Nino Principato - rotocalco moleskine

La lupa, Romolo, Remo e…Messina
Nino Principato
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Lupa Capitolina, scultura di bronzo custodita ai Musei Capitolini a Roma
l 21 aprile dell’anno 753 a.C. veniva fondata
Roma, data fissata dallo storico latino Varrone
sulla base dei calcoli effettuati dall’astronomo
Lucio Taruzio. Il mito sulle origini della città,
perpetuato attraverso le opere storiche di Tito
Livio, Dionigi di Alicarnasso, Plutarco e quelle
poetiche di Virgilio e Ovidio, racconta invece
della celebre lupa capitolina e di Romolo e Remo.
E racconta della fondazione ad opera di Romolo,
discendente della stirpe reale di Alba Longa che,
a sua volta, discendeva da Ascanio figlio di Enea,
l’eroe che come si narra nell’Eneide fuggì da
Troia occupata dagli Achei con il padre Anchise
e il figlioletto. Prima di raggiungere le coste del
“Latium Vetus”, Enea sarà costretto da Giunone
a dirigersi verso Cartagine dove si innamorerà
della regina Didone e con lei rimarrà per un
anno. Per poi ripartire ed approdare, dopo diverse
peregrinazioni, finalmente nel Lazio. E qui ancora
una volta innamorarsi, stavolta di Lavinia figlia del
re Latino, promessa sposa a Turno re dei Rutuli.
Che Enea deve affrontare e poi sconfiggere per
potere sposare Lavinia e quindi fondare la città
di Lavinium. Trent’anni dopo Ascanio, figlio di
Enea, fonda la città di Alba Longa sulla quale,
come riferisce Tito Livio (“Storia di Roma”, libro
I) dal XII all’VIII secolo a.C. regnarono i suoi
discendenti per parecchie generazioni, fino ai
fratelli Amulio e Numitore (quest’ultimo nonno di
Romolo e Remo).
Legittimo erede al trono perché primogenito,
Numitore viene spodestato da Amulio che uccide
i figli maschi del fratello e costringe l’unica figlia
femmina, Rea Silvia, a diventare una sacerdotessa
vestale, cioè consacrata al culto di Vesta, la
dea vergine e custode della città. Tutto ciò per
Pavimento del Duomo di Siena (1220-1370),
lupa che allatta Romolo e Remo
nel frattempo da Remo che era stato rilasciato
da Numitore. Amulio viene ucciso e Numitore
diventa, legittimamente, re di Alba Longa.
I due gemelli, col permesso del nonno, lasciano
Alba Longa per fondare una nuova città nei luoghi
dove erano cresciuti, sulle sponde del Tevere.
Ma, racconta Tito Livio, « Siccome erano gemelli
e il rispetto per la primogenitura non poteva
funzionare come criterio elettivo, toccava agli dei
che proteggevano quei luoghi indicare, attraverso
gli auspici, chi avessero scelto per dare il nome
alla nuova città e chi vi dovesse regnare dopo la
fondazione”. Il primo presagio, cioè sei avvoltoi,
si dice apparvero a Remo ma anche a Romolo ne
erano apparsi, successivamente, il doppio. Ne nasce
un aspro diverbio e dal rabbioso scontro a parole
si passa ai fatti per cui Remo, colpito durante la
mischia, cade privo di vita. La versione di Plutarco
vuole, invece, che “Quando Remo si rese conto che il
fratello si era preso gioco di lui, si sdegnò e mentre Romolo
stava scavando il fossato con il quale aveva intenzione di
circondare le mura della città, si fece beffe del suo lavoro e
cercò di ostacolarlo. Infine varcò il fossato, ma cadde colpito
in quello stesso punto, secondo alcuni dal medesimo Romolo,
secondo altri da un compagno di Romolo, Celere. Nella rissa
cadde anche Faustolo e Plistino, che si dice era fratello di
Faustolo ed aveva contribuito ad allevare Romolo e Remo. »
(Plutarco, “Vita di Romolo”, 10, 1-2. Trad. di Marco
Bettalli). Si trattava del “pomerium”, il solco (“urvus”,
da cui la parola “Urbe” = città) sacro tracciato da
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assicurarsi la supremazia della stirpe dal momento
che le vestali dovevano restare obbligatoriamente
vergini per trent’anni e non potevano, quindi,
mettere al mondo dei figli che avrebbero potuto
insidiare il suo trono. Rea Silvia, però, viene rapita
e stuprata da Marte in un bosco sacro per poi
partorire due gemelli, Romolo e Remo.
Appresa la notizia della nascita dei due gemelli,
Amulio fa uccidere la nipote facendola seppellire
viva, pena che veniva comminata alle vestali
del fuoco sacro che tradivano il voto di castità
(le vicende di Rea Silvia sono narrate nel I libro
“Ab urbe condita” di Tito Livio, in frammenti
degli “Annales” di Ennio e da Fabio Pittore). Poi
ordina ad una serva di uccidere Romolo e Remo
ma questa, mossa a pietà, li depone in una cesta
affidandoli alle acque del Tevere.
La cesta con i due gemelli, dopo un lungo tragitto,
si arena in una pozza d’acqua sulla riva, presso la
palude del Velabro tra il Palatino e il Campidoglio,
in un luogo chiamato Cermalus. Quando le acque
si ritirano, la cesta resta all’asciutto sotto un albero
di fico, il “ficus ruminalis” (secondo altri storici, il
punto dove si fermò la cesta era vicino ad una
grotta ubicata sulle pendici del colle Palatino,
denominata “Lupercale” perché sacra a Marte e a
Fauno Luperco).
Una lupa, che ha la sua tana nella grotta del
“Lupercale”, viene attirata dai vagiti dei due bimbi e
li allatta allevandoli come suoi cuccioli. Anche un
picchio, secondo la leggenda, porta loro del cibo
(picchio e lupo sono animali sacri al dio Marte).
Dopo un certo tempo, in quei pressi si trova a
passare il pastore Faustolo, suddito di Amulio, che
trovati i due gemelli li porta nella sua capanna ed
assieme alla moglie, Acca Larenzia, li cresce come
suoi figli.
Divenuti adulti, Remo viene rapito da una banda di
razziatori, condotto dallo zio Amulio con l’accusa
di furto e di aver compiuto ruberie nelle terre di
Numitore, perciò viene consegnato a quest’ultimo:
“Numitore, mentre teneva in prigionia Remo e veniva a
sapere che erano fratelli gemelli, comparando la loro età
ed il carattere per nulla sottomesso, fu toccato nell’anima
al ricordo dei nipoti. Continuando a fare domande arrivò
vicino a conoscere che fosse Remo. » (Tito Livio, Ab Urbe
condita libri, I, 5.) Avendo nel frattempo appreso
da Faustolo delle loro origini e del loro sangue
reale, Romolo raduna un numero consistenti di
pastori e con loro si reca da Amulio, raggiunto
Fontana Orione di Giovanni Angelo Montorsoli (1553).
Particolare con la lupa che allatta Romolo e Remo
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Romolo con l’aratro per delimitare la nascente
città con le mura sopra costruite. Secondo Tito
Livio, Romolo avrebbe urlato al fratello, al colmo
dell’ira per sentirsi beffeggiato, “Così, d’ora in poi,
possa morire chiunque osi scavalcare le mie mura”. Roma
era stata così fondata, prendendo il nome dal suo
fondatore che ne divenne, anche, il primo re.
Fin qui la leggenda che tutti conosciamo e che
abbiamo studiato nei testi scolastici. Ma chi ne fu
l’autore? Abbiamo visto che il mito sulle origini
di Roma è stato trattato e tramandato da diversi
storici antichi: da Dionigi di Alicarnasso (60 a.C.
circa – 7 a. C.) a Plutarco (Cheronea, 46 d.C./48
d.C. – Delfi, 125 d.C. /127 d.C.), da Publio Virgilio
Marone (Andes, 15 ottobre 70 a.C. – Brindisi, 21
settembre 19 a.C.) ad Ovidio (Sulmona, 20 marzo
43 a.C. – Tomi, 17 d.C.), e, soprattutto, Tito Livio
(Patavium, 59 a.C. – 17 d.C.): ebbene, sono stati
tutti dei copioni dal momento che la leggenda
della lupa, di Romolo e Remo e della fondazione
di Roma, fu inventata da un messinese, Alcimo da
Messina, che visse secoli prima nel V-IV secolo
a.C., uno dei più antichi storici greci ed il più antico
nell’ambito dei Greci d’occidente.
Alcimo, storico greco-siceliota, scrisse un’opera
intitolata “Sicilia”, una “Italica” ed una “Ad Aminta”
di soggetto matematico-filosofico (Aminta pare
fosse un filosofo matematico di Eraclea, allievo
di Platone, vissuto nel V secolo). Ebbene, nel
trattato storico “Italica”, per primo scrisse della
leggenda della lupa che alleva i due gemelli
abbandonati Romolo e Remo, associandola al
racconto di Enea. Sicuramente nacque dopo la
conquista di Zancle da parte di Anassila, tiranno
di Reggio Calabria e nativo della Messenia, nel 490
a.C. perché è ricordato come Alcimo da Messina e
Zancle cominciò a chiamarsi Messene solo dopo la
conquista del tiranno.
Nel trattato “Ad Aminta”, composto di quattro
libri, parlando di Epicarmo (524 circa - 435 circa a.
C.) che nelle sue enunciazioni avrebbe influenzato
Platone nell’elaborazione della teoria detta “delle
Idee”, Alcimo scrive: “Dicono i sapienti che l’anima
alcune cose senta per mezzo del corpo in quanto sente e in
quanto vede, altre da se stessa discerne, per nulla servendosi
del corpo: perciò le cose che sono si distinguono in sensibili
ed intelligibili. Onde anche Platone diceva che quanti
desiderano comprendere i principi del tutto devono prima
discernere le idee per se stesse, come uguaglianza, unità,
molteplicità, grandezza, stasi, movimento; in secondo luogo
devono stabilire per se stesso il bello, il buono, il giusto e
simili; in terzo luogo devono intendere quante delle idee sono
dere dell’acqua. Eracles, sulla soglia di casa, assistette alla
conversazione e lodò il marito, e gli chiese poscia di andare a
dare una occhiata al barile. L’uomo entrò dentro e vide che
il barile s’era tramutato in pietra. Ciò rimase emblematico
sino ai nostri giorni tra le donne di quella regione, che il
dissetarsi col vino apporta disgrazie per il motivo appena
detto”.
Per tornare a Romolo, Remo e alla lupa capitolina,
nel 2007 venne scoperto, nelle viscere del colle Palatino, il “Lupercale”, il santuario dove i romani veneravano il dio Luperco (Faunus Lupercus), il luogo,
cioè, dove secondo la leggenda mitologica la lupa
allattò Romolo e Remo. Ad una profondità di 16
metri, l’interno della grotta è stato fotografato mediante fotocamere laser introdotte con sonde geologiche (foto del MIBAC). Secondo l’ex Soprintendente ai Beni Archeologici di Roma, Adriano
La Regina, non c’è certezza sull’ubicazione perché
il “Lupercale” si dovrebbe trovare più ad ovest, davanti ai templi della Magna Mater e della Vittoria.
Il valore della scoperta è immenso: una struttura
ipogeica a pianta centrale del diametro di 6 metri
e 56 centimetri, alta 7,13 metri e coperta da volta
rivestita di mosaici e conchiglie, con sontuose decorazioni a motivi di tipo geometrico ad imitazione di una copertura a lacunari in stucco o pittura.
E tutto questo perché fu un messinese, ma proprio
un messinese, Alcimo da Messina, ad inventare la
leggenda famosa in tutto il mondo di Romolo e
Remo e della lupa, per nobilitare la nascita dell’Urbe che in realtà aveva avuto una banale ed inelegante origine ad opera di rozzi e ignoranti pastori
che popolarono per primi i sette colli, leggenda destinata a diventare l’icona stessa della fondazione
della città di Roma.
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Romolo e Remo allattati da una lupa,
diritto di un denario del 133-126 a.C.
(a sinistra il pastore Faustolo, che li trova e li adotta)
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relative ad altre idee, come scienza o grandezza o signoria
(considerando che le nostre cose sono omonime delle idee
per il fatto che ne partecipano: dico che sono giuste le cose
che partecipano del giusto, belle le cose che partecipano del
bello). E ciascuna delle idee è eterna, è una nozione, inoltre
è imperturbabilità. Perciò dice pure che nella natura le idee
stanno come archetipi e le cose del nostro mondo in quanto
loro copie sono simili alle idee” (Diogene Laerzio, III,
12, 13; a cura di M.Gigante, Laterza, 1976).
Di Alcimo da Messina si ricorda l’erudito greco
Ateneo di Naucrati, vissuto tra il II e il III secolo probabilmente nell’età di Commodo (180-192),
chiamato di Naucrati perché, secondo i manoscritti della sua opera, visse nella città egizia di Naucrati. Ateneo è ricordato, in particolare, per la sua
composizione “Deipnosophistai” (da deipnon, “cena”,
e sophistai, “professori”, che può essere tradotto
come “Il banchetto dei sapienti “ oThe Deipnosophists
is a long work of literary and antiquarian research
by the Hellenistic author Athenaeus of Naucratis
in Egypt, written in Rome in the early 3rd century
AD. “I dotti a banchetto”). In questo libro, Ateneo
racconta ad un amico, Timocrate, di un banchetto
dove uomini dotti si intrattengono in un dialogo
dibattendo su diversi argomenti, dall’alimentazione alla salute, dall’umorismo al sesso, dalla musica
alla lessicografia greca. Senza quest’opera, sarebbero andate perdute molte importanti notizie sul
mondo antico e la conoscenza di molti autori, fra i
quali Archestrato di Gela.
Tra una ‘portata’ e l’altra, infatti, Ateneo scrive:
“Alcimus, nuovamente, conferma nella sua Storia di Sicilia
che l’ideatore di bazzecole simili a quelle attribuite a Salpa,
nacque a Messene […]” (Il discorso che si tiene alla
tavola di Ateneo riguarda un pesce, il salpa, dorato
e striato. Ebbe soprannome Salpa lo scrittore Mnaseas, di Locri o di Colofone, autore del “Bazzecole”).
E Ninfodoro di Siracusa, scrittore greco-siculo di
età ellenistica, autore di un “Periplo dell’Asia” e “Sicilia” e di una paradossografia sulle cose più attraenti della Sicilia, lavori dei quali ci sono pervenuti
frammenti e citazioni da parte di altri autori classici, come Ateneo, cita anche lui Alcimo: “Alcimo
Sikeliotos in quello dei suoi volumi che è intitolato Italiko
asserisce che tutte le donne in Italia si astengono dal bere
vino per il seguente motivo: ‘Nel tempo in cui Eracle si trovava nella regione di Crotone si avvicinò ad una casa che era
sul suo cammino; era assetato, e si fece avanti per chiedere
un sorso per soccorso. Ora era avvenuto che, la moglie del
padrone di casa aveva segretamente aperto un barile di vino,
così ammonì il marito che sarebbe stata cosa strana se egli
lo avesse violato solo per uno straniero; gli disse così di pren-