Quarto capitolo

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IV. Il chiasma
Partendo dal non elaborato e dalla mitica dimensione del con-fuso,
Merleau-Ponty scrive che la visione è possibile non perché noi ci
fondiamo o ci possiamo distaccare assolutamente da essa ma essa è
inaugurata solo per via di una possibile e incompleta segregazione e
incorporazione dall’orizzonte, dallo sfondo dell’essere grezzo. Le cose
stesse non sono In-sé che si danno operativamente a un uomo
misurante o ciò che si offre a un vuoto ma ciò a cui possiamo
perpetuamente approssimarci, in quanto mai nude ma sempre
adombrate (in quanto lo sguardo le avvolge carnalmente esso stesso).
I colori ad esempio per Merleau-Ponty non sono atomi tra atomi,
radiazioni dalle lunghezze d’onda determinate, qualità empiriche
governate dalle leggi quantitative, sono invece costellazioni di
“qualia” e forse nemmeno queste; andando oltre questo punto, esse
sono figure segregatesi su un campo dei campi, il quale è la nostra
percezione. Ogni figura dissimula e richiama altre figure e le altre
figure richiamano la prima, la quale – analogamente al celebre caso
dei “punti singolari” husserliani e del suo leibniziano diagramma del
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tempo – non è mai la stessa, eppure, di essa si può dire, per certi versi,
che è come “trasalita”, irrotta. Di figura in figura e di costellazioni in
costellazioni tra figure e costellazioni di queste ultime, la trama di
visibile-invisibile pulsa e batte nella sua ambigua e complessa
simultaneità di scarti e differenze, dove il rosso non è però meramente
un correlato intenzionale che ritorna alla coscienza interna del tempo,
una protensione di un che di ritenuto ma è visto, toccato, eccetera.
Se si tenesse conto di tutte queste contaminazioni e coappartenenze tra il me e il mio silenzio, tra me e l’altro, tra me e il
mondo delle cose stesse, tra le cose stesse e l’altro me tra me e me,
come nelle strette delle “chiane”, come negli scarti fra orizzonti
esterni e orizzonti interni sempre aperti e intrecciati, noi potremo
finalmente scuoterci dai mostruosi sogni della ragione astratta a
partire dalle sentite contrazioni del tessuto che li fodera e li involge
come carne del visibile.
Il vedente è a questo punto uno stile, il simultaneo e equivoco farsi
antico e nuovo di un sapere, come nella perentorietà di una pennellata
pittorica o nel colpo di martello e scalpello dello scultore, che è già
nelle nostre mani, nel nostro corpo.
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Che cosa è questa arte di interrogazione del visibile, pre-posseduta,
che ci lascia scivolare come una “zolletta di zucchero” in parte
succhiata sul punto di una domanda dalla risposta mai presente ma
sempre incombente?
In altre parole parafrasando Merleau-Ponty «se non siamo noi a
possedere le cose ma le possiamo deformare, decostruire e
ricombinare in un fare più vecchio ed erudito di un sapere e se esse ci
possiedono, quale è allora il principio di parentela che vige tra noi e
loro e tra il mondo e l’essere grezzo?
Bisogna capire che tra il visibile e il tangibile, come del resto tra
tutte le mappe percettive vi sia uno “sconfinamento”, un
sopravanzamento – che non è mai sovrapposizione o giustapposizione
– e una reversibilità che è comune in ultima istanza tra esse come tra
vedente-visibile e visto; questo sconfinamento tra interno e esterno,
tra vedente e visibile – dove il vedente sta dentro il visibile ed è esso
stesso visibile – c’è anche uno sconfinamento tra visibile e tangibile.
Il gesto ontologico che sta alla base di queste descrizioni – e che è
lontano ormai da qualsiasi intento metafisicamente chiaroscurale cerca di lasciare brillare la gravità dell’essere grezzo e le sue intime
trasudazioni, le pieghe; questi rilievi espressivi, più che dalla “natura”
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della “natura”, questi stili come corpi e della carnalità corporea
medesima sono le sfaccettature uniche e particolari di quel generale
intreccio di corporeità-intercorporeità-in(-)corporeità, o in altre parole
di quell’ intreccio di Visibile-In(-)visibile (come visibile imminente o
adombramento secondo pregnanza) – In(-)visibile (mai espressione e
che nutre e supporta da dentro il Visibile).
Quando Merleau-Ponty parla della carne del visibile non intende
“fare dell’antropologia” restituendo un mondo che è l’insieme delle
proiezioni
simmetriche
di
una
Rappresentazione
delle
rappresentazioni e quindi come scrive lui stesso:
descrivere un mondo di tutte le nostre proiezioni, fatta riserva di ciò che
esso può essere sotto la maschera umana.
(Merleau-Ponty, 2007, p. 136).
Viceversa Merleau-Ponty vuole parlare dell’essere carnale:
Come essere delle profondità, a più fogli o a più facce, essere di latenza, e
presentazione di una certa assenza […], di cui il nostro corpo, il senziente
sensibile, è una variante molto notevole, ma il cui paradosso costitutivo è già
in ogni visibile
(Merleau-Ponty, 2007, p. 136).
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Questo colpo di forza dell’ambiguità e dell’ambivalenza, della
reversibilità e del sopravanzamento, è “il sintomo” più lampante della
qualità più pregnante di questa trama; e infatti il corpo non è una carne
su una carne, un multistrato, ma semmai una culla,
una vescica
scavata in essa, il fragoroso balzo espressivo dal fendente, la “ferita
profonda e inguaribile”, “sistema di equivalenza” della “matrice
polimorfa”, una “modulazione effimera e vibrante di questo mondo”
foderato, alimentato e sostenuto latentemente come scheletro da un
essere selvaggio.
Rielaborando dei passaggi successivi e volendo descrivere ancora
più radicalmente il limite tra il corpo e il mondo, tra un punto di vista
e la Visione, tra lo stile come abitudine e lo stile come fare in un
ventaglio di possibili possibilizzanti, afferma Merleau-Ponty:
parlare di fogli o di strati è ancora appiattire e giustapporre, sotto lo
sguardo riflessivo, ciò che coesiste nel corpo vivente e ritto
(Merleau-Ponty, 2007, p. 154).
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Possiamo, dunque, parlare di due tipi di narcisismi e di
decentramenti che conducono a una reciprocità, una complicità, una
promiscuità, una con-fusione oltre qualsiasi mera opposizione tra una
diacronia e sincronia. Ora la carne non è né una sostanza, né una
materia, né uno spirito ma un elemento, una cosa generale, di cui una
ontologia iper-dialettica della segregazione-incorporazione cerca di
chiarire
i
lembi
ruminandoli
continuamente.
Una
filosofia
perpetuamente auto-critica, sempre mancata o “mancante a essere”,
prende atto di vortici più che di circoli o almeno di avvolgimenti
sempre sfasati dell’ esperienza che non sono io a fare ma che mi fanno
nell’avvolgimento medesimo di visibile e invisibile che anima ogni
mio campo e ogni campo-mio dell’altro in una intercorporeità.
La mia mano come quella dell’altro condividono lo stesso segreto,
quella formula enigmatica e quella magia che ci possiede. Non ci sono
mai isole di esseri umani o meri alter ego ma solo una dimensione
della consuetudine e della scoperta nella quale io accedo all’altro
come imminente e l’altro accede a me senza mai sovrapporci. Non
appena:
vediamo altri vedenti, noi non abbiamo più solamente davanti a noi lo
sguardo senza pupilla […]: ormai grazie ad altri occhi, siamo pienamente
visibili a noi stessi; quella lacuna in cui si trovano i nostri occhi e la nostra
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schiena […] colmata da qualcosa, ancora, di visibile, ma di cui non siamo i
titolari […]. La peculiarità del visibile […] è di essere superficie di una
profondità inesauribile: ed è ciò a far si che esso possa essere aperto ad altre
visioni oltre la nostra […]. E perciò, movimento, tatto, visione, applicandosi
all’altro e a se stessi, risalgono verso la loro sorgente e, nel lavoro paziente e
silenzioso del desiderio, comincia il paradosso dell’espressione.
(Merleau-Ponty, 2007, p. 159-160).
Merleau-Ponty ci rende testimoni di un dato d’essenza, cioè che il
mio corpo partecipa di una corporeità e di una intercorporeità che ci
risucchia fino in fondo all’incorporeità; sulla scia di ciò MerleauPonty riafferma che l’invisibile non è un vuoto ma la profondità del
visibile, la “segreta nerezza del latte”, la “trama assente” di ogni
carne, quella certa «negatività che non è un niente» (Merleau-Ponty,
2007, p. 166). L’invisibile di questo mondo, ciò che lo sostiene e lo
rende visibile, è lo schermo, lo sfondo, l’orizzonte senza il quale non
ci sarebbe visibile o una visione.
Merleau-Ponty
all’inizio
dell’Annesso
–
discorso
che
frammentariamente continuerà nelle Note di lavoro – afferma che
l’ontologia di cui ci occupiamo è il cammino inverso delle filosofie e
delle scienze riflessive e cioè il cammino a partire non dal percepito e
da una “mnemosine percettiva” ma a partire dalla percezione e dalle
sue in-varianti; ciò comporterà da parte dell’ontologia di quella
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«specie di chiasma» (Merleau-Ponty, 2007, p. 176) dell’esperienza di
quel senso originario o inaugurale, che non presuppone altro che un
incontro tra “noi” e “ciò che è”, di astenersi dall’utilizzo di qualsiasi
nozione non sottoposta all’epochè o che non siano in grado di
esprimere essenzialmente la portata chiasmica della espressione in
generale. La filosofia di Merleau-Ponty è, dunque, una filosofia
“militante” del qualcosa e costantemente in marcia all’incrocio delle
vie, sentieri chiasmicamente interrotti e rimboccati.
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