tradurli nella nostra esperienza di
vita»273. Nel passaggio attraverso i tre punti sopra elencati diventiamo ciò che siamo
definendo quello che ci sta a cuore dopo essere entrati in contatto con tutte le
premure che ci suscitano commenti emotivi.
Le emozioni sono relazionali rispetto a qualcosa, ossia a quanto ci accade, per cui
mostrano la consapevolezza della situazione in cui ci si trova. Qualunque sia
l'emozione che sorge di fronte ad un evento, il punto non risiede nel fatto che tale
commento emotivo sia giusto o sbagliato, ma il fatto stesso che ci sia indica che
sappiamo di stare affrontando tale situazione, di essere proprio noi in quel momento,
di modo che la consapevolezza risulti affermata. Dalla situazione estraiamo quanto
dà motivazioni o base ai nostri sentimenti, elencando così cosa sia ciò che più ci sta a
cuore e ci fa decidere di agire in un modo piuttosto che in un altro. La realtà delle
272
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 278.
M. S. Archer, La conversazione interiore, cit., p. 87. Non si tratta di leggi di diffusione come
quelle della fisica che ci spiegano come una goccia d'olio si adatta all'ambiente esterno in virtù di
forze esterne date. L'uomo progetta da sé i propri modi di esprimersi confrontandosi sì con l'ambiente
esterno ma non seguendo un meccanicismo già dato. Quando decido ho i miei motivi per scegliere una
certa azione, e solo io so che peso dare ad essa. Sempre in base a quale sia il mio percorso una stessa
situazione può essere interpretata in vari modi, come ostacolo o come aiuto: il valore che assume una
situazione sul nostro percorso è legato a cosa e come vogliamo raggiungere un obiettivo. La nostra è
una situazione aperta in cui siamo noi a sfruttare quanto affrontiamo in base a ciò che vogliamo: si
tratta di progetti per l'avvenire. Ciononostante io sono situato e non posso essere istantaneamente
quello che desidero perché, per esaudire il progetto, c'è un percorso da fare nei confronti del mondo
che mi circonda e delle persone che incontro. Merleu-Ponty mostra qui una visione che molto si
avvicina a quella di Archer, evidenziando che la mediazione corporea porta ad assumere posizioni
peculiari in ognuno. Cfr. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano,
2003.
273
12
6
emozioni è data dalla loro causalità: non ne avessero, non esisterebbero o, meglio,
non sarebbero fattori coinvolti nelle nostre scelte e decisioni in merito alla nostra
stessa esistenza. Uno dei poteri che esse possiedono nella proposta di Archer è «di
modificare i poteri dei suoi componenti, in questo caso la finalità cognitiva
stessa»274. Assumono così una parte attiva nelle deliberazioni interiori in merito a ciò
che scegliamo di fare. Un altro carattere dell'emotività è la sua persistenza temporale:
può essere vista come un «flusso continuo di commenti»275 che non ci abbandona
mai e che sempre dice la sua su ogni evento. I tratti dell'emotività sono legati ai vari
livelli della realtà per cui si deve passare da tutti per essere in possesso dei commenti
emotivi completi. Le differenze linguistiche tra i vari tipi di emozioni sono legate al
livello discorsivo che, non potendo esaurire quello che emerge dagli altri livelli, si
ritrova a dover definire diversamente le stesse cose in culture differenti. Questo per
dire che non ci sono culture dove l'abbondanza di nomi per le emozioni rispecchi
effettivamente una maggior “sensibilità”.
Altra precisazione importante, che però troppo spesso sfugge, è che questa
consapevolezza di quanto stiamo facendo, con annessa la decisione che prendiamo al
fine di agire proprio in quel modo e non in un altro, delinea la nostra libertà di scelta
nell’azione. Non si compie una azione senza motivo, a caso, ma decidiamo di
intraprendere una determinata via, la quale rispecchia quello che riteniamo
importante. È necessario anche staccarsi dall’idea di una azione legata all’esterno e
ad una riflessione propria dell’interiorità; così facendo si viene a spegnere il motore
del nostro agire, che risiede proprio in noi, e non fuori. Quando si parla di riflessione
non si deve intendere un cognitivismo finalizzato alla constatazione degli eventi, ma
piuttosto ad un attivo pensare che sfocia, per essere completo, nell’azione.
L'interazione coi tre livelli di cui è composta la realtà è obbligatoria per chiunque si
trovi a questo mondo, e da ogni livello scaturiscono differenti reazioni a livello
emotivo date da ciò con cui ci si rapporta e dalle sue proprietà e poteri. Sebbene si
possa decidere a quale dei tre livelli dare il peso più importante, non si può evitare di
registrare le reazioni che ci sono in ognuno di essi. A livello del primo ordine si
passano in rassegna le emozioni derivanti dai tre livelli; fatto ciò subentra la
274
275
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 280.
Ibidem.
12
7
conversazione interiore per stabilire quale sia la priorità tra di esse. Il ciclo non si
chiude qui però poiché le reazioni emotive persistono anche rispetto alla gerarchia
che ci siamo dati (questo è il secondo ordine). Torniamo sempre su quello che
abbiamo fatto e sulle scelte intraprese perché il monitoraggio è sempre attivo.
A livello naturale entra in gioco con preponderanza l'incarnazione umana e le
premure relative sono legate al benessere fisico. A livello pratico la rilevanza è data
alla competenza nell'ambito della cultura materiale e in quanto siamo homo faber,
ossia costruttori di oggetti. Infine, a livello sociale gli effetti si hanno sull'autostima e
sulle proprietà del soggetto poiché entriamo in contatto con le norma sociali che
giudicano il nostro comportamento.
Analizzando le emozioni che sorgono ai vari livelli si deve evitare di pensare che
esistano emozioni di base o che alcune siano più importanti di altre. È tramite la
conversazione interiore che decidiamo a quale emozione dare il sopravvento in vista
di quelle che sono le nostre priorità; in fondo nella vita affrontiamo sempre i tre
ambiti contemporaneamente, ed è per il nostro stare bene con noi stessi che sorge
necessario decidere a cosa dare più peso.
Emozioni nell'ordine naturale
Il mezzo con il quale le situazioni naturali entrano in contatto con noi sono, nella
visione di Archer, le emozioni che «emergono dal rapporto tra le proprietà della
natura e le nostre proprietà corporee»276. La nostra autocoscienza indica che ci
appartiene anche la riflessività, grazie alla quale possiamo rispondere alle circostanze
con cui abbiamo a che fare e che riguardano il nostro corpo. Abbiamo «un sé forgiato
tra l'esperienza dei propri bisogni organici e l'incapacità interna di soddisfarli. Allo
stesso modo, ciò fornisce una rudimentale spiegazione non sociale delle origini della
coscienza di sé e della riflessività in riferimento alle interazioni con l'ambiente»277.
Con la riflessività possiamo agire in modo finalizzato perché siamo in grado di
riflettere sulle implicazioni che le emozioni comportano e decidere cosa sia meglio
fare.
Tutto questo però non spiega l'emergere dell'affettività che invece ci deriva dalla
276
277
Ivi, p. 286.
M. S. Archer, La morfogenesi della società, cit., p. 146.
12
8
facoltà, propria anche di taluni animali, di poter anticipare la rilevanza dei fenomeni
ambientali per i nostri corpi. Il dolore provocato dalla fiamma non c'è solo quando
mettiamo la mano nel fuoco ma ogni volta che vediamo una fiamma libera: evitiamo
di toccarla perché pre-sentiamo il dolore che ci provocherebbe il contatto fisico.
Visto che siamo (non abbiamo) un corpo, cerchiamo di stare distanti dalle possibili
fonti che ne minerebbero la stabilità. Esso è la base su cui si costruisce la nostra
intera persona, prima ancora che la società ci definisca come tali.
Anche le nostre stesse aspettative nei confronti di eventi ignoti sorgono a livello
fisico, precorrendo l'effettiva realizzazione dell'incontro. «Le nostre emozioni vanno
prima di noi incontro al futuro»278. Da questa definizione data da Archer risulta
lampante come le emozioni non accadano solamente come eventi interni ma
comportino piuttosto una cognizione rispetto all'oggetto intenzionalmente perseguito.
La presenza di un aspetto cognitivo (non siamo infatti preda del cuore, ma
possediamo la capacità di valutare le situazioni e anche le nostre reazioni alle
situazioni) fa sì che le nostre emozioni siano correggibili: alcune paure possono
essere infondate e scegliamo consapevolmente di affrontarne la fonte perché
comprendiamo il nostro errore.
Nell'ordine naturale, per come lo intende Archer, «dove le sollecitazioni corporee
sono esibite nella costituzione dell'organismo e tutto l'emergere del commento si
presenta più simile all'associazione perché i nostri bisogni sono costanti per la
specie»279, le emozioni appaiono vicine all'associazionismo. L'associazionismo
afferma il valore del rapporto tra stimolo e risposta, riducendosi così
all'apprendimento di connessioni costanti. Ad esempio, associando ad una
determinata azione una emozione negativa, si eviterà sempre di compiere tale azione
in virtù di questa associazione. In questa visione si nega in toto la possibilità di una
riflessione sulle emozioni stesse, cosa che invece, a livello di second'ordine, avviene
sempre. Non si può ritenere l'emozione come semplice elemento di riprova di
un'azione ma bensì come un fattore su cui è possibile riflettere per ordinarlo in
gerarchie. Nonostante ci sia il debito al corpo, non ne siamo succubi.
Nell'ordine naturale trattiamo le emozioni che sorgono dal rapporto tra le
278
279
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 288.
Ivi, p. 290.
12
9
sollecitazioni corporee e l’ambiente circostante. Le sollecitazioni corporee, in virtù
della nostra costituzione fisica comune ad ognuno di noi, sono predefinite e
predeterminate in larga parte. L'emotività emerge a livello relazionale, ossia
dall'interazione tra le conseguenze reali o previste di un evento e le priorità del
soggetto che egli stesso decide grazie alla conversazione interiore.
Le emozioni sono funzionali al cambiamento della relazione tra corpo e ambiente e,
dal momento che abbiamo più potere sul nostro corpo che sull'ambiente, sarà il
primo ad essere l'oggetto dei cambiamenti. Si cercano quindi effetti utili modificando
le reazioni all'ambiente quando si presentano determinate situazioni. Anche in questo
caso l'aspetto relazionale è basilare per permettere un mutamento e l'emergere di
nuove proprietà. È tramite la relazionalità che ci costituiamo come individui ad ogni
livello della realtà grazie alle emozioni, alla pratica incarnata, al corpo.
La caratteristica più importante delle emozioni di questo livello è che possono
emergere naturalmente senza bisogno di riferimenti alla cultura materiale o al
linguaggio: basta il nostro corpo, sempre recettivo rispetto alle situazioni. Inoltre
ogni commento emotivo sfocia in una tendenza all'azione nei confronti dell'ambiente
che suscita ciò. Quando ci assale la paura si ha la tendenza ad allontanarsi dalla fonte
di tale spiacevole emozione, come invece al contrario tendiamo ad avvicinarci alla
fonte di una sensazione piacevole in cui il corpo ha un guadagno. Compiamo una
disamina sulla presenza o l'assenza di possibili segnali incarnati suscitanti dolore o
piacere per agire in modo da limitare la discrepanza con ciò che vorremmo. In tal
modo non ci si limita alla passività del trovarsi davanti un evento e di rifuggirlo,
cercarlo o fermarsi: entra in campo la decisione finalizzata all'azione per il
raggiungimento di quanto vogliamo e così possiamo intendere «le risposte emotive
quale esito del grado di congruità tra le aspettative incarnate e le esperienze
ambientali»280 in seguito alle quali agiamo.
La pressione nel badare alle preoccupazioni corporee più prossime è molta in quanto
ne va della nostra stessa esistenza, ma per quel che riguarda i commenti «ciò non
implica la loro infallibilità, né la loro funzionalità, né la loro incontrollabilità»281. Le
emozioni sono avvertiti come stimoli a cambiare la situazione nell'immediato e può
280
281
Ivi, p. 294.
Ivi, p. 296.
13
0
essere che manchi una precisa valutazione delle conseguenze; a causa di ciò
l'emozione può sovvertire la razionalità ma non per questo risulta infallibile. Anche
se seguiamo ciò che ci sta a cuore non significa che quello sia, a livello fisico, la
soluzione migliore: presi dalla felicità per un successo possiamo trascurare le prime
avvisaglie di qualche problema solo perché al momento viviamo l'emozione positiva
come priorità. In base a ciò può venir meno la funzionalità degli stessi commenti
emotivi. Per quel che concerne il controllarli, la conversazione interiore agisce come
mezzo per l’ordine che l'“Io” dà alle proprie premure senza cadere nella
razionalizzazione.
Emozioni nell'ordine pratico
Le emozioni non si definiscono come un genere ma emergono da preoccupazioni
inerenti contesti particolari. Per questo motivo esse variano nei diversi livelli della
realtà: nell'ordine naturale (soggetto-ambiente) «l'emotività tende a essere piuttosto
simile per l'intera specie»282 sebbene sussistano delle differenze che però spesso sono
a livello del second'ordine, ossia dei commenti sui commenti emotivi alle relazioni
con l'ambiente naturale. Passando all'ordine pratico, la relazione diventa tra soggetto
e oggetto per cui si tratta strettamente della prassi umana, del lavoro creativo verso il
mondo circostante. In questo ambito si affrontano gli imperativi materiali di
sopravvivenza che, potendo essere soddisfatti in molte maniere, danno vita ad una
quantità di salienze assai più ampia di quanto non fosse per l'ordine naturale.
Essendoci inoltre uno svolgimento storico degli ordini pratici (essendo riferiti alla
cultura materiale, con la tecnologia mutano anche le nostre capacità, adeguandosi al
contesto del momento), di conseguenza varieranno anche le nostre premure in
merito.
L'essere umano in questo ordine è considerato in quanto homo faber, la cui
preoccupazione principale è a livello performativo con commenti riguardanti la
competenza inerente determinate azioni. «Il commento – per come lo intende Archer
- è quanto emerge tra il soggetto e il suo rapporto con l'oggetto: è, per così dire, il
giudizio di competenza o incapacità sulla capacità del soggetto»283. Si tratta del
282
283
Ivi, p. 298.
Ivi, p. 299.
13
1
commento soggettivo ad una prestazione oggettiva: se proviamo a costruire qualcosa,
o ce la facciamo o non ce la facciamo, non ci sono vie di mezzo o punti di vista
diversi. Esiste uno standard oggettivo in base a cui affermare se siamo capaci o meno
di fare qualcosa. Il discorso muta se si passa ad una prassi che sebbene ci riesca
male, continuiamo a fare: qui ci si porta al secondo ordine di commenti dove
possiamo non badare al risultato del nostro fare ma, pur prendendo atto della nostra
incapacità, decidiamo di proseguire comunque nell'opera performativa. Resta
intangibile l'affermazione che l'abilità sia oggettivamente riscontrabile dagli effetti
dell'azione che intraprendiamo. A differenza dell'ordine naturale, in cui c'è spesso il
rapporto stimolo-reazione, qui si inserisce l'elemento della competenza che il più
delle volte è un ostacolo frapposto tra il nostro voler compiere un'azione e l'effettiva
realizzazione della stessa.
La tensione che ci assale quando dobbiamo compiere una certa azione è segnale del
coinvolgimento in eventi che mettono alla prova le nostre capacità tecniche: i
compiti che dobbiamo eseguire hanno un rimando che ci permette di capire se siano
stati fatti nella maniera adeguata. Non dipende dalla nostra opinione il fatto che un
allacciamento elettrico funzioni: possiamo anche essere convinti di essere i migliori
elettricisti del mondo ma se non arriva energia in casa il compito non è stato eseguito
nel modo corretto. In seguito a questi rimandi in noi sorgono due opposte emozioni
legate al successo o al fallimento di quanto avevamo intenzione di fare e che ci
indica se perseverare o meno nel secondo ordine.
«E' nell'intimità delle nostre relazioni oggettive rivelatrici che diventiamo soggetti
che non sono né sottoposti alla dittatura del corpo né sono la canna spezzata della
società»284 ha modo di affermare Archer. La pratica ci fa tornare padroni di noi stessi
e consci delle nostre capacità in seguito ai risultati del nostro fare intenzionale e
manipolatorio. L’azione qui avviene verso la natura, di cui siamo padroni e che
possiamo maneggiare per i fini che ci risultano più comodi; nell’altro senso, non
siamo ridotti a comunicazione o relazioni sociali, ma questa attività “materiale” ci
mostra di cosa siamo capaci.
Le emozioni sono qui vicine all'azione e derivano dal fatto che la si riesca a fare o
meno. Questo concerne il possedere una “sensibilità per” che niente ha a che vedere
284
Ivi, p. 303.
13
2
col linguaggio. Non c'è alcun debito alla discorsività per quello che concerne la
capacità di compiere determinate azioni, perché siamo situati ad un altro livello di
realtà. L'esito del nostro agire performativo determina la soddisfazione, che si
accompagna all'accrescimento della competenza, mentre in caso contrario si ha
insoddisfazione. L'aumento della competenza si acquista seguendo un apprendistato
e un interesse performativo per quanto si sta facendo o imparando, dopo che nel
primo ordine si ha avuto un rimando positivo in merito alla capacità. Il primo
approccio con il sapere pratico (e relativa soddisfazione) contribuisce al puntare su di
esso nel secondo ordine.
Emozioni nell'ordine sociale
Le emozioni sociali sorgono dal rapporto tra soggetto e soggetto facenti parte di un
ordine normativo. Mentre al livello naturale si trattava di beneficio o minaccia da
parte dell'ambiente verso il corpo e nell'ordine pratico l'importante era la difficoltà
connessa all'adempimento di un compito, secondo Archer qui abbiamo a che fare con
«i giudizi di approvazione/disapprovazione che sono radicati nelle norme sociali e
che hanno impatto sul soggetto sociale»285. Come si evince da questa divisione, le
aspettative e i giudizi sociali non sono che una parte di tutti quelli che ci riguardano e
sta a noi decidere quanto influenzino il nostro essere dopo averli recepiti nel primo
ordine. Le proprietà sociali emergono dal rapporto tra la normatività sociale e le
nostre premure, come le abbiamo decise noi. Niente imposizioni da parte della
società ma semplice relazione con essa.
Tre sono gli elementi che costituiscono tali proprietà emergenti: il nostro essere
soggetti nella società, la ricezione delle valutazioni morali che provengono
dall'ordine sociale e la congiunzione tra premure personali e norme sociali.
Lo statuto di soggetti che abbiamo nella società ci deriva dal rapporto
soggetto/soggetto,
soggetto/oggetto
e
corpo/ambiente
naturale
che
tutti
necessariamente affrontiamo nel percorso della nostra vita. Mentre nella natura e
nella pratica i fattori che ci costituiscono ci toccano oggettivamente (un ambiente è
ostile al corpo quale che sia la nostra idea a riguardo, e un compito è facile o difficile
a seconda del risultato che otteniamo), nel sociale viene coinvolta l'approvazione
285
Ivi, p. 306.
13
3
soggettiva. Non è univoco nell'ambiente sociale cosa sia approvato o meno, ma
dipende dal contesto in cui si è collocati, nostro malgrado, alla nascita oppure dove
scegliamo poi di vivere. Qualunque sia la risposta che le norme societarie danno nei
nostri confronti, il loro valore dipende da come noi le recepiamo, da quanto peso
diamo all'approvazione sociale: «la vergogna – come suggerisce Archer - non ha
alcuna efficacia senza l'assenso del soggetto»286. La normatività sociale in cui siamo
preesiste a noi, è autonoma da noi e ha una efficacia causale su di noi. Ci
confrontiamo con essa, non la creiamo ma la possiamo trasformare. Essa è costituita
da convenzioni e accordi, chiamati in generale PEC, proprietà emergenti culturali.
Nonostante l'esistenza di criteri di valutazione, non sono essi di per sé a creare effetti,
ma quanto noi riteniamo importante soddisfare tali criteri. Rientra nella scelta delle
premure il peso da dare alla normatività sociale, riguardante la valutazione morale
delle azioni, e non le sanzioni applicabili a tutti, le quali non corrispondono ad una
intra-punitività. È ben diverso il fatto di non compiere un'azione per paura di essere
puniti piuttosto che non fare una azione perché la riteniamo sbagliata in sé. Nel
primo caso è la normatività sociale a definire cosa sia sanzionabile o meno, e noi
decidiamo di adeguarci badando alla punizione e non all'azione in sé. Nel secondo
caso, invece, dipende da come noi riteniamo l'azione il fatto se essa sarà compiuta o
meno. Possiamo non agire in un modo permesso dalla legge perché lo riteniamo
sbagliato, oppure accettare una multa compiendo qualcosa in cui crediamo. Tutto si
riduce (non nel senso di una riduzione in termini qualitativi) a ciò che per noi vale di
più. Ciò che è importante lo scegliamo noi, in seguito alle esperienze che facciamo e
al nostro filtro personale, creato nel vivere nella realtà, e non in base a imposizioni
più o meno sottili o suggerimenti reconditi proposti dal dispositivo di Foucault. La
componente che ci è propria è ben più ampia dell'accettazione di modi di vita, ma
possiamo noi stessi creare il nostro modus vivendi assecondando i nostri desideri e
perseguendo quello che sentiamo adeguato per noi.
L'ordine normativo esiste e resiste anche senza che noi lo condividiamo quindi è da
tenere sempre presente perché il nostro essere sociali fa comunque parte di noi. Non
siamo solamente esseri sociali ma buona parte della nostra esistenza avviene
all'interno di una società che, sebbene non abbiamo costruito, dobbiamo considerare.
286
Ivi, p. 308.
13
4
Il fatto che noi viviamo nella società non deve però consegnare a quest’ultima la
facoltà di plasmarci a suo piacimento. Se tutta la nostra forza è intesa come un agire
“esterno”, come un impeto, quasi fossimo simili alle acque di un fiume, allora si
potrebbe anche pensare di canalizzare tale azione. La differenza che Archer propone,
però, è legata al carattere di tale forza che ci è propria; non si parla di una “energia”
che quasi vive da sola, ma è secondaria alla nostra decisione di agire in tale
direzione. Un fiume lo si può far scorrere entro gli argini, ma noi, a differenza del
fiume, possiamo decidere dove andare, se seguire una via o crearne di nuove.
La premura sociale che solitamente sta più a cuore è l'autostima legata alla
realizzazione di determinati progetti socialmente approvati quali lavoro, famiglia e
carriera. A seconda di quanto riteniamo importanti questi progetti, nel secondo ordine
il comportamento si regola seguendo speranze e paure tramite l'anticipazione della
disapprovazione o approvazione sociale. La si condivida o meno, si conosce quale
sarà la reazione sociale ad una nostra scelta. «Alla nostra età devi essere sposato, con
due figli, laureato per esser rispettato da questa società, avere un conto in banca, un
mutuo da pagare per un monolocale dove poterti impiccare quando ti vedrai nei
debiti affogare e non potrai scappare. E alla nostra età invece noi suoniamo punk, e
alla nostra età invece noi suoniamo punk»287. Nelle parole di questa canzone dei
Derozer si dimostra che, pur conoscendo quali siano le aspettative sociali (seppur qui
avvelenate dalle conseguenze nemmeno così esagerate cui porterebbe il fallire certi
obiettivi sociali di rispettabilità), l'ultima parola spetta all'individuo che sceglie quale
sia la sua priorità principale e accetta le conseguenze di tale decisione. Al contrario di
Foucault (la società non ci dice cosa fare e non vi obbediamo ciecamente senza
poterla modificare) e di Bourdieu (sapere pratico e sapere discorsivo possono
comunicare e interagire tra loro e l'individuo non è intrappolato nell'habitus), Archer
afferma questo ampio margine di azione libera, che dipende solo da noi. Pur sapendo
le conseguenze cui andremo incontro se crediamo in qualcosa e lo poniamo al vertice
della nostra gerarchia, niente ci potrà far cambiare idea, almeno fino al monitoraggio
successivo. Finché per noi ne vale la pena, ogni cosa è fattibile. «È la nostra
definizione personale di ciò che costituisce il nostro valore a determinare quali
287
Derozer, Alla nostra età, dall'album Alla nostra età, 1998.
13
5
valutazioni normative contino abbastanza da farcene condizionare emotivamente»288
è la conclusione di Archer. Le nostre emozioni, che sono commenti alle nostre
premure, ci dicono in ogni ordine come ce la stiamo cavando. Sta poi ad ognuno dare
peso all'ordine che ritiene più importante, restando bene inteso che si ha sempre a
che fare con tutti gli ordini contemporaneamente.
L'esito di questo ordinamento che ci diamo è il nostro modus vivendi, rappresentante
il personalissimo equilibrio di ciascuno nella realtà perché «quale preciso equilibrio
stabiliamo tra le nostre premure e cosa precisamente figuri tra le premure di un
individuo, è esattamente ciò che ci conferisce la nostra stretta identità come persone
particolari»289. Come si può ben capire l'identità personale non può essere un dono
della società poiché si forma passando nei tre livelli della realtà, ognuno dei quali è
fondamentale e nessuno dei quali è più importante. Il modus vivendi che ci
appartiene si viene a creare in seguito alla conversazione interiore, grazie a cui sorge
anche l'identità personale.
Affrontando il modo con cui le proprietà strutturali si ripercuotono sull'agire degli
agenti fino al punto di condizionarne l'azione, Archer introduce le categorie di
“vincoli” e “facilitazioni”. Spesso, specie nella conflazione verso il basso, si tende ad
accentuare il peso dei condizionamenti dei fattori strutturali come se il soggetto non
avesse la possibilità di sfuggirne. Ma riconoscendo anche in esso poteri e proprietà, il
problema si risolve nella reciproca relazione che si crea. Ovviamente vincoli e
facilitazioni devono avere una controparte su cui applicarsi, senza la quale non
avrebbero senso di esistere. Gli obiettivi sono le azioni umane (progetti) decise
liberamente dagli agenti, che si devono scontrare con la realtà che le circonda. Un
progetto presuppone qualcuno che aspiri a realizzarlo e che abbia la consapevolezza
di come si debba agire a tal fine, ossia un individuo conscio di sé e dei suoi poteri.
«La duplice influenza dei vincoli e delle facilitazioni – afferma Archer - appare
paradigmatica dei processi di condizionamento sociale degli agenti da parte delle
strutture; processi che assumono ripercussioni oggettive, ma che sono anche mediati
dalle ricezioni soggettive»290. Ciò si spiega semplicemente con il fatto che ad ogni
nostra azione corrisponde una reazione a livello strutturale, ma tale risposta, al di là
288
289
290
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 312.
Ivi, p. 314.
M. S. Archer, La conversazione interiore, cit., p. 58.
13
6
del peso oggettivo (spesa di tempo, costo economico, disapprovazione sociale), ne ha
uno ben più importante, ossia quello soggettivo: se per noi ne vale la pena, niente ci
può far desistere dal nostro proposito.
3.2 Interazione tra società e attore: la conversazione interiore
Archer definisce la riflessività come «quell'attività di mediazione tramite cui il
soggetto soppesa se e come certi elementi – credenze, idee, desideri o stati di cose –
abbiano a che fare con lui, o lo interessino»291. Il soggetto è consapevole di un
progetto che avvia in modo attivo dopo aver affrontato quanto lo circonda. L'essere
umano possiede poteri di riflessività sulla propria emotività in modo da poterla
riordinare in un processo di second'ordine. La reazione agli ambiti con cui abbiamo a
che fare sorge spontaneamente ma poi abbiamo la possibilità di pensarci su per
creare il nostro personale modus vivendi. Non siamo prigionieri alle reazioni di
primo livello, ma la facoltà di riflettere tra di noi su quanto ci succede è
fondamentale nella creazione di ciò che siamo.
Per poter avviare una conversazione interiore dobbiamo possedere una ontologia
soggettiva di prima persona che abbia potere causale sul sé e sulla società. Il mondo
sociale ha poteri e proprietà che preesistono ad ogni corso di azione si decida di
intraprendere e che possono influenzare il soggetto. La sua libertà, per come la vede
Archer, risiede nel «poter monitorare le proprie azioni in relazione alle circostanze
esterne, mentre queste ultime non possono fare altrettanto nei suoi confronti»292. La
presenza di una consapevolezza in ciascuno di noi permette di affrontare le strutture
non da sconfitti che necessariamente accetteranno quanto esse impongono, ma con la
possibilità di riflettere e tornare su quanto fatto. Questo monitoraggio è utile per
l'agire in quanto la conversazione interiore possiede efficacia causale, anche se di per
sé è interna rispetto all'agente e ontologicamente soggettiva (appunto perché non
osservabile possiede il punto di vista soggettivo di prima persona che è inestricabile.
Quello che accade in noi quando riflettiamo su qualcosa è un evento tutto nostro, che
esplica e implica i nostri valori, cosa riteniamo giusto o sbagliato, i nostri obiettivi e
291
292
Ivi, p. 86.
Ivi p. 70.
13
7
il nostro “sentire”). Ci si allontana da un riflettere inteso come cognitivismo per
passare quindi ad un riflettere “pratico”, poiché trova la sua realizzazione solamente
nell'azione, non fermandosi al livello speculativo. Quale che sia l'esito della
conversazione interiore, esso troverà affermazione solamente nell'agire pratico
dell'individuo.
Gli stati di coscienza dell'agente, quali la conversazione interiore, esistono e sono
accessibili solamente da chi li ha, ma non per questo sono meno reali. Anche il
mondo circostante è oggettivo sebbene noi ne abbiamo una visione solamente
soggettiva. Non è la soggettività a negare la realtà di una entità. Lo status di
soggettività della conversazione interiore, come anche quello di tante idee, non ne
nega l'esistenza ma piuttosto la pubblicità o la penetrazione discorsiva da parte di
estranei. Questi stati “di prima persona” si contrappongono agli stati “di terza
persona” che possiedono invece ontologia oggettiva. La peculiarità di ognuno si
trova in questi stati mentali che gli appartengono e, anche fossero resi pubblici,
entrando in un'altra persona attraverso il suo modo di vedere non sarebbero più gli
stessi. Lo status soggettivo è il particolare punto di vista sulle cose oggettive che ci
rende ciò che siamo.
Questo potere di ordinare le emozioni non deve essere ricondotto al vecchio
dualismo mente-corpo in cui la mente governa il corpo e decide cosa farne. Lo stesso
sorgere della razionalità è legato indissolubilmente all’essere un corpo, senza il quale
non potremmo nemmeno essere al mondo. Inoltre, come detto, il sapersi se stessi,
base indispensabile per poter riflettere, ci proviene dalla carne che siamo. Altrettanto
errata secondo Archer è la convinzione che «piuttosto che provare a razionalizzare le
nostre emozioni di prim'ordine, le valutiamo come guide della vita che vogliamo
condurre»293. In tale visione teniamo in considerazione le emozioni e decidiamo
quali seguire restando ben consci del fatto che sono indicatrici di quanto ci sta a
cuore e non ostacoli per il raggiungimento dei nostri obiettivi. Essendo parte di noi
non si dovrebbero escludere come spesso accade in visioni eccessivamente
raziocinanti. «Pathos e logos operano di pari passo al livello del second'ordine»294.
Non si tratta di “elevare” o rendere razionali le emozioni che possediamo, né di
293
294
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 318.
Ibidem.
13
8
pensare che ci conducano in un terreno su cui non abbiamo potere decisionale:
possiamo organizzarle per quello che sono e porre le nostre priorità in relazione ad
esse. L'emotività qui diviene una sorta di guida morale all'agire dove le emozioni
acquistano il ruolo di moralità. In questa prospettiva si mescolano premure e
commenti emotivi su di esse, il cui esito è un antropocentrismo dove i giudizi degli
individui prevalgono sul valore ontologico degli oggetti. Non basta che si ritenga
giusta una cosa per farla diventare tale poiché anche gli oggetti hanno proprietà
proprie che non dipendono da ciò che ne pensiamo noi. Questo per evitare di pensare
che l’uomo sia fonte di ogni realtà e verità: esiste una realtà indipendente da noi.
La conversazione interiore, attraverso la quale poniamo ordine tra le nostre priorità, è
un processo che avviene tra noi e noi e non con la società come interlocutore. Le
attività mentali del soggetto non sono negate nella società ma risultano preponderanti
per permettere ad ognuno di parlare con se stesso. La persona cui ci riferiamo siamo
sempre noi stessi e non un “Noi” sociale che giunge dal di fuori o in cui saremmo
prigionieri sol per il fatto di far parte di una comunità. Lo svolgimento della
conversazione è totalmente interno sebbene gli effetti si abbiano poi nell'esteriorità,
ossia nelle azioni. La capacità riflessiva che ci è propria e per come la intende Archer
non «si riduce a soluzioni cognitive che servono soltanto all'adattamento funzionale
alle circostanze esterne»295: conversiamo con noi stessi non solamente per risolvere i
problemi che mano a mano ci si pongono davanti nell'ambiente esterno ma essa
investe invece, e in maggior misura, l'aspetto personale e intimo.
Possiamo quindi sbagliarci nella nostra valutazione a livello di tutti e tre gli ordini
«giacché le cose sono come sono e non soltanto come le consideriamo essere»296. In
seguito a ciò la revisione di second'ordine può proseguire senza fine: acquisendo
maggior penetrazione nelle cose mentre le analizziamo e abbandonando vecchie
interpretazioni che non ci risultano più coerenti, assistiamo ad una trasformazione di
come vediamo la realtà (non di come la realtà è). Questo processo possiede uno
svolgimento proprio che consta di tre momenti, i quali si svolgono nel tempo in
successione: condizionamento precedente, interazione ed elaborazione delle
emozioni di second'ordine. L'elemento mediano dell'interazione è condizionato da
295
296
M. S. Archer, La conversazione interiore, cit., p. 171.
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 324.
13
9
fattori precedenti ma non determinato da essi. È questa una precisazione importante
poiché, nonostante nasciamo in un ambiente che non abbiamo scelto e che non
dipende da noi, esso non ci plasma perfettamente a sua immagine e somiglianza
come non avessimo una identità, ma ha la sola capacità di influenzarci, dal momento
che alla fine siamo noi a decidere quali siano le nostre priorità297.
Il mezzo con cui deliberiamo a livello del second'ordine è la conversazione interiore
da cui emergono le emozioni di secondo ordine. È compito di ognuno gestire i
commenti emotivi derivanti dai tre ordini e riguardanti diverse premure umane: alla
fine di ciò si assiste alla separazione tra premure fondamentali e premure
subordinate. Questo è un esito cui si giunge non a cuor leggero ma solamente in
seguito alla valutazione delle conseguenze che questa gerarchia avrà per noi. Quanto
dichiariamo essere importante per noi è ciò per cui ci sentiamo di poter vivere e che
può essere rivisto in ogni momento (non senza conseguenze), a seconda di quello che
ci sta più a cuore nel proseguimento della vita.
Il dialogo interiore che avviene in ciascuno di noi vede come personaggi un sé
considerato in diverse posizioni e punti temporali. Abbiamo il “Tu”, ossia il futuro
sé, che si relaziona con l'“Io” nel dialogo e lo può vedere con più chiarezza
assumendo la parte dell'“Io” che sarà per indicare il sé che cerca di diventare.
Viceversa l'“Io” può rivolgere istruzioni al “Tu” in quanto, a livello temporale, lo
precede e conosce quanto sta bene al sé prima del “Tu”. Il “Me” rappresenta invece
tutti gli “Io” passati, formando così la memoria di ciò che è stato e la fonte delle
Donadi parla di tre momenti fondamentali per descrivere come avvenga l’agire nella società:
all’inizio sussiste il condizionamento delle strutture sociali non create dagli individui ma che
comunque ne sono influenzati (si tenga presente il termine, “influenzati” e non determinati. In ognuno
di noi sussiste una resistenza e un intoccabile dal sociale. La nostra stessa formazione ha debiti sul
piano naturale e pratico, e solo come ultimo passo ci confrontiamo col sociale); l’interazione tra gli
attori presenti nella società (essendo dotati di riflessività possiamo tornare su ciò che abbiamo intorno
e prendere in considerazione ciò che accade) e infine l’elaborazione delle strutture che può essere di
tipo riproduttivo o di cambiamento (rimane ben presente che gli individui non possono fare ciò che
vogliono del sociale perché anch’esso ha poteri e proprietà, non è nelle mani degli uomini). Cfr. P.
Donati, Teoria relazionale della società, Franco Angeli, Milano, 2000. Andrew Collier suggerisce il
modello trasformazionale dell'attività sociale (MTAS) le cui caratteristiche sono: il corso della storia è
costituito dalle conseguenze intenzionali e non delle azioni dell'uomo (spesso, sebbene sussista
l'intenzionalità, quello che risulta dall'agire non è quello che volevamo, perché siamo in un sistema
aperto); esistono meccanismi duraturi composti dalla relazioni tra gli agenti umani e tra essi e
l'ambiente; le strutture possono per principio essere cambiate, essendo il frutto dell'azione di agenti
passati. C'è la possibilità di incidere sul mondo, non siamo passivamente succubi del sistema. Cfr. A.
M. Maccarini, E. Morandi e R. Prandini, (a cura di), Realismo sociologico, cit., pp. 15-42.
297
14
0
esperienze e di commenti emotivi con cui confrontarsi in funzione del “Tu” che si
vuole diventare. È il costante punto di riferimento del dialogo in quanto terreno
comunemente conosciuto sia all'“Io” che al “Tu”.
«Il dialogo – sostiene Archer - costituisce un confronto dialettico tra le nostre
premure umane e i nostri commenti emotivi su di esse»298. Da tale confronto
entrambi gli elementi risultano modificati in quanto interagiscono tra di loro per
formare il nostro modus vivendi. Le premure provengono dai rapporti con i tre ordini
ed è necessario che ci siano in quanto siamo parte di questa realtà. Invece i commenti
emotivi determinano quanto ci prendiamo a cuore le varie faccende, risultando in tal
modo slegati dall'emotività stessa. Entrambi i fattori mantengono una relativa
autonomia pur contribuendo al dialogo. Decidiamo noi cosa valga la pena di soffrire
o sacrificare in nome di quello che riteniamo degno di valore. Ciò non toglie che le
premure esistano sebbene il rank che occupano lo scegliamo noi. Si assiste quindi,
secondo Archer, ad «una sperimentazione interna dell'interazione tra pensiero e
sensazioni»299, in un rapporto tra passione e cognizione che delineerà quello che ci
sta a cuore e a cui pensiamo di poterci dedicare. Avendo a che fare con delle
premure, le quali implicano un oggetto esterno e un impegno soggettivo, l'esito che
ne uscirà contemplerà logos e pathos in egual misura. L'oggetto della conversazione
interiore sarà la ricerca di un ordine peculiare con il quale riuscire a convivere. Come
detto tale ordine non può essere stabile una volta per tutte ma trova svolgimento
durante l'esistenza, in base alle priorità che ci diamo mano a mano, dal momento che
facciamo nuove esperienze ogni giorno della nostra vita, le quali ci possono dare
informazioni nuove o stimoli diversi, così da far vacillare il nostro precedente modus
vivendi. «Ciascuno di noi – afferma Archer - si sforza di dare la priorità ai propri
“interessi ultimi” (ultimate concern), per poi riconciliarsi con gli altri, che pure gli
sono necessari, adottando un modus vivendi ritenuto adeguato»300. Gli elementi
fondanti di ogni fase della conversazione sono tre: discernimento, decisione e
dedizione, e occupano la fase centrale di ogni ciclo morfogenetico. Volendo
rapidamente schematizzare i tre momenti, li potremmo associare a interessi
(discernimento dove comprendiamo quello che si potrebbe fare), progetti (decisione
298
299
300
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 328.
Ivi, p. 329.
M. S. Archer, La conversazione interiore, cit., p. 189.
14
1
in merito a ciò che effettivamente possiamo fare) e pratiche (dedizione al progetto
abbracciato, che rimane comunque rivisitabile in ogni momento).
Discernimento. In questa fase i protagonisti del dialogo sono il “Tu” e l'“Io” che si
relazionano per analizzare i vari progetti in cui potrebbero investire. Un ruolo
importante è qui assunto dall'emotività di primo ordine che indica chiaramente ciò
che la attira, ma a fare da contrappeso a quest'ultima ci sono le emozioni di secondo
ordine che dobbiamo valutare per delineare un modus vivendi sostenibile. Sebbene le
emozioni siano sempre significative, non per questo sono moralmente buone o
giuste, evitando così di abbracciare l'idea delle “emozioni morali”.
Prendendo in considerazione un progetto dobbiamo dare un giudizio di valore su di
esso e una valutazione emotiva circa la nostra attrazione. Così facendo l'“Io” e il
“Tu” registrano i propri commenti emotivi che implicano una rivisitazione parziale di
quanto vorremmo intraprendere. “Io” può decidere che un progetto lo attira ma “Tu”,
rivisitando “Me”, può rispondere che a lungo andare una siffatta esistenza non è
sostenibile perché ci si è già passati e le difficoltà non sono state poche. Al contrario,
volendo arrivare ad un “Tu”, “Io” si deve chiedere quanta importanza rivesta tale
progetto per essere inserito nel modus vivendi. Si tratta di un ricerca di equilibrio
personale per cui non esistono leggi valevoli per tutti e in realtà nemmeno per la
stessa persona perché gli imprevisti sono sempre in agguato e ci portano a rivedere
quanto avevamo stabilito o l'equilibrio che avevamo con soddisfazione raggiunto.
Organizzando gli impegni che abbiamo o quelli potenziali e facendo i conti con le
esigenze che sentiamo di voler soddisfare elaboriamo un modus vivendi adeguato al
nostro volere, rivedibile ogni momento (seppur con dei costi da sostenere).
In ogni momento della nostra vita ci sono le cose che stiamo facendo, quelle che
abbiamo fatto e quelle che potremmo fare (corrispondenti a “Io”, “Me” e “Tu”) per
cui il discernimento combina tra loro l'elemento riflessivo, retrospettivo e
prospettico. Sarebbe da sprovveduti (ciò non toglie che possa accadere anche questo)
non badare ad uno dei tre elementi prima di fare proprio un progetto perché, ad
esempio, lasciare la situazione odierna in favore di una prospettiva diversa comporta
delle conseguenze che sono da sopportare, e fare i conti con ciò che abbiamo
compiuto insegna quali siano i nostri limiti e capacità.
14
2
L'“Io” è sempre in contatto con le premure correnti (non può farne a meno essendo
egli parte della realtà attuale) che vengono passivamente registrate dal “Me” ma non
dimenticate, bensì raccolte in vista di una confronto futuro. Nel “Me” vanno a finire
anche i cambiamenti della propria condizione, cui l'“Io” deve fare riferimento prima
di scegliere un qualsiasi progetto. Lo sguardo retrospettivo ci aiuta a comprendere
cosa vogliamo affrontare e ciò di cui siamo capaci. Oltre a questo rapporto col
passato esiste ovviamente anche quello col futuro, tra “Io” e “Tu”. L'intraprendere un
progetto implica una preclusione di ulteriori possibilità così, oltre a valutare ciò che
si vuole seguire, bisogna prendere in considerazione anche quello che non si potrà
più fare se ci si attiene al progetto scelto. Il “Tu” agisce con sfide e rimproveri
quando l'“Io” mette a rischio un progetto soddisfacente oppure esorta a mettersi in
gioco per raggiungere un obiettivo sentito come importante.
Il discernimento rimane una fase iniziale, un punto della situazione limitato a mosse
iniziali, appelli, constatazioni, rimproveri. Il dialogo tra “Io” e “Tu” è fermo e si
limita ad affermazioni in cui il sé è ascoltatore non passivo perché penserà e
rimuginerà su tutto quello che gli sorge dentro. «E' un processo di continuo
filtraggio, al termine del quale il soggetto presceglie i progetti a cui tiene di più, al
punto da assumerli nella propria vita»301 conclude Archer. Si passano in rassegna i
possibili scenari e si trattengono i più importanti, in vista di una possibile attuazione
degli stessi.
Decisione. Durante il discernimento sono venute alla luce tutte le nostre premure
senza ordinarle né valutarle. Le si è esposte, nello schema elaborato da Archer, alla
mercé di questa seconda fase in cui «l'“Io” e il “Tu” si impegnano in un dialogo che
comincia con un atteggiamento non-solidale, ma che mira al raggiungimento della
solidarietà, nel momento in cui essi passano al setaccio le premure con cui il sé può
vivere»302. Tramite il dialogo su quanto sia possibile perseguire, mettendo in
discussione le affermazioni, valutando le reazioni, si evince quale sia il progetto più
importante. La risposta non sorge immediata ma passa attraverso questo intra-dialogo
tra le parti del sé che si confrontano e che sfocia in «una gerarchia molto provvisoria
301
302
Ivi, p. 190.
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 336.
14
3
delle premure con cui il sé può vivere, o più precisamente sente di poter vivere»303.
Questa puntualizzazione è importante poiché quella che è la gerarchia di un
individuo può risultare incomprensibile ad un altro che abbraccia altre premure, e
viceversa. Non è l'univocità a caratterizzare l'esito della conversazione ma piuttosto
la diversità delle posizioni che si trovano come risposta e che danno la peculiarità di
ognuno.
Tutti i progetti assumono un valore relativo e si arriva al momento in cui se ne deve
saggiare la forza propulsiva per essere portati a termine. Non basta affermare che
sarebbe bello fare qualcosa, ci si deve anche interessare a come si può raggiungere
tale scopo, valutare quanto sia sostenibile dati i nostri impegni e decidere cosa
sacrificare, modificare o trascurare per questo nuovo obiettivo. L'intenzione da sola
non fa di un progetto uno stile di vita, bisogna prima comprenderne la fattibilità dato
ciò che siamo e sentiamo. Per raggiungere tale consapevolezza “Io” e “Tu” si calano
nella realtà concreta per trarre dei commenti emotivi il cui scopo è scoprire quale
sarebbe il costo per intraprendere un nuovo progetto o anche per permanere in quello
che si sta vivendo. In questo scambio di vedute tra presente e futuro si delinea quale
è la via da percorrere ristabilendo le priorità tra le premure. Prescelta una strada si
soppesano i mezzi e le possibilità che si hanno per mantenerla.
Dedizione. Muovendosi da una prospettiva di prima persona il soggetto delinea ciò
che per lui è importante e in base al quale ordina le priorità di minor importanza.
L'esito dell'ultimo momento è la nascita di una classifica delle priorità da seguire, le
quali nell'opinione di Archer rispondono «a un giudizio di valore personale e a uno
con cui possa vivere sul piano emotivo»304 il soggetto. Quest'ultimo è invischiato nei
tre livelli della realtà sia che se ne renda conto oppure no. Anche se il suo progetto
non bada a questi livelli, essi si faranno sentire nello svolgersi di quanto si è deciso di
intraprendere, negando così l'infallibilità dell'individuo. Quello che egli ritiene
sostenibile può non esserlo perché ha trascurato qualche fattore inevitabile: non
contandolo non lo si elimina ma semplicemente si evita di affrontare un ostacolo che
invece c'è e non dipende dalla conoscenza che ne abbiamo. Inoltre scegliendo una
303
304
Ivi, p. 337.
Ivi, p. 338.
14
4
priorità tra i tre ordini ci si ritrova costretti ad aggiustare gli altri due in funzione del
primo, ma mai a negarli perché esistono comunque.
«E' perché – prosegue Archer - il momento delle scelta finale coincide con la
determinazione di un ordine di priorità che l'attività d'accentuazione delle nostre
premure originarie corrisponde simultaneamente a calcolare il costo di metterne da
parte altre»305. Oltre a collocare in secondo piano gli ordini che non ci stanno a
cuore, il soggetto deve sincerarsi del fatto che, non mettendo in primo piano tale
premura, ne deriverebbe un senso di perdita, e considerare i termini e le condizioni
della premura stessa. C'è una lotta da fare per accomodare i tre livelli, qualcosa va
forzatamente sacrificato per rispettare la nostra priorità, e in ciò si dimostra quanto
crediamo nella gerarchia che noi stessi abbiamo stabilito. Il dialogo termina nel
momento in cui stabiliamo un equilibrio che ci appare soddisfacente in merito alla
priorità, all'aggiustamento e alla subordinazione degli altri impegni.
In seguito a questo traguardo si forma l'identità personale che mostra quello a cui
teniamo e per cui siamo disposti a combattere. Ci consacriamo alle premure che
decidiamo di seguire, accettandone le responsabilità perché le abbiamo fatte nostre.
«Il sé ha raggiunto una precisa identità personale attraverso la sua configurazione
irripetibile di impegni»306: questo è il risultato da raggiungere secondo Archer.
Nella valutazione di quanto ci circonda e nello stabilire le nostre premure non siamo
in salvo dagli errori per cui, quale che sia il modus vivendi che abbracciamo, esso è
sempre fragile in quanto dipende dalla fallibilità della nostra autocoscienza,
dall'impegno che investiamo e dalle nostre scelte. Ciò non toglie che sia attraverso la
conversazione interiore che noi mettiamo in contatto il sé, formatosi nei livelli
naturale e pratico, con la società portante le sue proprietà non in noi, ma in relazione
a noi. Si completa in tal modo la formazione dell’identità personale, facendo i conti
anche col livello sociale. Da qui si può chiaramente evincere la discordanza con le
conflazioni. In merito alla conflazione verso il basso, Archer mostra che la società
entra in contatto con noi quando già siamo qualcuno, un qualcuno che può opporre
resistenza ad essa, e che possiede (tramite gli altri livelli della realtà) poteri e
capacità peculiari. Contro la conflazione verso il basso, invece, si dichiara che la
305
306
Ivi, p. 340.
Ivi, p. 345.
14
5
realtà ha poteri su di noi; non siamo padroni di quello che ci accade in ogni ambito,
perché l’ambiente agisce su di noi quanto noi su di esso. Per quel che riguarda la
conflazione centrale, è necessario tenere separate le componenti dell’agire, ossia
l’uomo e la realtà, così da capirne il reciproco rapporto e non la reciproca
dipendenza.
Monitoraggio
Una volta identificate le nostre premure fondamentali la nostra identità corrisponde
ad esse e, da lì in poi, è la nostra emotività a tornare importante. Le salienze che ci
sono proprie si riferiscono agli impegni che abbiamo assunto consapevolmente e
questo implica un cambiamento del commento emotivo. Non si avranno più
emozioni di prim'ordine, che sono servite per creare la nostra prima gerarchia di
valori, ma solamente di second'ordine poiché «le reazioni – afferma Archer - agli
eventi rilevanti sono trasmutate emotivamente dalle nostre premure fondamentali»307.
Le emozioni ora non sono direttamente legate ai tre ordini ma ci sono i nostri
impegni che fanno da cassa di risonanza. Il commento emotivo che ci viene dagli
eventi è ora riferito alla costellazione delle premure impegnate, e sgarrando
dobbiamo rendere i conti a noi stessi.
Impegnandoci in una premura siamo sempre e comunque preda di preoccupazioni
che ci derivano dagli eventi esterni e dalle nostre risposte ad essi. Ogni cosa è filtrata
dal setaccio personale che ci siamo dati in funzione della gerarchia adottata; pur
essendo un traguardo, il raggiungimento dell'identificazione delle premure
fondamentali deve poi essere mantenuto da una cura continua tramite il dialogo
interiore.
Stabilite le premure fondamentali le emozioni sono trasvalutate e si cerca un
ambiente che renda possibile il loro prosperare. Consacrando la propria vita ad una
causa ci si distanzia dalle emozioni di prim'ordine e dai commenti su di esse perché
ora c'è il filtro delle premure fondamentali. Ci distanziamo dal “Me” divenendo un
nuovo “Io” a cui si dedica la vita e la priorità in base alla premura che più ci tocca.
Condanniamo addirittura noi stessi quando veniamo meno a qualcosa che ci eravamo
307
Ibidem.
14
6
posti come importante, mostrando così l'importanza della gerarchia che ci siamo dati.
Accettiamo anche i vincoli e le condizioni dettate da tale nostra scelta di vita poiché
la riteniamo fondamentale.
Trasvalutiamo tutte le emozioni in base a quanto ci sta a cuore, ma raggiungere una
trasvalutazione effettiva e durevole è difficile. All'inizio della nostra vita la
conversazione è più che altro di natura esplorativa con dei tentativi di spostarsi al
second'ordine che non producono certezze perché le esperienze da fare sono ancora
molte. Inoltre lo stacco verso il second'ordine non è una certezza: può anche essere
che si resti legati al prim'ordine in preda alle spinte senza saperci organizzare. Anche
nel caso in cui si arrivi ad avere delle premure fondamentali possono sopravvenire
degli eventi esterni, i quali destabilizzano la nostra situazione costringendoci così a
ristabilire le nostre gerarchie e i nostri propositi a seconda delle nuove circostanze in
cui ci veniamo a trovare. Qui il dialogo ricomincia per arrivare ad una soluzione
riveduta rispetto alla prima. Il nuovo impegno che riscontriamo potrebbe non essere
in sintonia con le vecchie premure per cui il ristabilire un ordine appare assai difficile
anche se non impossibile.
Abbiamo la facoltà di auto-costituirci tramite la conversazione interiore, dove le
emozioni hanno una rilevanza elevata riguardo agli impegni e alla identità. Le nostre
deliberazioni soggettive hanno potere verso l'interno, ossia nel monitorare e nel
modificare noi stessi, unito ad un potere verso l'esterno, ossia rivolto alla società, che
riguarda la mediazione e la modifica della stessa. La soggettività degli individui
quindi non ha un ruolo marginale nel rapporto con l'oggettività della struttura ma
sembra piuttosto il punto su cui basare l'interazione agire-struttura. Sostiene Archer
che «il nostro Sé – che racchiude ciò che più ci sta a cuore – si pone come segno
verso la società, ed esercita la propria capacità di “causazione esterna” in virtù degli
effetti prodotti dal nostro agire»308. Il fatto che la conversazione sia un processo
interno dell'individuo e si basi tutta sulle priorità che ognuno decide valevoli per sé,
escludendo così l'univocità dei punti di vista, ciò non significa che non abbia potere
sulla società e sugli eventi esterni. I suoi effetti si realizzano invece nel percorso di
vita che ciascuno sceglie di seguire, e tale percorso forma la società incontrando e
rapportandosi con quello degli altri. Quanto accade in noi è visibile nelle azioni ma
308
M. S. Archer, La conversazione interiore, cit., p. 145.
14
7
non è riducibile ad esse. Registrando le azioni che una persona compie non si può
certamente conoscere cosa la abbia spinta ad agire in una determinata maniera poiché
il monitoraggio interiore è peculiare di ognuno. L’agire non è una forza cieca che
promana da noi e che è possibile indirizzare dall’esterno. Ogni volta che compiamo
un gesto, dietro ad esso c’è la ponderazione in merito al perché lo facciamo, e anche
al modo che scegliamo di utilizzare per portarlo a compimento. Riflettiamo dentro di
noi per poi agire verso la società, il fuori, e in tale azione si completa la nostra
riflessione, non ridotta a mera speculazione.
Dal rapporto con i tre ordini sorgono le emozioni basilari di prim'ordine, grazie alla
quali poi organizziamo la nostra vita attorno a ciò che più ci sta a cuore e le
trasvalutiamo in questa nuova ottica. Le circostanze in cui inizialmente ci veniamo a
trovare non sono però di nostra scelta ma come Agenti Primari siamo
involontariamente collocati, e questo incide sugli Attori Sociali che potremo
divenire. La nostra identità sociale dipende da questo, e in essa diveniamo persone
non ridotte alla sola socialità ma attive grazie alla conversazione interiore e al nostro
essere formati anche ad altri livelli, quello pratico e naturale. Le cose non ci
succedono e basta, non siamo passivi ma della nostra vita personale decidiamo noi.
Definizione della conversazione interiore
La riflessività che è insita nella conversazione interiore ha trovato uno svolgimento
nel corso della storia: per definire in che cosa consistesse il guardarsi dentro, il
prendere decisioni tra sé, lo stabilire i propri piani si sono elaborate diverse teorie,
che Archer riprende al fine di mostrarne l'evoluzione.
Già Kant riteneva come fatto indubitabile la conoscenza di sé ma non è mai arrivato
a spiegarne il funzionamento né il sorgere. “Si sa” quello che avviene in noi e ciò è
accettato come dato di fatto. Nell'introspezione si è spesso privilegiato l'approccio
visivo che implica un osservatore e un osservato. Dal momento che non può avvenire
simultaneamente il vedere e il vedersi mentre si vede, dovrebbero esserci due diverse
figure in questione, creando in tal modo una scissione nell'interiorità che però appare
davvero insostenibile.
L'occhio non può vedere se stesso mentre vede, e la stessa metafora applicata alla
14
8
deliberazione interiore risulterebbe inspiegabile: come farei ad osservarmi se ciò che
avviene è in me stesso? Non può essere affermato che in noi non avvengano
decisioni, rimuginamenti, riflessioni: il problema risiede quindi nel modo di
descrivere questo processo. Per risolvere il problema della scissione Stuart Mill
definisce retrospezione quanto avviene in noi, ossia una rivisitazione del passato
recente, spostando l'accento in tal modo dalla facoltà della riflessione a quella della
memoria, annullando l'attuale e l'attività in nome di una osservazione passiva.
Contro tutte queste definizioni si è cercata una alternativa che rendesse merito ai
nostri processi interiori fino a giungere alla definizione di conversazione interiore
con la priorità all'udito e non più alla vista, escludendo anche l'introspezione.
William James è stato tra i primi a prendere in considerazione il problema
adoperando termini innovativi309. In primo luogo ha sottolineato l'ontologia
soggettiva dei pensieri come anche la loro incarnazione: non esistono pensieri
disincarnati, senza la presenza di un corpo che li porti. Essendo appunto propri di
ognuno ne riguardano l'intimità e l'aspetto privato. Criticando poi la memoria come
referente della retrospezione, James afferma che ciò di cui si fa esperienza rimarrà sì
costante, ma cambierà nel tempo quello che ne pensiamo: «allo stesso modo in cui
cambia ciascuno di noi, nel corso del tempo, cambiano anche il nostro sguardo e il
nostro pensiero, di fronte alle stesse cose»310 secondo Archer. Quello che viviamo ci
fa rapportare diversamente con le stesse esperienze, mostrando il nostro sviluppo nel
tempo e la possibile modificazione di quel che riteniamo importante. Il modello
osservativo si mostra così inaffidabile come ancoraggio alla nostra riflessione poiché
la memoria muta. Come possiamo osservare una inclinazione di pensiero, di cui
siamo consapevoli, ancor prima che la formuliamo? Possiamo monitorare i nostri
pensieri e averne consapevolezza ma questo non implica una auto osservazione. Si
tratta piuttosto di ascoltarci anziché di guardarci poiché i pensieri si presentano come
frasi e parole invece che come immagini. Non c'è nemmeno una scansione
temporale, andando così contro la retrospezione, poiché «c'è piena simultaneità tra le
nostre parole e la nostra coscienza»311 ci ricorda Archer. Apprendiamo i nostri
pensieri solamente ascoltandoli nella nostra coscienza tramite la loro formulazione
309
310
311
Cfr. W. James, Principi di psicologia, Principato, Milano, 1950.
M. S. Archer, La conversazione interiore, cit., p. 132.
Ivi, p. 136.
14
9
interiore. Il limite di questa visione risiede nel fatto che James non propone un
dialogo interno a noi stessi ma piuttosto un monologo a senso unico, senza possibilità
di fare domande e risposte. Ci ascoltiamo mentre formuliamo pensieri e ci
monitoriamo per scegliere le parole esatte per esprimerli, ma così facendo non
possiamo mediare con la realtà esterna e con noi stessi.
Charles Sanders Peirce nega anch'esso la retrospezione affermando l'imperfezione
della memoria che non può ricordare tutto312. Al contrario egli propone una natura
dialogica del pensiero in cui il parlare e il rispondere si susseguono in noi. Questo
però non deve essere inteso come un isolamento assoluto in cui tutto viene dal
soggetto: anzi, egli ritiene necessario l'appiglio al mondo esteriore per poter poi
formulare in noi un dialogo, e che «il pensiero non possa non dipendere dall'utilizzo
di segni intersoggettivi»313. D'altra parte questo riferimento al mondo non coincide
con un soffocamento da parte della socialità perché, sebbene ci si riferisca alla sfera
della cultura pubblica per pensare, quanto ci proviene da essa non predetermina
quello che accade nella nostra interiorità: «la piena realizzazione del mondo interiore
dipende – afferma Archer - dall'utilizzo privato dei media pubblici»314. Questa
interiorizzazione permette poi un rapporto tra le varie parti del sé stratificato che
sono differenziate dalla dimensione temporale. Il sé deve preesistere rispetto alle
attività dialogiche che possono modificarlo e alla socialità stessa che gli dà i mezzi
per esprimersi, come il successivo sé elaborato è posteriore alle attività stesse.
Le varie parti del sé sono rappresentate dal “Me” del passato, in cui risiedono le
abitudini e le inclinazione che spesso fungono anche da facilitazioni in quanto,
sapendo già come rispondere e reagire a determinate situazioni, ci si può orientare
meglio per il futuro. Interrogandosi per prendere delle decisioni il sé si riferisce al
“Me”, dove sono sedimentate le esperienze passate sulle quali può fare affidamento
come fonte di conoscenza. Ciò non si riduce ad una ripetizione acritica ma piuttosto
ad un automonitoraggio poiché il sé presente (“Io”) è fonte di innovazione e di
creatività, grazie alle quali può modificare la realtà esterna e interna. Questo sé
presente, oltre ad agire nell'attuale tramite le azioni, ha pure la facoltà di riflettere
sulle abitudini. Affrontando un ostacolo l'“Io” cerca alternative per superarlo o
312
313
314
Cfr. C. S. Peirce, Opere, Bompiani, Milano, 2003.
M. S. Archer, La conversazione interiore, cit., p. 143.
Ivi, p. 144.
15
0
integrarlo nel suo percorso: la società con cui ci rapportiamo è aperta e nella visione
che ne ha Archer «ci mette sistematicamente nelle condizioni di immaginare, per
ciascuno di noi, scenari futuri alternativi al presente»315. In base a quanto abbiamo
passato designiamo un “Tu” da perseguire tra tutti quelli possibili e ad esso
dedichiamo poi la nostra vita. L'ideale che seguiamo segna il nostro agire nella
società. Le tracce e le azioni che lasciamo nel mondo sono quel che resta del nostro
modus vivendi, il quale è organizzato da noi stessi in base a quello che riteniamo
valevole.
Tramite l'“Io” riflettiamo sul passato e sul futuro che nel divenire incessante del
tempo mutano, sebbene il referente che abbiamo siamo sempre noi stessi. I pronomi
che usiamo per definire le varie fasi temporali del sé restano tali nell'esistenza anche
se il loro contenuto muta mano a mano che entriamo in contatto con diverse
situazioni e viviamo nuove esperienze. Ponendoci domande e rispondendo ad esse
giungiamo ad una maggiore conoscenza di noi stessi e di quanto vogliamo, facendo
così delle meditazioni sulle esplorazioni che possono chiarire le nostre intenzioni e i
nostri desideri per arrivare ad una comprensione più approfondita di noi stessi.
3.3 L’azione umana nella società
La definizione che più spesso viene riferita all'uomo è quella di animale sociale. È
sotto gli occhi di tutti che buona parte dell'esistenza avviene nella società, ma da tale
definizione non si può certamente dedurre che sia la società a renderci ciò che siamo.
Come si è visto in precedenza, nella conflazione verso l’alto la società non agisce e
non contribuisce perché è l'individuo a creare la società stessa in virtù delle sue
capacità. Al contrario nella conflazione verso il basso l’uomo deve ogni aspetto di sé
alla società che si inscrive su di esso come fosse una tavoletta di cera totalmente
malleabile e indeterminata. Entrambe le visioni mostrano una evidente mancanza del
riconoscimento che i tre ordini hanno sulla formazione dell'identità e del nostro
essere umani.
In particolare contro la visione conflattiva verso il basso si è sottolineata la
preminenza della pratica personale nella formazione dell'autocoscienza e del senso
315
Ivi, p. 150.
15
1
permanente di sé, elementi fondamentali per l'emersione delle proprietà e poteri
personali, che quindi non ci sono donati ma già risiedono in noi. Invece nella
conflazione verso l’alto non viene riconosciuta la formazione nel tempo dei rapporti
soggetto/ambiente, soggetto/oggetto e soggetto/soggetto: tutto questo viene già
inserito nell'uomo che si presenta così bello e pronto senza aver bisogno di entrare in
contatto con nessun ordine, in una sorta di innatismo che non ha nemmeno bisogno
di esperienze per essere attivato.
Contro queste due visioni il realismo introduce un soggetto stratificato le cui
proprietà personali (PEP) emergono a ogni livello. Le figure interessate sono
nell'ordine il sé, la persona, l'agente e l'attore, con queste ultime due già facenti parte
dell'ambito
sociale.
L'agente
emerge
dall'involontaria
collocazione
nella
distribuzione delle risorse dettata dalla nostra nascita e quindi indipendente da noi.
L'attore invece rappresenta la volontaria collocazione nell'assetto dei ruoli offerti
dalla società. Queste due figure dell'ordine sociale hanno senso di esistere solamente
se in precedenza è emersa una identità personale, portante con sé gli ordini pratico e
naturale, e un permanente senso del sé, senza i quali non ci renderemmo nemmeno
conto di quanto facciamo e non avremmo modo di essere attivamente impegnati.
Sia le strutture che gli agenti possiedono proprietà e poteri propri che si relazionano
tra loro. Perché sia possibile che un individuo si relazioni con proprietà culturali
(PEC) e strutturali (PES) deve esistere prima una identità personale con cui queste
due serie di poteri possano interagire: tale identità è data dalle proprietà personali
(PEP) emergenti dai rapporti coi tre ordini.
Il sé emerge nelle prime fasi della vita dal rapporto con l'ordine naturale e pratico, ed
è proprio la pratica il vettore più importante che ci porta a riconoscerci come i
medesimi nel tempo e ad acquisire quindi una autocoscienza ed una autoriflessione.
La difficoltà che qui può emergere è una confusione tra senso di sé e concetto di sé.
Facendo aderire il primo al secondo l'identità diviene una variabile culturale quando
invece io so di essere io e rifletto sempre su di me quale che sia lo statuto che in un
determinato sistema possiede il sé. «Un senso di sé – afferma Archer - deve essere
distinto dalle variazioni sociali dei concetti di soggetti, individui e così via, perché
esse non potrebbero funzionare senza di esso. Affinché chiunque si appropri di
aspettative sociali, è necessario che sia dotato di un senso di sé che esse vanno a
15
2
toccare così che riconosca cosa ci si aspetta da lui»316. Da quanto scritto si evince
chiaramente la differenza che deve sussistere a livello ontologico tra il senso e il
concetto del sé senza la quale saremmo debitori alla società in tutto e per tutto quel
che riguarda il nostro sé. Il senso di sé che abbiamo è permanente, risvegliandoci
“sappiamo” di essere sempre gli stessi che sono andati a letto la sera prima; è da
questo senso che sorge l'umanità, la quale contribuisce alla nostra vita in maniera
assoluta.
«Non esiste – afferma Esposito - qualcosa come una natura umana definibile e
identificabile in quanto tale, indipendentemente dai significati che la cultura, e
dunque la storia, nel corso del tempo ha impresso in essa»317. Anche qui si tratta di
una questione ontologica: non stiamo parlando di come ogni individuo veda se
stesso, ma del fatto che sia capace di vedersi, il che è situato ad un altro livello.
Le aspettative sociali, le esperienze di vita, le valutazioni devono avere un punto
comune cui fare riferimento e dove entrare in comunicazione, e questo punto
unificante è il sé che sorge nei primi anni di vita. Al contrario l'identità personale ha
bisogno di più tempo per poter entrare in contatto con le emozioni che ci vengono
offerte, in modo da poterle poi ordinare in base a quello che ci sta a cuore e che
sentiamo più vicino a noi, eleggendo una premura fondamentale e adeguando le altre
ad essa in modo soddisfacente. Il nostro essere persone si manifesta entrando nella
socialità poiché prima siamo dei sé: l'identità personale è più ampia di quella sociale
che ne è solo una parte, per quanto importante. L'identità personale è già parte di noi
al nostro esordio nella società e ordina in essa le premure fondamentali: organizza il
soggetto in tutti gli ordini mentre l'identità sociale è limitata alla società.
Grazie a questa proprietà il soggetto, che non è ridotto a epifenomeno della società,
ha la possibilità di influenzare la società in modo trasformativo (morfogenesi) o
316
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 362. Contrariamente a quanto afferma Lukács (e tutti
quei pensatori dell'area comunista che postulano una intelligenza superiore del partito nei confronti
dei singoli che ne fanno parte), per il quale il partito si delinea sulle teste degli individui e ne
organizza la vita, dopo aver spiegato loro cosa sono realmente e come devono agire per ottenere la
libertà, Archer lascia spazio ad ognuno di muoversi come meglio crede nell'ambiente sociale, senza
avere oppressioni poiché possiede una consapevolezza di sé che gli permette di decidere e di valutare
cosa e come fare. Capire chi siamo e cosa vogliamo è un percorso personale e non una strada
disegnata da altre entità. Cfr. G. Lukács, Storia e coscienza di classe, SugarCo, Milano, 1991, pp. 363418.
317
R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino, 2004, p. 22.
15
3
riproduttivo (morfostasi): quale che sia la scelta, di rimando l'agire sarà a sua volta
influenzato ed elaborato da struttura e cultura. È importante nella visione di Archer
«riconoscere che la medesima sequenza che provoca il mutamento sociale è
contemporaneamente
responsabile
della
trasformazione
sistematica
dell'“agency”»318. Non essendo noi super uomini (come suggerisce la conflazione
verso l’alto) che non dobbiamo niente a nessuno e nemmeno debitori alla società,
con nulle prospettive di azione libera, abbiamo quindi la capacità di agire sulla
società stessa sebbene ci sia un rimando, in un continuo rapporto che modifica gli
elementi in questione nel suo svolgersi. Attenzione però: nel soggetto permane il
senso di sé e i poteri ad esso annessi (riflessività, premure) che non sono riducibili
all'ambito sociale, il quale non è che uno dei tre ordini con cui dobbiamo fare i conti.
Mentre il sé sorge dai rapporti con natura e pratica e i poteri singolari emergono
dall'identità personale, i sé sociali necessitano delle strutture sociali e culturali in cui
siamo per vedere la luce; sta poi a noi scegliere se accettarli riproducendoli (non si ha
mai un passivo assenso ma c'è dell'attività, in questo caso riproduttiva, anche nella
condivisione dello status quo) o tentare la trasformazione.
Entrando nella società si ha a che fare con le sue influenze e i suoi poteri, per buona
parte non rappresentati da un sapere discorsivo. Tali poteri, li si riconosca o meno,
esistono e si fanno sentire; sta a noi decidere quanto farli pesare all'interno delle
nostre premure. Definendoci come “sé sociali” si deve dare il giusto risalto ad
entrambi le parole della definizione. Innanzitutto il fatto stesso che ci sia un sé
implica il portare nella società qualcosa di già esistente e non avere debiti con essa;
in secondo luogo la socialità è successiva alla formazione del sé; infine c'è un
movimento da compiere all'interno della società prima di trovare la giusta
collocazione (non perché esista un ruolo esatto per ciascuno, ma piuttosto perché
ognuno decide cosa vuole, ciò che ritiene adeguato per sé).
Il percorso da compiere per arrivare gradualmente ad una identità sociale è composto
da tre diverse fasi:
318

l'Agire Primario legato all'influenza della società sul sé;

l'organizzazione dei singoli in un agire collettivo per poter incidere sulla
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 366.
15
4
società, ossia l'Agire Societario;

lo sviluppo degli Attori Sociali legati all'esito della morfogenesi o della
morfostasi in quanto ai ruoli disponibili.
Un tale processo porterà infine ad un dialogo perenne tra identità sociale e identità
personale per quel che concerne i nostri impegni nella società e le azioni in essa.
Facciamo sempre parte di una società che possiamo non condividere, ma con cui
dobbiamo relazionarci.
Nascita del soggetto sociale
Gli agenti divengono una collettività quando condividono le stesse chances di vita:
ognuno è agente poiché non è una scelta che dipende da noi. In base a questa
involontaria collocazione si può essere svantaggiati o avvantaggiati e quindi in base a
ciò pianificare quale sarà l'agire. Tale agire (agency) viene usato al plurale in quanto
l'incidenza sulla società avviene a livello collettivo o di gruppo, mentre quando si
arriva all'Attore Sociale si passa ad un agire al singolare in quanto riferito ad una
identità unica e irripetibile. Gli attori, sostiene Archer, «acquisiscono la propria
identità sociale dal modo in cui impersonano i ruoli che scelgono di occupare»319. La
scelta e l'impersonare indicano il grado di attività che possediamo anche in seno ad
una società che non ci sovrasta ma lascia spazi all'azione personale tramite la quale
conosciamo qualcosa in più di noi stessi. L'Agire, vista la definizione data, risulta
essere universale e parte di ogni individuo che si affaccia al mondo, mentre invece
l'Attore rappresenta un traguardo non necessariamente raggiungibile da tutti in
quanto rappresenta un ruolo, o dei ruoli, in cui si possa investire se stessi giungendo
ad una identità sociale espressiva di ciò che siamo. L'Agente plurale è il padre
dell'Attore singolare che possiamo diventare, ma questo dipende da noi. Archer
afferma quindi che solo in un secondo tempo la componente sociale si fa sentire nella
formazione dell'individuo, cosa che invece Foucault sostiene come fondamentale fin
da subito, eliminando natura e pratica dalle fonti del sé.
Come si diceva, il senso di sé emerge tramite la pratica e non dipende dalla società.
Ciò non toglie che alla nascita siamo nostro malgrado collocati in una posizione in
319
Ivi, p. 370.
15
5
quella che è la distribuzione sociale delle risorse, tramite la quale tutti sono Agenti
Primari. Il termine “agente” implica, per avere un senso, l'essere agenti di qualcosa:
in questo caso, del sistema socio-culturale in cui ci troviamo nascendo e che, nel
tentativo di trasformare, ci trasforma. In questa fase si assiste a raggruppamenti e riraggruppamenti per quel che riguarda la distribuzione delle risorse e quindi le
chances ad esse legata. Le strutture preesistono a noi e siamo così involontariamente
collocati. Ciò non toglie che si possa modificare la distribuzione di risorse vigente
alla nostra nascita, che non deve essere vissuta come una situazione permanente e
intangibile.
Acquisiamo la proprietà di Agenti Primari, secondo Archer, non appena vediamo la
luce «tramite l'appartenenza a particolari collettività e la condivisione dei loro
privilegi o della mancanza di essi»320. Tale sistemazione non dipende da noi ma
determina le possibilità di vita, prospettando come più facilmente praticabili
determinati ruoli piuttosto che altri, lasciando comunque l'ultima parola alla
decisione dell'individuo. La collocazione che ci rende Agenti Primari non esaurisce
certamente la nostra umanità e non rappresenta un ruolo in cui riconoscerci (in
quanto non è scelto) ma solamente un parte, quella iniziale, di quello che è il viaggio
nella formazione dell'identità sociale.
L'essere avvantaggiati o meno segna le nostre successive scelte in seno alla società
grazie alla capacità che abbiamo di riflettere su questa nostra iniziale collocazione.
Sarà l'“Io” a scoprire molte cose su questa particolare collocazione che rappresenta
l'iniziale “Me” in quanto Agente Primario, il tutto grazie all'autocoscienza acquisita
negli altri livelli, la qual cosa mostra, nel caso ce ne fosse ulteriore bisogno,
l'importanza rivestita da tutto quello che non è la società. In questo raggruppamento
iniziale non sorge alcuna identità peculiare e il “Me” è oggetto sia per la società che
per l'“Io”. Quest'ultimo riflette ogni giorno sulle opportunità oggettive di vita
determinate dall'esterno e che non ha scelto. La nozione di autostima sorge quando
l'“Io” scopre l'esistenza di una serie di cose che lo riguardano e che sono valutate
sebbene involontarie. A ciò si accompagna una emotività simile a quella che riguarda
le scoperte di oggetti autonomi nel mondo, solo che qui riguardano il “Me”. Sia le
proprietà valutate che i pareri sono qui esterni all'individuo, che da parte sua riceverà
320
Ivi, p. 372.
15
6
stimoli dalla posizione che occupa a seconda del peso che darà alle valutazioni
sociali.
Da sempre esiste una mobilità sociale a livello di Agenti Primari, ma non si tratta di
cambiamenti tra gruppi Primari e Societari, bensì di mescolamenti all'interno
dell'Agire Primario stesso e dei suoi limiti. Gli Agenti Primari infatti sono
raggruppati rispetto ad un “Me” e si orientano dentro le delimitazioni della struttura
esistente piuttosto che prospettare dell'altro per migliorare così lo spazio in cui
vivono. Per potere passare al livello Societario si deve sviluppare una azione
collettiva che può sorgere solamente se si ha la consapevolezza di quello che si vuole
raggiungere. In seguito a ciò ci si impegna in un agire delineato a fini morfostatici o
morfogenetici, a seconda dell'obiettivo cui si vuole arrivare. Così, gli Agenti Primari
divengono Agenti Societari, organizzandosi in un “Noi”321. Per poter avere degli
obiettivi si deve possedere la capacità di riflettere e organizzare quello che vogliamo,
321
La riflessione di Touraine si svolge attorno al lavoro, ai movimenti sociali e al soggetto
individuale. In particolare i movimenti sono intesi come azione collettiva che ha potenzialità in seno
al mutamento sociale, per poi passare all'individuo che lotta per la sua autonomia. In tutto ciò
fondamentali sono l'intenzionalità conscia e l'azione a livello sociale, tenendo sempre presente il fatto
che la società influenza tramite norme e valori interiorizzati. L'agente è sempre collocato storicamente
in un contesto ma ha anche la capacità di staccarsene grazie ad un potere riflessivo e creativo con cui
criticarla e cambiarla. Touraine si mostra ostile al funzionalismo per il quale la socializzazione si
riduce all'assimilazione di norme da parte degli individui, con l'evidente negazione della capacità di
azione libera e di mutamento. Al contrario, pur ammettendo il condizionamento, egli nega
l'irrevocabilità e l'immutabilità dello status quo. Questo margine per sfuggire al condizionamento
risiede negli altri mezzi che l'uomo ha per esistere in società, la quale tenta di staccarlo dal rapporto
con se stesso tramite l'industrializzazione e la socializzazione che inducono ad una alienazione. Il
grosso problema è il mondo del lavoro, proposto come il settore più importante, dove le uniche
capacità di azione si sviluppano in questo spazio assai vincolato. Resta il fatto che l'emancipazione
debba avvenire con l'azione di un soggetto libero e autodeterminato con un'etica. La coscienza e la
riflessività sarebbero legate all'intenzionalità finalizzata alla libertà del soggetto che, per potersi
liberare dagli innumerevoli condizionamenti sociali, vede la sua salvezza nel processo di
individualizzazione. Il cammino personale verso la libertà è la soluzione proposta da Touraine in seno
ad una società le cui strutture non sono stabili e immobili ma mutano e si trasformano e sono quindi
suscettibili di azione da parte dei soggetti. Ciò che determina l'azione non può essere ridotto alla
struttura perché nell'agire stesso tale determinante muta divenendo qualcosa d'altro: c'è originalità
nell'azione stessa e nel soggetto che la compie. L'attore cambia la struttura, e l'obiettivo deve essere
diretto a quelle sfere che controllano gli orientamenti e di fatto (ri)producono la società. Gli attori si
devono organizzare in movimenti che agiscono non solamente a livello politico ma anche per quel che
riguarda le idee, le visioni del mondo, la diffusione delle informazioni (contro la società programmata
con il suo capillare controllo delle fonti): l'obiettivo più importante che i movimenti si devono porre è
la dimensione del controllo degli orientamenti culturali e non restare limitati alla politica o
all'organizzazione. Il fine di ogni movimento è di permettere l'accrescimento della capacità di azione e
di scelta dei singoli. Cfr. A. Touraine, Critica della modernità, Il Saggiatore, Milano, 1993.
15
7
senza che nessuno dall’esterno ci imponga il suo volere. Nella solitudine della nostra
conversazione interiore delineiamo quello che vogliamo sia il nostro futuro, la qual
scelta poi avrà realizzazione nella pratica comunitaria.
La differenza principale tra Agenti Primari e Societari, secondo Archer, risiede nel
fatto che, mentre i primi mancano di «un potere d'interlocuzione nella definizione dei
modelli strutturali o culturali»322, i secondi esprimono interessi e si organizzano per
perseguire lo scopo che si sono proposti. Gli Agenti Societari hanno «le capacità di
articolare interessi condivisi, organizzandosi per l'azione collettiva, generando i
movimenti sociali e esercitando un'influenza organizzata nell'assunzione delle
decisioni»323. L'attività è una caratteristica propria degli Agenti Societari che sono
propositivi e possiedono la facoltà di organizzarsi. Gli Agenti Primari invece
reagiscono a quanto accade loro, ossia ad eventi di cui non sono i protagonisti,
restando nei limiti di una situazione preesistente. Essi possiedono però la facoltà di
ricostituire l'ambiente che l'Agire Societario cerca di controllare al fine di plasmare il
contesto per gli Attori.
L'Agire Societario si trova a dover da una parte perseguire i propri compiti autodichiarati in un contesto precedente e dall'altra ad affrontare le risposte degli Agenti
Primari che cambiano di volta in volta il contesto stesso su cui il primo si trova ad
agire. In tale “doppia morfogenesi” l'Agire, per raggiungere la riproduzione o la
trasformazione, sostiene o modifica le categorie dell'Agire Primario e Societario. Ci
sono sempre delle risposte da parte di ciò su cui si agisce: sarebbe utopistico pensare
di poter agire su di un contesto senza che esso reagisca mutando così il carattere
stesso dell'azione.
Nello scenario morfogenetico si assiste ad una crescita del numero degli Agenti
Societari, i quali entrano in conflitto tra loro a seconda dei vari interessi che stanno
perseguendo. Al contempo cala il numero di Agenti Primari poiché essi vanno a
ingrossare le fila degli Agenti Societari. Qui l'“Io”, riflettendo sul “Me” che gli è
capitato come collocazione, se si ritiene insoddisfatto agisce sulle condizioni socioculturali tramite l'elaborazione di un “Noi”, composto da membri che ne condividono
fine e organizzazione. In seguito a ciò, se l'esito sarà di cambiamento, avremo una
322
323
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 376.
Ivi, p. 377.
15
8
diversa offerta di ruoli in cui investire se stessi, tra cui l'“Io” potrà scegliere per poter
divenire Attore Sociale. Volendo riassumere «le attività degli Agenti Societari
rappresentano il meccanismo di collegamento che restringe lo iato tra l'“Io” e il
“Me”»324.
La collettività di agenti che si viene a creare è comunque insita in un contesto socioculturale che li condiziona, non permettendogli di fare ciò che vogliono. Anche se la
collocazione è involontaria i suoi effetti e i suo poteri sono sentiti da chi ne fa parte.
L'azione collettiva può ricevere una spinta o esser soffocata dal contesto sistemico in
cui sorge. Nelle varie formazioni sociali si possono così riconoscere caratteristiche
che le delineano come ostili o favorevoli al raggruppamento degli Agenti Primari,
leggasi alla formazione di Agenti Societari; ciò perché i fattori strutturali e culturali
agiscono limitando o agevolando il passaggio ad una azione collettiva. Questo non
avviene senza conseguenze poiché a causa della “doppia morfogenesi” «l'agire è
trasformato nel corso della trasformazione sociale stessa»325, come ci ricorda Archer.
Per meglio comprendere come avvenga questa trasformazione degli agenti, di seguito
sono affrontati tre casi di società, l'una statica, l'altra diversificata e l'ultima
dinamica.
Società statica. In seno a questo tipo di società esiste un gruppo socialmente
dominante che abbraccia un ambito culturale con delle idee egemoniche. Non
essendoci opposizione creativa, diventa facile offrire agli Agenti Primari le idee
dominanti, arrivando in tal modo ad una unificazione culturale. La reciproca
influenza di PES (proprietà sociali emergenti) e PEC (proprietà culturali emergenti)
rafforza lo status quo perpetuando la divisione tra Agenti Primari e Societari, i quali
tengono i primi dove sono, avendo il potere sociale. Non essendovi idee alternative
che potrebbero essere abbracciate dagli Agenti Primari organizzatisi in collettività,
tutto resta così come è; si ha una élite culturale che produce una popolazione
unificata. Né nell'ambito sociale né il quello culturale esiste la materia prima (idee
alternative o gruppi organizzati) che permette il formarsi di un Agire Societario: il
massimo della resistenza è atomistico (tale precisazione è estremamente importante.
324
325
Ivi, p. 379.
Ivi, p. 382.
15
9
Dal momento che le idee non vengono solo dall’esterno ma possono sorgere negli
individui, persiste sempre la possibilità che qualcuno ipotizzi e faccia sua una linea
di pensiero che non è aderente al sistema vigente. Il problema è di carattere
quantitativo in questo caso, poiché una sola persona, senza il supporto di altre che ne
condividano il parere, può poco o nulla nell’ambito sociale. Ciò non toglie che
restiamo sempre liberi di riflettere sul mondo che ci circonda, anche fossimo gli unici
a vederla in un certo modo, lasciando così spazio alla libertà umana di concepire una
alternativa allo status quo). La morfostasi culturale (domina un unico discorso
culturale) si accompagna ad una morfostasi strutturale (è presente una sola struttura
monolitica di potere) e reciprocamente si sostengono poiché i rischi di un attacco
vicendevole sono troppo alti: si perderebbe più di quello che ci si guadagna.
Appoggiandosi l'un l'altro possono persistere entrambe senza nemici: gli unici
movimenti sono quelli funzionali a riprodurre il quadro esistente.
Società diversificata. Si può assistere ad una rottura tra struttura e cultura per cui
l'Agire Societario si sfalda dividendosi in gruppi contrapposti. Esistono due casi
all'interno di questa frattura, ossia quando la divisione parte dal livello strutturale
oppure dal livello culturale.
Quando nell'ambito strutturale assistiamo ad una differenziazione dei gruppi di
interesse materiale, questi tendono a volersi affermare e progredire in un contesto
culturale stabile che quindi non offre spinte alla differenziazione. Agli Agenti
Societari che si vengono a formare manca un appiglio culturale e, per trovarlo, si
aggrappano alle contraddizioni della cultura dominante producendo interpretazioni
adatte al piano che vogliono sostenere. Accaduto ciò il sistema culturale non si può
più perpetuare in tranquillità ma è costretto ad affrontare le nuove idee sorte, dando
così il via ad un mutamento interno. Come si può capire la morfogenesi non sarebbe
iniziata se nessun gruppo di interesse materiale fosse emerso in seno alla struttura
poiché sarebbero mancati gli agenti in grado di promuoverla. Alla fine abbiamo degli
Agenti Societari che si ritrovano portatori anche di una ideologia, oltre che espressivi
di un interesse materiale. Le nuove idee si veicolano a gruppi di interesse materiale
per poter così avere espressione.
Viceversa, può essere la morfogenesi culturale ad avviare il processo elaborativo. In
16
0
un simile contesto il controllo sociale lavora contro il ri-raggruppamento della
società e, dal momento che una diversificazione culturale implica nuovi gruppi di
sostegno, le limitazioni strutturali a tale diversificazione rallenteranno l'emergere
della varietà ideativa. Con la morfogenesi culturale si propongono quindi nuove idee
capaci di inserirsi nell'ambito strutturale; in seguito a questa differenziazione le
persone iniziano a valutare delle alternative all’ideologia corrente e a creare
concorrenza ideazionale. Dal momento che gli attori culturali sono anche attori
sociali, essi cercano di organizzarsi in modo da formare dei gruppi di sostegno
abbastanza forti promuovendo così un ri-raggruppamento degli agenti: gli Agenti
Primari sono ora bersaglio di manipolazione e mobilitazione e l'Agire Societario
presenta dei contrasti.
Società dinamica. In questo ultimo caso un numero sempre maggiori di gruppi si
organizza e si articola entrando a far parte dell'Agire Societario, per cui la
morfogenesi si realizza in parallelo negli ambiti strutturale e culturale. Tutti questi
gruppi si ritrovano a dover interagire tra di loro per cui diversi interessi materiali e
ideali si intersecano, portando ad una reciproca influenza. Il pluralismo ideativo è
supportato da un appoggio sociale, evitando così di ricadere nella morfostasi, e la
vita sociale trova diverse idee cui appigliarsi e differenziarsi. Il fatto che ci siano
numerosi Agenti Societari ha risvolti anche sul rimodellamento del contesto degli
Agenti Primari, che giocoforza sono trascinati nella disputa. Notando la varietà di
organizzazioni, gli Agenti Primari si possono rendere conto delle proprie capacità e
avviarsi così a trasformarsi anch'essi in Agenti Societari.
Il pluralismo ideativo, alimentato dalla morfogenesi culturale, conduce ad una
specializzazione i cui effetti sono scissioni in seno alla popolazione, che si polarizza
sulle sue posizioni. Struttura e cultura interagiscono sempre per cui si assiste ad un
ri-raggruppamento che permette l'accentuazione delle differenze. Gli Agenti Societari
sono latori di diverse istanze attorno a cui si raccolgono gli Agenti Primari che
vedono così scemare il loro numero, passando dalla passività, vissuta come
immodificabile, all'attività legata alla consapevolezza delle loro capacità. Il residuo
di Agenti Primari che non riesce a organizzarsi o unirsi ad un gruppo è condannato
alla passività perché non riesce a passa al livello di Agenti Societari dove, nella
16
1
visione di Archer, «più “Me” involontari [...] hanno trovato un “Noi” con cui si
associano volontariamente [...], dato che molti più “Io” credono che le loro posizioni
saranno potenziate se vi si uniscono»326. La presenza di molti Agenti Societari
propone una elevata quantità di ruoli disponibili in cui investire il proprio “Io”, così
da permettere ad un maggior numero di Agenti di diventare quegli Attori Sociali con
cui potersi identificare e acquistare una identità sociale soddisfacente.
Attori e impegno
I ruoli che si possono assumere in seno alla società possiedono delle caratteristiche
proprie che condizionano, senza determinare, chi li occupa. Dal momento che i ruoli
disponibili sono creati dall'Agire sociale tramite l'interazione tra i gruppi e le
collettività che li ridefiniscono, l'Agire sociale non equivale all'Attore sociale.
Abbiamo, secondo Archer, «un concetto dell'Attore Sociale che diventa tale
scegliendo di identificare se stesso/a con un ruolo peculiare e di personificarlo
attivamente in una maniera particolaristica. I reali interessi dell'Attore derivano dal
ruolo che ha scelto di personificare»327. A seconda dei desideri che possiede, ogni
individuo decide quale sia il ruolo che più gli si addice, valutandone ovviamente le
conseguenze implicite legate a vincoli e facilitazioni. Una volta assunto un ruolo non
si tratta poi di riprodurre passivamente quanto ci si aspetta da noi, come fossimo
operai perfetti in una ideale catena di montaggio in cui tutti sono utili ma nessuno è
necessario; ci mettiamo, come si suol dire, “del nostro” nel ruolo che vogliamo
assumere. Ciò non toglie che ci si possa limitare a fare il proprio ruolino pari pari alle
richieste, ma questa è una scelta che facciamo consapevolmente poiché c'è un
margine di libertà nell'ambito sociale e vi possiamo apportare quello che siamo e che
ci viene dal non sociale.
Il nostro essere Agenti precede il nostro essere Attori, poiché Agenti lo siamo
involontariamente in base alla nostra collocazione iniziale. Nonostante non dipenda
da noi tale posizione, gli interessi che abbiamo e che rimandano ad essa rendono
ragionevole la scelta di un ruolo. Entrando in contatto con le altre collettività l'Agire
Societario amplia la disponibilità di ruoli che potremmo assumere, mentre noi,
326
327
Ivi, p. 398.
Ivi, p. 402.
16
2
all'interno della nostra collettività, acquisiamo una maggiore capacità di articolare i
nostri interessi e quindi di trovare un ruolo che soddisfi le nostre esigenze. Il nostro
potere riflessivo anche qui si fa sentire per portarci alla soluzione che sentiamo più
adatta. La collocazione primaria che abbiamo incide sulle risorse disponibili e sulle
informazioni di cui possiamo venire a conoscenza, cui sono legati dei costi
differenziali che costituiscono delle ragioni importanti nel guidare ciò verso cui
opteremo. Gli interessi iniziali degli Agenti dovuti alle possibilità di vita sono la leva
per scegliere inizialmente i corsi di azione. La stessa gamma di ruoli tra cui
scegliamo dipende dalle informazioni, dai modelli di ruolo ed esperienze di lavoro
cui possiamo attingere, anch'esse dipendenti dalla collocazione involontaria iniziale.
La mancanza di conoscenza ci può frenare nella ricerca di un ruolo che esiste,
sebbene non sia conosciuto da noi; ciò può portare a declinare su altro oppure a
continuare la ricerca. Da qui si evince che più è limitato il contesto in cui nasciamo,
meno possibilità abbiamo a disposizione per realizzarci. Non si tratta di
determinismo legato alla nascita, poiché è sempre possibile dare una svolta: dipende
sempre da quanto crediamo nella nostra scala di valori il fatto di rassegnarsi ad una
realtà che non ci piace.
Oltre al pre-raggruppamento iniziale dell'Agire Sociale si assiste poi ad un riraggruppamento promozionale collegato all'affrontare dei problemi. A seconda della
soluzione che si abbraccia ci si raggruppa nuovamente nei nuovi gruppi di interesse
che già indicano dei ruoli e posizioni disponibili. Come Agenti Sociali, i gruppi e le
collettività fronteggiano i problemi connessi agli interessi ma non ai ruoli, che non
sono così aderenti ai primi. La morfogenesi messa in moto dagli Agenti Societari,
che trasformano in maniera collaborativa il contesto, elabora ruoli e regole per
affrontare i problemi che gli si parano davanti. Il ri-raggruppamento, seguente la
scelta della via per risolvere le situazioni, fornisce ruoli e regole come conseguenze
non volute poiché il suo obiettivo sarebbe semplicemente quello di fronteggiare una
difficoltà. «In altri termini – considera Archer - l'Agire crea molto più spazio per
l'Attore, che non è condannato alla gamma delle posizioni disponibili»328. Ci
fermassimo al pre-raggruppamento non ci sarebbe morfogenesi perché tutto sarebbe
già stabilito involontariamente; invece, a seguito dei gruppi di interesse che l'Agire
328
Ivi, p. 407.
16
3
Societario promuove e mette a disposizione nella società, si vengono a offrire
ulteriori opportunità legate alla definizione degli Attori. Per poter raggiungere uno
scopo l'Agire Societario propone ruoli da occupare attivamente, restando sempre ben
presente che tutto questo non avviene senza reciproche influenze e interazioni che
fanno cambiare i termini in questione durante il loro svolgimento. Agente Sociale e
Attore Sociale sono la stessa persona a livelli analitici e temporali diversi nella
visione di Archer, poiché «molti di noi appartengono a movimenti sociali o li
appoggiano oltre a occupare e personificare volutamente i ruoli che abbiamo
scelto»329.
«Il funzionamento di qualsiasi società dipende dall'esistenza di un'adeguata
consapevolezza di sé tra le persone che ne fanno parte»330. Il fondamento di ogni
descrizione del soggetto, sia in merito alle sue capacità o ai ruoli che assume, risiede
nel sapersi sé del soggetto stesso. Prima ancora della consapevolezza di un mondo
esterno ci deve essere quella rivolta a noi stessi in quanto possibili conoscitori di un
mondo esterno. Dobbiamo farci da riferimento a cui rimandare tutto quello che ci
riguarda e che sentiamo: non possiamo entrare nella società senza sapere chi siamo.
Gli Attori sono attivi interpreti dei ruoli che decidono di assumere poiché le persone
sanno portare in essi la propria riflessività e creatività. Nel caso ci venisse tutto dalla
società anche i ruoli stessi ci assorbirebbero in ogni senso, non permettendoci di
apportarvi qualcosa ma limitandoci a perpetuare le regole e le aspettative insite in
essi. Raggiungere una soddisfacente identità sociale implica che degli individui, con
una già formata identità personale, entrino in un ruolo personificandolo per quello
che sono e non ripetendo ordini prestabiliti.
Il rapporto che intercorre tra identità sociale e personale è così importante che, pur
essendo distinte ed emergenti, esse contribuiscono al reciproco emergere e
all'originalità dell'altra. Tale percorso viene esposto da Archer in tre momenti.
Momento uno. Come mai si arriva a voler sperimentare un ruolo sociale scelto
consapevolmente (non come ruolo involontario che comunque ha il suo peso ai fini
della spiegazione)? All'inizio l'identità personale prevale su quella sociale in quanto,
329
330
Ibidem.
M. S. Archer, La conversazione interiore, cit., p. 93.
16
4
di fronte ad una scelta, l'individuo può fare affidamento sulle esperienze accumulate
nei tre ordini della realtà. Per quanto poco possa essere affinata, tale esperienza basta
a regolare cosa si deve cercare o evitare nella gamma dei ruoli occupazionali, come
avviene a livello naturale. L'ordine pratico indica invece quali siano le attività da cui
traiamo soddisfazione e quali siano fonte di frustrazione (ciò già a livello infantile
quando ci rapportiamo con i giocattoli). Inoltre la riflessività, che è propria anche dei
bambini calati in ruoli involontari, fa scegliere in che campo sociale investire se
stessi per ricevere autostima. Gli elementi che derivano dai rapporto coi tre ordini di
realtà formano l'identità personale la quale, tramite la conversazione interiore,
porterà alla luce quale sia il tipo di persona che vogliamo diventare. Essendo un
processo dialettico può succedere che tale proposito muti alla luce delle ulteriori
esperienze con cui abbiamo a che fare: quella che alla fine sarà l'identità personale ci
perviene tramite indizi provenienti dai tre ordini che noi dobbiamo riunire e
organizzare per scoprire cosa vogliamo, al fine di compiere una scelta in merito al
ruolo da assumere.
Momento due. Ogni scelta compiuta dall’individuo è fallibile perché viene compiuta
prima di poterne fare esperienza e quindi non se ne ha conoscenza. Qui l'identità
sociale impatta sull'identità personale la quale dovrà scegliere se appropriarsi della
scelta fatta o rifuggirla in cerca di qualcosa di più consono alle sue aspettative e
desideri. Sia sotto l'aspetto ideologico che lavorativo il ruolo dovrà essere gradito
poiché essi sono facce della stessa medaglia. Solo con la sperimentazione si può
arrivare a capire veramente se il ruolo scelto sia adatto o meno, ma durante il
processo avvengono cambiamenti soggettivi e oggettivi. Dal punto di vista
soggettivo l'individuo impara nuove cose su di sé, su quanto gli piace e su cosa gli
dia soddisfazione, mentre dal punto di vista oggettivo sono cambiati i costi di
opportunità perché, ad esempio, l'età avanza e la formazione ricevuta può essere
inadatta per la nuova situazione in cui ci vogliamo calare. La possibilità di
correggere il tiro ha dei limiti e dei costi sociali, oltre che personali. Restare disillusi
dopo aver intrapreso un'attività in cui si è falliti comporta, oltre all'oggettivo danno
economico e alla reputazione e credibilità che sono più basse, un desiderio minore di
investire se stessi in qualcosa di nuovo, per paura di correre nuovamente il rischio o
16
5
di mettersi alla prova. Non è così semplice, dopo aver intrapreso una via che si è
dimostrata errata, riprendere. Noi non siamo più quelli di prima e nemmeno quelli
che ci stanno attorno, quindi la conversazione interiore e il riordino delle premure è
da rifare. «Avendo “fallito” nell'assicurarsi un ruolo o ruoli sociali che sono
considerati un importante aspetto della persona, un ulteriore dialogo interiore deve
riuscire a trovare un qualche modus vivendi che è soddisfacentemente vivibile, senza
l'identità sociale cui si aspirava nel primo momento»331 suggerisce Archer. Oltre che
capire cosa vogliamo di nuovo, è necessario comprendere che quanto avevamo prima
non ci sarà più: lo sforzo è elevato per pianificare una nuova vita con i fattori che ci
ritroviamo in mano.
Momento tre. Anche coloro ai quali la sperimentazione del ruolo sociale è giunta a
buon fine devono comunque affrontare la conversazione interiore per decidere
quanto investire di sé nel ruolo assunto. Qui si ha la sintesi tra l'identità personale e
quella sociale che appaiono sulla stessa lunghezza d'onda.
Ogni ruolo ha le sue implicazioni in quanto a impegno, tempo ed energia da
dedicargli, nonché delle aspettative sociali, ma sono le persone a decidere che
priorità assegnare ai vari ruoli che assumono (genitore e avvocato possono essere
ruoli insiti in una stessa persona che si trova così costretta a fissare dei limiti inerenti
ad ognuno di essi; si può sacrificare il proprio essere genitore in favore della carriera,
o viceversa restare in famiglia lavorando part-time. Tutto risiede in ciò che una
persona ritiene sia più soddisfacente per la propria affermazione) e alle pressioni
sociali. Ogni persona è in grado di soppesare i diversi ruoli sociali con tutte le
proprietà e limiti che comportano, e sono quindi anche capaci di valutare le premure
sociali verso gli altri impegni assunti. L'identità sociale trova posto nell'identità
personale la quale stabilisce le priorità. Una volta fatto, l'identità complessiva deve
regolarsi per assecondare le premure.
Chi agisce a suo modo nel ruolo lo personifica in maniera peculiare per realizzare la
propria identità sociale in quanto Attore. L'identità personale, secondo Archer, non ci
viene dalla società perché «senza personalizzazione nessuna identità sociale deriva
331
M. S. Archer, Essere umani, cit., p. 414.
16
6
da alcun ruolo»332. Facendo aderire identità sociale e personale ci si ritroverebbe ad
avere a che fare con degli automi che assumono dei ruoli e li assecondano in tutto e
per tutto, cosa che invece non accade. Arriviamo nel ruolo innanzitutto scegliendolo,
per poi personificarlo a seconda di ciò che noi siamo, ossia grazie all'identità
personale formata nei tre livelli.
L'identità sociale può essere vista come un processo di individuazione progressiva
sostenuta dall'essere umano, auto-cosciente grazie alla pratica. In questa
individuazione sono presenti vari personaggi, tutti interni all'essere umano, ma da
diversi punti di vista e temporalità nonché profondità di conoscenza. Gli stessi livelli
sono riscontrabili all'interno del singolo individuo, ovviamente con altra definizione,
ma resta il fatto che la stratificazione dell'individuo nella società rispecchia quella
interna al singolo. Come in un circolo ognuno passa in rassegna i propri strati interni
per scovare la propria identità personale, passando quindi a livello sociale per
ritrovare strati simili, anch'essi necessari nella formazione dell'identità, ma stavolta
riferita appunto alla società.

“Io” è il protagonista di tutto il processo e implica un senso continuo di sé per
tutta la sequenza di individuazione;

“Me” è un sé inteso come oggetto riferito al passato dell'individuo, compreso
il posizionamento involontario nella distribuzione delle risorse, facendone
così un Agente Primario;

“Noi” rappresenta l'azione collettiva in cui il sé si impegna divenendo Agire
Societario che persegue la trasformazione sociale, la quale a sua volta
conduce ad una modificazione dell'Agire stesso e dei ruoli esistenti;

“Tu” è la posizione che si decide di assumere in seno ai risultati del “Noi” e
ci caratterizza come Attori.
I poteri personali (PEP) quali il sé, l'agente, l'attore e la persona particolare mutano i
loro costituenti interni e hanno effetto causale sull'ambiente. Il sé ha la capacità
permanente di auto-monitorarsi e di monitorare la società, cosa che gli permette di
assumere gli impegni che egli stesso decide. La morfogenesi dell'identità personale e
332
Ivi, p. 416.
16
7
sociale avviene nella consapevolezza del sé come risultato di una autocoscienza,
senza la quale nemmeno ci renderemmo conto di quanto accade. In tal modo è
possibile immettere della creatività del tutto estranea a quella che sarebbe
l'assunzione di un ruolo, per come lo intende la conflazione verso il basso.
Assistiamo ad un flusso continuo di prestazioni senza copione nell'interpretazione dei
ruoli da parte dell'individuo, producendo così anche trasformazioni nella normatività
sociale. Questi sconvolgimenti interni al ruolo lo rendono elastico e impediscono che
si fossilizzi in una mera ripetizione di atti precostituiti. Noi entriamo sì in un ruolo
ma non veniamo costretti da esso: piuttosto, lo sformiamo per farlo adattare a noi,
pur tenendolo sempre addosso. Anche quando abbiamo un ruolo la nostra identità
continua il suo lavoro di riflessione vivendo un'esistenza interiore invisibile,
valutativa e meditativa.
Ognuno decide se incanalare i propri poteri (fonti di decisione e autonomia) in un
impegno che sente come suo. La conversazione interiore si svolge riguardo ai tre
ordini della realtà ma in seno ad un soggetto fondato che può anche rapportarsi col
mondo esterno come oggetto riflettendovi sopra. Tutto il nostro riflettere non deve
essere visto come un meccanismo per giungere alle nostre premure ma si va ben
oltre, avendo premura delle nostre premure, ossia l'impegno. Crediamo in quello che
facciamo, ci riconosciamo nel progetto intrapreso. Il modus vivendi che decidiamo di
seguire non resta invisibile agli occhi altrui ma si riflette sui nostri rapporti con gli
altri e su come le altre persone ci troveranno. Il nostro passaggio marchia ciò che
incontriamo, come accade nel caso del ruolo sociale. La vita non si esaurisce in una
perenne comprensione delle regole che servono per proseguire ma implica una
riflessione su di esse dal punto di vista etico con l'apporto della creatività e quindi
personalizzando l'esistenza stessa. Una volta assunta una identità sociale possiamo
affrontare “Io”, “Tu”, “Noi” e “Me” dalla nuova prospettiva in cui siamo, mutandone
così la visione che avevamo in precedenza.
Nel dialogo tra soggetto e soggetto l'“Io” è mutato (sia in identità personale che
sociale) e quindi l'autocoscienza ha qualcosa di nuovo con cui fare i conti. “Io” è
diventato qualcosa grazie alle premure che mi sono scelto. Mi posso volgere al “Tu”,
ossia a quello che voglio essere, per comprendere quanto sia aderente a ciò che
volevo essere la mia attualità, passando quindi al futuro e a cosa dovrei fare per
16
8
mantenere questa situazione o modificarla. È qualcosa verso cui puntare, insomma, e
con cui convivere per non perdere di vista i miei obiettivi. Esige una assunzione di
responsabilità per poter vivere l'identità che ho voluto essere: l'“Io” si trova sempre
nella posizione di soppesare le aspirazioni del “Tu” futuro in base alle conoscenze
fornite dal passato. Assistiamo in Archer ad un impegno verso noi stessi: «il sé è
stato plasmato, ma ora deve farsi strada nel mondo»333. C'è un continuo re-impegno
dell'“Io” verso il “Tu”, in modo da poterlo sviluppare e ridurre al minimo la
differenza tra i due.
Con l'assunzione del ruolo occupiamo anche una nuova posizione nella distribuzione
delle risorse, per cui questo “Me” ha chances non del tutto involontarie dal momento
che, in quanto soggetti attivi, collaboriamo a fare di noi quello che siamo, sempre a
partire dall'iniziale involontaria collocazione. Riflettendo sulla collocazione che ho
ora assunto, in base a ciò che sono e a chi sono in quanto “Io”, decido se tale
distribuzione sia equa o meno, adoperandomi per agire di conseguenza. Mi rivedo
qui come Agente Primario ma con maggiore consapevolezza di quello che è possibile
fare grazie ad un nuovo ciclo della conversazione interiore, «in cui – afferma Archer
- il soggetto si sforza di ridurre il divario tra ciò che è diventato e ciò che vorrebbe
essere»334.
Interpretata la collocazione si passa all'agire collettivo che sarà funzionale alla
mutazione o alla riproduzione del sistema vigente. Dal momento che il ruolo non
esaurisce il nostro investimento, in quanto abbiamo anche altri livelli da soddisfare,
l'auto-investimento non si riduce alla società. Monitoriamo nuovamente i nostri
impegni per decidere poi con chi e in che modo allearci per poter conseguire il nostro
risultato. È questa continua attenzione per le nostre premure che mostra la continuità
dell'identità personale. Riferendole sempre a noi ed essendo espressione di ciò che
sentiamo soddisfacente sottolineano l'esistenza di un soggetto forte e sottostante.
Interazione con la società
Le proprietà strutturali e culturali modellano l'ambiente prima che ognuno venga al
333
334
Ivi, p. 424.
Ivi, p. 426.
16
9
mondo, risultando così antecedenti rispetto ad ogni agire sociale. In tal modo le
posizioni sono definite in modo oggettivo prima ancora che giungano gli occupanti
di esse. Ogni azione sociale non può essere decontestualizzata in quanto avviene
nella società. Non c'è dubbio alcuno che i poteri strutturali e culturali pesino sulle
persone, e la loro interazione con noi è da definire come una influenza piuttosto che
come una determinazione.
La nostra vita prende avvio in una distribuzione di risorse non dipendente da noi e il
nostro agire successivo non è libero ma diretto ad una perpetuazione o ad una
sovversione di questa situazione. Sebbene sussistano la volontà e l'intenzionalità, ciò
non toglie che il posizionamento iniziale resti indipendente da ciò che noi ne
pensiamo. Le influenze che ci derivano sono situate a livello di struttura e di cultura,
le quali creano in noi degli interessi acquisiti legati appunto al nostro rank sociale335.
Per poter agire tali interessi acquisiti necessitano di qualcuno che li acquisisca, quale
che sia la sua posizione: è qui che entra in gioco il soggetto con il suo sé e la sua
identità personale già delineata grazie al rapporto coi tre livelli. L'effetto principale
del posizionamento è di suddividere la popolazione in due gruppi: chi è interessato al
mantenimento dello status quo e chi invece vorrebbe cambiarlo. Tale scelta deriva
dagli interessi acquisiti che predispongono i corsi di azione senza obbligarne però la
percorrenza. «In quanto membri della società, tutti – sostiene Archer - hanno
interessi acquisiti»336 tramite i quali le proprietà culturali e strutturali si fanno sentire.
Non è scontato che poi vengano abbracciati, ma il fatto che esistano è indiscutibile.
Presentandosi come vantaggi o svantaggi si può sostenere che chi si trova
avvantaggiato abbia interesse a mantenere la distribuzione attuale mentre invece chi
è senza privilegi vorrebbe cambiare la medesima situazione. Questo non indica un
obbligo ma un trend riscontrabile sebbene l'ultima parola spetti comunque
all'individuo inserito nella società. Spesso questo trend viene vissuto come una legge
335
Un interesse acquisito si deve intendere come la dote che una certa posizione sociale
consegna a chi la occupa. Le posizioni sociali disponibili sono dettate dalla società in cui ci si trova,
che a sua volta è stata delineata dai nostri predecessori: l’elemento temporale è fondamentale perché è
dal passato che provengono le influenze cui siamo sottoposti nel presente, restando sempre ben inteso
che siamo liberi di comportarci diversamente da quanto ci detta lo status quo o la posizione che
occupiamo. Ovviamente a seconda della collocazione che abbiamo alcune scelte avranno meno
“prezzo da pagare” rispetto ad altre (costi di opportunità).
336
M. S. Archer, La morfogenesi della società, cit., p. 230.
17
0
valevole sempre, attraverso la quale si pretende di spiegare e stabilizzare il
comportamento umano. Così non è, dal momento che un margine di intenzionalità e
libertà persiste sempre, visto che siamo in grado, grazie al nostro sé e alle nostre
decisioni, di agire nella società a modo nostro, seguendo e perseguendo ciò che ci sta
a cuore.
«Senza deprivare – afferma Archer - in alcun modo gli agenti della loro
fondamentale libertà interpretativa, le influenze strutturali reali fanno sì che dei costi
di opportunità oggettivi siano associati alle diverse reazioni alle situazioni frustranti
o gratificanti, che condizionano (senza determinarle) le interpretazioni che le
riguardano»337. Tali influenze sono solamente condizionali, per cui nulla impedisce
una rinuncia agli interessi acquisiti.
I costi di opportunità agiscono in due maniere sui progetti: da un lato nei confronti
della riuscita del progetto intrapreso, e dall'altra sui progetti che si possono
intraprendere. Lo stesso corso di azione ha costi diversi a seconda di chi sia
l'individuo che si impegna in esso: tutto dipende dalla sua posizione iniziale in
quanto Agente Primario poiché i limiti e le risorse sono le espressioni situazionali
delle strutture. Il valore di tali influenze sta nell'indicare quale sia la via più semplice
per ogni individuo ma questo non obbliga nessuno a percorrerla. Se una persona, nata
in una famiglia con scarse possibilità economiche, aspira ad intraprendere un corso di
studi economicamente oneroso, i costi di opportunità gli mostrano la difficoltà nella
riuscita del suo progetto, ma ciò non toglie che egli vi si possa dedicare per
realizzarlo.
Da ciò si evince che il corso di azione intrapreso è legato all'influenza delle strutture.
Il puntofondamentale nell'opinione di Archer sta nel «parlare di come le strutture
condizionano l'azione, senza compromettere i poteri autonomi di riflessività e di
autocontrollo dell'agire»338. Nonostante siano in possesso di poteri e capacità
peculiari, gli individui non possono fare quello che vogliono nell'ambiente in cui si
trovano, e tali limiti sono dettati dai costi e dai premi che la società offre tramite
struttura e cultura. La distribuzione di costi e benefici influenza non solo l'azione ma
anche l'interpretazione che di essa se ne può dare. Questo condizionamento è una
337
338
Ivi, p. 233.
Ivi, p. 237.
17
1
ragione materiale che ci suggerisce quale sia la via meno onerosa da percorrere ma
noi, in quanto esseri umani, non abbiamo solamente considerazioni materiali che ci
fanno agire in una maniera piuttosto che in un'altra. Solo gli agenti decidono il peso
da dare alle situazioni, gli scambi effettuabili e i sacrifici da fare: non esiste un
Sistema Internazionale delle misure per valutare per cosa valga la pena di vivere.
L'esistenza di una valutazione soggettiva delle situazioni e la resistenza alle
coercizioni permette l'innovazione e la libertà degli individui che non sono
determinati dall'ambiente in cui si trovano sebbene esso indichi delle vie
preferenziali. Con l'autoriflessività le persone assumono i propri impegni con
interesse, siano essi di carattere materiale o ideale. Pur potendo esistere una
discrepanza tra i due non è sostenibile una divergenza prolungata. Da ciò non si deve
pensare che gli interessi materiali abbiano più potere di quelli ideali, poiché i
sacrifici affondano le radici in credenze e priorità legate a valori. Il fine che si
considera come il bene più importante può far sopportare ostacoli e punizioni che
risultano inconcepibili agli occhi di chi assume altre gerarchie nella propria
esistenza.
Si parla qui di relazioni di secondo ordine, scaturite da interazioni sociali precedenti,
e che producono quattro sistemi istituzionali in cui ci si può trovare.
Complementarietà necessarie. Le istituzioni si rafforzano in questo contesto dove i
legami tra le strutture sistemiche sono necessari e complementari. In tale situazione
tutti hanno da perdere da una eventuale disgregazione del sistema per cui la logica
situazionale suggerisce la protezione: abbiamo una reciprocità di benefici che
cementa il legame. La perpetuazione è seguita da premi mentre le rotture portano
sanzioni.
Incompatibilità necessarie. Le istituzioni sono qui incompatibili ma non di meno la
relazione tra loro è necessaria. La relazione è minacciata nella sua tenuta da questo
dissidio per cui le parti in causa adottano una logica di compromesso e contenimento
per evitare la reciproca dissoluzione. Il bilanciamento è necessario per mantenere
l'esistenza di entrambi gli schieramenti anche se l'equilibrio è instabile in un siffatto
sistema, in cui il potenziale di cambiamento è forte.
17
2
Incompatibilità contingenti. La società è un sistema aperto e le formazioni che
sorgono in essa non sono isolate l'una dall'altra ma si influenzano a vicenda pur non
essendo necessariamente legate. Tale mancanza di legame promuove la logica
dell'eliminazione della concorrenza poiché il guadagno maggiore si ha infliggendo
danno all'avversario.
Compatibilità contingenti. Le relazioni contingenti si rivelano essere compatibili con
gli interessi dei gruppi particolari. Si tratta di cogliere le opportunità per attuare i
propri interessi contrattando e avviandosi in tal modo ad una ridefinizione
istituzionale.
«Le società, in quanto sistemi aperti, non possono mai essere isolate dalle intrusioni
delle contingenze esterne»339 afferma Archer. Ogni sistema non può restare identico a
se stesso per sempre perché tutti i fattori che possono modificarlo non sono sotto il
suo controllo. Passando al livello culturale, in esso agisce il SC, ossia il sistema
culturale, che esercita influenze sui portatori delle idee. Anche tra di esse ci sono i
medesimi rapporti di cui sopra.
Contraddizioni vincolanti (incompatibilità necessarie). La contraddizione tra le due
posizioni ideali A e B è insita nel SC mentre dal punto di vista dottrinale esse sono
incompatibili logicamente. Esiste quindi una tensione tra di esse ma non c'è altra
scelta che convivere con la posizione opposta, costringendo così i sostenitori ad un
continuo confronto che ha come esito il tentativo di ricomporre la divisione
reinterpretando gli elementi in essa coinvolti. A e B si completano a vicenda ma allo
stesso tempo si escludono. La logica situazionale promossa da questa situazione è
una correzione delle posizioni che porti al sincretismo in modo da ridurre le
differenze in favore dell'unificazione. Per arrivare a ciò uno dei due elementi deve
essere ridefinito, se non entrambi. Come si evince, il fine è una unificazione
ideazionale che pacifichi gli elementi discordanti.
339
Ivi, p. 257.
17
3
Complementarietà concomitanti (complementarietà necessarie). La posizione A
richiama necessariamente la posizione B ma da essa viene rinforzata poiché
compatibile. Gli attori coinvolti in questa situazione non hanno alcun problema da
affrontare. Visto che il sistema funziona si tenta di non far mutare le forze in
rapporto, reprimendo perciò l'innovazione: l'obiettivo è la protezione al fine di
mantenere le posizioni esistenti, riducendo la varietà a variazioni sul tema. Nel lungo
periodo si consolidano le posizioni in gioco con un accrescimento della densità
culturale che sistematizza A e B. Il nuovo è vissuto come elemento disgregativo di un
rapporto che funziona, per cui ci si attiene ad un tradizionalismo stretto perpetuando
lo status quo.
Contraddizioni competitive (incompatibilità contingenti). In questa situazione
sostenere A non implica in alcun modo B. L'opposizione qui si vive al livello s-c
dove i gruppi di interesse fanno gravare sulla popolazione tale contraddizione in
modo da costringerla a schierarsi da una parte o dall'altra. La scelta diventa l'azione
fondamentale nella società, e una volta abbracciata una posizione la logica è quella
dell'eliminazione dell'avversario. La battaglia di idee che sorge in seguito a ciò si
estende all'intera società dove si combatte per ottenere il consenso. Ogni ideologia
cerca di legittimarsi proponendosi come universale, mascherando in tal modo la sua
settorialità.
Complementarietà contingenti. Le compatibilità che esistono tra le posizioni esistenti
sono riconosciute e lasciano spazio al libero gioco culturale. Chi abbraccia A è libero
di comportarsi come meglio crede verso B senza che la sua posizione gli imponga il
da farsi: ognuno può esplorare l'orizzonte che ha davanti senza limiti. Qui si propone
una logica di opportunismo per poter così ricavare il massimo profitto dalle posizioni
offerte, dal momento che esse possono interagire tra di loro senza vincoli.
Nonostante sia possibile delineare le varie situazioni di cui sopra, le facoltà
dell'individuo di sfuggire ad ogni categorizzazione grazie alla sua riflessività restano
totalmente intatte. Le influenze che si presentano nella vita di ognuno sono multiple
e confluiscono o si combattono tra loro. Non si tratta solamente delle influenze di
17
4
primo ordine ma anche e soprattutto di quelle di secondo ordine. Esse fungono da
guida direzionale delle azioni di molte persone anche se ogni assunto che viene poi
fatto proprio dall'individuo si deve confrontare con la società per trovare in essa la
congruenza che lo farà attuare. Le tensioni o le compatibilità sono anch'esse
proprietà relazionali legate alla coerenza del progetto con lo status quo indipendente
da noi. Le parti (costituite da PES e PEC e dalla loro interazione) influenzano le
persone creando logiche situazionali che suggeriscono corsi di azione specifici per
raggiungere i propri obiettivi. Suggeriscono, resti ben inteso, non obbligano. La
possibilità per ciascuno di noi di intraprendere la via che ritiene più giusta non viene
spenta, dal momento che siamo portatori di un sé svincolato da ogni legame con la
situazione societaria. Solo ciò che per noi vale la pena di vivere resta tale, al vertice
del
nostro
agire
intenzionale.
Conclusione
La ristabilita affermazione in merito alla libertà dell’essere umano, non costretto nel
suo fare né dalla società né dal sapere discorsivo, ma sempre in possesso della
possibilità di un “agire altrimenti”, è affermata dunque dal recupero dei poter
peculiari umani, ritrovati nei tre ordini di realtà. Nonostante la collocazione iniziale
abbia una grande influenza su quelle che saranno le scelte future di ognun odi noi,
non si deve assolutamente pensare ad un determinismo legato alla classe sociale di
appartenenza o dipendente dalla famiglia in cui si è nati; ognuno ha il proprio filtro
tramite il quale vaglia ciò che gli succede e decide lui, assecondando quella che è la
sua scala di gerarchie, cosa fare.
Affermare da una parte che siamo tutti succubi di un potere dal quale è impossibile
sfuggire, e che lo status quo resterà sempre tale perché tutti gli uomini sono plasmati
dal sistema risulta avere un peso diverso, e diverse ripercussioni sul modo di
intendere l’esistenza, dal dire che siamo noi a scegliere il conformismo per i più
svariati motivi. Così dicendo si lascia aperta la possibilità ad una possibile altra via di
comportamento, legata a ciò che noi siamo dopo il passaggio nei tre livelli di realtà.
Altro aspetto fondamentale è la preminenza che si è tolta al sapere discorsivo,
scagliandosi contro l’idea che tutto sia esprimibile a parole. Non basta il linguaggio
per conoscere, non tutto è esauribile in esso, e questo lascia enorme spazio a tutti
quei saperi e a quel sentire che non dipende dalla grammatica e dalla semantica
verbale, ma è piuttosto legato al corpo e ad un “sentire” diverso dal “sentire” inteso
come ascoltare. L’apporto dato dal non-verbale e dalle esperienze non discorsive è
assai elevato nella vita di ciascuno di noi, ad ogni età e quale che sia la sua estrazione
sociale o la provenienza geografica; è il tratto comune dell’essere umano quello di
essere un corpo tramite il quale rapportarsi con l’esterno, e che funge da filtro, sia da
bambini che da adulti.
Ci siamo allontanati dal principio di causalità parlando dell’essere umano; nessuno di
noi è un automa programmato a reagire in determinati modi a determinati stimoli. È
esattamente questa possibilità (o questo potere) a renderci umani, il poter decidere
come agire in merito a certi eventi, seguendo quello che riteniamo giusto. Come si è
visto, anche nell’interpretare dei ruoli siamo noi a decidere se ci basta dare il minimo
sindacale oppure metterci noi stessi, dando un apporto nuovo e assolutamente
individuale.
Smontando le visioni proposte dalle conflazioni è emersa la differenza che ci deve
essere tra essere umano e società; ognun odei due aspetti è da considerare come a sé,
in modo da rendere possibile una successiva interazione. Si badi bene, si parla di
interazione e non di adeguamento dell’uno all’altro; c’è sempre una azione e una
reazione, ma non legata a leggi fisiche, bensì alle gerarchie degli agenti in questione.
La reazione ad una stessa situazione varia da persona a persona, seguendo le priorità
che tale persona ha fatto proprie. Non si parla qui di giusto o sbagliato, ma di cosa
spinge ciascuno ad agire in un modo piuttosto che in un altro, e la risposta a tale
soluzione risiede appunto nella gerarchia che ognuno si fa e che decide di seguire nel
corso della sua vita.
Possiamo quindi affermare che siamo in grado di incidere sulla realtà, coi mezzi che
ci sono propri e facendo sempre i conti con ciò che ci è esterno, ma senza ridurci a
ritenerci vittime del sistema. Il sistema lo facciamo noi, e come lo creiamo lo si può
anche distruggere; non è una macchina uscita dal nostro controllo, ma solamente
agendola in modo diverso si può sperare di modificarla. Non c’è spazio alla
rassegnazione, una possibilità di alternativa esiste sempre, basta impegnarsi. Lo
spazio di libertà lasciato aperto da Archer suggerisce svariate possibilità di azione, e
riconsegna le chiavi della vita in mano a ciascuno di noi, che si ritrova svincolato da
opprimenti pressioni sociali non dipendenti da lui.
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2
Ringraziamenti
Dopo un lungo e travagliato viaggio eccomi qua, a terminare questa strada che mi
porterà ad entrare in possesso di un pezzo di carta attestante che io ho fatto mie
conoscenze le quali, secondo lo Stato Italiano, fanno di me un “filosofo”. Ce ne
sarebbero di persone da ringraziare, in primis per il fatto in sé di sopportarmi e darmi
ancora bado, nonostante sia quello che sia.
Snoccioliamo perciò i fortunati.
I miei genitori, che evidentemente quando mi hanno visto la prima volta mai
avrebbero pensato al guaio in cui si sarebbero cacciati ad allevarmi;
le mie sorelle per l’alto livello di comprensione che mi mostrano, e per il semplice
fatto di non avermi mai lasciato solo;
la musica, la mia musica, che mi sostiene e mi dà modo di dire la mia, in ogni
momento;
Ilaria, che c’è anche se non si vede a volte, essendo diversamente alta;
Giulio, perché Giulio;
Gionni, perché le storiacce che riusciamo a farci non cessano mai di stupirmi;
gli Alternativa Antagonista e The Soulbusters, carburante delle mie giornate;
la mia nonna che c’è, e mio nonno che non c’è più (ma ci sarebbe voluto essere);
il professor Morandi, che sebbene io non abbia senso estetico ha permesso ch’io
finissi questa tesi;
i miei geni ispiratori, ossia Ernesto “Che” Guevara e i Clash;
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l’odore di tabacco e zucchero a velo, che non riesco a percepire ancora troppo spesso
come invece sarebbe perfetto;
la community dell’Isola dei Villaggi, che mi ha tenuto compagnia mentre creavo
queste pagine.
The future in unwritten.
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